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Autore: Violet 95    14/01/2012    1 recensioni
Una figlia vede il padre morire davanti agli occhi e brama solo vendetta: vendetta contro gli Assassini. Una ragazza ormai donna, spinta dall'amore paterno, può forse essere chiamata traditrice?
"I miei occhi vedono ciò che gli altri ignorano. Le mie mani sono tinte del colore del sangue. Il mio corpo è piegato alla volontà dei potenti, e degli ingiusti, ma la mia anima è votata al sacrificio. Il mio nome è Fadwa ed ero una Templare, poi un'Assassina e infine una Traditrice. Non devi compiangermi per questo, Altair". Fin dove ti possono spingere alcune scelte? Quanto possono influenzare gli altri e te stesso?
Prima fan fiction su Assassin's Creed e penso con il titolo di aver detto tutto. Purtroppo non ho ancora finito il gioco, e se ci saranno degli errori, perdonatemi ma non ho saputo aspettare a iniziare questa storia... Vi auguro solo buona lettura!
Genere: Azione, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Padre

 

 

I padri devono sempre dare, per essere felici.

Dare sempre, l’esser padre sta in questo.

[Papà Goriot,

Honorè de Balzac]

 

 

 

“Scusa, come hai detto di chiamarti?”

 

“Leonardo”

 

“Ah, come Da Vinci, il grande inventore fiorentino! Dovresti andarne fiero di questo nome, sai?”

 

“Mah, se lo dici tu… Dopotutto, è solo un nome”

 

“No, non è solo un nome, ricordatelo bene: è parte integrante della tua identità. Comunque, posso farti una domanda?”

 

“Di che si tratta?”

 

“Per caso, sai cos’è un Animus?”

 

 

Ricordi recenti si confondevano a quelli passati, come i tasselli di un enorme puzzle che non trovavano un loro incastro. Delle fitte violente la risvegliarono dal suo dormiveglia, costringendola ad alzarsi a sedere e a vedere dove si trovava: era seduta su un divano rosso, in una piccola stanza circolare, con scaffali ricolmi di libri, fili e cavi elettrici lungo i muri e un’unica piccola finestra rettangolare, perennemente chiusa.

Al centro della stanza c’era l’Animus, o almeno il suo prototipo.

 

“Buongiorno, Bella Addormentata”

 

La donna si voltò verso la fonte della voce che proveniva da una scrivania mezza sepolta dalla polvere e dalle scartoffie. Un ragazzo piuttosto giovane, dai profondi occhi azzurri e dai capelli di un biondo platino, la guardava da dietro una pila di manuali, lanciandole sguardi diffidenti e preoccupati, come se temesse che lei potesse svenire da un momento all’altro.

 

“Che ore sono?” biascicò la donna, massaggiandosi le tempie: la testa era sul punto di esploderle.

 

“Le sei del mattino. Hai dormito per tre giorni di fila, sai? Caterina cominciava a dare di matto perché non riaprivi gli occhi: pensava che tu fossi morta nel sonno”

 

“Mi dispiace, ma sono ben lontana da questo… Ho ancora molto da fare qui, non sono ancora pronta per morire” sorrise debolmente la donna, rialzandosi lentamente in piedi.

 

Il ragazzo si alzò di scatto e si mise subito accanto a lei, sorreggendola per un braccio. La donna lo respinse dolcemente e si diresse da sola verso l’Animus, accarezzando la superficie metallica fredda. Era solo un prototipo, ma ben riuscito: Leonardo aveva compiuto il suo lavoro egregiamente.

 

“È un gioiello, questo lo sai?” sussurrò la donna, trasognata.

 

Con la coda dell’occhio, lo vide scrollare le spalle, modesto. Ma ormai lo conosceva fin troppo bene per non capire che era lusingato dal complimento.

In quel momento, la porta della stanza si aprì con un cigolio metallico, facendo penetrare un debole raggio di luce. Una donna sulla ventina, con i capelli castani raccolti in una crocchia e un paio di enormi occhiali posti sul naso a celare gli occhi color mandorla, consultava sovrappensiero dei documenti, finché non si accorse della sua amica appoggiata all’Animus.

Spalancando la bocca a formare una piccola “o”, corse trafelata verso di lei, gettando a terra i documenti di prima, e la prese per un braccio, intimandola a rimettersi sul divano.

 

“Scordatelo, per un po’ non ritorni lì dentro!” sbottò Caterina, gesticolando preoccupata.

 

“Perché? Non possiamo fermarci proprio ora” domandò calma la donna.

 

“Io gliel’ho detto…” cominciò Leonardo.

 

“Zitto, tu! Parlare con te non serve a niente, visto che condividete le stesse idee… Vuoi capire, per una buona volta, che rischi la vita? Ci hai messo tre giorni a riprenderti, TRE! E se la prossima volta non ti risvegliassi, noi cosa dovremo fare?” urlò agitata Caterina, guardandola con sincera preoccupazione materna.

 

La donna non mutò la sua espressione, né si impegnò a calmare l’amica: sapeva che sarebbe servito solo a farla infuriare ulteriormente. Leonardo, però, non era dello stesso parere e si mise in mezzo fra le due, cercando un accordo; ma il povero professore di ingegneria riuscì solo a peggiorare la situazione.

 

“Smettila di sorridermi, Syria! Non si scherza sulla vita umana!” gridò isterica Caterina, spingendo lontano Leonardo e avvicinandosi ancora di più al volto impassibile dell’amica.

 

“Ho bisogno di ritornare lì, Caterina. Ho bisogno di sapere” rispose freddamente Syria, guardando fissa negli occhi l’altra donna.

 

Fadwa può anche aspettare, ma adesso abbiamo bisogno di fare controlli medici su di te! Se presenti dei gravi problemi celebrali, dovremo interrompere l’esperimento immediatamente, altrimenti anche l’Abstergo lo verrà a sapere…”

 

“Forse non è stata una buona idea rubare i progetti, eh, Syria?” chiese ironico Leonardo, dirigendosi verso il computer collegato all’Animus.

 

“Non avevo altra scelta”

 

“Sì che ce l’avevi! Terminare questa folle ricerca e ritornare alla tua vita odierna!” sbottò di nuovo Caterina, mordendosi però la lingua: aveva toccato un tasto dolente.

 

E la reazione fu immediata.

 

“Quale vita dovrei condurre, Caterina?! Quella che loro mi hanno rubato? Io non ho altri ricordi del mio passato, non ho una famiglia, né una casa, né un posto in cui andare: niente. Eppure, nella catena frammentata dei miei ricordi, c’è un solo nome: Fadwa, la donna che ho visto lì dentro. Io sono legata a lei, anche se non so come, ma vorrei scoprirlo! Forse avrò finalmente uno scopo nella mia vita…” sbraitò Syria, facendo crollare la sua maschera di freddezza di fronte a quell’affermazione.

 

Caterina abbassò gli occhi colpevole, sussurrando un debole e sincero “Scusa”.

Syria sospirò esasperata e la strinse in un abbraccio, tentando di confortarla; Caterina rimase sorpresa da quel gesto, dopo la sua reazione, ma non si districò da quella manifestazione di affetto così raro.

 

“Scusa, non volevo alzare la voce. Ma conosci i miei motivi, la mia storia… Ho raccontato tutto a voi e mi sono fidata: ora, vi prego, fidatevi voi di me!”

 

Caterina annuì flebilmente e Syria si staccò subito da lei, ricomponendosi: erano amiche da cinque anni, la relazione più lunga che avesse mai avuto con qualcun altro. Per lei era come una madre, come quella che non aveva mai conosciuto.

 

“Fammi entrare, Caterina. Ti prego”

 

Questa si allontanò e si avvicinò anch’essa all’Animus, digitando dei codici a memoria su un altro portatile lì vicino. Era ancora arrabbiata, ma si era finalmente arresa.

 

“Muoviti, prima che cambi di nuovo idea. Ma ascoltami attentamente: se ci saranno nuove anomalie, esci subito e non ci rientri più, chiaro?” disse imperiosa, senza alzare lo sguardo.

 

Syria le sorrise e si avviò verso l’Animus, distendendosi sopra come aveva fatto la prima volta: la superficie fredda e dura le fece venire i brividi.

 

“Anch’io vorrei un abbraccio, ogni tanto…” brontolò Leonardo sottovoce.

 

“Tu pensa a lavorare” ordinò Caterina, lanciando un’occhiata preoccupata alla cavia.

 

“Ah, Syria, quando ti abbiamo fatto uscire dal ricordo, è comparsa una scritta sullo schermo: RESET. Cosa vorrà dire?” domandò Leonardo.

 

“Ciò che ho visto deve essere la morte di Fadwa. Forse adesso mi mostrerà tutta la sua vita fino a quel momento…” rimuginò pensierosa Syria.

 

“Adesso basta, silenzio tutti e due! Cominciamo l’esperimento” disse Caterina, azionando il programma.

 

Syria chiuse di nuovo gli occhi e si abbandonò a quel sonno profondo, dove però le sembrava di muoversi come nella realtà. Sentì un bip sommesso, e cadde di nuovo nel suo sogno.

Nella rete dei ricordi che componeva la sua memoria.

 

 

 

Lei amava suo padre, e suo padre amava lei.

Non sapeva spiegarsi bene questo rapporto, ma era così. Forse perché suo padre era stato l’unico ad esserle stato accanto in qualsiasi momento, forse perché non aveva nessun altro famigliare come punto di riferimento.

Aveva solo suo padre, e questo le bastava.

Però, se avesse avuto una madre accanto, o magari un fratello che la proteggesse o una sorella che la consigliasse, forse questo non sarebbe successo.

Suo padre, il buon Issam, era un uomo povero, ma faceva di tutto per non far mancare niente alla sua preziosa figlia: vestiti, giocattoli, affetto. Le avrebbe dato tutto, perfino la sua stessa anima se avesse potuto. Per lui, un uomo mediocre e forse non molto acuto, sua figlia era al centro del piccolo mondo in cui viveva.

Forse agiva così perché non aveva altro su cui appoggiarsi nella vecchiaia che cominciava a sentire, soprattutto dopo la morte di sua moglie.

Quella donna, l’unica che lui avesse mai amato con sincerità, si era spenta definitivamente dando alla luce la loro figlia: una madre che si sacrificava per la sopravvivenza della figlia era raro a quei tempi. Se avesse voluto, avrebbe potuto continuare a vivere, uccidendo il feto e sopprimendo l’ultimo alito di vita di quella creatura. Ma lei non era riuscita a concepire questa idea e aveva dato la sua vita per farla nascere.

Da quel giorno, Issam si era preso cura di sua figlia come un padre amorevole ed esemplare, senza mai sfiorarla con il bastone o sgridarla. Fino a un anno di vita, non l’aveva chiamata con altro nome se non amore mio o figlia mia, ma al compimento di un anno della piccola scelse finalmente un nome: Asiya, colei che tende una mano verso i deboli e li solleva.

Anche alla bambina piaceva quel nome e lo urlava fiera al vento, ringraziando suo padre e una madre che non aveva mai conosciuto. Suo padre diceva che avevano gli stessi occhi, del colore del deserto al tramonto.

Asiya amava suo padre. Lui era la sua luce e se fosse mancata quella, lei sarebbe di sicuro caduta nelle tenebre: quelle da cui suo padre tentava ogni giorno di proteggerla.

Ma questa luce venne inghiottita da quelle stesse tenebre.

Suo padre lavorava per degli uomini in armatura che venivano ogni volta a trovarlo: quegli uomini si chiamavano Templari e la gente li temeva. Ma suo padre la assicurava ogni volta che non c’era alcun bisogno di averne paura, perché non avrebbero mai fatto loro del male. A lei questo bastava: ciò che desiderava era di restare vicino a suo padre per sempre. Di tutto il resto non le importava nulla.

Ma questo non poteva durare a lungo.

Di questi tempi i Templari andavano sempre più spesso da Issam e lo intrattenevano in lunghe conversazioni, chiusi nel suo studio, e quando se ne andavano suo padre le appariva esausto e invecchiato di dieci anni in un’ora. Lo vedeva spesso uscire di casa nel pomeriggio e ritornare a notte fonda, quando lei dormiva o almeno lui pensava che lo stesse facendo. Il più delle volte si accasciava stanco a terra e dormiva lì, senza nemmeno togliersi la tunica con la croce macchiata da piccole gocce di sangue.

Sebbene fosse ancora piccola, Asiya non ci mise molto a capire che suo padre aveva qualcosa che non andava: i suoi comportamenti, le sue nuove abitudini, il divieto di uscire di casa… Tutto in lui era diverso, portandola a sospettare che era in corso un profondo cambiamento nella loro vita.

E cosa peggiore, suo padre aveva ormai smesso di abbracciarla.

Un giorno di luglio suo padre era più agitato del solito, ma le promise che avrebbe passato la giornata con lei, accompagnandola al mercato di Damasco. Asiya aspettava impaziente il suo ritorno in casa, giocando con delle biglie di terracotta comprate tempo addietro.

Il sole di mezzogiorno era alto nel cielo e suo padre non era ancora tornato dai Templari. E lei si stava annoiando.

Ad un certo punto una biglia rotolò fuori dalla porta di casa e andò in strada; Asiya si gettò al suo inseguimento per impedire che finisse nel canale e, non appena mise piede fuori, assistette a una scena che avrebbe preferito non vedere mai.

Il corpo di suo padre, disteso supino con indosso le vesti dei Templari, stava agonizzante in una pozza di un liquido scuro che via via si allargava sempre di più: sangue. Accanto a lui, in piedi, c’era la figura alta e slanciata di un giovane completamente vestito di bianco, macchiato però da alcune chiazze rosse, con il cappuccio della tunica calato sul volto, celando i lineamenti. Dalla mano destra spuntava una lama ancora bagnata dal sangue di suo padre, che gocciolava in piccoli rubini a terra.

Il ragazzo si voltò e si accorse di lei, irrigidendosi sul posto; mormorò qualcosa, che lei non comprese, e salì con uno scatto felino sul tetto della sua casa, fuggendo alla vista.

Asiya si avvicinò lentamente al cadavere, con l’immagine del ragazzo ancora impressa negli occhi. Si inginocchiò al fianco del padre, tesa come una corda di violino, e lo fissò con uno sguardo vacuo. Sulla profonda ferita si accorse che era posata la bianca piuma di un’aquila, tinta del colore scuro del sangue.

Il padre la guardò con occhi vitrei e ciechi, cercando qualcosa. Infine, sussurrò il nome di sua moglie e piegò le labbra a un lieve sorriso. Emise un rantolo strozzato, e spirò.

Abbandonò la figlia che aveva promesso di proteggere in quel mondo spietato.

Asiya non sentì subito le lacrime scendere dagli occhi, né ora né dopo, e non riuscì nemmeno ad alzarsi dal suo posto per chiedere aiuto ai Templari. Rimase lì, vicino a quel corpo morto che non l’avrebbe più stretta fra le braccia.

Qualcosa di nuovo nasceva dentro di lei, simile a un incendio che divampava e divorava la sua anima. Quell’arcano sentimento cominciò a prendere i contorni dell’assassino di suo padre, del giovane ragazzo vestito di bianco, e una nuova e terribile parola si insinuò nella sua mente: vendetta.

Prese la piuma insanguinata e la strinse nel pugno, sporcandosi del sangue ancora fresco e quasi distruggendo quel fragile oggetto, unica traccia lasciata dall’assassino.

Vendetta. Sussurrò più volte questa parola, fino a farla diventare sua.

Vendetta. Vendetta contro l’assassino che aveva ucciso suo padre.

Vendetta. Perché quel giorno, la sua luce si era spenta all’improvviso, lasciandola per la prima volta da sola nel buio.

 

 

 

 

 

 

 

Spazio dell’autrice:

mentre giocavo un giorno ad “Assassin’s Creed” mi era sorta la domanda: ma i bersagli che Altair uccideva, avevano una famiglia? Che cosa provavano quelle persone care quando venivano a sapere della morte dei loro amati? Da qui è nata questa storia.

Curiosità sui nomi: Issam significa “difesa, protezione” (nome più adatto per questo personaggio non poteva esistere, anche se è comparso per poco XP). Ho cercato di assegnare loro nomi che rispecchiassero anche il loro carattere… Spero di aver fatto bene ^^.

Per i nomi di Leonardo e Caterina, gli amici dell’antenata di Fadwa, è chiaro a chi mi sono ispirata, neh? XD Ho introdotto anche un sedicenne Altair alle prese con le prime missioni: mi ha fatto quasi tenerezza a descriverlo… (Il nome di Altair significa “aquila in volo”?! Sinceramente, non lo sapevo proprio…)

Ringrazio per la recensione: Princess_Slytherin.

Ringrazio per aver aggiunto la mia storia fra le seguite: Nihal_Ainwen, Princess_Slytherin, tigre, Vanny2003.

Al prossimo capitolo!

  
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