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Autore: baka_the_genius_mind    22/01/2012    4 recensioni
"Il tuo volto si dipinge dell'amara inquietudine di un padre ossessionato dal lutto e dalla vana pretesa di voler proteggere più di quanto possa, il cui unico scopo è tentare di tenere unita una famiglia in cui la morte aleggia come la nebbia nel sottobosco. Chiudi gli occhi su quelli grandi e tristi della bella Kyoto."
[Nihon][1945]
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, America/Alfred F. Jones, Giappone/Kiku Honda
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Titolo: Bury me in honor - First Act

Fandom: Axis Power Hetalia

Rating: Arancione

Avvertenze: Dark!Hetalia, War, Blood

Colonna sonora: Gackt - Saikai~Story // The Beatles – Strawberry Fields Forever // Coldplay - Violet Hill


Per Aelite, che mi ha chiesto "kudasai.



First Act.

Hiroshima and Nagasaki.


Il primo suono che riesce a superare il fragore sono le grida.

Migliaia di grida agghiaccianti che rigano l'atmosfera, incidono l'aria densa e bollente.

Grida gelide di orrore che ti pugnalano le tempie.

Non hai ancora avuto il coraggio di guardarti allo specchio. Ma siccome sei un po' disonesto con te stesso continui a ripeterti che a mancare non è il coraggio, ma la forza di reggerti in piedi.

Non hai perso tempo a chiederti perchè. Non hai voluto farlo.

Sapevi che se solo avessi permesso che il ricordo di quell'odore disgustoso di carne carbonizzata di insinuarsi nella tua mente saresti impazzito e con te la tua gente.

Devi restare calmo.

Devi restare calmo.

Vorresti dire che la seconda volta eri preparato, ma la verità è che è stata, se possibile, anche peggiore.

La prima ha lasciato dietro di sé una scia di incredula confusione; la tua gente guardava a quel nero oblio come si guarda ad un mostro sconosciuto, terrificante ma così estraneo da lasciare in bocca un retrogusto di irrealtà. La seconda volta ha stracciato il velo impalpabile di stupore, ha strappato uomini, donne, vecchi e bambini al limbo che li aveva avvolti come il fumo nero che si è levato dalle macerie di Hiroshima, l'ha gettata in mezzo alle fiamme e all'inferno di Nagasaki.

Te ne vergogni profondamente e non lo ammetteresti nemmeno a te stesso, ma c'è stato un momento, un momento solo in cui la tua morale, il tuo coraggio, la tua forza ti hanno abbondato, schiacciate da un solo pensiero, penetrante quanto effimero. È una macchia sul tuo onore, ma quello oramai è così nero che speri che nessuno mai la noti.

Hai desiderato di morire assieme alle tue vittime, di cedere, di cadere, di arrenderti. Di lasciare che le fiamme inghiottissero i tuoi respiri, il tuo sangue, la tua anima. È stato nel momento in cui sei riuscito a metterti a carponi e con una mano premuta sull'addome ustionato e lacerato hai visto brandelli di pelle sciolta incollati al pavimento.

Voglio morire.

Fuori dalla tua abitazione ci sono due soldati americani.

Li senti parlottare fitto fitto in quella lingua insidiosa che non ti è mai riuscito di imparare; ridono sguaiatamente, fischiano in direzione delle poche geisha rimaste a palazzo, strillando, spintonandosi, riempiendo i silenzi quieti e sacri di quei luoghi con la loro rozza esuberanza. La tua educazione ti impedisce di sbatterli fuori da casa tua, le tue condizioni di sguainare la katana e puntargliela alla gola, ma ciò non ti impedisce di covare un disgusto per ogni cosa che toccano con quelle mani lorde di sangue.

Hanno profanato i templi, ucciso i tuoi valorosi soldati, depredato le tue terre fertili, violentato la tua terra, le tue città, sottili e fragili come le ali di una farfalla, e le tue donne.

Continui a ripeterti che sei una nazione diplomatica, controllata, riflessiva, anche se il tuo unico desiderio è vendicare Hiroshima e Nagasaki, riscattare la dignità perduta delle migliaia di persone che hanno reso orfane, vedove, sole e disperate, far loro del male, non troppo, il giusto, fare assaggiare sulla sua pelle cosa significa vedere due figlie venir inghiottite dal fuoco sotto ai loro occhi.

Quando stringi nella mano sana il manico della katana, l'infermiera che ti assiste finge di non vedere. Sai già che quella notte, quando tu fingerai di dormire, varcherà in punta di piedi la tua stanza e scioglierà piano la morsa delle tue dita, passerà una leggera carezza sulle nocche sbiancate e allontanerà la katana dal tuo futon.

«Nihon-sama, gli Alleati sono qui.»

Le prime parole che ti giungono alle orecchie scevre da rimasugli di febbri cocenti e di deliri ti gettano addosso un cappuccio e lo stringono crudeli alla tua gola e lo riempiono di terrore che ti fluisce negli occhi, scivola sulla pelle come milioni di vermi bianchi e ingordi della tua carne.

Da quando l'hai fatto la prima volta non trascorre giorno che tu non passi davanti ad uno specchio.

Hai passato ore e ore a fissare quegli occhi vuoti, diviso fra la voglia di piangere e quella di gridare; hai sempre frenato entrambi gli istinti, conscio che in un momento del genere un tuo comportamento può fare la differenza fra una rinascita e l'inabissamento.

La tua gente ti guarda con un misto fra timore, imbarazzo e fedeltà; non hanno forza abbastanza per guardarti con compassione. Tutti stanno lavorando affinché l'odiosa e umile abitudine -che tu per primo hai adottato- di abbassare gli occhi di fronte agli americani si tramuti in uno sguardo dignitoso, fiero. Il tuo compito è resistere ad oltranza, stringere i denti e ingoiare tutto, spegnere e reprimere tutti gli istinti.

Resisti, Nihon.

Il primo ad avere qualche reazione è Russia. Inclina leggermente il testone e ti sorride, facendoti ciaociao con la mano. Ha il sangue nella storia, lui, e la follia negli occhi. L'hai sempre considerato un principe sanguinario, un demone dagli occhi infantili, ma in quel momento, intimamente lo ringrazi; non avresti sopportato quel silenzio un istante di più. Il silenzio -anche quello dolce e avvolgente dei templi- ora ti ricorda fin troppo il momento in cui è stato rotto da un fischio lungo, da bestia agonizzante, prima che la seconda bomba radesse al suolo Nagasaki.

Ricambi il suo saluto con un lieve inchino, che si strozza a metà quando senti la ferita sull'addome gridare dal dolore; ingoi anche quello, assieme alla rabbia, alla polvere, alle macerie, alla morte, alle preghiere. Hai inghiottito tutto per nasconderlo, per cullare il tuo popolo amato, per cercare di lenire il loro strazio e carezzare piano ciò che è rimasto della loro vita. La verità è che, nonostante tu abbia ingoiato tutto quanto, la tua gente continua a piangere, ad ammalarsi e a morire e che senti sempre più vicino il momento in cui il tuo stomaco si rifiuterà di contenere altra morte e vomiterai tutto ciò che hai ingoiato.

Non lo dici a nessuno e cerchi anche di pensarci il meno possibile -non si può, Nihon, non si fa, non devi, stai attento-, ma nel tuo intimo speri ardentemente che quando arriverà quel momento potrai vomitare tutto quel male sulle città americane.

Germania è inginocchiato a terra, i polsi legati, il capo chino. Fremi solo al pensiero di quella solida aura di orgoglio e sicurezza incatenata ed umiliata a quella maniera. Un brivido ti percorre la schiena, assieme allo strano desiderio di avvicinarglisi, permettersi quel contatto fisico mancato che ha aleggiato sul vostro rapporto per quasi sei anni e toccargli una spalla, mentirgli, confortarlo. Magari soffrire accanto a lui, schiena contro schiena.

Va tutto bene, Doitsu.

Lo fissi solo per qualche istante, giusto il tempo perchè il tuo sguardo di solidarietà non si trasformi in compassione -non puoi permetterti di provarla per nessuno all'infuori di te stesso, Nihon, attento- e gli pesi sulla nuca.

Inghilterra, l'enorme Impero, l'algida e perfida Albione, ha lo stesso sguardo sperduto di un cucciolo. Ha lo sguardo di un padre incapace di fermare il proprio figlio e nello stesso tempo incapace di giustificarlo; continua a fissare la sua schiena ampia, poi te, uno sguardo triste, confuso, lo sguardo di chi non vuole far altro che rinchiudersi nella sua isola per piangere, poi Russia, poi per dare al suo cervello qualcosa da fare si sistema fra le mani la catena di Germania, o ne stringe una attorno al gomito magrissimo di Italia -che ad ogni modo non sembra essere per nulla intenzionato a muovere anche solo mezzo muscolo-, poi guarda di nuovo Russia che continua a sorriderti, poi di nuovo te. Poi riprende a fissare la sua schiena.

Nel momento stesso in cui America apre bocca, sguaini la katana lentamente stendendo il braccio sopra la tua testa. Un leggerissimo stridore, che arriva come la musica altezzosa di uno shamisen al tuo orecchio, riga l'aria, mentre trattieni a forza un ringhio di dolore; senti la ferita all'addome riaprirsi e il sangue caldo che incolla il tuo yukata da un leggero e momentaneo sollievo ai brividi che ti scuotono il corpo.

Non sentì le parole che ti vorticano attorno, non senti alcun rumore, alcun grido, alcuna minaccia. Sai solo che chiunque incroci il tuo cammino in quel momento cadrà. Niente fermerà il tuo cammino, niente, né la totale cecità dell'occhio sinistro, né il bastone di ciliegio che ti impedisce di crollare a terra ad ogni passo, né una pistola puntata alla fronte, né gli occhi azzurri e gelidi del tuo assassino.

Non ti fermi finchè la punta della tua katana trova il suo posto nel mondo, incollata alla gola di quel soldato americano che ha fatto la sua ultima bravata puntando la donna sbagliata.

Quando lo vedi sgranare gli occhi tutto attorno a te riprende senso. Gli Alleati ti puntano addosso un arsenale di armi da fuoco non indifferente -perfino Francia ha abbandonato l'aria dimessa e a disagio della Nazione che ha riacquistato da poco possesso dei suoi territori per afferrare una piccola rivoltella, gli occhi improvvisamente svegli e diffidenti-, e anche se sei di spalle avverti un pizzicore dal preoccupato sapore italiano sulla nuca.

«Getta la spada.»

Sono le prime parole che ti rivolge. Gli lanci un'occhiata distratta, mentre un ghigno che non ti appartiene ti piega le labbra, un ghigno allungato da un rivolo di sangue che traccia una linea perpendicolare e sottilissima sulla tua mascella. Sei quasi tentato di cambiare bersaglio, di liberare dall'aguzza minaccia della tua katana quel pover'uomo la cui unica colpa è stata la mancanza di buon senso e di spostarla su chi ha gli occhi e l'onore macchiato di ogni colpa e di distruggere, annientare, corrodere.

«Nihon-sama...» un sussurro ti ricorda improvvisamente perchè stai puntando un arma che rappresenta allo stesso tempo un inutile e fragile pezzo di metallo e la forza del tuo popolo contro un comunissimo soldato, ti ricorda perchè i vincitori della Grande Guerra puntino le loro pistole contro una Nazione che ormai non ha più neanche la forza di proteggere la propria mente dagli incubi.

Ti ricorda perchè, fra tutte, non puoi permetterti di perdere proprio lei.

Rivolgi la tua attenzione all'uomo che ti sta di fronte.

«Lasciala, subito

«Gettala, Japan!»

Una minuscola stilla di sangue macchia la tua katana nell'istante stesso in cui America ti pianta la canna della sua pistola nella carne viva dell'ustione di Nagasaki. Preme sul nervo oculare, il tuo cervello si rattrappisce nel cranio dal dolore, la tua mano trema impercettibilmente, la lama bianca freme.

Appena ha le mani libere si ricompone in fretta, la piccola e fragile Kyoto, leggera ed impalpabile come un sogno, altrettanto fugace ed eterea. Si risistema il kimono con le dita tremanti, guardandoti con gli occhi che brillano di terrore e riconoscenza.

«Nihon-sama...» è il tocco leggero e materno di una geisha quello che ti sfiore delicatamente la spalla.

La tua Kyoto. Il tuo fiore fermo per l'eternità allo stadio di bocciolo, morbido e tenero, allo stesso tempo immacolata e violata, vergine e prostituta, fiore e spina.

È il pensiero crudele ed egoista di un padre innamorato della propria figlia più bella quello che ti accarezza il cervello, lo sai e te ne vergogni, ma quando vedi Edo -non hai mai rinunciato a quel nomignolo-, lo sguardo colmo della solidità di una roccia, ti rendi conto di non essere l'unico vassallo dedito alla protezione della signora più minuta, esile e sorridente del palazzo.

Tokyo scivola fluidamente fra il soldato e la sorella, un sorriso maturo e accattivante sulle labbra, lo sguardo saggio e pericoloso di una donna che ha vissuto molto e in condizioni ben peggiori di quelle in cui versa ora.

America abbassa la pistola mentre tu rabbrividisci dal disgusto -per lui o per te? Chi ti disgusta di più, Nihon?- e lei ti lancia un'ultima, enigmatica occhiata, allontanandosi assieme a quel soldato, ignaro del rischio appena corso e già affascinato a morte dalla figura saggia della maggiore fra le tue figlie.

Lo sai tu e lo sa lei e lo ribadisce con quegli occhi taglienti ed orgogliosi.

Riempiranno le sue vie come termiti in un formicaio, deprederanno ogni negozio, uccideranno, imprigioneranno, violeranno, stupreranno.

Ma la bella e algida Tokyo non verrà conquistata. Mai.

Il tuo volto si dipinge dell'amara inquietudine di un padre ossessionato dal lutto e dalla vana pretesa di voler proteggere più di quanto possa, il cui unico scopo è tentare di tenere unita una famiglia in cui la morte aleggia come la nebbia nel sottobosco. Chiudi gli occhi su quelli grandi e tristi della bella Kyoto.

Resisti Nihon. Resisti.

Passerà prima o poi. Resisti.

Non lo ammetteresti mai, ma la verità è che America ti terrorizza.

Hai paura.

Una paura sottile, penetrante, che ti striscia sulla pelle lasciando solchi gelidi sulle tue braccia, sulle gambe, sul collo, sulla schiena, che si avviluppano fino ad incatenarti il cervello.

La sola cosa che puoi fare, a quel punto, è prendere un sorso di tè, compiacendoti, se non altro, che le tue mani non tremino. Certo, hai ancora le orecchie colme di quei due fischi, del fragore, delle urla, delle preghiere e ti fa male lo stomaco, un male assurdo e contratto, e la nausea è tale e così dolorosa che ti fa male perfino tenere l'occhio aperto. Ma non tremi, non indietreggi, non ti inginocchi, non abbassi lo sguardo.

Vorresti solo che lui se ne vada, che ritiri le truppe, così che tu possa chiuderti in quell'isolamento che ti ha cullato fino a quando lo stesso America ti ha costretto ad interromperlo, vorresti solo chiuderti in casa e finalmente vomitare tutta la rabbia, le macerie, i morti, il sangue, la carne marcita che hai ingoiato.

«Lo sapevi che sarebbe successo.»

Un altro sorso di tè.

Resisti Nihon.

Non tremare, non piangere, non avere paura. Ingoia ingoia ingoia.

«Pensavi davvero che non avrei reagito?»

Quando il tono da te l'avevo detto non funziona, America tenta con quello sarcastico.

Un altro sorso di tè.

Temi il momento in cui il tè finirà e tu sarai costretto a cercare qualcos'altro su cui concentrare la tua attenzione, temi che lui ti costringerà a guardare quegli occhi azzurri che popolano i tuoi incubi.

Sobbalzi quando sbatte entrambe le mani sul tavolino. La tazza di tè che gli hai gentilmente offerto e che lui non ha neanche trovato si rovescia, allungandosi in una macchia sul tatami. Come il sangue che le tue figlie hanno versato su tutto il Giappone, facendolo affogare in quell'atmosfera di gelido e paralizzante terrore che aleggia sui sopravvissuti come un fantasma.

«Rispondimi!»

Ti afferra il volto con una mano, è così grande che riesce a contenerlo tutto.

Ignori il dolore e balzi in piedi.

Dov'è? Dov'è la katana? Dov'è?

Quando intuisce l'oggetto della tua folle e frenetica ricerca, America diventa se possibile ancora più furioso; ti afferra il braccio ustionato, stringendolo fino a sentire la carne bruciata cedere sotto alle dita.

Gridi, ma sai che nessuno ti aiuterà. Non Italia, che a stento possiede la forza di reggersi in piedi assieme al fratello, né Germania, chiuso nell'umiliazione della sottomissione e nel lutto della divisione.

«Smettila. Smettila di combattere, Japan. È finita, arrenditi. Smettile di combattere!»

Gridi quando lui afferra il tuo fianco come se lo volesse strappare dalle ossa, gridi quando ti spinge contro il muro, gridi quando l'ustione viva del tuo viso sfrega contro l'intonaco, dipingendo un'orribile scia di sangue e carne sulla parete.

Il tuo grido si strozza solo quando lui ti tira i capelli, e abbaia nel tuo orecchio delle parole che fanno molto, molto più paura dei suoi occhi e del dolore che potrebbe infliggerti.

«L'obiettivo primario era lei, lo sai?»

Smetti di respirare.

«Fai in modo che non senta la necessita di programmare una terza spedizione, Japan.»

Il tuo cervello si svuota ancora prima che l'immagine di Kyoto in fiamme raggiunga i tuoi pensieri.

Crolli a terra senza un rumore; lui non oppone resistenza alla tua caduta, ma trattiene un polso, piegandolo poi dietro alla tua schiena; la canna della pistola contro la nuca è il colpo di grazia, il sigillo che attesta la tua totale resa, che nemmeno i trattati di pace successivi al massacro aveva sancito definitivamente.

«È finita, Japan.»

Non hai il coraggio di guardare chi è appena entrato sbattendo la porta, ma appena ne riconosci la voce tremi, e la paura si impossessa dei tuoi occhi e delle tue ossa.

«Nihon-sama!»

Tokyo grida indignata, sguainando il wakizashi contro il nemico.

Fai appena in tempo a mormorare il suo nome, preda dell'ennesimo conato di nausea.

Vuoi solo che tutto sparisca, che tu e la tua isola veniate inghiottite da una bolle di pace, non chiedi molto, chiedi una settimana di stasi, una sola, misera e patetica occasione di alzarti in piedi, ad occhi bassi, a capo chino, ma in piedi finalmente, come si conviene al tuo nome e non inginocchiato davanti agli sguardi vittoriosi degli Alleati.

America richiude con delicatezza la porta dietro di sé.

Quando Edo ti chiede come stai, sorridi.

«Finalmente.» mormori.

Il tuo occhio cieco piange lacrime bollenti di sangue.

Finalmente.

~

«Mi sembra vada un po' meglio, no?»

Italia ha le guance un po' scavate, ma l'aria affamata non incide minimamente sul suo buon umore.

Annuisci piano, il volto impassibile.

L'ustione sul viso comincia pian piano a rimarginarsi. La carne viva comincia a cicatrizzarci e l'occhio sinistro da incoraggianti segni di miglioramento. La tua gente continua a morire e ci sono giorni in cui la nausea del tuo stomaco saturo si arrampica fino in gola. Ma va un po' meglio.

Quando l'hai visto sulla soglia di casa tua, l'amaro sapore della nostalgia ti ha avvolto il palato.

Ricordi non esattamente piacevoli ti legano a quell'alleanza, ma stai cercando in ogni modo di sostituirli con quelli caldi, assolati e dolci che quel sorriso tremendamente italiano ti ha lasciato. Ricordi di mare e di cieli limpidi e puliti, ricordi di clima caldo e materno e di risate.

«Doitsu...» mormora e quel nome rimane nell'aria a vegliare come un angelo caduto su coloro che guardavano a lui come alla guida, al comandante, al fratello maggiore.

Italia cerca le parole, ma quelle gli sfuggono dispettose. Alla fine la richiude, inclina il volto e ti sorride con mestizia.

«Lui è triste. E un po' solo. Ho provato ad andare a trovarlo, ma Francia mi ha detto che è meglio di no.»

Annuisci una seconda volta.

«È brutto perchè è separato da suo fratello. È triste.»

La figura più vicina al concetto di famiglia che hai mai avuto è stata Cina, ma i rapporti fra di voi si sono decisamente inaspriti dopo la guerra in Manciuria. Non comprendi quel dolore, ti è totalmente estraneo come a suo tempo ti è stata estranea la palpabile intimità che attorniava i due tedeschi o il rapporto altalenante ma solido che teneva unito lo stivale italiano.

Il tocco leggero di Italia ti costringe a ripiombare nella realtà dei suoi occhi giganteschi e sorridenti. Ti sta sfiorando la parte del viso ustionata, la crosta spessa e ruvida che si è formata attorno all'occhio; arrossisci violentemente, ma non ti scosti. Non trovi molto piacevole quel contatto -ti è impossibile- eppure senti che è necessario.

Hai la certezza improvvisa che quel tocco di impedirà di cadere a terra proprio ora che stai faticosamente tentando di rialzarti, la certezza che quel sorriso, ma spento, mai stanco, sarà il tuo supporto.

Chini il capo con vergogna, schiacciato dai tuoi stessi, imbarazzanti pensieri.

«Coraggio, Nihon.»

Detto dalla Nazione più fifona del pianeta sembra quasi uno scherzo, ma tu sorridi con sincerità a quelle parole.

Alzi lo sguardo sui suoi occhi determinati.

E il futuro fa un po' meno paura.



N/A:

Questa è la mia prima fanfiction su Hetalia, nonché mia prima esperienza con la seconda persona singolare.

Ho trattato di un argomento estremamente delicato e avrei voluto farlo senza banalizzarlo, ma al solito la mia essenza da fanwriter ha deciso da sé, ergo è venuto fuori più melodrammatico e meno crudo di quel che avrei voluto. Tuttavia mi piace molto questa fanfiction <3

Ora, io adoro America. È troppo scemo per non volergli bene <3

Però da quando ho scoperto il mondo del Dark!Hetalia, è tanto scemo e tontolone quando oscuro, vendicativo e crudele, no, cattivo. È la cattiveria che guida l'America di questa shot.

I personaggi di Kyoto ed Edo li ho inventati di sana pianta. Kyoto era la capitale della cultura, piccola e fragile come un fiore, invece Tokyo mi sembra un po' più, se mi passate il termine, cazzuta xD

Sono molto emozionata perchè mi avventuro in un fandom diverso da quello dei Gazeguys per la prima volta negli ultimi... ehmmm, tre anni? °° Beh, sarà una cretinata, ma in questi tre anni ho sempre avuto una paura boia ad avventurarmi in altri fandom.

Torno su EFP con nostalgia, ma mi sento un po' a casa.



Fatemi sapere che ne pensate :3

Mya





  
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