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Autore: Remedios la Bella    22/01/2012    4 recensioni
Un ragazzo tedesco che tollera gli ebrei e trova misera la loro condizione. Max.
Una ragazza Ebrea dallo sguardo vuoto e dal passato e presente tormentati e angustiati. Deborah.
Due nomi, un'unica storia. 15674 è solo il numero sul braccio di lei, ma diverrà il simbolo di questa storia.
In un'epoca di odio, nasce l'amore.
E si spera che quest'amore rimanga intatto per lungo tempo, e sradichi i pregiudizi.
Enjoy!
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buona domenica a tutti :) come detto nel capitolo precedente, terrò l'impegno di pubblicare i capitoli ogni fine settimana. E anche se a fatica, spero di non tradirmi :)
Buona lettura!

Capitolo 39

 
Prima di allora, non avrei mai pensato che vivere sotto terra fosse agevole quanto vivere in superficie. Il cibo non mancava, l’aria c’era grazie alle tubature e anche l’acqua, quella necessaria a ogni giorno. E la compagnia era tra le più piacevoli.
Forse, il periodo in cui rimasi con la nuova famiglia, dopo l’attacco della notte a casa Mendel, fu tra i più tranquilli. La famiglia aveva per caso trovato quel rifugio, e ci aveva costruito sopra. E astutamente vi si era rifugiato appena constatato che la superficie era un campo aperto a pericoli e morte.
Una famiglia a sé stante, autosufficiente e tranquilla. Una tranquillità talmente contagiosa che mi fece dimenticare, sin dai primi giorni, tutti i pesi che avevo accumulato sul cuore sino al quel momento.
Naturalmente, il filo di tensione che mi teneva unita alle anime e ai destini di Elly e Max era ancora teso e rischiava, ogni giorno, di spezzarsi e di perdersi con un minimo soffio di vento. Ma non potendo fare altro che aspettare, dovevo solo pregare, pregare il mio Dio affinché li proteggesse, affinché anche loro ritrovassero un po’ di pace, finché non sarebbe giunto il momento di poterci riunire.
John e io avevamo fatto amicizia con Miriam, il piccolo Franz che adorava giocherellare trottando sulle ginocchia di John che non doveva più usufruire del vincolo delle gambe sulla sedia a rotelle, la dolce Anna e i tre membri maschi Joseph, Jim e Albert. Joseph, pacatissimo, mi raccontò ogni singolo istante della sua storia, e ogni volta io ascoltavo assorta e osservando la sua postura eretta che gli conferiva la fierezza degna della sua età. Jim e Albert avevano socializzato in fretta con John, e ora invece che due fratelli, pare che anche il tedesco si fosse unito alla combriccola di uomini di casa. La piccola Miriam adorava farsi spazzolare i capelli ogni sera, e io stavo a quel dolce gioco infantile e che farebbe sentire ogni donna una principessa, nel suo io interiore.
E io riuscii, per tutto quel periodo, a dormire serenamente la notte. A non essere in ansia per niente che non fosse guerra o distruzione. A alzarmi la mattina, e toccandomi le palpebre, constatare di non aver versato una lacrima nel sonno.
Nonostante tutto questo, la mancanza della mia compagnia, di quella che fino a quel momento mi era sempre stata accanto, si faceva sentire. Nelle profondità ma era sempre lì, vigile.
Elly era rimasta con me sino all’ultimo fino a quel fatidico giorno, e il suo distacco da me e da John, con cui ormai lei aveva condiviso parte del suo cuore, mi aveva creato un vuoto dentro, pari a quello della brutta separazione che dovetti accettare da Max.
La speranza che lui fosse sempre vivo mi accompagnava, tristemente. E non si affievoliva.
La voglia di poterli riabbracciare c’era, e come se c’era! Sapevo solo che volevo, anzi dovevo, aspettare. Anche dieci anni, ma non potevo fare altro.
Eppure, durante i primi giorni in cui rimasi laggiù, sentii nel cuore come un presentimento. Era un striscia sottile, ma visibile, di qualcosa che sarebbe accaduto  prima o poi. Non riuscivo a capire se buono o cattivo, ma talmente potente da farmi aprire gli occhi di notte, senza aver avuto nessun effettivo incubo. Come se il destino mi stesse dicendo che qualcosa  stava per dare una svolta al tutto.
E quel presentimento si evolse in un incontro, che io sperai con tutto il cuore. Il come però mi turbò più di quanto non fossi già preoccupata io stessa.
Accadde circa otto o nove giorni dopo che rimasi nel bunker, e tutto iniziò dal rumore metallico della botola che si apriva con notevole fragore.
Quella sera ero seduta nella sala principale. Tenevo la piccola Miriam sulla ginocchia, e lei giocherellava con il mio ciondolo, mentre Anna mi cambiava le fasce della ferita al braccio. Franz dormiva in braccio a suo padre Jim, Joseph e Albert conversavano. John era uscito poco prima in superficie, cosa che gli uomini facevano ogni sera, come guardie.
Di solito mi metteva ansia quell’atteggiamento, ma alla fin fine evitava che gli intrusi facessero irruzione come volevano.
Sentimmo il rumore della botola.
“ John deve aver finito …” pensai, poggiando Miriam a terra e incamminandomi verso il punto in cui cadeva la scala per la superficie. Miriam mi seguì, tenendosi alla gonna del mio abito azzurro.
Arrivai lì, e guardai in su: “ John!” chiamai a gran voce. Ma non sentii fiato.
Anzi, al posto di una risposta vocale, mi sentii tirare il braccio sinistro con violenza e una mano callosa premuta contro la mia bocca, nel tentativo di bloccare il mio urlo.
Miriam spalancò gli occhi vedendomi stizzita divincolarmi cercando di liberarmi dal mio presunto aggressore. Con la testa la intimai ad andare a chiamare gli altri, prima che una forza superiore alla mia mi trascinasse nel tunnel, mentre dondolavo appoggiata a un corpo di massa muscolare a dir poco potente. Mi ritrovai poco dopo in superficie, alla luce delle stelle e della luna. Una spinta mi costrinse a camminare avanti a me, e non osai chinare la testa all’indietro appena qualcosa di piccolo, rotondo e freddo mi punse la nuca.
Arma. Guardie. Scoperta. Avrei voluto bestemmiare, ma mi trattenni.
“ Dritta e non fare storie.” Mi intimò una voce fredda e austera. Deglutii e obbedii stranamente al comando di avanzare.
I miei piedi calpestavano la terra secca, mentre le sterpaglie seguivano il fruscio dei miei passi e gli occhi cercavano John, un suo cenno, qualcosa che mi indicasse dove si fosse cacciato.
L’uomo mi condusse in un furgone delle SS, dalle gomme sporche di fango e e tutto sporco di polvere e luridume. Sicuramente non lo pulivano da giorni. Aprì lo sportello di dietro e mi ficco dentro con forza, per poi chiudere la porta dietro di me, senza fiatare. Sbattei violentemente le ginocchia sul pavimento del retro e alzai la testa per vedere se fossi in compagnia o sola, anche se il pensiero di essere stata catturata non allettava tantissimo. Comunque, non ero sola. Anzi … potevo considerare le mie speranze di ritrovare i miei amici compiuta per metà.
La giovane Elly, o sembrava lei dall’aspetto, mi fissava, con un’espressione vuota e mista tra lo stupore e lo spavento.
Non fiatai, consapevole della sorpresa della ragazza, ma mi misi a sedere per bene, e lei alzò la testa ancora di più, togliendosi dalla posizione accovacciata sul sedile di prima e poggiando i piedi per terra.
La finestrella che collegava il retro al posto del guidatore si aprì, facendo intravedere gli occhi di chi mi aveva aggredito poco prima:” Fai come sai.” Disse, per poi chiudere il tutto velocemente.
Io mi voltai verso Elly, che non parlò né emise parola alcuna per un bel po’, continuando a fissarmi.
Era come un gioco di sguardi, chi cedeva per prima perdeva .  Ma quel gioco stava diventando sempre più opprimente. Più per me che per lei, forse.
 
Non potevo crederci. Le parole mi si erano bloccate in gola, coscienti che se fossero uscite, il danno sarebbe stato irreparabile.
Deborah era davanti a me,, la potevo riconoscere nonostante l’abbigliamento diverso. I suoi inconfondibili occhi neri e profondi, ereditati dal padre tanto buono con me. E i suoi capelli color ebano, che riflettevano le stelle nelle loro ciocche. La mia coraggiosa e bellissima amica, davanti ai miei occhi, sicuramente più confusa della sottoscritta.
Se avessi spicciato parola e avessi detto la verità, la gioia che provavo mista alla tensione avrebbe lasciato posto al rancore, al tradimento e alla frustrazione, e inoltre dovermi solo immaginare il possibile sguardo vendicativo di Deborah mi faceva tremare.
” Fai come sai.” Le solite tre parole che mi dicevano prima di ogni interrogatorio. Era incredibile il  fiuto di quelle guardie nel trovare posti dove ci fossero fanciulle brune e ebree, peggio dei cani poliziotto.
Sapevo cosa dovevo fare. Una domanda, qualche scuotimento di capo, e se la fortuna voleva, dovevo pronunciare quella frase :” non è lei.”
Ma stavolta … come avrei potuto fare per poterla salvare? Di certo, quello si era accorto di qualche mia reazione involontaria nell’aver visto Deborah. Doveva essersi accorto del mio, anche se debole, sussulto.
Se avessi mentito, sarebbe stata portata via, destino di ogni ebreo. Se avessi detto la verità … sarebbe morta. Di questo ne ero sicura.
E io? Avrei ricevuto chissà quale onorificenza, chissà cosa per aver tradito la sua fiducia. Inaccettabile.
Lottavo con il mio io interiore per farmi dire quel diavolo di risposta esatta che avrei dovuto pronunciare per assicurare qualcosa in più a lei.
Bugia: Io viva e ancora in cerca di qualcosa di già trovato, lei forse morta.
Verità: Io viva di sicuro, lei morta per certo.
E questo mi diede ragione, solo dopo un gioco di sguardi infinito, che la menzogna era l’unica via di vera salvezza.
Dopo forse dieci minuti di sguardi sostenuti, aprii le labbra in un soffio:” Non è lei.”
Lei mi guardò esterrefatta, sbarrando gli occhi sorpresi. Le ricambiai lo sguardo, con un misto di incitazione e scappare adesso, o mai più.
Invece, successe l’inaspettato. Lei, non seppi mai come, capì. Capì la situazione, capì tutto anche nel più profondo silenzio. Sentì le mie urla disperate anche nel totale buio di suono di quel furgone.
Appena la finestrella del furgone si aprì, lei si alzò in piedi:” Sono io 15674.”
Persi un battito.
 
Non potei fare finta di niente. Come sempre, capii tutto della tattica di Elly, e mi avvidi che il suo altruismo per me era sin troppo eccessivo.
Sapeva benissimo che ero io, la sua Deborah. Eppure, aveva fatto finta di niente.
Per me, per evitare che venissi catturata. Anche se,dopotutto sarei stata catturata lo stesso, in fondo.
Raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo:” Sono io 15674.”
L’odiato numero pronunciato con decisione. Gli occhi dalla finestrella di prima ridursi a fessure. Quelli di Elly spalancarsi e perdersi nel bianco delle orbite allucinate. Il baluginio di una lacrima scappata.
Il mio cuore iniziò a battere forte, mentre vidi la finestrella chiudersi, e Elly alzarsi all’improvviso:” Cosa …”
“ Non pensare a me.” Le dissi, dolcemente. L’unica cosa che fece fu accasciarsi alle mie ginocchia, in preda ai singhiozzi. Mi afferrò le caviglie:” Ritira quella stupidaggine … non farlo!”
“ Elly …” sussurrai, chinandomi su di lei e accarezzandogli la spalla. Mi commuovevo davanti alla sua debolezza di spirito, di fronte alla sua voglia di giustizia e al suo altruismo.
Sentii il cigolio dello sportello, e mi voltai per vedere in faccia il mio destino.
Il nome di quel destino? Mark. Anzi, Mark e John.
Strano a dirsi, l’ultima persona che mi sarei aspettata di incontrare, ossia l’autista che ci aveva aiutato la notte dell’evasione dal capo, fece capolino, nel suo aspetto da brav’uomo:” Sera, fanciulle.” Disse, con tono pacato.
   
 
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