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Autore: Deliquium    20/01/2012    2 recensioni
Immaginate che il Fato decida, casualmente, di mescolare le carte in un modo diverso e immaginate quindi che sul tavolo da gioco, vengano messe giù altre carte. Alcune sono uguali a quelle che conosciamo, altre invece non sono mai state giocate prima d'ora. E immaginate, pertanto, che la storia così come la conosciamo, venga rinarrata nuovamente. E’ simile, ma allo stesso tempo diversa…
Le situazioni sono destinate a compiersi, ma non allo stesso modo…
Il filo del destino viene lentamente dipanato lungo l’asse del tempo verso, forse, un nuovo epilogo.
La storia è incompiuta. La nuova versione è in corso di pubblicazione con il titolo "Sincretismo"
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gemini Saga, Pegasus Seiya, Saori Kido, Scorpion Milo
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo

[ IX ]


25. I Solo non suscitano compassione.


Osservava il mare, e da esso si sentiva attratto.
Era sempre stato così. Fin dalla prima volta che suo padre lo portò su una delle navi della loro flotta.
Lui non conservava un vero e proprio ricordo. Erano sempre i suoi genitori che, ridendo, raccontavano di quella volta che per poco non era caduto in acqua, perché voleva tanto toccare uno di quei pesci che facevano capolino tra le onde.
«Vi stavo cercando, mio signore.»
Aveva sette anni più di lui, ma sembrava molto più vecchio. Non nell’aspetto, quanto, piuttosto negli atteggiamenti. Lo trattava con assoluto rispetto. Esaudendo ogni suo capriccio, facendo di tutto per compiacerlo, prendendosi cura di lui come una cosa preziosa.
«Che cosa c’è Baien?» domandò, senza distogliere gli occhi dal mare.
«Si tratta della festa di domani sera per il vostro compleanno… mi chiedo se Voi non preferireste annullarla…»
«Annullarla? E perché mai?»
Non l’avrebbe rimandata. Non avrebbe permesso agli altri di compatirlo. Avrebbe dimostrato di essere un Solo. Suo padre glielo diceva sempre. Il dolore non è parte di un uomo. Non mostrarti mai debole davanti ai tuoi sottoposti. Non permettere mai a nessuno di consolarti.
S’incamminò verso la villa. Baien lo seguiva silenziosamente. Non voleva guardarlo negli occhi. Non poteva. Se lo avesse fatto, avrebbe visto della compassione, e lui non poteva accettarlo.
“I Solo non suscitano compassione“ diceva sempre suo padre. A poche ore dalla notizia della morte dei suoi genitori, erano le parole del padre che continuavano ad affiorargli alla mente.
«Riguardo agli invitati …»
Julian era entrato nello studio e si era avvicinato alla scrivania di suo padre. Era tutto come lui l’aveva lasciato.
« … Francis Murray, Duca di Atholl ha rifiutato l’invito, pare che la moglie sia in procinto di partorire. Il sultano del Brunei ha accettato, così come Lord William Machenzie, Conte di Cromartie e Monsieur Mitterrand…»
Tutto era nello stesso identico ordine di sempre. Julian sentiva il forte desiderio di sconvolgere quell’ordine. Spazzare via tutto. Distruggere le cornici, sparpagliare le carte…
«… ah, sì certo. E ha accettato anche la signorina Athena Glaukopis.»
Athena. L’incantevole fanciulla greca che non era riuscito a dimenticare. Così sfuggevole e impossibile da avvicinare. Così eterea…
Aveva il nome di una dea guerriera; la più forte, la figlia di Zeus. Ma quanto poco assomigliava a una dea della guerra, la sua Athena…
Lasciò che quella notizia gli scivolasse oltre, depositandosi in un angolo a cui nessuno guarda mai. Congedò Baien e si sedette allo scrittoio. Fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi e quando li riaprì attese alcuni minuti fissando le fotografie che suo padre teneva accanto a sé. Lui da piccolo, mentre mostrava uno dei premi vinti con la gara di nuoto. Suo padre e suo nonno che posavano davanti a una delle loro navi. Sua madre che lo guardava sorridendo. Si alzò di scatto e andò alla finestra e lì restò per tanto tempo. A guardare il mare e a convincersi che loro non sarebbero più tornati.

26. Yours Ever

Percorreva quel corridoio. Era enorme. I pavimenti erano lucidi e i muri sembravano perdersi su, là in alto. Alzava la testa e non vedeva nulla. I suoi passi erano tonfi sordi che alteravano quel silenzio mortale.
Cominciò a camminare sempre più veloce, fino a quando non iniziò a correre. Correva e i corridoi sembravano non avere mai fine e non c’erano porte che lui potesse aprire, non c’erano finestre da cui poteva vedere il mondo.
”Fratello. Fratello mio, dove sei?”
Ma nulla gli rispose.
E i corridoi non avevano fine e il loro bianco diventò ancora più accecante, fino a quando lui non vide più nulla. Chiuse gli occhi perché faceva troppo male il bianco.
Si fermò perché sotto i suoi piedi non sentiva più la dura superficie dei pavimenti. Una brezza gli accarezzava la pelle e avvertiva come un calore sulle braccia e sul volto.
Aprì lentamente gli occhi.
Ora era in mezzo a un campo. Dell’edificio che aveva attraversato non c’era nessuna traccia. C’era solo quel campo, con le spighe riscaldate dal sole, che ondeggiavano sotto le carezze del vento.
Iniziò a camminare. Ovunque, vedeva solo spighe che ondeggiavano. Il cielo era azzurro. Sembrava carta da zucchero.
Poi, si fermò d’improvviso, quando sentì una risata. Si guardò attorno, ma non vide nulla.
Però la risata continuava. A tratti era vicina, pareva che fosse a un soffio dal suo orecchio, poi scivolava via espandendosi da lontano e di nuovo gli era accanto, poi esplodeva in ogni direzione…
«Chi sei? Perché stai ridendo?»
Il suo grido non ebbe risposta, ma la risata mutò di timbro. Diventò più alta e più urgente.
Cominciò a correre e a guardarsi attorno. Cercava. Non sapeva bene neppure lui cosa cercasse, ma cercava. E quella risata correva con lui. Gli era attorno in ogni dove. Lontana e poi vicina. Come il vento. Come l’onda che prima s’infrange e poi si ritira.
E sentiva le spighe pungergli i piedi nudi. E correva, correva… guardandosi attorno. Ma tutto era sempre uguale. Niente mutava. Né il cielo così azzurro. Né il campo. E più correva, più l’orizzonte s’allontanava. E più correva, più il mondo diventava grande. E c’era sempre quella risata che non lo lasciava mai… C’era sempre quella risata che lo faceva impazzire.
Si portò le mani alle orecchie, continuando a correre. Lacrime sgorgarono dai suoi verdi occhi e i capelli avevano il colore del grano. E il cielo… il cielo sembrava così pesante. Così bello e soffocante.
Cadde in ginocchio e poi si gettò a terra. Rimase lì, con il volto in mezzo alle spighe e le mani a coppa attorno alle orecchie. Respirava affannosamente. Voleva solo essere altrove. Girò la testa di lato, portando le braccia lungo i fianchi.
Nulla. Solo il rumore del vento. Aprì gli occhi. Vedeva solo spighe di grano e sentiva l’odore della terra. Sembrava vero. Ma non lo era.
Poi una mano, gli accarezzò la testa. Era una mano gentile, ma fredda. Alzò la testa per vedere chi fosse. E la vide.
Aveva gli occhi del colore della notte e i capelli come colate di petrolio. La pelle pareva fatta della luce della luna e il suo volto era il volto più bello che avesse mai visto.
Lei lo guardava con dolcezza. Le sue labbra gli parlavano, ma non c’erano suoni. Avrebbe voluto avvicinare la sua mano a quel volto. Toccarlo. Ma non riusciva a muoversi. Non poteva muoversi. Voleva essere lì, eppure… Eppure sentiva come se non dovesse affatto essere lì. Sentiva il proprio cosmo piangere ed anche se tutto ciò che stava vivendo non era reale, lui sentiva che c’era qualcosa di sbagliato.
Guardò altrove… distolse lo sguardo da quel volto di dea e…

Shun aprì di scatto gli occhi. Era madido di sudore. Sbatté le palpebre più volte.
Un altro giorno era arrivato.
Era da un po’ di tempo che continuava a fare sempre lo stesso sogno. Il medaglione che aveva con sé fin da quando è nato, era gelido a contatto con la pelle.
“Yours ever”.
Sempre.
Ikki non aveva mai voluto che lui lo tenesse. Anzi, una volta gliel’aveva addirittura buttato via. Gli ci erano voluti tre giorni per recuperarlo. Avrebbe potuto fingere che quel ciondolo non gli fosse mai appartenuto, ma non bastava.
Per qualche ragione, che ignorava, non poteva separarsi da esso.

Gli altri erano già in piedi e, nello scendere le scale, li trovò radunati all’ingresso.
«Hyoga non ha il carattere leale di un vero uomo giapponese … non lo sai? Lui è per metà giapponese e per metà russo …» sentì dire Jabu, con tono beffardo.
Shun riconobbe subito nei tratti adulti del ragazzo, il suo vecchio amico di infanzia. Tuttavia, lo sguardo dell’amico non era più lo stesso di allora. C’era un risvolto tagliente nei suoi occhi. L’eco di una terra lontana, divenuta sua patria negli ultimi anni.
Lo stesso gelo era nell’aria. Avrebbero dovuto festeggiare il ritorno di un amico, ma la tensione era tutta lì, visibile, rigida, inspiegabile.
«Beh… Hyoga. Bentornato!» Seiya ruppe il silenzio e di slancio abbracciò il ragazzo.
Hyoga non si mosse. Si lasciò abbracciare e annuì senza dire una parola. Shun nel frattempo gli si era avvicinato. Cercava il suo sguardo. Un segno che ricordasse i bei momenti andati. Ma Hyoga lo guardò con sufficienza, al pari degli altri.
«Kido dov’è? - chiese all’improvviso, guardandosi attorno.
«Che cosa vuoi dal Signor Kido? -
«Non è affar tuo, Hydra.
Alzò il braccio per parare il pugno che Ichi aveva provato a rifilargli.
Shun sentì che la temperatura stava scendendo.
«Fermati, Hyoga! - urlò Shun precipitandosi verso i due ragazzi.
Afferrò la mano di Hyoga, nel tentativo di liberare Ichi. Era così freddo. Sembrava che stesse infilando la mano in un blocco di ghiaccio. Perse sensibilità quasi subito, e a fatica riuscì a muovere le dita quando la lasciò andare.
Hyoga parve seccato da quell’intervento.
«Adesso ti ergi a difensore dei deboli. Un grande passo per chi è sempre corso tra le gambe del fratello.
«Adesso basta, Hyoga. Stai esagerando!
«Non importa, Seiya. Non … non fa niente.
Shun non voleva piangere. Non poteva piangere di nuovo. No, dopo esser stato all’isola di Andromeda e aver combattuto contro quelli che considerava suoi amici, Reda e Salzius. Non dopo aver sopportato il Rituale di Andromeda ed essere sopravvissuto.
«Non sono più il vigliacco di un tempo. - disse risoluto guardando Hyoga negli occhi.»
Il Saint sorrise. I loro sguardi si incrociarono, prima che Hyoga decidesse che doveva averne abbastanza di quella conversazione.
«Dove stai andando?» Gli urlò dietro Jabu. «Non abbiamo ancora finito.»
«Cosa altro avete da aggiungere? - rispose senza voltarsi. Poi, mentre afferrava la maniglia della porta, aggiunse: «O forse volete combattere e dimostrare una volta per tutti che razza di mammolette siete.»

27. Nightmares & Dreamscapes (1)

Alla morte non ci si fa mai l'abitudine. S'impara a non versare più lacrime, quando ci si rende conto che queste non resuscitano i morti e s'impara ad uccidere più rapidamente. S'impara ad andare avanti e a non guardarsi indietro. S'impara. Fine.
Ma non era proprio la morte a turbarlo. No, non era quello. Era più... come dire... ciò che quelle morti inutili e evitabili avevano risvegliato.
Perché non aveva ascoltato le silenziose parole del suo cosmo che lo avvertivano dell’errore?
Perché li aveva attaccati, trattandoli alla stregua di potenti nemici, quando non erano nient’altro che uomini vittime di chissà quale maleficio?
Non riusciva a darsi pace. S’inchinò accanto a uno di essi.
Sembrava un comune impiegato. Uno di quelli che incontri per strada alle otto del mattino, concentrato su sé stesso e sulle prossime ore in ufficio.
Aveva il completo in ordine, perfettamente stirato. Aiolia gli allentò la cravatta e gli aprì il colletto.
«Guarda qui, Camus. Che cosa ti sembra?»
I due fissavano il collo dell’uomo. C’erano delle macchie violacee che scendevano fino al centro del petto. Un reticolato di vene in superficie o di qualcosa di molto simile che convergeva verso una specie di sfera nera incastonata sopra il cuore.
«Che cos’è?» domandò Aiolia, mentre cercava di estrarla.
La sfera aveva una consistenza dura, ma riuscì a tenerla tra le dita solo per pochi attimi. Prima che si  sciogliesse in un liquido denso e nero. Si portò le dita al volto, ma non avevano nessuno odore.
«Che cosa ne pensi?»
«Non lo so. Ma di certo questa non è opera di un essere umano.»
Il volto di Camus s’incupì.
«Credi che Hades si sia risvegliato prima del tempo?»
«Non credo, Camus. Questa non è opera di Hades. Lui non agisce in questo modo. Ma mi chiedo come sia stato possibile… »
Si alzò in piedi.
«Ti meraviglia che i mostri delle leggende esistano davvero? In fondo anche di noi si parla come fossimo leggenda, eppure esistiamo realmente. Puoi forse negarlo?!» ribatté Camus, mentre si allontanava da quel luogo.
Aiolia restò ancora qualche istante e guardarsi attorno.
«Effettivamente mostri e Saints non sono dissimili.» disse, una volta affiancato il Saint di Aquarius.
«Parole aspre le tue. Qualcosa non va ... Aiolia?»
Camus si era fermato all’improvviso e lo fissava intensamente negli occhi.
«Affatto. I cavalieri, coperti di onori e carichi di orgoglio, in sostanza sono schiavi delle battaglie in difesa del popolo. Come potrei non esserne entusiasta?»
«Sei molto sarcastico.» fece l’altro, riprendendo a camminare. «Comunque, sono qui per riportarti al Santuario.»
«Che cosa vuoi dire?» domandò Aiolia.
«Nulla. Stai tranquillo. Athena e tuo fratello erano solo preoccupati per la tua assenza prolungata. Saresti dovuto tornare in Grecia giorni fa.»
Aiolia non disse nulla. Camus aveva ragione. Sarebbe dovuto tornare ad Athene appena terminata la missione alla centrale nucleare, ma per qualche ragione aveva tergiversato. C’erano troppi pensieri che lo costringevano a stare sveglio e a vagare per le strade come quella notte.
«In ogni caso, Aiolia. Questo non è un caso isolato.»
«Che cosa intendi dire, Camus?»
«Poco prima che partissi, ho ricevuto una missiva da Isaac.
«Il tuo allievo? Credevo fosse scomparso.»
Camus sospirò.
«Lo credevo anche io. Ma a quanto pare, in Isaac si è risvegliato il potere del Kraken.»
«Che ironia della sorte. Addestrarsi per diventare Saint di Athena e scoprirsi destinato alle fila di uno dei suoi più acerrimi nemici.»
«Spero di no. Sarebbe un problema affrontarlo, quando la Guerra Santa è alle porte.»
Poseidone, al momento, non rappresentava una minaccia e i suoi Marines si occupavano di ogni cosa in attesa che il suo risveglio fosse completato. Forse potevano sperare nel fatto che non si risvegliasse del tutto.
«Cosa c’era scritto in quella lettera?» domandò Aiolia.
«Mi ha parlato di un mostro. A quanto pare, lui e Dragone del Mare si sono recati a Kardamili, perché un mostro marino attaccava le imbarcazioni.»
«Lasciami indovinare. Il mostro in realtà era un essere umano?!»
Camus annuì.
«Era una ragazza. Finora non si sono verificati altri casi, ma credo che non dovremmo tardare molto prima che fatti simili si ripetano.»

Nda.
(1) Il titolo è un antologia di racconti di Stephen King pubblicata nel 1993.

   
 
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