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Autore: Yuko majo    03/01/2012    5 recensioni
Magnus Bane era il sommo stregone di Brooklin, aveva centinaia di anni ed era l’uomo più affascinante che avesse mai incontrato. Non che Alec avesse tutta questa esperienza in fatto di uomini, oltre l’infatuazione per Jace, Magnus era l’unico altro esponente di sesso maschile al quale si fosse mai avvicinato, o meglio per il quale avesse provato interesse.
Il loro rapporto era strano, nato in circostanze particolari, quasi assurde.
Aveva dovuto lottare, prima per convincere sé stesso di essere attratto dallo stregone, ed in seguito convincere Magnus, lo stregone sopraccitato di non essere un ripiego, qualcuno con cui sperimentare le sue prime esperienze.
Era stata difficile per lui, ogni uscita, ogni chiamata, ogni incontro; era come muoversi su un campo minato, facendo sempre attenzione a quanto diceva, a come lo diceva, ma con il passare dei giorni, più si frequentavano più sentiva qualcosa cambiare in lui, quella sensazione di incompletezza, di vuoto, svaniva all’improvviso e tutto questo solo grazie all’altro.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte cipante al contest:  "There is no need to clarify my finger snap. The implication was clear in the snap itself."

Nick Autore: YUKO CHAN
Titolo: Quel vuoto che solo tu riesci a colmare
Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Pairing: Magnus\ Alec
Genere: Romantico, malinconico
Raiting: Verde
Prompt scelti: Luna, Cocktail, Picnic in Central Park, Incompletezza.
Citazione scelta: Ma vedo i miei fratelli dare via i loro cuori e penso, non c'è niente di meglio? I   cuori si spezzano. E credo che anche se guarisci, non sei più lo stesso." (Isabelle – City of Fallen Angels)
Battuta\e scelta\e: -Sei adorabile quando arrossisci-
Avvertimenti: One Shot, Shonen ai
Introduzione: La malinconia colpisce all’improvviso, i pensieri volano, passato e futuro si mescolano. I ricordi  attraversano la mente si trasformano in immagini, fino a quando non ci si rende conto che a volte non si è soli come si credeva, che accanto a noi c’è sempre qualcuno che riesce a colmare il vuoto che avvertiamo.
NdA: Dunque cosa dire, leggendo le regole del contest mi è venuta in mente questa storia, questo breve racconto, non so nemmeno se ho messo gli avvisi giusti, sono impedita in queste cose. La storia è ambientato in un lasso di tempo che va da dopo la fine del terzo libro e prima dell’inizio del quarto, quindi nell’ipotetico ritorno a New York dei protagonisti.
Ho preso la frase da City of Fallen Angels, trovata su una pagina facebook che traduce alcune citazioni della Clare e mi ha colpito in particolar modo, all’inizio ne avevo scelta un’altra, ma questa mi ha folgorato.
City of Fallen Angels non l’ho letto, quello in italiano perché ancora non è uscito, quello in inglese perché sono troppo pigra per pensare di mettermi a tradurre, quindi non so se i caratteri dei due protagonisti della storia siano cambiati o evoluti in qualche modo, in questa storia ho fatto in modo, o ci ho provato, a farli più simili a quelli che ho conosciuto nei primi tre libri.
Bene credo di aver detto tutto, ora mi rimetto alla clemenza della corte.
Ho messo le frasi scelte in neretto e in corsivo all’interno del testo, credo di aver finito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel vuoto che solo tu riesci a colmare

 

 

 

 

Quest'orrore della solitudine, questo bisogno di dimenticare il proprio io nella carne esteriore, 
l'uomo lo chiama nobilmente bisogno d'amare.

 

Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo

 

 

 

 

Inadeguatezza era quello il termine che balenò all’improvviso nella sua mente, quello che stava cercando; la parola che dava il nome al senso di oppressione che lo accompagnava da tutta la vita. Sin da quando ne aveva memoria lo aveva sentito, avvertito, gli aveva fatto compagnia giorno dopo giorno, aumentando sempre di più.
Inadeguatezza verso la sua famiglia, verso quella madre severa, abile a comandare e allo stesso tempo a crescere tre figli.
Inadeguatezza verso suo padre, colui che aveva sempre pensato fosse il migliore, il cacciatore da voler eguagliare, l’uomo forte, silenzioso, serio, che non era mai riuscito a raggiungere e a soddisfare.
Inadeguatezza verso quel nome che portava, quello della sua famiglia, una delle più antiche fra i Nephilim; quel nome che sarebbe terminato con lui, perché non avrebbe avuto nessuna discendenza.
Il nome dei Lightwood sarebbe svanito, dimenticato con il passare del tempo, e questo per colpa sua, perché non era come gli altri, perché anche in quel caso non era stato in grado di soddisfare le aspettative riposte in lui: né come guerriero né come cacciatore, e ancor meno come figlio.
Alec osservava il cielo scuro della notte, la luna brillava nell’oscurità, i tiepidi raggi carezzavano il suo volto, la pelle candida. Illuminavano di una sfumatura particolare le sue iridi blu, che malinconiche si perdevano fra le ombre della notte. Un brivido percorse il suo corpo, lungo la spina dorsale, insieme a lui, quel senso di vuoto che lo avvolgeva facendosi sempre più opprimente.
Osservava il paesaggio davanti a sé, la notte miscelarsi alle luci di New York, creando uno spettacolo che in tanti anni non si era mai soffermato a guardare, troppo rinchiuso nel suo mondo, troppo intento a sfuggire a se stesso e alla realtà dei mondani per osservare quanto accadesse attorno a lui.
Strinse le braccia attorno al suo corpo, avvolgendosi nella felpa un tempo nera, di qualche taglia più grande; soprappensiero scivolò a terra accanto alle pareti di vetro della serra, lo sguardo fisso davanti a sé, la mente immersa nei suoi pensieri, al passato, al presente, a quello che gli avrebbe riservato il futuro.
Quella sera si era arrampicato fino sul tetto dove si trovava la serra, sfidando la fredda notte newyorkese e tutte le sue allergie, aveva bisogno di un posto dove rimanere solo a pensare, e non aveva trovato niente di meglio del luogo dove un tempo Hodge passava molte delle sue giornate. Non aveva mai amato arrampicarsi lassù, in tutti quei mesi, da quando l’uomo aveva abbandonato l’istituto ne aveva anche dimenticato l’esistenza, tanti erano stati gli avvenimenti che si erano susseguiti, troppi, tanto da cancellarlo dalla sua mente fino a poche ore prima, quando i pensieri e il senso di oppressione si erano fatti più forti. Il desiderio di scappare, di trovare un posto solo per sé si era fatto incessante, così l’istinto lo aveva guidato fin lì, dove ora fissava la città estendersi all’infinito davanti ai suoi occhi.
La luna illuminava il cielo in tutto il suo splendore, vegliava quelle lunghe notti in cui il mondo dormiva; Alec la fissava intensamente, pensieri e immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, come tante istantanee, foto di un passato che continuava a perseguitarlo, di quel vuoto e di quella solitudine sempre presenti in lui. Sentimenti che bussavano ogni qual volta lasciava vagare la mente, quando si lasciava possedere dalle emozioni.
Gli avvenimenti si sovrapponevano uno dopo l’altro, l’arrivo di Clary nelle loro vita, il ritorno ad Alicante, la guerra, la morte di suo fratello; quell’ultimo pensiero lo colpì come uno schiaffo. Il dolore da quel giorno non lo aveva più abbandonato, insieme al senso di colpa, quante volte nel buio della sua camera si era chiesto cosa sarebbe accaduto se non avesse lasciato Max e Isabelle da soli con quell’essere; forse il suo fratellino ora sarebbe ancora lì con loro. Forse sua madre non soffrirebbe tanto, nascondendo ogni emozione sotto quella scorza dura che la caratterizzava, e suo padre sarebbe ancora l’uomo forte che aveva sempre visto, e non quello distrutto, morto lo stesso giorno in cui aveva perso il più piccolo dei suoi figli. A stento riusciva a riconoscerlo tanto il suo volto era segnato dalla sofferenza, come se improvvisamente fosse invecchiato tutto insieme e gli anni avessero iniziato a pesare su di lui.
Strinse più forte le braccia intorno al corpo avvertendo il gelo dentro di lui, con quel gesto tentava di proteggersi, di evitare che morse di ghiaccio s’impossessassero del suo animo, ma per quanto si sforzasse il freddo penetrava nel suo corpo, facendo aumentare la malinconia, il dolore, e il senso di vuoto che non scompariva mai.  Da giorni era ricomparso più incessante che mai.

Chiuse gli occhi, lasciando che i rumori della città lo raggiungessero, in lontananza la sirena di un’ambulanza suonava monotona, fendendo l’aria per poi allontanarsi e svanire nella notte. Gli spifferi all’interno della serra si erano fatti più forti, maligni lo investivano in pieno, sfioravano il suo volto, scompigliando leggermente i capelli scuri che ricadevano scomposti sul volto.
Nuove immagini lo assalirono, di nuovo quel sentimento di vuoto, di malinconia, il sentirsi incompleto. I ricordi si sovrapponevano, mescolandosi, il passato ed il presente scavavano in lui, nel suo animo come l’acqua nella roccia. Quel passato, quella vita lo avevano portato ad essere ciò che era, quello che era diventato: uno shadowhunters, un cacciatore. Eppure tutto questo non lo aveva mai reso felice non lo completava. Dentro di sé Alec continuava ad avere quel vuoto, a provare quel senso di incompletezza, senza che fino a quel momento qualcuno riuscisse a colmare il primo e far svanire la seconda.
Lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi, sfiorando con le mani il pavimento della serra, del tutto dimentico del freddo di quella notte d’inverno, la sua attenzione si era posata sui pallidi ghirigori che spuntavano da sotto il maglione, arabeschi sottili incisi sulla pelle, ognuno ad indicare una runa differente. Cicatrici pallide che sotto i raggi della fredda luna invernale risplendevano di un pallore argentato. Alec fissava quei segni, consapevole che quelli sui polsi erano solo una minima parte, il suo corpo ne era pieno, ma mai quanto quello di Jace o di Isabelle.
Quel pensiero lo raggelò facendo riemergere tutto il suo malessere, fino a poco tempo prima non era mai  stato in grado di uccidere un demone, troppo impegnato a proteggere i suoi fratelli, le persone che amava, era con questi pensieri che giustificava il suo comportamento, ma sapeva cosa pensavano gli altri, che la sua fosse mera paura, e forse non avevano tutti i torti, ma non potevano capire, non era paura dei demoni o della battaglia, era qualcos’altro. Qualcosa di più profondo, di più terribile, la paura di dover perdere qualcuno che si ama. Gli altri non lo capivano, Isabelle non lo capiva e ancor meno Jace, loro erano cacciatori sino al midollo, sapevano che sarebbero potuti morire ogni volta che scendevano in battaglia, ogni volta che affrontavano un demone, e lo accettavano come fosse una cosa naturale.
Ma per Alec non era così, lui era differente, non voleva perdere le persone care, il suo compito era di proteggerle, non voleva che quel senso di vuoto, di solitudine che lo accompagnava da sempre aumentasse ancora, permettendo che i suoi cari svanissero dalla sua vita lasciandolo solo.
La morsa che serrava il suo stomaco si era fatta più forte, chiuse gli occhi per lunghi interminabili istanti per poi riaprirli di colpo e tornare a fissare la volta scura dove nel mezzo a rischiararla brillava una splendida luna.
Concentrandosi, con forza scacciò ogni suo malessere, ogni  dubbio che si era impadronito del suo cuore, avrebbe cercato di relegare tutto in un angolo della sua mente, da dove non sarebbero dovuti mai riaffiorare
In quell’istante un pensiero lo sfiorò, qualcosa a cui non aveva mai fatto caso prima, sembrava che gli avvenimenti più importanti della sua vita, negli ultimi tempi avvenissero sempre nelle notti di luna piena, dai più tragici a quelli più dolci.
A quell’ultimo pensiero un'immagine comparve davanti ai suoi occhi, un volto dai lineamenti regolari, delicati, un volto senza tempo. Capelli scuri come la notte lo incorniciavano, un sorriso da canaglia ad illuminarlo, e due splendide iridi feline, come fossero pepite d’oro lo scrutavano, leggevano il suo animo, il suo cuore come mai prima di allora nessuno era riuscito a fare.
«Magnus» sussurrò soprappensiero, un sorriso ad ornare il suo volto, ed anche, se non poteva vederlo, sapeva che al pensiero dello stregone, delle loro serate sotto la luna, le sue gote si erano imporporate.

 

 

Magnus Bane era il sommo stregone di Brooklin, aveva centinaia di anni ed era l’uomo più affascinante che avesse mai incontrato. Non che Alec avesse tutta questa esperienza in fatto di uomini, oltre l’infatuazione per Jace, Magnus era l’unico altro esponente di sesso maschile al quale si fosse mai avvicinato, o meglio per il quale avesse provato interesse.
Il loro rapporto era strano, nato in circostanze particolari, quasi assurde.
Aveva dovuto lottare, prima per convincere se stesso di essere attratto dallo stregone, ed in seguito convincere Magnus, lo stregone sopraccitato di non essere un ripiego, qualcuno con cui sperimentare le sue prime esperienze.
Era stata difficile per lui, ogni uscita, ogni chiamata, ogni incontro; era come muoversi su un campo minato, facendo sempre attenzione a quanto diceva, a come lo diceva, ma con il passare dei giorni, più si frequentavano più sentiva qualcosa cambiare in lui, quella sensazione di incompletezza, di vuoto, svaniva all’improvviso e tutto questo solo grazie all’altro.
Magnus Bane non era il tipo che si offendeva, perlomeno non a prima vista, eppure Alec presto si era reso conto che alcuni suoi atteggiamenti lo avevano ferito. Quella facciata di ironia e menefreghismo ricoperta da un vistoso strato di glitter a volte veniva intaccata dalla sua distanza, dalle sue insicurezze, dalla sua freddezza.
Difficile era stato superare tutto questo, la paura di essere giudicato, ed insieme lo scoprire giorno dopo giorno se stesso e allo stesso tempo Magnus e molti lati del suo carattere, la dolcezza, l’ironia, la rabbia e nei suoi occhi sotto tutto questo, leggere la malinconia e il dolore di un passato lontano a lui ancora sconosciuto.
Ma per quanto le difficoltà fossero  state molte, man mano Alec si era reso conto di una cosa, che quel Nascosto, quel figlio di Lilith, quello stregone era la persona che lo comprendeva meglio di chiunque altra. L’unica in grado di colmare quel senso di vuoto che per anni lo aveva accompagnato.
Da quando non era più solo, ma c’era Magnus accanto a lui si sentiva più libero, più sicuro, pronto ad affrontare il mondo a viso aperto.
I suoi dubbi e le sue insicurezze erano quasi del tutto svaniti, raramente si ripresentavano, nelle notti di tempesta quando il cielo era cupo e scuro e il vento si abbatteva sull’istituto; a volte anche in serate serene, gelide come quella, in cui la luna illuminava fievolmente i contorni della città, mischiandosi alle luci di New York, rendendo tutto intorno a lui sfocato, come se volesse  trasportarlo in un sogno, nel passato, attraverso i ricordi e le nebbie del tempo.
Un sospirò fuoriuscì dalle labbra rosee del cacciatore, la testa abbandonata contro le pareti di vetro della serra, le luci di New York risplendevano come tante lucciole nei suoi occhi, quel senso di malessere aveva ripreso a premere sul suo animo, come a volersi impossessare del suo corpo squarciandolo dall’interno.
Abbandonato così, non avvertì la presenza alle sue spalle avvicinarsi silenziosa, un passo dopo l’altro, ne avvertì due braccia forti cingerlo e trascinarlo contro il petto del loro proprietario.
Si era irrigidito per alcuni istanti, per poi rilassarsi non appena riconosciuto colui che lo stringeva possessivo. Come svuotato si abbandonò contro l’altro, assaporando il suo profumo, con un sussurrò formulò la domanda che premeva sulle sue labbra: -Cosa fai qui, ma più che altro come sei entrato?- chiese titubante.
Seppur si frequentassero già da un po’, i loro incontri erano avvenuti tutti fuori dall’istituto, in alcune occasioni a casa dello stregone; ma questo non era mai entrato all’interno della struttura riservata ai cacciatori senza il permesso dei suoi genitori, non di notte almeno e non solo per vedere lui.
L’immagine dei coniugi Lightwood che andavano ad aprire la porta dell’istituto allo stregone a quell’ora di notte si formò nella sua testa mandandolo totalmente nel panico. Il pensiero delle domande, degli sguardi curiosi che avrebbe ricevuto il giorno seguente gli gelarono il sangue nelle vene.
Non sapeva se avrebbe retto alle domande curiose di Isabelle sul cosa avessero fatto, o al sorriso ironico di chi la sapeva lunga di Jace.
Ancor peggio sarebbero stati gli sguardi impassibili dei suoi genitori; sguardi indecifrabili che potevano dir tutto o nulla, approvare o disapprovare.
La voce allegra di Magnus lo riscosse dai suoi pensieri, gli occhi felini dello stregone lo scrutavano attentamente, posandosi sul suo volto, immergendosi nei suoi occhi, turbolenti mari del sud. Fissandolo come se volesse leggere dentro di lui, carpire ogni suo pensiero, ogni sua emozione.
Uno sguardo talmente intenso, profondo che le gote di Alec s’imporporarono nuovamente, leggermente rosate, mentre il suo cuore accelerava il battito.
Si emozionava ogni volta che Magnus lo fissava a quel modo, si perdeva fra centinaia di emozioni differenti, tanto da non avvertire più quanto accadeva intorno a lui; tanto da non avvertire più i dubbi, il vuoto, l’incompletezza che gli faceva compagnia da tutta la vita.
Scosse la testa per riscuotersi da quello stato di agitazione, per fissare nuovamente lo sguardo del più grande e ripetere: «Cosa fai qui, come sei entrato?»
Un sorriso birichino illuminò il volto dello stregone, un sorriso che non preannunciava nulla di buono: «ho bussato ed è venuta ad aprirmi tua madre, non avrei mai immaginato che potesse essere tanto affascinante in camicia da notte. A parte questo, le ho chiesto le chiavi di casa per le mie prossime visite, non è molto educato bussare a così tarda notte, e visto che c’ero le ho anche chiesto se potevo chiamarla mamma, dopotutto ora siamo una coppia.»
Ad ogni parola che lo stregone pronunciava Alec sbiancava sempre di più, con gli occhi sbarrati fissava il sommo stregone di Brooklin, la bocca che si apriva e chiudeva senza che riuscisse ad emettere alcun suono; infine quando vi riuscì emise solo un rantolo strozzato, difficile da interpretare persino per Magnus: «Tu, tu hai fatto cosa?» il panico che man mano s’impossessava del cacciatore. La consapevolezza che il giorno seguente Maryse Lightwood lo avrebbe ucciso di una morte lenta e dolorosa.
La risata allegra di Magnus lo riscosse, riportandolo alla realtà. Con sguardo ilare, irriverente, lo fissava gustandosi ogni sua reazione: «Sai Lightwood un altro lato del tuo carattere sul quale dobbiamo lavorare io e te, è il tuo senso dell’umorismo» un nuovo scroscio di risa interruppe lo stregone, che non seppe trattenersi, quando infine si fu calmato continuò il discorso: «Mi diverti un mondo quando ti agiti in questo modo, ma devo ammettere che preferisco quando ti emozioni»  il volto dello stregone si era fatto sin troppo vicino, i raggi della luna lo illuminavano debolmente, carezzandolo in maniera gentile, tingendo d’argento i suoi capelli scuri. Tenui raggi che facevano risplendere le sue iridi verdi e oro, una frase appena bisbigliata sulle sue labbra: «Sei adorabile quando arrossisci parole che ebbero l’effetto sperato, come ogni volta che riceveva un complimento da Magnus, le gote candide di Alec si tingevano di un rosso vivo, come il sole del mattino.
Con un tocco leggero Magnus sfiorò le gote del giovane cacciatore, delineò delicatamente le labbra sottili, percependo ogni brivido del suo corpo.
Lentamente si avvicinava a lui, come a rallentatore osservava ogni reazione del più giovane, si beava di ogni suo gesto.
Lo avvertì irrigidirsi, chiudere gli occhi, le labbra rosee del ragazzo dischiudersi come un bocciolo sotto le sue, ed infine vinto abbandonarsi al suo bacio.

 

 

Alec ricordava bene quella frase, quell’affermazione, Magnus glielo ripeteva in continuazione che un po’ di colore sul suo volto non ci sarebbe stato male, ecco perché si prodigava in ogni modo di farlo arrossire.
La sua mente vagava, perdeva lucidità mentre il loro bacio si faceva più profondo.
Solo in quegli istanti si sentiva veramente completo.
Si perse fra quelle sensazioni, immagini e ricordi scorrevano davanti ai suoi occhi, mentre si abbandonava fra le braccia dell’altro, illuminati dal chiarore della luna, unica testimone dei loro incontri.
In quegli attimi non era triste, non si sentiva incompleto, ogni preoccupazione, ogni senso di oppressione, il dolore, svanivano grazie a Magnus, alla sua presenza, ai ricordi dei momenti trascorsi insieme. Solo attimi, piccolo sprazzi di gioia in un periodo cupo, ma ognuno era impresso nella sua memoria, come tanti tasselli di un puzzle, colmando il vuoto dentro di lui.
Magnus aveva fatto di tutto per farlo uscire dal suo bozzolo, per farlo vivere.
Ad ogni loro nuovo incontro, Alec avvertiva quel disagio svanire, quel vuoto, quel senso di incompletezza dileguarsi, tutto questo grazie alle attenzioni dello stregone, alla sua allegria, alla sua voglia di vivere, che inesorabilmente riversava su di lui.
Il bacio era terminato, si sentiva leggero, abbandonato sul petto dell’altro vagava, riportava alla mente una delle loro prime uscite.
Era una sera come quella, fredda e rischiarata dalla luce della luna, una notte gelida in cui la malinconia, il dolore si erano fatti strada in lui, e allora come ora, d’improvviso era comparso Magnus, per stargli vicino, per ascoltare i suoi dubbi e le sue incertezze, o anche solo per confortarlo con la sua presenza.

 

 

Erano tornati da pochi giorni a New York, passeggiando per le strade scure della città, la battaglia sotto le alte torri di vetro di Alicante, la morte di Valantine potevano sembrare solo un ricordo lontano, ma non era così, il dolore bruciava nel petto, si intensificava ad ogni respiro. Era tornato a casa, aveva affrontato i suoi genitori, si frequentava con Magnus il sommo stregone di Brooklin, eppure non era felice. Sapeva il perché, una parte di lui, della sua anima era rimasta ad Alicante, nella città di Vetro, e lo stesso, lo sapeva, anche se non ne avevano mai parlato valeva per Isabelle, per Jace e per i suoi genitori.
Quella sera era uscito silenzioso dall’istituto, senza avvertire nessuno, aveva atteso che i suoi familiari si addormentassero per poi scivolare fuori.
Il gelo invernale lo avvolgeva con una morsa spietata.
Il vento soffiava, lame ghiacciate lo investivano in pieno scompigliando i capelli scuri; le gote pallide erano arrossate per colpa del freddo.
La luna risplendeva in cielo, i suoi raggi argentati rischiaravano la notte, le lastre di ghiaccio che si erano formate per le strade deserte.
Camminava nascosto fra le ombre, perso fra i suoi pensieri. Attraversava la città, dentro di sé si malediva per aver accettato di uscire, di aver acconsentito alla richiesta dello stregone.
Quello stupido di uno stregone, in fondo poteva anche andarlo a prendere, evitargli di attraversare mezza città per arrivare sino a Central Park. Qualunque cosa avesse in mente, sarebbero potuti andare a casa sua come ogni volta.
Con un grande sforzo di volontà scacciò l’irritazione e il cattivo umore, scacciò il desiderio di tornare sui suoi passi e rientrare a casa, desiderava vedere Magnus, e anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, sapere cosa aveva architettato, il messaggio giuntogli quella mattina era molto enigmatico, diceva tutto e niente:

 

“Fatti trovare a Central Park a mezzanotte in punto, ho una sorpresa per te.”

 

Un brivido percorse il suo corpo, non sapeva se essere emozionato o preoccupato. Le sorprese di Magnus lo terrorizzavano molto più di affrontare una battaglia, in quelle settimane lo aveva portato ovunque, in una discoteca mondana e ancor peggio a fare shopping con lui. Rabbrividì al ricordo di quelle interminabili ore in giro per negozi, provando ogni sorta di vestito, alcuni erano troppo persino per l’esuberante stregone.
Sbuffò, mentre con lo sguardo scrutava il paesaggio intorno a lui, senza nemmeno accorgersene si era inoltrato all’interno del parco; passeggiava con passo leggero per i sentieri deserti, scorgendo le ombre scure degli alberi leggermente illuminate dalla luna; la luce soffusa dei suoi raggi si rifletteva nelle acque scure di un laghetto artificiale. D’improvviso una brezza gelida lo investì in pieno, lame di ghiaccio si abbatterono su di lui, quando si riscosse tutt’intorno vi era solo buio. Ogni riflesso, ogni reminescenza erano svaniti, assorbiti dalla notte.
Oscurità ovunque.
Fitte tenebre.
D’istinto, come era abituato a fare, portò la mano in una delle tasche della giacca da cacciatore alla ricerca di una spada angelica, i sensi all’erta, mentre velocemente riportava alla mente i nomi di tutti i possibili demoni che possedevano tale potere.
Una risata allegra, sin troppo familiare ed un bagliore argenteo lo riportarono alla realtà. Spaesato osservava una radura silenziosa, completamente illuminata da sfere di cristallo, molto simili alle pietre di stregaluce, ma differenti allo stesso tempo.
Seduto sotto un salice, adagiato elegantemente sopra una coperta a quadri dai colori sgargianti, illuminato da quei bagliori argentati, Magnus lo fissava, poggiato accanto a lui un grande cesto di vimini, di quelli usati per i picnic.
Immobile Alec guardava lo stregone fasciato in pantaloni di pelle scuri e in una maglietta con delle borchie, molto meno appariscente rispetto a loro altri incontri. I capelli scuri fissi in creste disordinate, un generoso strato di glitter brillava al risplendere di quelle tenui luci. Sorrideva mentre i suoi occhi da gatto s’immergevano nelle iridi blu del giovane cacciatore. Attendeva che il più giovane si avvicinasse, nel frattempo con un pigro gesto della mano, per suo volere, dal cesto iniziarono a uscire ogni tipo di leccornia e due eleganti bicchieri da cocktail.
«Cosa…» la voce di Alec si perse fra le ombre della notte, si bloccò a mezz’aria interrotta dalla voce allegra di Magnus: «Un picnic a Central Park mancava nelle nostre uscite» un sorriso birichino ad illuminargli il volto «Noi due, la luce della luna a farci compagnia, modestamente i riflessi, la luce imprigionata in quelle lanterne è opera mia, un piccolo tocco di genio; ed infine dei cocktail per passare la serata, sono i migliori di New York» con un schiocco di dita i due bicchieri si riempirono di un liquido trasparente, subito dopo dal nulla comparvero due olive verdi infilate in degli stecchini, volteggiarono un paio di volte nell’aria poi caddero con un leggero tonfo nei bicchieri. Il liquido trasparente risplendeva sotto i riflessi della luna.
Magnus allungò una mano, con un gesto teatrale ed un leggero inchino invitò l’altro ad avvicinarsi, a sedersi  accanto a lui.
Guardingo Alec si avvicinò per poi sedersi goffamente accanto allo stregone, leggermente rigido, ancora imbarazzato per quanto stava accadendo. Si riscosse, accorgendosi che accanto all’altro, non avvertiva il vento, il freddo dell’inverno, come se vi fosse una barriera invisibile a proteggerli.
Fissò il suo sguardo blu prima sul Nascosto poi sulla coperta, sul cestino di paglia da dove continuavano ad uscire stuzzichini di ogni genere. Inconsapevolmente si ritrovò il cocktail fra le mani, la sensazione del cristallo freddo sulla pelle lo fece rabbrividire.
Al pensiero di quanto stesse accadendo, di quella serata romantica, di quanto stesse facendo Magnus per lui, perse un battito.
Una vocina irrazionale in un angolo della sua mente esultava per la gioia, un picnic, una notte romantica a Central Park, con quel tocco di magia che ogni coppia desiderava avere e per lui era realtà; dall’altra vi era la sua parte razionale, timida, gli diceva che non poteva esultare, che tutto quello era sbagliato, non poteva essere felice in quel momento. Soprappensiero portò il bicchiere alle labbra, improvvisamente la bocca gli si era fatta secca, aveva bisogno di bere. Fece tutto questo sotto lo sguardo attento del Nascosto.
Bevve un sorso del cocktail, per poi tossire convulsamente. Fra un singulto e l’altro esclamò:          
«Questa roba è veleno, ma cos’è?»
La risata allegra dello stregone lo colpì in pieno nell’orgoglio: «Dobbiamo lavorare sulle tue abitudini in quanto bevande, ormai sei grande non puoi continuare a bere solo latte e cacao.»
Quello sguardo irriverente, quelle iridi che lo fissavano derisorie lo irritarono terribilmente, tanto da farlo sbottare: «Io non bevo solo latte e cacao.»
«Certo che no» rispose distratto lo stregone, lo sguardo sui vari stuzzichini adagiati sulla coperta, fino a quando non trovò quello che lo interessava: «mangia qualcosa» esclamò, «i cocktail li lasceremo per un’altra occasione» detto questo con uno schiocco delle dita fece scomparire il bicchiere dalle mani del cacciatore per farvi comparire un tramezzino farcito.
Il cacciatore guardò sbalordito l’altro, posava lo sguardo dallo stregone che tranquillo sorseggiava il suo Martini, giocando con l’oliva ancora infilata nello stecchino, al tramezzino che era comparso fra le sue mani: «Da dove arrivano tutte queste cose?» chiese, senza quasi troppo interesse, intuendo già la risposta che avrebbe ricevuto.
«Oh un po’ di qua e un po’ di là, sai come funziona, io schiocco le dita…»
Alec sbuffò per mascherare il sorriso che involontario stava nascendo sul suo volto, il comportamento dello stregone lo spiazzava ogni volta, ma allo stesso tempo lo rilassava, lo faceva sentire leggero, come se nel mondo non vi fosse nessuna preoccupazione. Con attenzione si mise a fissare lo stregone, il suo comportamento. Lo vide studiare curioso un panino imbottito, per poi addentarlo con gusto, il silenzio calato fra di loro durò pochi istanti, i suoi occhi fissi sul bicchiere di Magnus ormai vuoto, mille riflessi prodotti dalla luna lo facevano risplendere.
La voce dell’altro lo riscosse dai suoi pensieri, da quelle strane elucubrazioni che vorticavano nella sua mente, il tono ironico era scomparso, per farsi improvvisamente serio, dolce: «Un uccellino mi ha detto che eri giù di morale, più malinconico del solito; così mi è sembrato carino organizzare questo picnic. Non credo che tu abbia mai fatto un picnic a Central Park, o meglio credo che tu non abbia mai fatto un picnic in genere» un sospiro, poi riprese a parlare: «se non ti piace però è un attimo e ti riporto a casa.»
«No, no. Mi piace. Ed hai ragione non ho mai fatto una cosa del genere.» Di nuovo silenzio, lo sguardo di Alec rivolto verso la volta scura, verso la luna che risplendeva in cielo. «Sai non era male quel cocktail, forse un po’ forte, ma per nulla cattivo, però la prossima volta avvertimi prima su quello che mi dai da bere, almeno mi preparo psicologicamente.» esclama pensieroso, per poi continuare: «chi è stato a dirti che ero giù di morale, Isabelle o Jace, oppure ti hanno chiamato entrambi?»
«Sono uno stregone, non c’era bisogno che mi chiamassero loro, so sempre se qualcosa ti turba.» Rispose saccente Magnus, anche il suo sguardo rivolto verso il cielo, la voce tornata ironica, allegra: «a parte gli scherzi, mi hanno chiamato entrambi, da alcuni giorni sei più tetro del solito, ed erano preoccupati. Mi hanno telefonato per chiedermi di parlare con te, e non consolarti, hanno ragione, devi parlare, non puoi continuare a tenerti dentro tutto quello che ti turba.»
«Non devo tenermi tutto dentro, cosa ti fa pensare che lo stia facendo?» la voce di Alec era un sussurro, un respiro fra le tenebre.
Lo sbuffo contrariato dello stregone gli fece voltare la testa, posare l’attenzione sul Nascosto:         «Cosa me lo fa pensare? Dannazione Lighitwood, ti conosco, non bene come vorrei, ma ho capito come sei fatto. Ti rinchiudi in te stesso rimuginando su quanto sia ingiusta la vita. Ti carichi sulle tue spalle colpe che non sono tue.» Silenzio, le iridi di Magnus risplendevano sotto i riflessi lunari «Non si va avanti con i “ma” e con i “se”, con i “se fossi stato lì avrei potuto”, non puoi rimproverarti di quanto accaduto ad Alicante e prenderti la colpa della morte di tuo fratello. Sei un adulto, un guerriero e come tale quella notte hai preso una decisione; hai deciso di combattere insieme agli altri shadowhunters, non puoi rimproverarti di quanto accaduto» alcuni istanti di silenzio, gli occhi felini fissi sul ragazzo con lo sguardo rivolto verso il cielo, una posa rigida assunta dal suo corpo, le mani che si stringevano a pugno, come se volesse stritolare qualcosa.
«E’ difficile.» Un sussurro che a stento Magnus riuscì a captare  «è difficile non pensare che potrebbe accadere la stessa cosa a Isabelle o a Jace. Ho paura, paura di non essere in grado di proteggerli e non solo in combattimento ma anche nella vita in genere» di colpo si interruppe, il respiro accelerato, le gote arrossate. Di nuovo un sospiro per poi riprendere a parlare: «Da quando siamo tornati vedo i miei fratelli dare via i loro cuori e penso, non c’è niente di meglio? I cuori si spezzano. E credo che anche se guariscono, non sei più lo stesso. Come posso fare affinché non vengano feriti nel corpo che nell’anima, come posso fare affinché io non perda un’altra persona cara? Che queste non soffrano?» un fiume di parole, lo sguardo, le iridi blu brillavano sotto riflessi argentati.
Magnus lo aveva ascoltato in silenzio, uno scintillio indecifrabile negli occhi, con un gesto veloce, all’improvviso, strinse la mano di Alec tirandolo a sé, fra le sue braccia, per essergli vicino per confortarlo.
Lo strinse delicatamente, lasciando che si abituasse a quel contatto, che si rilassasse fra le sue braccia. In silenzio ascoltava il respiro del più giovane tornare regolare, regolarizzarsi e finalmente il suo corpo abbandonarsi contro il suo petto. Attese alcuni istanti, formulando le parole giuste da pronunciare, poi finalmente diede voce ai suoi pensieri: «Non puoi proteggerli, non per sempre» affermò sussurrando quelle frasi come fosse rivolto alla notte «puoi vegliare si di loro, essere un amico e un confidente, ma non puoi impedire che facciano le loro scelte, le loro esperienze. Come non puoi proteggerli dalle battaglie, questo è il vostro destino, quello di ogni cacciatore. Ma una cosa la puoi fare, ed è essere un loro punto fermo, qualcuno sul quale possono sempre contare. E come tu sarai il loro, loro saranno il tuo, perché sono i tuoi fratelli, la tua famiglia.»

 

 

Quanto accadde dopo di quella notte, nella sua mente erano ricordi sfocati, sensazioni provate. Reminescenze di un sogno.
La luna a vegliarli, le labbra di Magnus che sfioravano la sua pelle, risalivano lungo il collo fino a quando le loro labbra non si erano incontrate, unite in un soffice bacio.
Era stato solo uno sfiorarsi, un leggero contatto, ma i contorni del mondo intorno a lui si erano fatti irreali, onirici. Era precipitato in un bellissimo sogno.
Il sapore delle labbra di Magnus era buono, dolce. Il sapore del Martini era molto meglio assaporato a quel modo. Un pensiero assurdo quella notte attraversò la sua mente, un pensiero non da lui, ma non poté fare a meno di formularlo, probabilmente avrebbe gradito ogni tipo di cocktail se avesse potuto assaporarli direttamente dalle labbra di Magnus.
Alec chiuse gli occhi beandosi di quei ricordi, di quei momenti, ricordando la gioia provata quella notte.
Fu in una notte d’inverno al chiarore della luna e delle stelle, in una delle serate più strane che avesse mai avuto, al suo primo picnic a Central Park che si rese conto di non essere più solo; che quello stregone dall’aria sbarazzina era l’unica persona a far svanire quel senso di incompletezza che per tutta la vita lo aveva accompagnato.
Magnus era l’unico a riuscire a colmare quel vuoto che aveva dentro.
«A cosa stai pensando?» gli sussurrò in un orecchio colui a cui stava pensando in quel preciso istante.
«Pensavo che dovremmo fare un picnic, ho scoperto che c’è un modo particolare in cui mi piace assaporare i cocktail» un sorriso furbo ad ornargli il volto.
Magnus inarcò un sopracciglio curioso, senza poter trattenersi dall’esclamare: «Ah sì? E sarebbe questo modo?»

Un leggero sghignazzare riempì la notte, una risata bassa densa come la cioccolata calda. Alec si rigirò nell’abbraccio di Magnus per poterlo fissare negli occhi ed infine sussurrare: «questo è un segreto che non saprai mai.»

   
 
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