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Autore: Magna Zalia    31/08/2006    5 recensioni
Questa storia one-shot l'ho scritta presa dal raptus. Non garantisco che per tutti possa avere un senso, ma per me, in un modo o nell'altro, ce l'ha...! Buona lettura! Non credetemi una pazza...siatene certi! ;)
Genere: Malinconico, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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feel

Feel

Lasciala. Lasciala. Era questo che tutti gli avevano sempre ripetuto, fin dalla prima volta che l’avevano conosciuta. I suoi amici non si sbagliavano facilmente; i giudizi alle volte risultavano affrettati o dettati solo dalla passionalità del momento, da un forte emozione o da una sensazione “a pelle”, ma raramente quel genere di presentimenti falliva il bersaglio. Come al solito, avevano avuto ragione e lui si dava dello stupido per non essersene accorto prima. “Non ascolti mai la voce delle tue sensazioni! Sciocco! - Continuava a ripetersi - E perché poi? Era solo una delle tante storie che ho avuto, ne ho passate 1000 altre e mi sono lasciato fregare proprio da questa!” Queste parole continuavano a scorrergli nella mente, come un messaggio di training autogeno. Era forse autoconvincimento puro? O era la reale convinzione che lo spronava a formulare tali pensieri? Forse era proprio perché lei non era stata una storia come tante, che si ritrovava a pensare con il mento tra le mani ad una soluzione.

Si sentiva profondamente ferito nell’orgoglio, una delle cose di cui andava più fiero insieme alla sua proverbiale freddezza, il viso di pietra con cui si affacciava alla vita. O forse no? A questo punto della sua storia non era più tanto sicuro. Aveva passato talmente tanto tempo insieme a lei che qualsiasi cosa lui pensasse di sé stesso si rifletteva nello specchio incrinato del giudizio di lei. Ne era stufo. Lasciala. Avevano già capito tutto ancora prima che accadesse. Adesso capiva: il suo non era puro orgoglio come aveva creduto per tanto tempo, ero solamente una cieca fiducia in colei da cui alla fine era stato tradito. Fiducia e amore che non gli avevano fatto aprire gli occhi. Ma ora l’aveva fatto e non poteva negare a se stesso ciò che stava vedendo. Non più.

Si alzò dalla poltrona nella quale si era lasciato cadere in preda ai suoi cupi pensieri. “E’ ora che tu ti dia una mossa fratello, non puoi lasciare che una ragazza come tante ti faccia un tale lavaggio del cervello. I sensi di colpa non fanno bene a nessuno…” La voce di Keith gli risuonava nelle orecchie. Il suo migliore amico aveva ragione, basta cuocersi nei sensi di colpa. Non aveva motivo di provarne, non aveva alcuna colpa da espiare. Nessuna. Se non quella di aver permesso ad una ragazza, alla sua ragazza, di rovinargli l’esistenza.

Lavoravano insieme, la loro storia era nata negli uffici della Universal Comunication Association. Lei era una ragazza come altre: carina, intelligente, simpatica. Ma aveva qualcosa che lo intrigava. Non era diversa, ma c’era qualcosa in lei che spiccava al di sopra della massa…o al di sotto? Forse era proprio il suo nascondere bene il suo lato oscuro che lo aveva attirato per la prima volta. “Che la forza sia con me…!” Sogghignò tetro chiudendosi la porta di casa alle spalle.

Anche altri in ufficio si erano accorti di lei, ma lui era stato capace di sottrarla dalla braccia di uno dei più promettenti soci della ditta, per farla cadere nelle sue.

Ripensando come era iniziata non si sorprendeva di non essersi accorto prima del suo atteggiamento. Era troppo contento per la riuscita del suo piano, da non accorgersi di quello di lei. Non che l’avesse intenzionalmente programmato, questo non lo credeva, ma di certo se se n’era accorta, non l’aveva trovato un obbiettivo così malvagio da perseguire.

Lei l’aveva sfruttato. Sì, sfruttato. Per sentirsi migliore, per avere qualcuno da calpestare e farla franca. Aveva trovato una preda che credeva di essere un cacciatore, mai caso più fortuito.

Appena l’aveva presentata a Keith, Shane ed Ally loro avevano intuito subito qualcosa: “James, te lo dico da amico: questa tua nuova tipa non mi convince, non capisco cosa non va in lei, è solo una sensazione, ma non è delle migliori…” Era stato Keith il primo a parlargliene. All’inizio n’era rimasto risentito, poteva essere invidia la sua? E ne aveva parlato subito a lei: “Non ti preoccupare, sono solo gelosi perché pensano che ora li abbandonerai per stare con me. Sono invidiosi della tua felicità” Così si era chiuso l’argomento e non ne avevano più parlato. Ora però si rammaricava di non averci rimuginato più a lungo invece di lasciarsi abbindolare così da lei.

Negli auricolari poteva sentire una canzone vecchia di qualche anno: “…I just want to feel real love

In the home that I live in 'Cause I got too much life Running through my veins Going to waste. I don’t want to die But I ain’t keen on living either Before I fall in love I’m preparing to leave her. I scare myself to death, that’s why I keep on running, before I’ve arrived, I can see myself coming...*Alla radio la passavano spesso e per la prima volta comprese il senso delle parole buttate giù in velocità da un artista che forse non ci aveva neppure riflettuto scrivendole. Era il destino che lo invitava a farla finita con lei, doveva seguire l’istinto che finalmente, dopo anni, si era risvegliato in lui. Non poteva più ignorarne il richiamo.

Passeggiando nelle sonnacchiose vie della cittadina ripensava a tutti i momenti passati con lei: l’intimità, le confidenze, e tutte quelle volte che lei l’aveva aiutato. Gli era sempre sembrato ovvio doverla ringraziare per l’aiuto che gli aveva sempre dato, non si era mai sottratta quando lui aveva bisogno d’aiuto, questo merito glielo si poteva riconoscere. E lui aveva sempre fatto lo stesso per lei, o almeno ne era convinto. Si era dissanguato e spremuto le cervella per aiutarla nei suoi mille problemi: per farle trovare stima in se stessa, per convincerla del fatto che volere è potere, dicendole che nella volontà risiedevano tutte le possibilità di successo di una persona, cercando di farle capire che aveva qualcuno su cui contare, che lei era capace e speciale. Ma qualsiasi cosa facesse non era mai abbastanza. “E’ colpa mia allora – si era ritrovato a pensare più di una volta – Non le offro abbastanza aiuto; non sono l’uomo che può starle al fianco se non riesco a darle il sostegno di cui ha bisogno.” E così facendo non si accorgeva che era proprio quello che lei voleva fargli provare: un pesante senso di impotenza, incombente come una cappa sulle sue spalle robuste.

E ce l’aveva fatte alla fine, riducendolo a pensare di essere una completa nullità, un essere socialmente inutile. Il lavoro era l’unica cosa che procedeva a gonfie vele. Come è noto se le cose ti vanno male da una parte ti vanno bene da un’altra: “…guai mai non accadesse così - si disse - non sarei sopravvissuto, e nemmeno mi sarei accorto della spada di Damocle pendente sulla mia nuca”. Ma a lei non bastava, non gioiva per i successi di James, come dovrebbe avvenire all’interno di una coppia, si vittimizzava dicendo che era lei a non essere abbastanza brava, se non riusciva ad arrivare ai traguardi che lui tagliava. Si sollecitava a migliorare invece di rallegrarsi per i successi ottenuti da lui. Non che fosse un obbligo dargli soddisfazione o un difetto spronarsi per migliorare, ma non era normale se accadeva tutte le volte. Ad un certo punto, James aveva cominciato a sentirsi persino in colpa ad avere buon risultati e col tempo aveva imparato a non riferirglieli, per paura di renderla triste, di ferirla. Sentendosi solo uno sciocco presuntuoso a informarla delle sue mete.

Ma lei non era contenta. Aveva cominciato a colpevolizzarlo pesantemente ogni volta che scopriva un suo trionfo, sbattendogli in faccia quanto lei facesse per arrivare al suo livello e quanto poco invece ci riusciva, quasi fosse colpa sua. Quasi fosse lo stesso James a tarparle le ali.

“Ma ora basta” mormorò tra sé camminando per il parco. Era diventato buio. Aveva passato tutto il pomeriggio gironzolando da una parte all’altra dei suoi ricordi, tentando di trovare il bandolo della matassa, cercando di scoprire qualcosa che gli facesse capire di essersi sbagliato. Non riusciva a concepire l’idea che lei, dopo tutto ciò che aveva fatto per sostenerla, dopo aver rinunciato a prendersi i meriti che gli spettavano, dopo aver perso la sua dignità, dopo averla talmente amata da annientare se stesso per soccorrerla, non gli riconoscesse nessuno sforzo. Non solo. Osava dire che lui non aveva fatto niente che la potesse aiutare, che non le era venuto in soccorso e che non era cambiato per adattarsi alle sue esigenze. Questo non lo poteva tollerare.

Era già passata qualche settimana dalla sera del litigio, ma in lui la rabbia non riusciva a spegnersi. Covava come il magma in un vulcano, come una brace coperta dalle ceneri, pronta ad incendiarsi non appena una pagliuzza le fosse caduta accanto. Non accettava l’idea di aver perso tutto per nulla. Di essere stato preso in giro e tradito, di aver perso anni di vita per una serpe che ora tentava di rivoltargli contro tutto ciò che lui aveva fatto per lei, facendolo apparire come un insensibile ai suoi stessi occhi.

Imboccando la via del ritorno si domandò come avrebbe potuto farle capire cosa aveva perduto per lei, a che compromessi era arrivato per il suo amore.

Questa domanda divenne una costante dei suoi pensieri, un ritornello di cui non riusciva a trovare la fine, una storia di cui doveva reinventare il finale in modo che fosse lui il solo vincitore.

Arrivato a casa, con la testa ancora in preda al delirio a cui lei aveva dato il via, si convinse che la cosa migliore da fare in quel momento era rilassarsi e andare a dormire. Non aveva senso passare un’altra notte in bianco cercando una soluzione che non esisteva.

Entrò in casa e lasciando spente tutte le luci andò in camera da letto, cercò l’accendino al suo posto, sul comodino, e si accese una Davidoff per tranquillizzarsi…ce ne sarebbe voluta ben più di una a suo avviso, ma non voleva rovinarsi anche la salute, per colei che si era presa già troppo. Cercando di pensare ad altro, senza molto successo, si mise a letto, senza curarsi di cambiarsi gli abiti, e dopo un agitato dormiveglia cadde prigioniero di Orfeo che lo trascinò in un turbinio di immagini e sensazioni. Flash di vita vissuta, fantasie e sete di vendetta si rincorrevano nella sua mente, tangibili come coltellate. Si vedeva arrivare a casa di lei, bussare alla porta ed entrare non appena lei gli apriva, con la scusa di doverle parlare, di chiarirsi. Sente però la voglia di vendetta farsi sempre più soffocante.

Ricordi sconnessi di loro due, da soli in camera…come tante volte era successo.

Di nuovo lei sul letto, inerme stavolta,con lui che sovrastandola la pugnala ferocemente. Le fa pagare tutto ciò che gli ha fatto patire, così capirà per una volta quanto lui ha sofferto. Infierisce, insensibile alle urlate richieste di pietà. Insensibile all’agghiacciante sensazione delle ossa che s’infrangono come vetro, sotto i suoi spietati colpi. Insensibile al sangue che macchia le sue mani e offusca i suoi occhi.

Flash.

Si sveglia di soprassalto. Sembrava tutto così vero. Si era fatto prendere la mano dalla fantasia, dalla speranza di compiere impunito un gesto simile, di potersi liberare definitivamente dalla sensazione di sottomissione nella quale era già caduto da un pezzo. Sembrava così vero.

Nel dormiveglia si alzò dal letto ancora intontito dal sonno bruscamente interrotto. Si diresse a passi lenti verso il bagno, cercando di non svegliarsi troppo, per cercare in un sorso d’acqua la speranza di domare l’incendio che gli ardeva dentro.

Nel buio della stanza non fece caso all’acqua che scivolava nel lavandino. Eppure avrebbe dovuto, perché proprio quell’acqua si stava mano a mano tingendo di rosso…lavando dalle sue mani la consapevolezza del gesto che aveva appena commesso.



* “…vorrei solo sentire il vero amore riempire la casa in cui vivo, perché ho troppa vita che sta scorrendo nelle mie vene e che io sto sprecando. Non voglio morire e non voglio nemmeno continuare a vivere, prima di innamorarmi mi preparo a lasciarla. Sono spaventato a morte ed è questo il motivo per cui continuo a fuggire, prima ancora di giungere a destinazione, mi vedo arrivare…”

  
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