Parte cipante al contest: "There is no need to clarify my finger snap. The implication was clear in the snap itself."
Nick Autore:
YUKO CHAN
Titolo:
Quel vuoto che solo tu riesci a colmare
Personaggi:
Alec Lightwood, Magnus Bane
Pairing:
Magnus\ Alec
Genere:
Romantico, malinconico
Raiting:
Verde
Prompt scelti:
Luna, Cocktail, Picnic in Central Park, Incompletezza.
Citazione scelta: Ma vedo i miei fratelli dare via i loro cuori
e penso, non
c'è niente di meglio? I
cuori si
spezzano. E credo che anche se guarisci, non sei più lo
stesso." (Isabelle
– City of Fallen Angels)
Battuta\e
scelta\e:
-Sei adorabile quando arrossisci-
Avvertimenti:
One Shot, Shonen ai
Introduzione:
La malinconia colpisce all’improvviso, i pensieri volano,
passato e futuro si mescolano. I ricordi
attraversano la mente si trasformano in immagini, fino a
quando non ci
si rende conto che a volte non si è soli come si credeva,
che accanto a noi c’è
sempre qualcuno che riesce a colmare il vuoto che avvertiamo.
NdA:
Dunque cosa dire, leggendo le regole del contest mi è venuta
in mente questa
storia, questo breve racconto, non so nemmeno se ho messo gli avvisi
giusti,
sono impedita in queste cose. La storia è ambientato in un
lasso di tempo che
va da dopo la fine del terzo libro e prima dell’inizio del
quarto, quindi
nell’ipotetico ritorno a New York dei protagonisti.
Ho
preso la frase da City of Fallen Angels, trovata su una
pagina facebook che traduce alcune citazioni della Clare e mi ha
colpito in
particolar modo, all’inizio ne avevo scelta
un’altra, ma questa mi ha
folgorato.
City
of Fallen Angels non l’ho letto, quello in italiano
perché ancora non è uscito, quello in inglese
perché sono troppo pigra per
pensare di mettermi a tradurre, quindi non so se i caratteri dei due
protagonisti della storia siano cambiati o evoluti in qualche modo, in
questa
storia ho fatto in modo, o ci ho provato, a farli più simili
a quelli che ho
conosciuto nei primi tre libri.
Bene
credo di aver detto tutto, ora mi rimetto alla clemenza
della corte.
Ho
messo le frasi scelte in neretto e in corsivo all’interno
del testo, credo di aver finito.
Quel vuoto che solo tu riesci a colmare
Quest'orrore
della solitudine, questo bisogno di dimenticare il proprio io nella carne esteriore,
l'uomo lo chiama
nobilmente bisogno d'amare.
Charles
Baudelaire,
Il mio cuore messo a nudo
Inadeguatezza
era quello il termine che balenò
all’improvviso nella sua mente, quello che stava cercando; la
parola che dava
il nome al senso di oppressione che lo accompagnava da tutta la vita.
Sin da
quando ne aveva memoria lo aveva sentito, avvertito, gli aveva fatto
compagnia
giorno dopo giorno, aumentando sempre di più.
Inadeguatezza verso la sua famiglia, verso quella madre severa, abile a
comandare e allo stesso tempo a crescere tre figli.
Inadeguatezza verso suo padre, colui che aveva sempre pensato fosse il
migliore, il cacciatore da voler eguagliare, l’uomo forte,
silenzioso, serio,
che non era mai riuscito a raggiungere e a soddisfare.
Inadeguatezza verso quel nome che portava, quello della sua famiglia,
una delle più antiche fra i Nephilim; quel nome che sarebbe
terminato con lui,
perché non avrebbe avuto nessuna discendenza.
Il nome dei Lightwood sarebbe svanito, dimenticato con il passare del
tempo, e questo per colpa sua, perché non era come gli
altri, perché anche in
quel caso non era stato in grado di soddisfare le aspettative riposte
in lui:
né come guerriero né come cacciatore, e ancor
meno come figlio.
Alec osservava il cielo scuro della notte, la luna brillava
nell’oscurità, i tiepidi raggi carezzavano il suo
volto, la pelle candida.
Illuminavano di una sfumatura particolare le sue iridi blu, che
malinconiche si
perdevano fra le ombre della notte. Un brivido percorse il suo corpo,
lungo la
spina dorsale, insieme a lui, quel senso di vuoto che lo avvolgeva
facendosi
sempre più opprimente.
Osservava il paesaggio davanti a sé, la notte miscelarsi
alle luci di
New York, creando uno spettacolo che in tanti anni non si era mai
soffermato a
guardare, troppo rinchiuso nel suo mondo, troppo intento a sfuggire a
se stesso
e alla realtà dei mondani per osservare quanto accadesse
attorno a lui.
Strinse le braccia attorno al suo corpo, avvolgendosi nella felpa un
tempo nera, di qualche taglia più grande; soprappensiero
scivolò a terra
accanto alle pareti di vetro della serra, lo sguardo fisso davanti a
sé, la
mente immersa nei suoi pensieri, al passato, al presente, a quello che
gli
avrebbe riservato il futuro.
Quella sera si era arrampicato fino sul tetto dove si trovava la serra,
sfidando la fredda notte newyorkese e tutte le sue allergie, aveva
bisogno di
un posto dove rimanere solo a pensare, e non aveva trovato niente di
meglio del
luogo dove un tempo Hodge passava molte delle sue giornate. Non aveva
mai amato
arrampicarsi lassù, in tutti quei mesi, da quando
l’uomo aveva abbandonato
l’istituto ne aveva anche dimenticato l’esistenza,
tanti erano stati gli
avvenimenti che si erano susseguiti, troppi, tanto da cancellarlo dalla
sua
mente fino a poche ore prima, quando i pensieri e il senso di
oppressione si
erano fatti più forti. Il desiderio di scappare, di trovare
un posto solo per
sé si era fatto incessante, così
l’istinto lo aveva guidato fin lì, dove ora
fissava la città estendersi all’infinito davanti
ai suoi occhi.
La luna illuminava il cielo in tutto il suo splendore, vegliava quelle
lunghe notti in cui il mondo dormiva; Alec la fissava intensamente,
pensieri e
immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, come tante istantanee, foto
di un
passato che continuava a perseguitarlo, di quel vuoto e di quella
solitudine
sempre presenti in lui. Sentimenti che bussavano ogni qual volta
lasciava vagare
la mente, quando si lasciava possedere dalle emozioni.
Gli avvenimenti si sovrapponevano uno dopo l’altro,
l’arrivo di Clary
nelle loro vita, il ritorno ad Alicante, la guerra, la morte di suo
fratello;
quell’ultimo pensiero lo colpì come uno schiaffo.
Il dolore da quel giorno non
lo aveva più abbandonato, insieme al senso di colpa, quante
volte nel buio
della sua camera si era chiesto cosa sarebbe accaduto se non avesse
lasciato
Max e Isabelle da soli con quell’essere; forse il suo
fratellino ora sarebbe
ancora lì con loro. Forse sua madre non soffrirebbe tanto,
nascondendo ogni
emozione sotto quella scorza dura che la caratterizzava, e suo padre
sarebbe
ancora l’uomo forte che aveva sempre visto, e non quello
distrutto, morto lo
stesso giorno in cui aveva perso il più piccolo dei suoi
figli. A stento
riusciva a riconoscerlo tanto il suo volto era segnato dalla
sofferenza, come
se improvvisamente fosse invecchiato tutto insieme e gli anni avessero
iniziato
a pesare su di lui.
Strinse più forte le braccia intorno al corpo avvertendo il
gelo dentro
di lui, con quel gesto tentava di proteggersi, di evitare che morse di
ghiaccio
s’impossessassero del suo animo, ma per quanto si sforzasse
il freddo penetrava
nel suo corpo, facendo aumentare la malinconia, il dolore, e il senso
di vuoto
che non scompariva mai. Da
giorni era
ricomparso più incessante che mai.
Chiuse gli occhi, lasciando che i rumori della città lo
raggiungessero, in lontananza la sirena di un’ambulanza
suonava monotona,
fendendo l’aria per poi allontanarsi e svanire nella notte.
Gli spifferi
all’interno della serra si erano fatti più forti,
maligni lo investivano in
pieno, sfioravano il suo volto, scompigliando leggermente i capelli
scuri che
ricadevano scomposti sul volto.
Nuove immagini lo assalirono, di nuovo quel sentimento di
vuoto, di malinconia, il sentirsi incompleto. I ricordi si
sovrapponevano,
mescolandosi, il passato ed il presente scavavano in lui, nel suo animo
come
l’acqua nella roccia. Quel passato, quella vita lo avevano
portato ad essere
ciò che era, quello che era diventato: uno shadowhunters, un
cacciatore. Eppure
tutto questo non lo aveva mai reso felice non lo completava. Dentro di
sé Alec
continuava ad avere quel vuoto, a provare quel senso di incompletezza,
senza
che fino a quel momento qualcuno riuscisse a colmare il primo e far
svanire la
seconda.
Lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi, sfiorando con
le mani il pavimento della serra, del tutto dimentico del freddo di
quella
notte d’inverno, la sua attenzione si era posata sui pallidi
ghirigori che
spuntavano da sotto il maglione, arabeschi sottili incisi sulla pelle,
ognuno
ad indicare una runa differente. Cicatrici pallide che sotto i raggi
della
fredda luna invernale risplendevano di un pallore argentato. Alec
fissava quei
segni, consapevole che quelli sui polsi erano solo una minima parte, il
suo
corpo ne era pieno, ma mai quanto quello di Jace o di Isabelle.
Quel pensiero lo raggelò facendo riemergere tutto il suo
malessere, fino a poco tempo prima non era mai
stato in grado di uccidere un demone, troppo impegnato a
proteggere i
suoi fratelli, le persone che amava, era con questi pensieri che
giustificava
il suo comportamento, ma sapeva cosa pensavano gli altri, che la sua
fosse mera
paura, e forse non avevano tutti i torti, ma non potevano capire, non
era paura
dei demoni o della battaglia, era qualcos’altro. Qualcosa di
più profondo, di
più terribile, la paura di dover perdere qualcuno che si
ama. Gli altri non lo
capivano, Isabelle non lo capiva e ancor meno Jace, loro erano
cacciatori sino
al midollo, sapevano che sarebbero potuti morire ogni volta che
scendevano in
battaglia, ogni volta che affrontavano un demone, e lo accettavano come
fosse
una cosa naturale.
Ma per Alec non era così, lui era differente, non voleva
perdere le persone care, il suo compito era di proteggerle, non voleva
che quel
senso di vuoto, di solitudine che lo accompagnava da sempre aumentasse
ancora,
permettendo che i suoi cari svanissero dalla sua vita lasciandolo solo.
La morsa che serrava il suo stomaco si era fatta più
forte, chiuse gli occhi per lunghi interminabili istanti per poi
riaprirli di
colpo e tornare a fissare la volta scura dove nel mezzo a rischiararla
brillava
una splendida luna.
Concentrandosi, con forza scacciò ogni suo malessere,
ogni dubbio che si
era impadronito del
suo cuore, avrebbe cercato di relegare tutto in un angolo della sua
mente, da
dove non sarebbero dovuti mai riaffiorare
In quell’istante un pensiero lo
sfiorò, qualcosa a cui non aveva mai fatto caso prima,
sembrava che gli
avvenimenti più importanti della sua vita, negli ultimi
tempi avvenissero
sempre nelle notti di luna piena, dai più tragici a quelli
più dolci.
A quell’ultimo pensiero
un'immagine comparve davanti ai suoi occhi, un volto dai lineamenti
regolari,
delicati, un volto senza tempo. Capelli scuri come la notte lo
incorniciavano,
un sorriso da canaglia ad illuminarlo, e due splendide iridi feline,
come
fossero pepite d’oro lo scrutavano, leggevano il suo animo,
il suo cuore come
mai prima di allora nessuno era riuscito a fare.
«Magnus» sussurrò soprappensiero,
un sorriso ad ornare il suo volto, ed anche, se non poteva vederlo,
sapeva che
al pensiero dello stregone, delle loro serate sotto la luna, le sue
gote si
erano imporporate.
Magnus Bane era il
sommo stregone
di Brooklin, aveva centinaia di anni ed era l’uomo
più affascinante che avesse
mai incontrato. Non che Alec avesse tutta questa esperienza in fatto di
uomini,
oltre l’infatuazione per Jace, Magnus era l’unico
altro esponente di sesso maschile
al quale si fosse mai avvicinato, o meglio per il quale avesse provato
interesse.
Il loro rapporto era strano, nato
in circostanze particolari, quasi assurde.
Aveva dovuto lottare, prima per
convincere se stesso di essere attratto dallo stregone, ed
in seguito
convincere Magnus, lo stregone sopraccitato di non essere un ripiego,
qualcuno
con cui sperimentare le sue prime esperienze.
Era stata difficile per lui, ogni
uscita, ogni chiamata, ogni incontro; era come muoversi su un campo
minato,
facendo sempre attenzione a quanto diceva, a come lo diceva, ma con il
passare
dei giorni, più si frequentavano più sentiva
qualcosa cambiare in lui, quella
sensazione di incompletezza, di vuoto, svaniva all’improvviso
e tutto questo
solo grazie all’altro.
Magnus Bane non era il tipo che
si offendeva, perlomeno non a prima vista, eppure Alec presto si era
reso conto
che alcuni suoi atteggiamenti lo avevano ferito. Quella facciata di
ironia e
menefreghismo ricoperta da un vistoso strato di glitter a volte veniva
intaccata
dalla sua distanza, dalle sue insicurezze, dalla sua freddezza.
Difficile era stato superare
tutto questo, la paura di essere giudicato, ed insieme lo scoprire
giorno dopo
giorno se stesso e allo stesso tempo Magnus e molti lati del
suo carattere, la
dolcezza, l’ironia, la rabbia e nei suoi occhi sotto tutto
questo, leggere la
malinconia e il dolore di un passato lontano a lui ancora sconosciuto.
Ma per quanto le difficoltà
fossero state
molte, man mano Alec si
era reso conto di una cosa, che quel Nascosto, quel figlio di Lilith,
quello
stregone era la persona che lo comprendeva meglio di chiunque altra.
L’unica in
grado di colmare quel senso di vuoto che per anni lo aveva accompagnato.
Da quando non era più solo, ma
c’era Magnus accanto a lui si sentiva più libero,
più sicuro, pronto ad
affrontare il mondo a viso aperto.
I suoi dubbi e le sue insicurezze
erano quasi del tutto svaniti, raramente si ripresentavano, nelle notti
di
tempesta quando il cielo era cupo e scuro e il vento si abbatteva
sull’istituto;
a volte anche in serate serene, gelide come quella, in cui la luna
illuminava
fievolmente i contorni della città, mischiandosi alle luci
di New York,
rendendo tutto intorno a lui sfocato, come se volesse
trasportarlo in un sogno, nel passato, attraverso i
ricordi e le
nebbie del tempo.
Un sospirò fuoriuscì dalle labbra
rosee del cacciatore, la testa abbandonata contro le pareti di vetro
della
serra, le luci di New York risplendevano come tante lucciole nei suoi
occhi,
quel senso di malessere aveva ripreso a premere sul suo animo, come a
volersi
impossessare del suo corpo squarciandolo dall’interno.
Abbandonato così, non avvertì la
presenza alle sue spalle avvicinarsi silenziosa, un passo dopo
l’altro, ne
avvertì due braccia forti cingerlo e trascinarlo contro il
petto del loro
proprietario.
Si era irrigidito per alcuni
istanti, per poi rilassarsi non appena riconosciuto colui che lo
stringeva
possessivo. Come svuotato si abbandonò contro
l’altro, assaporando il suo
profumo, con un sussurrò formulò la domanda che
premeva sulle sue labbra: -Cosa
fai qui, ma più che altro come sei entrato?- chiese
titubante.
Seppur si frequentassero già da
un po’, i loro incontri erano avvenuti tutti fuori
dall’istituto, in alcune
occasioni a casa dello stregone; ma questo non era mai entrato
all’interno
della struttura riservata ai cacciatori senza il permesso dei suoi
genitori,
non di notte almeno e non solo per vedere lui.
L’immagine dei coniugi Lightwood
che andavano ad aprire la porta dell’istituto allo stregone a
quell’ora di
notte si formò nella sua testa mandandolo totalmente nel
panico. Il pensiero
delle domande, degli sguardi curiosi che avrebbe ricevuto il giorno
seguente
gli gelarono il sangue nelle vene.
Non sapeva se avrebbe retto alle
domande curiose di Isabelle sul cosa avessero fatto, o al sorriso
ironico di
chi la sapeva lunga di Jace.
Ancor peggio sarebbero stati gli
sguardi impassibili dei suoi genitori; sguardi indecifrabili che
potevano dir
tutto o nulla, approvare o disapprovare.
La voce allegra di Magnus lo
riscosse dai suoi pensieri, gli occhi felini dello stregone lo
scrutavano
attentamente, posandosi sul suo volto, immergendosi nei suoi occhi,
turbolenti
mari del sud. Fissandolo come se volesse leggere dentro di lui, carpire
ogni
suo pensiero, ogni sua emozione.
Uno sguardo talmente intenso,
profondo che le gote di Alec s’imporporarono nuovamente,
leggermente rosate,
mentre il suo cuore accelerava il battito.
Si emozionava ogni volta che
Magnus lo fissava a quel modo, si perdeva fra centinaia di emozioni
differenti,
tanto da non avvertire più quanto accadeva intorno a lui;
tanto da non
avvertire più i dubbi, il vuoto, l’incompletezza
che gli faceva compagnia da
tutta la vita.
Scosse la testa per riscuotersi
da quello stato di agitazione, per fissare nuovamente lo sguardo del
più grande
e ripetere: «Cosa fai qui, come sei entrato?»
Un sorriso birichino illuminò il
volto dello stregone, un sorriso che non preannunciava nulla di buono:
«ho
bussato ed è venuta ad aprirmi tua madre, non avrei mai
immaginato che potesse
essere tanto affascinante in camicia da notte. A parte questo, le ho
chiesto le
chiavi di casa per le mie prossime visite, non è molto
educato bussare a così
tarda notte, e visto che c’ero le ho anche chiesto se potevo
chiamarla mamma,
dopotutto ora siamo una coppia.»
Ad ogni parola che lo stregone
pronunciava Alec sbiancava sempre di più, con gli occhi
sbarrati fissava il
sommo stregone di Brooklin, la bocca che si apriva e chiudeva senza che
riuscisse ad emettere alcun suono; infine quando vi riuscì
emise solo un
rantolo strozzato, difficile da interpretare persino per Magnus:
«Tu, tu hai
fatto cosa?» il panico che man mano s’impossessava
del cacciatore. La
consapevolezza che il giorno seguente Maryse Lightwood lo avrebbe
ucciso di una
morte lenta e dolorosa.
La risata allegra di Magnus lo
riscosse, riportandolo alla realtà. Con sguardo ilare,
irriverente, lo fissava
gustandosi ogni sua reazione: «Sai Lightwood un altro lato
del tuo carattere
sul quale dobbiamo lavorare io e te, è il tuo senso
dell’umorismo» un nuovo
scroscio di risa interruppe lo stregone, che non seppe trattenersi,
quando
infine si fu calmato continuò il discorso: «Mi
diverti un mondo quando ti agiti
in questo modo, ma devo ammettere che preferisco quando ti
emozioni» il
volto dello stregone si era fatto sin
troppo vicino, i raggi della luna lo illuminavano debolmente,
carezzandolo in
maniera gentile, tingendo d’argento i suoi capelli scuri.
Tenui raggi che
facevano risplendere le sue iridi verdi e oro, una frase appena
bisbigliata
sulle sue labbra: «Sei adorabile quando
arrossisci.» parole che
ebbero l’effetto sperato, come ogni volta che riceveva un
complimento da
Magnus, le gote candide di Alec si tingevano di un rosso vivo, come il
sole del
mattino.
Con un tocco leggero Magnus
sfiorò le gote del giovane cacciatore, delineò
delicatamente le labbra sottili,
percependo ogni brivido del suo corpo.
Lentamente si avvicinava a lui,
come a rallentatore osservava ogni reazione del più giovane,
si beava di ogni
suo gesto.
Lo avvertì irrigidirsi, chiudere
gli occhi, le labbra rosee del ragazzo dischiudersi come un bocciolo
sotto le
sue, ed infine vinto abbandonarsi al suo bacio.
Alec ricordava bene
quella frase,
quell’affermazione, Magnus glielo ripeteva in continuazione
che un po’ di
colore sul suo volto non ci sarebbe stato male, ecco perché
si prodigava in
ogni modo di farlo arrossire.
La sua mente vagava, perdeva
lucidità mentre il loro bacio si faceva più
profondo.
Solo in quegli istanti si sentiva
veramente completo.
Si perse fra quelle sensazioni,
immagini e ricordi scorrevano davanti ai suoi occhi, mentre si
abbandonava fra
le braccia dell’altro, illuminati dal chiarore della luna,
unica testimone dei
loro incontri.
In quegli attimi non era triste,
non si sentiva incompleto, ogni preoccupazione, ogni senso di
oppressione, il
dolore, svanivano grazie a Magnus, alla sua presenza, ai ricordi dei
momenti
trascorsi insieme. Solo attimi, piccolo sprazzi di gioia in un periodo
cupo, ma
ognuno era impresso nella sua memoria, come tanti tasselli di un
puzzle,
colmando il vuoto dentro di lui.
Magnus aveva fatto di tutto per
farlo uscire dal suo bozzolo, per farlo vivere.
Ad ogni loro nuovo incontro, Alec
avvertiva quel disagio svanire, quel vuoto, quel senso di
incompletezza
dileguarsi, tutto questo grazie alle attenzioni dello stregone, alla
sua
allegria, alla sua voglia di vivere, che inesorabilmente riversava su di
lui.
Il bacio era terminato, si
sentiva leggero, abbandonato sul petto dell’altro vagava,
riportava alla mente
una delle loro prime uscite.
Era una sera come quella, fredda
e rischiarata dalla luce della luna, una notte gelida in cui la
malinconia, il
dolore si erano fatti strada in lui, e allora come ora,
d’improvviso era
comparso Magnus, per stargli vicino, per ascoltare i suoi dubbi e le
sue
incertezze, o anche solo per confortarlo con la sua presenza.
Erano tornati da
pochi giorni a New York, passeggiando
per le strade scure della città, la battaglia sotto le alte
torri di vetro di
Alicante, la morte di Valantine potevano sembrare solo un ricordo
lontano, ma
non era così, il dolore bruciava nel petto, si intensificava
ad ogni respiro.
Era tornato a casa, aveva affrontato i suoi genitori, si frequentava
con Magnus
il sommo stregone di Brooklin, eppure non era felice. Sapeva il
perché, una
parte di lui, della sua anima era rimasta ad Alicante, nella
città di Vetro, e
lo stesso, lo sapeva, anche se non ne avevano mai parlato valeva per
Isabelle,
per Jace e per i suoi genitori.
Quella sera era uscito silenzioso dall’istituto, senza
avvertire nessuno, aveva atteso che i suoi familiari si addormentassero
per poi
scivolare fuori.
Il gelo invernale lo avvolgeva con una morsa spietata.
Il vento soffiava, lame ghiacciate lo investivano in
pieno scompigliando i capelli scuri; le gote pallide erano arrossate
per colpa
del freddo.
La luna risplendeva in cielo, i suoi raggi argentati
rischiaravano la notte, le lastre di ghiaccio che si erano formate per
le
strade deserte.
Camminava nascosto fra le ombre, perso fra i suoi
pensieri. Attraversava la città, dentro di sé si
malediva per aver accettato di
uscire, di aver acconsentito alla richiesta dello stregone.
Quello stupido di uno stregone, in fondo poteva anche
andarlo a prendere, evitargli di attraversare mezza città
per arrivare sino a
Central Park. Qualunque cosa avesse in mente, sarebbero potuti andare a
casa
sua come ogni volta.
Con un grande sforzo di volontà scacciò
l’irritazione e
il cattivo umore, scacciò il desiderio di tornare sui suoi
passi e rientrare a
casa, desiderava vedere Magnus, e anche se non lo avrebbe mai ammesso
ad alta
voce, sapere cosa aveva architettato, il messaggio giuntogli quella
mattina era
molto enigmatico, diceva tutto e niente:
“Fatti trovare a Central Park a mezzanotte in punto, ho una sorpresa per te.”
Un brivido
percorse il suo corpo, non sapeva se essere
emozionato o preoccupato. Le sorprese di Magnus lo terrorizzavano molto
più di
affrontare una battaglia, in quelle settimane lo aveva portato ovunque,
in una
discoteca mondana e ancor peggio a fare shopping con lui.
Rabbrividì al ricordo
di quelle interminabili ore in giro per negozi, provando ogni sorta di
vestito,
alcuni erano troppo persino per l’esuberante stregone.
Sbuffò, mentre con lo sguardo scrutava il paesaggio
intorno a lui, senza nemmeno accorgersene si era inoltrato
all’interno del
parco; passeggiava con passo leggero per i sentieri deserti, scorgendo
le ombre
scure degli alberi leggermente illuminate dalla luna; la luce soffusa
dei suoi
raggi si rifletteva nelle acque scure di un laghetto artificiale.
D’improvviso
una brezza gelida lo investì in pieno, lame di ghiaccio si
abbatterono su di
lui, quando si riscosse tutt’intorno vi era solo buio. Ogni
riflesso, ogni
reminescenza erano svaniti, assorbiti dalla notte.
Oscurità ovunque.
Fitte tenebre.
D’istinto, come era abituato a fare, portò la mano
in una
delle tasche della giacca da cacciatore alla ricerca di una spada
angelica, i
sensi all’erta, mentre velocemente riportava alla mente i
nomi di tutti i
possibili demoni che possedevano tale potere.
Una risata allegra, sin troppo familiare ed un bagliore
argenteo lo riportarono alla realtà. Spaesato osservava una
radura silenziosa,
completamente illuminata da sfere di cristallo, molto simili alle
pietre di
stregaluce, ma differenti allo stesso tempo.
Seduto sotto un salice, adagiato elegantemente sopra una
coperta a quadri dai colori sgargianti, illuminato da quei bagliori
argentati,
Magnus lo fissava, poggiato accanto a lui un grande cesto di vimini, di
quelli
usati per i picnic.
Immobile Alec guardava lo stregone fasciato in pantaloni
di pelle scuri e in una maglietta con delle borchie, molto meno
appariscente
rispetto a loro altri incontri. I capelli scuri fissi in creste
disordinate, un
generoso strato di glitter brillava al risplendere di quelle tenui
luci.
Sorrideva mentre i suoi occhi da gatto s’immergevano nelle
iridi blu del
giovane cacciatore. Attendeva che il più giovane si
avvicinasse, nel frattempo
con un pigro gesto della mano, per suo volere, dal cesto iniziarono a
uscire
ogni tipo di leccornia e due eleganti bicchieri da cocktail.
«Cosa…» la voce di Alec si perse fra le
ombre della
notte, si bloccò a mezz’aria interrotta dalla voce
allegra di Magnus: «Un
picnic a Central Park mancava nelle nostre uscite» un sorriso
birichino ad illuminargli
il volto «Noi due, la luce della luna a farci compagnia,
modestamente i
riflessi, la luce imprigionata in quelle lanterne è opera
mia, un piccolo tocco
di genio; ed infine dei cocktail per passare la serata, sono i migliori
di New
York» con un schiocco di dita i due bicchieri si riempirono
di un liquido
trasparente, subito dopo dal nulla comparvero due olive verdi infilate
in degli
stecchini, volteggiarono un paio di volte nell’aria poi
caddero con un leggero
tonfo nei bicchieri. Il liquido trasparente risplendeva sotto i
riflessi della
luna.
Magnus allungò una mano, con un gesto teatrale ed un
leggero inchino invitò l’altro ad avvicinarsi, a
sedersi accanto a
lui.
Guardingo Alec si avvicinò per poi sedersi goffamente
accanto allo stregone, leggermente rigido, ancora imbarazzato per
quanto stava
accadendo. Si riscosse, accorgendosi che accanto all’altro,
non avvertiva il
vento, il freddo dell’inverno, come se vi fosse una barriera
invisibile a
proteggerli.
Fissò il suo sguardo blu prima sul Nascosto poi sulla
coperta, sul cestino di paglia da dove continuavano ad uscire
stuzzichini di
ogni genere. Inconsapevolmente si ritrovò il cocktail fra le
mani, la
sensazione del cristallo freddo sulla pelle lo fece rabbrividire.
Al pensiero di quanto stesse accadendo, di quella serata
romantica, di quanto stesse facendo Magnus per lui, perse un battito.
Una vocina irrazionale in un angolo della sua mente
esultava per la gioia, un picnic, una notte romantica a Central Park,
con quel
tocco di magia che ogni coppia desiderava avere e per lui era
realtà;
dall’altra vi era la sua parte razionale, timida, gli diceva
che non poteva
esultare, che tutto quello era sbagliato, non poteva essere felice in
quel
momento. Soprappensiero portò il bicchiere alle labbra,
improvvisamente la
bocca gli si era fatta secca, aveva bisogno di bere. Fece tutto questo
sotto lo
sguardo attento del Nascosto.
Bevve un sorso del cocktail, per poi tossire
convulsamente. Fra un singulto e l’altro esclamò:
«Questa roba è veleno, ma
cos’è?»
La risata allegra dello stregone lo colpì in pieno
nell’orgoglio: «Dobbiamo lavorare sulle tue
abitudini in quanto bevande, ormai
sei grande non puoi continuare a bere solo latte e cacao.»
Quello sguardo irriverente, quelle iridi che lo fissavano
derisorie lo irritarono terribilmente, tanto da farlo sbottare:
«Io non bevo
solo latte e cacao.»
«Certo che no» rispose distratto lo stregone, lo
sguardo
sui vari stuzzichini adagiati sulla coperta, fino a quando non
trovò quello che
lo interessava: «mangia qualcosa»
esclamò, «i cocktail li lasceremo per
un’altra occasione» detto questo con uno schiocco
delle dita fece scomparire il
bicchiere dalle mani del cacciatore per farvi comparire un tramezzino
farcito.
Il cacciatore guardò sbalordito l’altro, posava lo
sguardo
dallo stregone che tranquillo sorseggiava il suo Martini, giocando con
l’oliva
ancora infilata nello stecchino, al tramezzino che era comparso fra le
sue
mani: «Da dove arrivano tutte queste cose?» chiese,
senza quasi troppo
interesse, intuendo già la risposta che avrebbe ricevuto.
«Oh un po’ di qua e un po’ di
là, sai come funziona, io
schiocco le dita…»
Alec sbuffò per mascherare il sorriso che involontario
stava nascendo sul suo volto, il comportamento dello stregone lo
spiazzava ogni
volta, ma allo stesso tempo lo rilassava, lo faceva sentire leggero,
come se
nel mondo non vi fosse nessuna preoccupazione. Con attenzione si mise a
fissare
lo stregone, il suo comportamento. Lo vide studiare curioso un panino
imbottito, per poi addentarlo con gusto, il silenzio calato fra di loro
durò
pochi istanti, i suoi occhi fissi sul bicchiere di Magnus ormai vuoto,
mille
riflessi prodotti dalla luna lo facevano risplendere.
La voce dell’altro lo riscosse dai suoi pensieri, da
quelle strane elucubrazioni che vorticavano nella sua mente, il tono
ironico
era scomparso, per farsi improvvisamente serio, dolce: «Un
uccellino mi ha
detto che eri giù di morale, più malinconico del
solito; così mi è sembrato
carino organizzare questo picnic. Non credo che tu abbia mai fatto un
picnic a
Central Park, o meglio credo che tu non abbia mai fatto un picnic in
genere» un
sospiro, poi riprese a parlare: «se non ti piace
però è un attimo e ti riporto
a casa.»
«No, no. Mi piace. Ed hai ragione non ho mai fatto una
cosa del genere.» Di nuovo silenzio, lo sguardo di Alec
rivolto verso la volta
scura, verso la luna che risplendeva in cielo. «Sai non era
male quel cocktail,
forse un po’ forte, ma per nulla cattivo, però la
prossima volta avvertimi
prima su quello che mi dai da bere, almeno mi preparo
psicologicamente.»
esclama pensieroso, per poi continuare: «chi è
stato a dirti che ero giù di
morale, Isabelle o Jace, oppure ti hanno chiamato entrambi?»
«Sono uno stregone, non c’era bisogno che mi
chiamassero
loro, so sempre se qualcosa ti turba.» Rispose saccente
Magnus, anche il suo
sguardo rivolto verso il cielo, la voce tornata ironica, allegra:
«a parte gli
scherzi, mi hanno chiamato entrambi, da alcuni giorni sei
più tetro del solito,
ed erano preoccupati. Mi hanno telefonato per chiedermi di parlare con
te, e
non consolarti, hanno ragione, devi parlare, non puoi continuare a
tenerti
dentro tutto quello che ti turba.»
«Non devo tenermi tutto dentro, cosa ti fa pensare che lo
stia facendo?» la voce di Alec era un sussurro, un respiro
fra le tenebre.
Lo sbuffo contrariato dello stregone gli fece voltare la
testa, posare l’attenzione sul Nascosto:
«Cosa me lo fa pensare? Dannazione Lighitwood,
ti conosco,
non bene come vorrei, ma ho capito come sei fatto. Ti rinchiudi in te
stesso
rimuginando su quanto sia ingiusta la vita. Ti carichi sulle tue spalle
colpe
che non sono tue.» Silenzio, le iridi di Magnus risplendevano
sotto i riflessi
lunari «Non si va avanti con i “ma” e con
i “se”, con i “se fossi stato
lì
avrei potuto”, non puoi rimproverarti di quanto accaduto ad
Alicante e
prenderti la colpa della morte di tuo fratello. Sei un adulto, un
guerriero e
come tale quella notte hai preso una decisione; hai deciso di
combattere
insieme agli altri shadowhunters, non puoi rimproverarti di quanto
accaduto»
alcuni istanti di silenzio, gli occhi felini fissi sul ragazzo con lo
sguardo
rivolto verso il cielo, una posa rigida assunta dal suo corpo, le mani
che si
stringevano a pugno, come se volesse stritolare qualcosa.
«E’ difficile.» Un sussurro che a stento
Magnus riuscì a
captare «è
difficile non pensare che
potrebbe accadere la stessa cosa a Isabelle o a Jace. Ho paura, paura
di non
essere in grado di proteggerli e non solo in combattimento ma anche
nella vita
in genere» di colpo si interruppe, il respiro accelerato, le
gote arrossate. Di
nuovo un sospiro per poi riprendere a parlare: «Da quando
siamo tornati vedo
i miei fratelli dare via i loro cuori e penso, non
c’è niente di meglio? I
cuori si spezzano. E credo che anche se guariscono, non sei
più lo stesso.
Come posso fare affinché non vengano feriti nel corpo che
nell’anima, come
posso fare affinché io non perda un’altra persona
cara? Che queste non
soffrano?» un fiume di parole, lo sguardo, le iridi blu
brillavano sotto
riflessi argentati.
Magnus lo aveva ascoltato in silenzio, uno scintillio
indecifrabile negli occhi, con un gesto veloce,
all’improvviso, strinse la mano
di Alec tirandolo a sé, fra le sue braccia, per essergli
vicino per
confortarlo.
Lo strinse delicatamente, lasciando che si abituasse a
quel contatto, che si rilassasse fra le sue braccia. In silenzio
ascoltava il
respiro del più giovane tornare regolare, regolarizzarsi e
finalmente il suo
corpo abbandonarsi contro il suo petto. Attese alcuni istanti,
formulando le parole
giuste da pronunciare, poi finalmente diede voce ai suoi pensieri:
«Non puoi
proteggerli, non per sempre» affermò sussurrando
quelle frasi come fosse
rivolto alla notte «puoi vegliare si di loro, essere un amico
e un confidente,
ma non puoi impedire che facciano le loro scelte, le loro esperienze.
Come non
puoi proteggerli dalle battaglie, questo è il vostro
destino, quello di ogni
cacciatore. Ma una cosa la puoi fare, ed è essere un loro
punto fermo, qualcuno
sul quale possono sempre contare. E come tu sarai il loro, loro saranno
il tuo,
perché sono i tuoi fratelli, la tua famiglia.»
Quanto accadde dopo di
quella notte, nella sua mente erano ricordi sfocati, sensazioni
provate.
Reminescenze di un sogno.
La luna a vegliarli, le
labbra di Magnus che sfioravano la sua pelle, risalivano lungo il collo
fino a
quando le loro labbra non si erano incontrate, unite in un soffice
bacio.
Era stato solo uno
sfiorarsi, un leggero contatto, ma i contorni del mondo intorno a lui
si erano
fatti irreali, onirici. Era precipitato in un bellissimo sogno.
Il sapore delle labbra di
Magnus era buono, dolce. Il sapore del Martini era molto meglio
assaporato a
quel modo. Un pensiero assurdo quella notte attraversò la
sua mente, un
pensiero non da lui, ma non poté fare a meno di formularlo,
probabilmente
avrebbe gradito ogni tipo di cocktail se avesse potuto assaporarli
direttamente
dalle labbra di Magnus.
Alec chiuse gli occhi
beandosi di quei ricordi, di quei momenti, ricordando la gioia provata
quella
notte.
Fu in una notte d’inverno
al chiarore della luna e delle stelle, in una delle serate
più strane che
avesse mai avuto, al suo primo picnic a Central Park che si rese conto
di non
essere più solo; che quello stregone dall’aria
sbarazzina era l’unica persona a
far svanire quel senso di incompletezza che per tutta la vita lo aveva
accompagnato.
Magnus era l’unico a
riuscire a colmare quel vuoto che aveva dentro.
«A cosa stai pensando?»
gli sussurrò in un orecchio colui a cui stava pensando in
quel preciso istante.
«Pensavo che dovremmo
fare un picnic, ho scoperto che c’è un modo
particolare in cui mi piace
assaporare i cocktail» un sorriso furbo ad ornargli il volto.
Magnus inarcò un
sopracciglio curioso, senza poter trattenersi dall’esclamare:
«Ah sì? E sarebbe
questo modo?»
Un leggero sghignazzare riempì la notte, una
risata bassa densa come la
cioccolata calda. Alec si rigirò nell’abbraccio di
Magnus per poterlo fissare
negli occhi ed infine sussurrare: «questo è un
segreto che non saprai mai.»