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Autore: BloodyRose00    26/01/2012    3 recensioni
Sette adolescenti in una clinica psichiatrica. Hanno un'estate per cercare di ricominciare a vivere.
"Non voglio che la gente sappia che sono pazzo. Nessuno di noi lo vuole."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Chapter Six


Cecily Thompson non avrebbe mai pensato di trovarsi a vivere in un incubo, eppure era accaduto.
Se le avessero chiesto come fosse iniziato tutto, non sarebbe nemmeno riuscita a trovare una risposta. Forse era qualcosa nato piano piano dentro di lei, o forse era successo improvvisamente, da un giorno all'altro; sta di fatto che un giorno di un paio d'anni prima aveva smesso di mangiare.
All'inizio non sembrava nulla di grave, solo una sedicenne come tante altre che stava un po' più attenta del solito a ciò che mangiava, poi a come mangiava e per ultimo a quanto mangiava. Per i primi mesi non se ne accorse nessuno. Cecily non aveva genitori; a dirla tutta, non aveva nessuno, eccezion fatta per la sua compagna di stanza al collegio in cui viveva e per il suo allenatore di ginnastica artistica.
Questo fino almeno al momento in cui le dissero che aveva una sorella. Gemella, per la precisione. Erano stati quelli del collegio a dirglielo, il giorno in cui aveva compiuto diciassette anni. Adesso era grande abbastanza per saperlo, le avevano detto. Parte del suo mondo le era crollato addosso: la sua intera vita era stata una bugia. Ma poi la felicità di non essere sola aveva preso il sopravvento. Avevano parlato per la prima volta attraverso una webcam. Cecily dalla stanza comune del collegio, Lenore - così si chiamava la gemella - dalla grande cameretta della casa in cui viveva con la famiglia che l'aveva adottata tanto tempo prima.
Insieme, avevano iniziato a dare un senso a quel sogno che, come avevano scoperto, perseguitava entrambe. Le somiglianze, oltre a quelle esteriori, non fnivano qui, però. Entrambe avevano paura di essere toccate. Anche solo l'essere sfiorate da una persona fidata poteva farle sobbalzare. Nessuna delle due aveva ricordi dell'altra, o ricordi di qualche tipo precedenti ai sei anni. Ed entrambe, ma questo l'avevano scoperto solo quando si erano trasferite nella stessa casa, avevano un disturbo del comportamento alimentare.
Quando entrambe avevano compiuto diciotto anni, i geniori di Lenore, comprensivi e benestanti, capendo quanto era importante per le due conoscersi, avevano comprato loro un piccolo appartamento che avrebbero potuto condividere.
Questo, però, comportava che Cecily lasciasse l'orfanotrofio e si trasferisse in un'altra città. Soprattutto, si ritrovava a dover cambiare palestra in cui allenarsi. E nella nuova palestra, le ragazze erano ancor più talentuose e competitive che quelle del paese in cui aveva vissuto fino a quel momento. Così aveva iniziato a pensare che se fosse stata magra - ancora più magra - forse sarebbe potuta diventare la migliore.

Quel giorno il sole era alto nel cielo, quasi a farsi beffa degli uomini sulla Terra e dei loro affanni. Erano le nove del mattino, ma la città sembrava quasi addormentata: l'estate era cominciata da poco e tutti cercavano di godersela al massimo. Tutti, eccetto gli inquilini di quel grande palazzo che si affacciava su un viale alberato. Al suo interno, stava succedendo qualcosa. Era ora di colazione, da sempre uno dei momenti migliori della giornata. Non per una certa coppia di gemelle, però.
Cecily strabuzzò gli occhi ambrati, quando si vide appoggiare davanti un piatto contenente tanto cibo che probabilmente superava la quantità di quello che mangiava in una settimana. C'erano una banana (130 calorie), un mucchio di frutta secca (almeno 100), tre fette spesse di pane (190), del burro (70) e della marmellata (80). Fece un rapido conto: 570 calorie. (Se c'era una cosa che l'anoressia le aveva insegnato, era fare le addizioni a mente ad una velocità incerdibile). Per nulla al mondo avrebbe mangiato tutta quella roba. Voleva soltanto un enorme bicchiere di tè verde (0), o tuttalpiù una mela (35), ma poi avrebbe dovuto fare almeno un centinaio di addominali per sbarazzarsene.
Sbocconcellò un paio di mandorle (15) e poi si alzò, spingendo rumorosamente indietro la sedia. In quel momento, ogni singola persona nella stanza, ossia i suoi compagni di tavolo, quelli del tavolo dei pazzi, come veniva chiamato, altresì noti come i pazienti regolari - quelli che pagavano - e i vecchi del secondo piano, si voltò a guardarla.
Una donna con il camice bianco, un'infermiera, le si avvicinò immediatamente. "Non ci si alza prima di aver finito di mangiare, cara" le disse con un tono utilizzato in genere per parlare con un bambino capriccioso. "Ho finito" ribattè Cecily con decisione. Poteva anche essere timida e taciturna nella vita di tutti i giorni, ma quando si veniva al cibo non aveva nessuna intenzione di scendere a compromessi. "Oh, io non credo. Risiediti, per favore" disse pazientemente la donna. Adelaide era il suo nome, diceva il cartellino che portava appuntato sul petto. Che nome orrendo, non potè fare a meno di pensare Cecily. Una volta aveva avuto una compagna con quel nome, all'orfanotrofio. Tutto quello che faceva era mettersi le dita nel naso, e poi era stata adottata. Quello era stato uno dei momenti in cui, nella sua testa di bambina di otto anni, si era resa conto di quanto la vita può essere ingiusta. Provò dunque immediata antipatia per la donna.
Poi Adelaide fece qualcosa che non avrebbe dovuto fare: le poggiò entrambe le mani sulle spalle, per farla sedere. Era un gesto semplice, a cui la donna non diede nessun peso, ma Cecily, con gli occhi spalancati dal terrore, si scostò immediatamente e si mise a correre. Chissà come finiva sempre con qualcuno che correva, si chiese Jenny, che sedeva alla sua postazione fuori dalla mensa.
La rossa raggiunse l'ufficio della dottoressa Carthwright e vi entrò, spalancando la porta e poi chiudendosela alle spalle. La donna alzò gli occhi dal foglio che stava leggendo e aprì la bocca per dire qualcosa, ma Cecily la precedette. "Voglio andarmene da qui" disse con voce tremante di rabbia. "Ah sì? Perchè vogliono farti mangiare? Sapevo che qualcuno si sarebbe arreso, ma non pensavo così presto". Cecily era ammutolita. La dottoressa si ammorbidì un po'. "Sei riuscita a farla franca per un paio di giorni, ma non puoi continuare così. Devi lasciarti aiutare". "Non posso. E devo continuare ad allenarmi. Non posso mollare ora". "È ok, non posso costringerti a guarire. Sei maggiorenne, non posso nemmeno costringerti a restare. Sappi solo che saremo lieti di darti il nostro aiuto. Non buttare via la tua vita". Fece una lunga pausa. "È tutto" la congedò.
Cecily camminò lentamente verso la sua stanza, dove trovò Cheyenne seduta alla piccola scrivania di mogano di fronte ai letti. Non stava scrivendo: aveva davanti a sè un plettro blu con incisa una J e faceva scorrere lo sguardo da quell'oggetto alle cicatrici che aveva sui polsi, sulle quali erano ancora visibili i segni dei punti che quelli dell'ospedale le avevano messo quando l'emorragia si era fermata. Quando sentì Cecily entrare, si riscosse dalla trance in cui era caduta e le rivolse un sorriso. Il volto dell'amica restò impassibile.
"Perchè hai cercato di ucciderti?" chiese, diretta. Cheyenne sembrava presa in contropiede. Dopo qualche secondo di esitazione, rispose: "Volevo mettere fine a questo strazio. Peccato che io abbia fallito", sorrise tristemente. Quando vide lo sguardo dell'amica, qualcosa le scattò nel cervello. Aveva già visto quello sguardo: in uno spechio, per l'esattezza. "Non farlo. Non ne vale la pena. Se le cose vanno da schifo ora, pensa come saranno quando ti sveglierai con un tubicino nel naso perchè non riesci più a respirare da sola o con un ago da trasfusione infilato in un braccio perchè hai perso troppo sangue". "Non progetto di risvegliarmi". "Neanch'io lo facevo". Cecily non sapeva più cosa ribattere. Non voleva veramente uccidersi, ne era abbastanza sicura. Voleva solo sapere di avere una via di fuga, nel caso in cui le cose fossero diventate troppo pesanti da sopportare. Si lasciò cadere sul letto. "Non so che cosa fare" sospirò. "Secondo me devi restare. Hai bisogno d'aiuto e lo sai" disse l'altra con voce gentile. "Forse hai ragione. Ma non sono ancora magra abbastanza. Quando arriverò a quaranta kili sarà abbastanza, e mi fermerò". "E quante altre volte l'hai già detto? Quando saranno 50 mi fermerò, quando saranno 45 mi fermerò... la verità è che non sarà mai abbastanza". Cheyenne si alzò dalla sedia e si andò a sedere vicino all'amica. In quel momento, voleva darle più supporto possibile. Non è facile compiere una scelta come quella davanti a cui Cecily era stata posta. Se fosse stata una qualsiasi adolescente del mondo, avrebbe lasciato che i suoi genitori la prendessero per lei, ma lei era diversa. Quando cresci senza genitori, impari a prendere da solo ogni singola decisione, da quella più semplice a quella che può cambiarti la vita. "Merda, che ore sono?" ruppe il silenzio Cheyenne pochi minuti dopo. Era abituata ad avere sempre un orologio al polso, ma in quel posto non le avevano permesso di tenerlo. "Le dieci" rispose l'altra guardando la sveglia sul comodino. "Cazzo, ho la terapia individuale adesso. Ci vediamo dopo, ok? Non fare niente di stupido". Uscì frettolosamente dalla stanza.
Cecily capì di dover fare qualcosa, per poter essere finalmente libera dai fantasmi del suo passato: scoprire cos'era successo nei primi sei anni della sua vita e di quella di sua sorella.
Dunque, se erano nate nel 1993, l'anno in cui avevano compiuto sei anni, nonchè quello in cui Lenore era stata affidata ad una famiglia e Cecily portata all'orfanotrofio, era stato il 1999. Quello era già un punto di partenza. Aveva bisogno di un computer, adesso.
Camminò spedita fino alla sala ricreativa, dove la sorella e Savannah sedevano pigramente guardando la televisione. "Len, a chi chiederesti, se avessi bisogno di qualcuno bravo con i computer?" Lenore sembrò sorpresa. Forse la sorella sapeva qualcosa del suo incontro notturno? Decise di restare neutrale. "Ho sentito che Damien se la cava bene. Perchè?"
Cecily, per quanto volesse bene a sua sorella, non voleva condividere con lei questo suo progetto. Sapeva che la faccenda riguardava entrambe, e forse avrebbe dovuto metterla al corrente, ma ora più che mai voleva occuparsi di qualcosa che fosse solo suo e di nessun altro. "Oh, niente di speciale. Grazie dell'aiuto!" e uscì dalla stanza prima che Lenore potesse accorgersi che le aveva mentito.


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Ugh, sto toccando argomenti sempre più delicati. Spero di non aver fatto casini. È uscito fuori un capitolo bello lungo!
Dunque, con lo scorso capitolo sono aumentate un sacco le recensioni, e per questo vi ringrazio immensamente!
Grazie a aleoakes (purtroppo temo che ci vorrà ancora un po' prima della fine!), Saeko_chan (non me ne intendo troppo di ospedali psichiatrici, quella di mettere anche gli anziani è un'idea che mi è venuta per caso e che potrebbe tornarmi utile più avanti), floravik (grazie per la fedeltà alla mia storia!), _Velvet_(wow, grazie! Per quei due ho già dei progetti) e SLAPPYplatypus (uh, Non Buttiamoci Giù! L'ho letto poco tempo fa e mi è piaciuto da morire! La storia l'ho cominciata prima di leggerlo, però xD E per la frase hai ragione! Devo correggerla). Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo! A presto
   
 
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