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Autore: The Theory    15/01/2012    6 recensioni
Questa è la mia primissima FanFiction sul pairing Ben/Gwen! Spero sia di vostro gradimento in quanto la mia esperienza relativa a questo cartone è poca...
La vita di Ben subì un poderoso cambiamento quattro anni prima, quando l'Omnitrix si spense. I sentimenti di Ben sono da allora un altalena confusa tra la voglia di recuperare la sua passata natura aliena e l' abbandonare l'impresa. Una corsa contro il tempo, una pericolosa storia d'amore ed un racconto dal sapore dolce di ciliegia, rivisto in chiave allo stesso modo comica e triste, che spero faccia sorridere sul primo grande amore e le follie che per esso si fanno.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ATTENZIONE: Per farmi sapere qualunque cosa pensiate riguardo LA PETITE CERISE, sappiate che potete scrivere all’indirizzo ufficiale della storia lapetitecerise@yahoo.it ove potrete esplicitare i vostri pareri ed opinioni riguardo la fanfiction, farmi sapere cosa vi piace e cosa no, criticando liberamente i passi che abbiate qualora trovato difficili, privi di senso o che non abbiate apprezzato. Mi raccomando però, se dovete criticare fatelo costruttivamente, non gradirei ricevere insulti.
Grazie mille, risponderò ad ogni vostro dubbio.
 
Ciao ragazzi! Rieccomi dopo lungo tempo, vi chiedo ancora di perdonarmi. Le Feste caotiche ed i festeggiamenti per l’anno nuovo non mi hanno dato respiro ed il riprendere della scuola poi, non ha certo alleggerito il carico delle cose da fare, vi prego, assolvetemi.
Capiterà spesso che posti così in ritardo, da un mese all’altro. In più i capitoli stanno diventando lunghi e laboriosi e ho bisogno di documentarmi per alcuni passaggi. Per scusarmi e ricompensare la vostra pazienza ho scritto più che ho potuto! Fate attenzione, il capitolo è molto più lungo del solito.Vi lascio alla lettura :)

Capitolo 19
L'Adrenalina della Disubbidienza.

Ben spense e riaccese il cellulare per un quantitativo di volte pressoché inestimabile. Guardata distrattamente la televisione e meditato a lungo, non poté che sviare un profondo senso di vomito rizzandosi in piedi ed indirizzandosi verso la propria camera da letto, spegnendo la stufa durante il suo cammino. Era stata una giornata lunga ed estenuante che ora non faceva che pesare sulle sue spalle.
Ben accese la luce, chiuse i balconi ed azionò il riscaldamento. Era solo. Eppure no, sentiva di non esserlo davvero. In cuor suo, perlomeno.
 
Sienna seguì Kevin sotto quella che ormai era divenuta una pioggerella tanto fine da non infastidir nemmeno. Il buio della notte andava intensificandosi e la boria noiosa dell’inverno macchiava l’atmosfera inquietando lievemente la ragazza.
Kevin faceva strada tutto fiero, guidando Sienna verso il proprio appartamento. Era la prima volta in vita sua che era stato sfiorato dal pensiero d’un opera caritatevole nei confronti di qualcun altro.
Dopo pochi minuti di cammino si trovarono dinnanzi una struttura dal aspetto tipicamente anni settanta, tinta di un rosso bordeaux discutibile, certo, ma allo stesso modo affascinante.
– Ed eccoci arrivati – annunciò Kevin emanando un corposo nuvolo di fiato bianco.
Sienna non disse nulla limitandosi ad abbassare il capo: provò una certa vergogna a trovarsi in quel posto, in quell’istante. Si sentiva come una ladra, un’approfittatrice. Com’era stata.
 
Kevin fece girare la chiave in quella che parve essere una vecchia toppa ed invitò Sienna ad entrare nel suo piccolo appartamento.
– Come sai vivo solo – sorrise orgoglioso – ma ho ormai diciotto anni, posso permettermelo – aggiunse allora ringalluzzendosi pavoneggiante.
– Sbruffone – ribatté Sienna ridendo di gusto mentre il ragazzo azionò le plafoniere della piccola seppur accogliente hall e delle stanze limitrofe pigiando la pulsantiera dell’illuminazione.
La ragazza allora si guardò attorno, sentendosi stranamente rilassata. L’arredamento non era molto moderno, Sienna azzardò seguisse lo stile dell’intero edificio, dando molto l’idea di quel retrò educato degli anni che furono. Le piacque.
All’entrata un armadio, un appendiabiti ed il contatore. Alla destra, invece, un piccolo cucinino a muro dalle ante di un bianco sporcato dal tempo, una finestra abbastanza grande ed un tavolino appena sotto d’essa, affiancato da due panche in legno biondo. Dinanzi loro un minuscolo salotto con appena un divano ed una televisione. Successivamente una porta chiusa. Probabilmente a condurre verso la camera da letto.
– Come potrò ripagare una simile disponibilità? – mormorò dunque la giovane.
Fece tale domanda dopo aver provato un certo sentore, un rimasuglio incerto dal passato.
Il ragazzo se ne rimase di spalle, poggiando il cappotto all’appendiabiti collocato all’angolo.
Si voltò rispondendo: – in natura?
Sienna sgranò gli occhi e arrossì violentemente. Cominciò a balbettare tanto che Kevin scoppiò a ridere non riuscendo più a mantenere l’espressione seria adottata per il bluff:– non ci avrai creduto davvero, razza di perversa!
La ragazza rimase a bocca aperta. Ci aveva creduto. Perché non era per lei cosa nuova. Riuscì appena a bisbigliare: – …maledetto idiota!
Il giovane si prese a contorcere dal tanto deriderla al punto di finirsene bel che seduto a terra.
– Per l’amor del Cielo! – balbettò la ragazza coprendosi il viso rossa come mai l’era stata.
Prese a calciarlo per gioco controllando la propria forza: – vecchio marpione incallito! Vergognati! Impudente! Approfittatore!
Cominciò a ridere: – non potrò più prender marito dopo codesto disonore, ah me tapina!
Kevin le afferrò un piede:- addirittura…! Non sarebbe il primo.
La ragazza ignorò le ultime parole dell’amico:– Mollami! – lo minacciò allora mostrandogli la lingua e continuando a ridere.
– Non ne ho alcuna intenzione – ribatté il giovane prendendo a farle dondolare la caviglia senza smettere di burlarsi di lei.
– Piantala!
– Ora ti tolgo la scarpa, stai a vedere! – ridacchiò Kevin.
– Non osare!
– Hai forse qualcosa da nascondere? – chiese il ragazzo con aria maliziosa.
Sienna divenne ancora più rossa: – Ovvio che no! Cosa dovrei nascondere?!
– E allora…!
Con gesto felino infilò le proprie mani accanto alle gambe della ragazza e dando una lieve ma decisa spinta la fece capitolare ginocchioni sopra di lui.
Sienna sentì il cuore fermarsi. Smise di respirare, mentre deglutì sentendo sulla pelle l’infrangersi brusco di uno strattone immaginario, riapparso dal nulla non appena gli occhi le s’erano collegati con la memoria. Ma no, non poteva accadere. Non con Kevin, Sienna si fidava di lui. Era il suo unico vero amico.
– Perché sei tutta rossa? Non avevi forse nulla da nascondere? – domandò Kevin sviando lo sguardo.
– Io…non sono rossa – balbettò Sienna dopo un breve istante di silenzio. La sua voce aveva assunto un timbro inaspettatamente fermo e ruvido. Aveva ricordato all’improvviso, nuovamente, senza volerlo, come se una forte sberla dal  passato l’avesse riportata dinanzi ad un indicibile promemoria. Che doveva tacere.
– Ho freddo. Il rossore non è che…infreddolimento.
Scusa peggiore non le sarebbe potuta uscir di bocca, in quanto nell’appartamento s’avvertiva perfettamente il caldo emanato dal termostato.
– Racconti anche balle, adesso? – mormorò Kevin sorridendo debolmente sotto i baffi.
– Scusa…è che…non posso.
– Non puoi  cosa…? – sussurrò il ragazzo al suo orecchio.
Sienna si ritrasse, bloccata repentinamente: – non posso starmene…in queste posizioni
Kevin la interruppe, portandole una mano alla guancia e lasciandovi scorrere le dita:– “posizioni”…interessante – ridacchiò con malizia.
Ma Sienna non lo badò e terminò di parlare: – quando … ho giurato eterna fedeltà alla mia Cerise.
Calò un silenzio devastante. Più devastante ancora del gran vortice creatosi nel cuore di Sienna.
La ragazza venne assalita dal terrore che quell’invito altro non fosse stato che la maschera di un terribile secondo fine.
Kevin sbuffò, abbandonate le spalle all’indietro.
S’alzò bruscamente, scostando Sienna: – Con te non si può neanche scherzare…non sei cambiata affatto.
La ragazza piegò il proprio sguardo in un’espressione afflitta: – …scherzare…?
Era dunque “per scherzo” che avrebbe dovuto tradire la sua Cerise? Di nuovo? L’orrore l’attanagliò le membra.
– Idiota…non montarti troppo la testa – convenne Kevin andandosene.
– Che…?
Il ragazzo reagì dipingendosi in volto una smorfia di disappunto. Con voce sprezzante rimandò:– Che pensavi? Che ti avessi offerto di stare qui per cosa…? Non ricordi più come funzionano le cose?
Sienna gelò. Abbassò la testa.
– Ricordavo che facessero questo quelle come te. Non meravigliarti tanto.
La ragazza sentì squarciarlesi il cuore. “Quelle come lei”. Di nuovo. Non doveva essere cambiata? Non lo era? Non lo aveva detto anche lui poco prima? Cosa stava succedendo? Sienna di tastò un braccio con la mano stringendolo poi a sé. Erano dunque tutte menzogne quelle che il giovane le aveva dette? “Cambiare vita”: le venne quasi da piangere ributtata da quella che in cuor suo riconobbe come vile fandonia.
“Quelle come lei”. Non riusciva a scollarsi quella frase di dosso, non era capace di liberarsi dell’effetto amaro che aveva su di lei. Un tempo non le avrebbe fatto tanto male. Già, un tempo. Quante volte l’era stata lacerata la carne da quelle stesse parole. E quante aveva permesso a sé stessa di lasciarsi ledere tanto crudelmente in cambio di brevi, effimere occasioni. La sua coscienza chinava ad ogni occasione il capo, sovrastata e posseduta da spasmodica ed inusitata rabbia, incosciente e infima carestia morale. Pur morendo di volta in volta colta da uno strazio prolisso. Pur tentando – invano – di inabissare la boria per far spazio all’umiltà, nei lunghi momenti di solitudine, per cadere nell’illusione nebbiosa di riuscire ad oscurare un penoso decadimento. Ed anche ora, dopo una faticosa risalita, le pareva di esser scivolata di nuovo all’interno del proprio passato. Erano bastate tre parole. 
– Ed ora seguimi. Non vorrai dormire sul pavimento.
Sienna si alzò tremando.
– Sì.
Era tornato improvvisamente tutto come prima.
“Oh, ma petite Cerise… je suis morte encore une fois. Ed ancora una volta tu non ci sei.”.
 

* * *

 Gwen aprì gli occhi, sola, avvolta dal silenzio di quell’enorme casa vuota. Trovandosi invasa da un dolore frastagliante.
La luce del mattino rischiarava il salotto devastato di casa Tennyson penetrando debolmente dalle grandi finestre in entrata. Gwen si mise a sedere trascinando a fatica le gambe assoggettate dall’indolenzimento, facendo leva sulle braccia indolenzite. Realizzò d’aver dormito raggomitolata a terra per circa otto ore.
Si massaggiò i polsi notando poi con sgomento che la porta d’entrata era rimasta aperta per tutta la notte. Gwen si sentì devastare dalla preoccupazione, dal terrore che qualcuno potesse essere entrato. Nonostante fosse a pezzi e sentisse crocchiare ogni osso del suo corpo si levò in piedi precipitandosi tanto sveltamente quanto poté esserlo a chiudere il portoncino. Si guardò intorno. Pareva essere tutto normale. Un miracolo. A parte un numero esagerato di cocci di ceramica bianca e scaglie di vetro sparsi ovunque, nulla sembrava differente. Gwen si lasciò scivolare a terra poggiando il capo al legno freddo della porta. E sospirò, abbandonandosi a quello che credé fosse rimasto il suo ultimo sostegno; uno stipite in ciliegio gelido.
 
Ben udì la sveglia suonare e con sommo sconforto ebbe che tirarsi su dal letto. La routine l’uccideva, ogni mattina era come il riproporsi noioso d’un film Natalizio sulla rete nazionale,non vi sarebbe stata via di scampo. Eppure, alla fine, a Ben la cosa nemmeno dispiaceva; anche se, sebbene gli rodesse profondamente il fatto d’essersi ritrovato improvvisamente uno studentello anonimo – si sentiva così seppur fossero trascorsi anni dallo spegnimento dell’Omnitrix – non poteva fare a meno di pensare quanto comoda fosse quella vita ciondolante, scandita in buona parte dal volere degli altri.
Sospirò e scostò il lenzuolo, poggiando i piedi al tappeto che se ne stava adagiato accanto al letto. Un pensiero lo bloccò: rifletté sul giorno prima, quel dannato e infinito accumulo sciatto d’ore che altro non aveva fatto se non impensierirlo. Provò un certo ribrezzo nei confronti della propria cattiveria, in fondo si rese conto di star denigrando le pene di Gwen. Ma in quell’istante non fece a meno – quasi senza neppur soffermarvisi a meditare – di lasciar correre l’accaduto oscurando scostumatamente i ricordi. Non ce l’avrebbe fatta ad ammettere che seppur per poco le distanze tra lui e sua cugina si fossero accorciate. Anche (soprattutto) perché ripensando a Gwen non riusciva a vedere alcun legame. L’odio nei suoi confronti – che l’aveva accompagnato per una lunga infanzia – era andato oramai tramutandosi in un sentimento neutro e inanimato. Questo non fece che inquietare ulteriormente il giovane. Scosse selvaggiamente il capo e dopo una capatina al bagno per rinfrescarsi il viso assopito e fare una doccia fulminea si costrinse a scendere per fare colazione. Non volle uscire di casa preferendo uno spuntino casereccio sicché aprì la dispensa e ne estrasse un cartoccio di pane. Con aria stanca sfilò dal sacchetto una pagnotta del giorno prima, che mise a scaldare. Nel chinarsi verso il frigo per prendere del burro, il suo sguardo venne improvvisamente catturato da uno scintillio.
– Che diavolo…?
 
Gwen si trasse in piedi. Era stufa di starsene a ciondolare. Voleva sistemare quel marasma allo sguardo poco meno che macabro; quasi si supplicò da sé di cancellare – se non altro fisicamente – uno degli avvenimenti della sua vita che avrebbe preferito non vivere. Si portò le mani alla fronte madida e bollente, udendo improvvisamente la rotula rumoreggiare nel piegarsi. Non le importava di sentirsi tanto male, non le importava più di nulla, per la precisione.
Doveva rimettere tutto a posto prima che arrivasse Ben dopo la scuola.
Non poteva (né voleva) permettere che qualcuno rovistasse tra le proprie vicende famigliari. Si chinò poco lontano dal divano a raccogliere i primi frammenti di ceramica lucente. “Qualcuno…” mormorò tra sé smettendo di ammucchiare i pezzi indistinti sul palmo caldo della mano sinistra. “ Come se fossimo due estranei...”.
Proseguì la propria raccolta a capo chino, rossa dalla vergogna d’aver pensato qualcosa di orridamente simile.
La sua vita era un controsenso. Lo era per meglio dire la sua logica che in quel frangente definì ella stessa quasi meschina e contorta : pretendeva ausilio pur essendo la prima ad allontanare i soccorsi; Gwen percepì un simile ragionamento (o forse rendiconto) come una scostumata ammissione di miseria intellettuale. Che non approvò.
 
Ben si trascinò a scuola senza il minimo entusiasmo. Sentiva di stare per vomitare. Eppure, veniva rincuorato dal fatto che quello che s’apprestava ad affrontare altro non era che l’ultimo dì scolastico prima delle vacanze di Natale. Nonostante tutto, non riusciva a star sollevato. Si chiese perché, sedendo al proprio banco. Infilatosi la mano in tasca, tastò il piccolo bottone che aveva trovato poco prima sul pavimento della propria cucina. Era stato attirato dalla sua bordatura dorata e l’aveva raccolto dopo un’attenta osservazione. Poteva immaginare di chi fosse. Non lo aveva mai visto prima “se non al petto di quella” si disse. Sgranò gli occhi poi assottigliando lo sguardo, mutandolo dunque in un’occhiata stanca.
“Che noia.”
 
Gwen lasciò scivolare nella pattumiera riservata al vetro la maggior parte dei cocci che sin quell’istante aveva raccolto da terra. Si era tagliata più di qualche volta ma non certo gravemente: le sarebbe bastato mettere qualche cerotto.
Il vorticare funesto che le scoteva violentemente il capo non faceva che intralciare la sua operazione di “cancellazione fisica di eventi” facendola scivolare di tanto in tanto o metter a sedere per ritrovar il baricentro. Ma Gwen non aveva alcuna intenzione di coricarsi se non ad opera terminata. Non seppe come ma riuscì a risollevare il tavolo della sala da pranzo e a sistemarlo esattamente dove originariamente stava. Fortunatamente la maggior parte dei frantumi era rimasta avvolta dalla tovaglia, macchiata dal vino rovesciato nel gran trambusto.
Improvvisamente Gwen cadde sulle ginocchia. Cominciava a sentire la febbre aumentare ed il respiro serrarlesi in gola. Nel panico, raccolse il capo tra le mani pregando Iddio di riuscire per un istante almeno a ristabilirsi; chiuse gli occhi lasciandosi scivolare all’indietro, finendo poggiata mosciamente ad una gamba della tavola. Si odiò per essersi addormentata a terra senza curarsi del freddo tremendo della notte. Non le aveva portato che dolore. “Bell’idiota.”.
Nel portarsi una mano al cuore sentì una sottile sporgenza ruvida correrle poco sotto al collo. Ricordò.
Rimase zitta, immobile. Percorse piano, tracciando dolcemente con le dita quello che sapeva essere un lungo e marcato taglio trasversale, ad albergare poco sotto le proprie clavicole. Lentamente. Tanto lentamente da adattare il respiro a quel ritmo apatico, nel tentativo sconsolato di calmare la furia di tale paurosa evoluzione, evoluzione di quel che era nata come una semplice febbre ed era divenuta sofferenza atroce.
Gwen si sfiorò piano il collo, con dita tremanti; lo ricordava segnato dalla presa animale che il padre vi aveva esercitato senza ritegno. Facendo scivolare cautamente le dita, come a toccar una delicatezza che allo sfioramento si spezzi, carezzò la cute come coccolandola, nutrendola fisicamente delle blandizie che implorava di ricevere ma non otteneva. Con la cautela più avveduta a questo mondo, impaurita continuamente di farsi danno.
Venne assalita dalle rimembranze della sera prima. Rabbrividendo addolorata lasciò scivolare il capo su d’un lato, lottando per stingersi gl’occhi di quei fotogrammi cruenti e a lei tanto irreali che disgraziatamente erano accaduti.
E poi ecco comparire il volto di Ben.
Gwen si morse un labbro, abbandonando le braccia a terra.
Depositando la mano sul pavimento gelido s’accorse s’aver tastato un frammento. Volle tener chiusi gli occhi. Provò ad indovinare da cosa derivasse. Un bicchiere? Un piatto? Una bottiglia?
Gwen aprì gli occhi. Non le importava più cosa fosse. Portò con la mano sinistra quel frammento biancastro sul palmo destro sfregando per un attimo la cute. Piegò lo sguardo in una smorfia morbida.
 
Maria Theresa Hudson era la professoressa che Ben preferiva in assoluto. Era una donna di mezz’età, di gran classe, che insegnava Lettere al Liceo che Ben frequentava; non era una nuova conoscenza, anzi, una vecchia amica di famiglia che Ben aveva già visto in precedenza. La prima cosa che la donna aveva fatto era stata andargli incontro riconoscendone il nome e complimentandosi con lui per l’indirizzo scelto. Ben ne era totalmente affascinato.
– Prestatemi attenzione per un momento, figliuoli. Desidero assegnare i compiti per le vacanze, ma non preoccupatevi, mi conterrò! Infondo – ridacchiò – sono vacanze per tutti.
Ben prese il breviario scolastico con l’energia di un bradipo, ma si controllò in rispetto alla tanto ammirata insegnante.
– Desidero che leggiate la poesia di pagina 187 – ordinò quindi la professoressa riportando le informazioni sfogliando il libro di testo – per quanto riguarda l’antologia è tutto qui, ma non crediate di darci una letta soltanto, figliuoli. Badate a non farmi arrabbiare.
– Dovrete lavorarci a coppie parafrasandola interamente. La poesia verrà esposta al termine delle vacanze.
Ben non si preoccupò di controllare di quale poesia si trattasse, tanto gliene importava. Si limitò a fissare l’orologio con un desiderio premente di udire la campanella suonare.
– Le varie coppie verranno ora selezionate dai rappresentanti previo estrazione – aggiunse la professoressa. Vi lascio dieci minuti, prima del suono della campana che venga comunicato ogni abbinamento.
Ben non si accorse delle parole della donna. Fissava fuori dalla finestra come il giorno precedente. Passarono secondi, poi minuti. Ben non seppe. Scappava da quella situazione rumorosa fissando al di fuori della stanza. Si accontentava di quella via di fuga effimera.
– Tennyson.
Ben si voltò di scatto richiamato dalla voce zuccherina della professoressa, che nel frattempo aveva raggiunto il suo banco nel mezzo del marasma generale.
– Perché tua cugina è assente?
Ben rispose: – Gwen ha la febbre, professoressa.
– Mi raccomando, riferiscile i compiti.
– Non si preoccupi, è ciò che mi ha chiesto ella stessa di fare. Ovviamente, io eseguirò.
La donna sorrise: – a questo proposito. Stavo pensando…non è davvero una fortuna che tu sia capitato in coppia con Gwen?
Ben gelò.
Non aveva ascoltato quelli che credé all’incirca fossero stati gli ultimi quindici minuti di lezione e si era chiaramente perso l’assegnazione dei gruppi. Si maledì.
La professoressa continuò: –…visto che lavorate sempre separatamente è davvero una notevole occasione. Assieme a Gwen potresti davvero produrre qualcosa di buono figliuolo, ed inoltre sareste avvantaggiati, essendo cugini avrete modo di vedervi più spesso, durante queste vacanze.
– Il tempo, le assicuro, non mancherà – rispose Ben cinicamente.
– Non voglio essere sfacciata, Benjamin. Ma sembra che tra te e Gwen non vi sia alcun tipo di tolleranza. Se devo ammetterlo, è anche per questo che approvo la formazione della coppia Tennyson–Tennyson. Per una vostra ulteriore maturazione, è capitata proprio a fagiolo.
Tennyson rimase zitto, osservando gli occhi limpidi dell’ insegnante.
– Non prenderla a male, Benjamin, mi raccomando – s’affrettò ad aggiungere la donna – ma sai trovo che possediate dei potenziali notevoli, anche se tu potresti fare decisamente di più, e non sfruttare un così buono e valido imput per qualche screzio non mi pare molto conveniente…sei un ragazzo maturo, penso tu capisca a cosa alludo. Spesso è infantile rinunciare dapprincipio a qualcosa che potrebbe rivelarsi davvero fruttuoso per qualche antipatia…per questo mi piacerebbe andaste d’accordo o almeno lo fingiate per portare avanti questo piccolo compito.
Ben tacque ma annuì rassegnato. Non poteva più farci nulla.
– E poi…
Ben alzò gli occhi verso la donna non appena l’udì aggiungere dell’altro.
–…è triste vedere quanto vi ignoriate seppur condividiate lo stesso sangue…
Ben sentì il proprio stomaco contrarsi. Lo stesso sangue, diceva. Lo stesso che ora percorreva il suo corpo, vena per vena, irrorando muscolo per muscolo.
– Già…– mormorò il ragazzo tremando al percepire il flusso febbrile di quel maledetto liquido denso su e giù per il suo corpo.
– Non arrabbiarti, Benjamin. La mia era solo una considerazione. So bene di non avere il diritto per intromettermi.
– Si figuri – mormorò Ben a capo chino.
– Non prendermi per una che vuol dar ordini o imporre le proprie idee…ma…io credo che nella vita vi siano cose che vanno fatte perché ne si è obbligati. Ma da esse può sfociare un qualche aspetto positivo che, accecati dalla malavoglia, non avremmo mai considerato. A volte invece siamo entusiasti poiché faremo qualcosa che abbiamo precedentemente immaginato come meraviglioso. La delusione sarà molto più forte nel secondo caso, semmai andasse male. Ti prego, Ben. Lascia da parte l’infantilismo, confido molto in te.
Ben non disse nulla. Si limitò ad acconsentire ancora una volta.
– Mi raccomando,voglio un lavoro eccellente, attivatevi non appena Gwen si sarà ristabilita – sorrise l’insegnante.
Ben abbassò lo sguardo. Quella donna era geniale, una vera e propria Mente.
Suonò la campanella di quella lunga terza ora.
– Ti saluto e ti faccio i miei migliori auguri, Ben – disse la professoressa.
– La ringrazio, un felice Natale anche a Lei.
 
Gwen tracciò con il coccio di ceramica una linea immaginaria sul proprio polso, senza calcare troppo.
– La soluzione.
Fulmineamente, mentre con sguardo cupo e morto osservava l’ondeggiare della scheggia per la propria cute, ricordò frammentariamente le parole di Ben che, inveendo contro di lei, le rinfacciava di star cercando una soluzione facile ai propri problemi la quale – secondo l’opinione del cugino – da lui Gwen pretendesse venisse sfornata.
La ragazza si bloccò. Lasciò cadere il frammento a terra.
Tacque ancora per una manciata di secondi, abbassando poi il capo dopo aver avvertito il premere funesto di un pianto di rabbia. Mormorò:– Né a te…
– … né a mio padre…
–…concederò il gusto di potermi guidare.
Gwen si costrinse in piedi: – solo i deboli dipendono dagli altri.
Al termine di tale soliloquio, la giovane riprese il proprio lavoro, combattendo il dolore con la sola arma che possedeva: la propria forza. In barba alla suddetta e decantata “tenacia” del nome di cui tanto avrebbe dovuto andar fiera.
 
Ben sentì il cuore pendere il volo all’udire il suono dell’ultima campanella dopo il trascorrere straziante delle ore conclusive. Fece la cartella in un batter d’occhi ed, infilato sveltamente il giubbotto, sciamò fuori dall’aula svincolandosi a fatica dalla marmaglia di studenti che con gran voga, si sparpagliavano per i corridoi dell’edificio scolastico colti dall’entusiasmo dell’ufficiale inizio delle vacanze.
Una volta varcati i cancelli scolastici, Ben portò lo sguardo al cielo con grandi occhi di speranza. Lo vide rischiarato e rasserenato rispetto il giorno precedente, notò anche che,con il passare delle ore, il clima s’era andato stabilizzando e l’aria non era più tanto fredda quanto la mattina stessa. Soddisfatto si diresse verso casa.
 
Gwen, dopo aver riordinato il disastro nato dal litigio della sera prima cavandosi di corpo le ultime forze, salì le scale esausta, diretta verso la propria camera da letto. Guardò l’orologio: rabbrividì nel notare che la scuola, stando all’orario, era finita da poco. Le vacanze erano ufficialmente iniziate. L’inquietudine della notifica la cosparse di una certa inusitata angoscia, che Gwen pregò svaporasse a breve. Presto Ben sarebbe stato lì. E Dio solo sapeva che sarebbe accaduto.
Giunta nella propria stanza, passò per caso accanto allo specchio, nel raggiungere il letto. Si fermò. Si avvicinò. Indugiando, mosse una mano verso la propria immagine riflessa; poggiò timorosa un dito in corrispondenza della proiezione del proprio petto e si accorse che quel maledetto squarcio era dannatamente evidente. Così come le macchie violacee che le tracciavano il collo.
Alzando gli occhi all’armadio, lo sguardo le si accese per un istante. E sospirò sollevata.
 
Ben ficcò le mani nelle tasche del giaccone, sperando almeno lì riposte stessero più al caldo. Nel farlo, gli tornò alla mente di possedere quel piccolo bottone trovato poco prima in cucina. Sbuffò portando nuovamente lo sguardo in alto al cielo. Non poteva ancora credere che in una sola giornata – quella addietro – fosse accaduto tutto quel gran trambusto con Gwen. Avevano litigato milioni di volte già in passato, ma Ben sentiva che per quanto riguardasse il giorno precedente non fosse lo stesso. Aveva provato qualcosa di diverso. Ma né in positivo né in negativo.
Cominciava a non sopportare più i suoi stessi discorsi. Come poteva evolvere in positivo l’odio? “Odiare è odiare” si disse infastidito. Arrivare a non distinguere più nemmeno i propri sentimenti lo mandava in bestia. Ed inoltre, non faceva che pensare a ciò. Costantemente. Emise un grugnito esasperato continuando – controvoglia – a mulinare.
Solitamente, o per lo meno durante la loro infanzia, i litigi tra Ben e Gwen nascevano da battute ciniche o antipatici dispetti che davano sfogo ad un trovar da dire indispettito che però sarebbe durato al massimo qualche ora. La situazione tra loro era andata peggiorando negli ultimi tempi, dopo il loro ingresso al Liceo – seppur fossero passati due anni – quando improvvisamente tra loro i rapporti s’erano spezzati. La cosa che più lo sorprendeva era che fossero nella medesima classe e a stento si parlassero. Ben non sapeva come, non sapeva perché. Tant’era.
Inoltre, per il ragazzo, il giorno precedente era stato un vero e sostanzioso sproprio di energie; ancor non si capacitava di come mai avesse tanto inveito contro la cugina anziché preferire una riappacificazione facile. Avrebbe potuto evitarsi battibecchi del genere e invece no, aveva continuato a bisticciare.
Camminando per la via principale di Bellwood , Ben si bloccò di scatto poco prima di giungere dinanzi casa propria.
Rimase dirimpetto alla struttura a riflettere. Avrebbe dovuto entrare e preparare un borsone da portare da Gwen per le tanto annunciate ferie “in compagnia”. Ma bastò un istante: un’idea che gli balenò inaspettatamente in capo lo fece proseguire il proprio cammino vero casa della cugina. Senza alcun borsone.
 
Dopo poco, Ben bussò alla porta della casa della cugina, ma non ricevette alcuna risposta. Immaginò Gwen dormisse sicché prese di tasca le chiavi che suo zio gli aveva lasciato e, infilatele nella toppa del portoncino in legno, si trovò all’interno.
Sfilò il cappotto appendendolo al portabiti vicino l’entrata e si trascinò dietro lo zaino evitando di fare rumore.
 
Gwen udì la porta principale aprirsi e venne assalita dal terrore. Poi però ricordò che altri non avrebbe potuto essere se non Ben ed infilò il capo nuovamente sotto il piumone, stingendo a sé il foulard nero che poco prima, scorto per miracolo, aveva avvolto attorno il collo al fine di nascondere i vari sfregi. Cominciò a domandarsi se suo cugino fosse salito. Le era tornato un lancinante mal di testa ma, per quanto lottasse strenuamente, non fu in grado di cancellare quel pensiero. Spaventata, provò a chiudere gli occhi dopo aver allungato la mano verso il comodino ove una scatola di antidolorifici padroneggiava.
 
Ben guardò l’orologio. Benedì il Natale e le Feste che quel giorno gli avevano assicurato un rientro anticipato rispetto al solito e sedette sul divano. Riusciva ad udir appena il ticchettare dell’orologio, nulla più. Calma piatta. Era indeciso sul se andare a controllare come stesse Gwen o se lasciarla in santa pace. Prese a girarsi i pollici, ciondolò il capo, lo raccolse tra le mani, fischiettò, si adagiò, prese a battere ritmicamente i piedi. Infastidito dalla propria stessa petulanza il ragazzo s’alzò in piedi di scatto dopo ben quasi sicuramente dieci minuti di travaglio etico. Con aria combattuta si decise a fare il primo passo verso la scalinata che portava al piano superiore. Ma si bloccò. Cominciò a non sopportarsi da solo e diede inizio ad un pietoso soliloquio:- che diamine stai facendo?! Io?! Niente! No, tu hai intenzione di salire, mio caro Ben. Non scherziamo! Mi prendi per un idiota?! Perché andare da Gwen? È una ragazza. Una ragazza che sa badare a sé stessa. Ma è malata! E allora?
Ben sgranò gli occhi respirando affannosamente. Che pena, commentò tra sé, che orrida pena.
Si era fatta l’una di pomeriggio e Ben aveva una gran fame. Timidamente diede un’occhiata all’interno della dispensa. Sfilò dal primo ripiano un pacchetto di patatine confezionate. Poi le ripose, quasi vergognandosi delle proprie azioni. Non gli piaceva scroccare, anzi, non gli era mai piaciuto. Stare in compagnia di Gwen per tutto quel tempo non era l’unica cosa che lo bloccava dinanzi quella proposta (che era più un obbligo) di permanenza. Sarebbe dovuto vivere sulle spalle di un’altra famiglia – parenti,certo – ma comunque a scrocco. Impensabile. Si sarebbe sentito troppo in colpa.
Si decise a salire.
 
Gwen sentì bussare alla porta e, spaventata, aprì gli occhi pur mantenendo il capo saldo sotto il piumone, rimanendosene sul fianco opposto alla porta della stanza. Finse di dormire mentre lottava contro il dolore pulsante che le attanagliava le tempie.
– Gwen…?
La ragazza non osò muovere un muscolo.
Ben sedette sul letto accanto a lei e sospirò rumorosamente.
– Hai fame?
Gwen non parlò.
Ben tacque per un istante. Poi continuò: –  non prendermi in giro. So benissimo che sei sveglia.
Gwen si arrese: –  ma ho un mal di testa linciante.
– Hai preso un’aspirina?
– Sì.
– Vuoi una pezza bagnata?
– No.
– Ho capito, la vuoi.
– Ho detto di no .
Ben cambiò discorso:– Devo parlarti. So che stai male, ma non appena ti rimetterai…gradirei scendessi.
Gwen rabbrividì; parlare di cosa…?
– Parlami ora.
– No. Ora me ne vado, se stai male è inutile. Speriamo che cali la febbre.
– Ben, non farmi preoccupare.
Il ragazzo sorrise debolmente:– non è nulla di grave. Riposa.
– Non voglio riposare, ora voglio sapere.
– Riposa. Dopo ti preparerò una tisana e ne parleremo.
Gwen non disse nulla. E Ben uscì dalla stanza.
 
Passarono all’incirca tre o quattro ore durante le quali Ben non fece che ciondolare, guardare la TV o passeggiare per la casa. Gwen riposava ancora.
Il ragazzo si alzò dirigendosi verso la cucina, affamato. A pranzo non aveva mangiato dopo essersi fatto mille problemi per quel benedetto pacchetto di patatine ed ora pativa come un cane.
Gli venne in mente di predisporre quanto gli fosse servito per preparare una bevanda calda alla cugina, quantomeno avrebbe perso qualche minuto. Di studiare non aveva la minima voglia, d’altro canto.
Aprì timidamente quella che ricordava essere la dispensa e ne estrasse una scatola di filtri per tisane.
– Che stai facendo?
Ben si voltò impaurito. Poi riconobbe il volto della cugina, che vide sedersi al tavolo sistemandosi al collo un ampio foulard nero.
– Stai meglio? – le chiese.
– Non ho più mal di testa, al massimo barcollo un po’ ma, oltre al mal di gola – si indicò il collo – mi sento leggermente meglio.
Ben sorrise osservandola.
– Che volevi dirmi?
Il ragazzo venne assalito dal pensiero che Gwen si fosse costretta a scendere pur di sapere, la cosa lo fece sentir talmente in colpa da mormorare: – torna a riposare, non sottovalutare la salute per curiosità.
Gwen lo guardò storto e lo ignorò. Dopo averlo visto parecchio incerto sulla collocazione delle stoviglie rimandò: – tazza in alto a destra, terza anta da sinistra; cucchiaino all’altezza del tuo bacino, nel cassetto centrale e pentolino accanto al frigo.
– Grazie, cugina – ribatté Ben cinicamente.
– Avanti, sputa il rospo – lo incitò lei.
Ben, iniziando la preparazione della tisana, le diede le spalle:– Non mi fermerò qui a dormire. Fino a quando sarai malata ti farò compagnia durante il giorno.
Gwen smise di respirare. Che aveva detto? Inaspettatamente, la giovane si sentì morire. Il perché non seppe. Non disse nulla.
– I tuoi genitori ti hanno detto che devi restare qui, Ben. Disubbidire sarebbe da bambini.
– Infatti.
La ragazza lo guardò inarcando un sopracciglio:– non capisco.
– Non potresti. Tu sei ancora in possesso del Mana. Io invece…
– Ben. Non dirmi che…
Il ragazzo, nonostante avesse già messo il pentolino colmo d’acqua a bollire, non si voltò.
– Sono…un bambino.
Gwen capì. Ben avrebbe ardentemente voluto riprovare le sensazioni d’adrenalina del passato, quando ancora l’Omnitrix gli si cingeva al polso. Ma Gwen si disse che, infondo, la disubbidienza non avrebbe che portato guai, ben altro che adrenalina.
– Cugino, è una scemenza.
– Gwen, non è affar tuo ciò che decido, semplicemente ti ho messa al corrente.
– Sbagli. È affar mio a tuttotondo, poiché in questa casa di te ho io la responsabilità. Trascinami nei tuoi casini e vedrai come ti rovino.
– Basterà che, in tal caso si scoprisse, mi addossi la colpa.
– Non sei un bambino: peggio.
– Pensi che non lo sappia?!
Il silenzio che venne a crearsi successivamente fece gelare il sangue nelle vene ad entrambi.
Al bollire dell’acqua, Ben lasciò scivolarne il filtro all’interno del pentolino. Non andava bene. Stavano litigando di nuovo.
– Ti scoccio, non è vero? – chiese Gwen abbassando il capo.
– Non è per te che lo faccio.
La ragazza deglutì.
– Lo faccio…per me.
Gwen riconobbe la propria teoria come comprovata. Ben pativa in modo incredibile la mancanza dell’Omnitrix, venendo spinto sino a quel segno a commettere azioni poco cogitate e sostanzialmente assurde.
– Lo avevo capito.
Versata la tisana su una tazza pulita estratta dalla dispensa, Ben la porse fumante a Gwen. Il ragazzo lasciò cadere nella pattumiera il filtro usato, soffermandosi per un solo istante, catturato alla vista di qualcosa accanto ad essa. Rifletté per un momento.
Ben assottigliò lo sguardo all’improvviso dopo aver posato il pentolino.
– Alzati, Gwen.
La ragazza, totalmente assorta nel proprio vortice di pensieri, venne bruscamente risvegliata, ed eseguì senza pensare. Una delle poche volte in vita sua che aveva spontaneamente agito senza prima meditare dovutamente sulle probabili conseguenze. Proprio come tra sé aveva appena rimproverato a Ben.
Ben si avvicinò osservandola intensamente mentre Gwen lo scrutava a sua volta;
Il cugino le afferrò inaspettatamente il foulard nero sfilandoglielo di dosso.
Gwen, spaventata, si ritrasse: – che vuoi fare?
Gli occhi di Ben andavano ingrandendosi e la sua bocca schiudendosi, mentre l’espressione del suo viso prendeva a farsi minacciosamente seria, seppur lievemente tracciata da una vena di preoccupazione attonita.
Gwen tremò. 
Ben lasciò scivolare a terra il foulard, e portò una mano allo schiudersi dei lembi del colletto della camicetta di Gwen.
La ragazza si sentì morire. Venne assalita dalle rimembranze dei torbidi discorsi della madre, da quelle parole sospettose e dallo sfondo maliziosamente fosco, ad ipotizzare qualcosa di indicibilmente perverso tra lei e Ben. Le balzò in capo la memoria del padre a rinfacciarle un ipotetico “scempio”, le parole di Ben a confidarle d’esser un comune ragazzo con relative induzioni al “peccato”. Gwen avvertì le membra rivoltarsi in una ribellione angosciosa. Le supposizioni che l’erano nate dentro, in parte favorite dalle confessioni di Ben presero piede, se ne comparvero i fotogrammi partoriti dalla sua immaginazione.
– No! – lo allontanò dunque scostandosi nuovamente.
Ben non accettò alcun genere di ribellione :– sta ferma, Gwen! Togli la camicia!
– No! Và via…! – lo supplicò la ragazza sull’orlo delle lacrime.
– Non farmi far da solo!
– Ti supplico, Ben…ti prego…! Che vuoi farmi?!
Ben prese dunque tra le mani il lembi della camicetta della cugina e, con uno strattone, la sbottonò interamente in un sol colpo, facendola in conclusione scivolare sino ai fianchi di Gwen.
La giovane si scostò per la vergogna: – non toccarmi…!
Ben portò un palmo al poco sopra il petto della ragazza, scostandole piano le mani.
Fece correre lentamente le dita lungo la sua pelle, percorrendo delicatamente quello che Gwen riconosceva essere l’orrendo taglio.
Solo allora la ragazza distinse le intenzioni del giovane.
– Che ti ha fatto…? – balbettò Ben con un filo di voce ed un’espressione sconvolta in volto.
Gwen, senza volerlo, prese a tremare. Era la fine. Ben avrebbe scoperto tutto l’accaduto. Anzi, l’aveva già fatto.
Le dita di Ben si fecero più insistenti, percorrendo più sveltamente la cute della ragazza salendo sino alle macchie violacee del collo.
– Che ti ha fatto?! – urlò allora prendendole le spalle.
– Chi dovrebbe…
– …avermi fatto cosa…– sussurrò Gwen abbassando lo sguardo senza osare portare gli occhi al cugino.
Cominciò a veder affiorare le scene della sera prima tanto fu che prese a mordersi il labbro per contenere il deterrente disagio che prese quasi a strozzarla.
– Non fingere di non sapere! – la scosse Ben.
– Cos’è questo taglio?!
Gwen chinò il capo. Portò una mano alla bocca lottando per contenere il pianto. Ben stava man mano diventando parte di quel disastro in cui la sua famiglia era incappata. Esattamente come Gwen non avrebbe mai voluto. Sarebbe crollata a pezzi la maschera che rendeva la famiglia di Frank quantomeno “parzialmente assestata”.
Giunti a quel segno, Gwen perse totalmente il dominio sulla mente.
– …non toccarmi…così – mormorò incapace di guardarlo.
– Se non mi fossi accorto di uno sfregio del genere me l’avresti taciuto per sempre!
Gwen non disse nulla senza riuscire ad alzare il capo. Poggiò il volto al petto di Ben, sfibrata ancora una volta. Pregando Dio che il ragazzo non avvertisse le burrascose pulsazioni del suo cuore si limitò ad abbandonarsi a lui.
– Non era così debole che mi ero ripromessa di essere…– sussurrò Gwen.
Ben non parlò. Solo strinse forte a sé il busto seminudo della ragazza, obbligandone il capo giacere nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla.
– Che ti ha fatto…– sussurrò.
– Che ti ha fatto…
 
Continua!
   
 
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