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Autore: Selenina    27/01/2012    9 recensioni
Tornato dall'Afghanistan, John Watson è ossessionato da incubi riguardanti la guerra e dalla figura affascinante del suo coinquilino Sherlock Holmes.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trittico delle notti bianche.

Piccola nota introduttiva (è saltabile a piè pari):  Allora, di solito scrivo ma non pubblico perchè sono una fifona. Perciò questo è il primo lavoro che lascia il cerchio ristretto dei conoscenti/amici che hanno sempre modi gentili per dirti "che schifo" e esagerato entusiasmo nel dirti "che bello". Dato che la follia per Conan Doyle e i suoi due meravigliosi uomini mi sta praticamente uccidendo (complice Sherlock BBC) ho deciso che avrei esorcizzato la mia mania rendendo di pubblico dominio questa cosa. Sarebbe bello sapere cosa ne pensate e stop, leggete pure :)

Da poche settimane io e Sherlock Holmes condividevamo l’appartamento in Baker Street quando si presentò il primo caso che ci avrebbe legati l’uno all’altro come collaboratori e amici.

Dopo quei giorni di indagine forsennata i miei incubi notturni sembravano peggiorare, incrementati forse anche dai frequenti temporali estivi che scaricavano sulla città una grande quantità di lampi e fulmini che ai miei occhi traumatizzati dalla guerra non potevano che parere scoppi di granate.

Holmes passava le giornate immerso in una routine tranquilla e monotona, punteggiata da momenti di tedio che lo fiaccavano incatenandolo al divano con sguardo assorto, forse preda di qualche sostanza stupefacente.

Una delle sere subito successive alla chiusura delle indagini narrate in “Uno studio in rosso”, Holmes stagliava il suo pallido profilo contro la finestra, osservando i passanti che consumavano le ore camminando, quando improvvisamente si voltò verso la mia figura emaciata per chiedermi con estremo tatto quale fosse il ricordo terribile che non mi lasciava dormire di notte.

“Penso che siano le esplosioni a risultarmi così terrificanti alla memoria. L’ho per caso svegliata?” chiesi, vagando distrattamente con lo sguardo sul suo volto evitando gli occhi limpidi e gelati.

“Un paio di volte, si. Ma non è questo che importa.” rispose, prendendo lo stradivari dal divano e pizzicandone le corde distrattamente.

“E cosa importa, allora?” domandai, mentre Holmes eseguiva con maestria alcuni istanti di una sinfonia di Mahler per poi dondolare pigramente l’archetto lungo il fianco.

“Nulla dottore. Penso che andrò a dormire.” si massaggiò distrattamente la tempia destra ad occhi chiusi e si avviò verso la sua stanza in silenzio.

“Buonanotte signor Holmes.” sospirai, un sussurro appena udibile.

Decisi di restare alzato ancora qualche minuto, timoroso di potermi svegliare di soprassalto nel cuore della notte, ancora tormentato da un sogno terribile. Per passare il tempo che mi sarebbe servito ad avvertire la morsa del sonno ripensai al mio coinquilino, figura magnetica che aveva occupato quasi interamente la mia attenzione durante la convalescenza e, nonostante mi fossi quasi completamente rimesso, continuava mio malgrado ad occuparla.

Era sicuramente l’uomo più affascinante che avessi mai incontrato, non certo per incredibile bellezza perché non era di questo che potevo dire si trattasse: il suo viso appariva di forme così irregolari e contrastanti che se non fossero state assemblate con un così perfetto intuito proporzionale sarebbero di certo risultate odiose. L’insieme della fronte spaziosa, del naso affilato e aquilino, del mento deciso e degli occhi penetranti di un grigio inesplorabile faceva di lui un essere alieno e tuttavia dotato di uno strano e inquietante carisma, accentuato dalla sua altezza notevole  che gli permetteva di guardare la maggior parte degli uomini di Londra, me compreso, dall’alto del suo metro e ottanta.

Le sue iridi indagatrici erano per me motivo costante di un certo imbarazzo, convinto che avrebbero potuto leggere qualsiasi cosa pensassi sul fondo dei miei occhi scuri e ogni mia azione dalla condizione dei miei abiti.

Ogni cosa concernesse con la sua figura diventava improvvisamente interessante, un indizio ulteriore atto a schiudere il mistero della sua mente brillante e della sua persona straordinariamente avvincente.

Non è dunque un mistero comprendere come, scomparsa la sua figura dal salotto, la tristezza dei miei giorni passati improvvisamente piombò sulle mie spalle come un macigno insopportabile, accompagnata dal tedio e dalla fredda solitudine del soggiorno.

Dopo poco decisi di scacciare ogni pensiero molesto cercando di dormire, azione che risultò subito più difficile di quello che mi era sembrata. La spalla alla quale ero stato ferito dava ancora un certo fastidio e se mi fossi appoggiato sul fianco sinistro, come la mia abitudine risalente all’infanzia mi suggeriva, una stilettata ai nervi mi avrebbe subito disturbato costringendomi ad una dolorosa veglia. Rimasi sdraiato a pancia in su, alla fine, sperando in qualche modo di riuscire a smettere di pensare.

Quando questo accadde, svariate ore dopo, capitò per un’assoluta spossatezza che non portò tuttavia ad un sonno senza sogni. La fine dell’incubo che mi svegliò fu accompagnata dal suono sordo delle mie urla soffocate dal cuscino e dal ritmo dei passi concitati di Holmes su per le scale fino all’uscio della mia camera.

La luce fredda della luna illuminava la sua pallida figura che mi fissò per un istante, le mie lacrime che colavano nella camicia senza che me ne curassi, aggrottò le sopracciglia varcando la soglia e si avvicinò alla lampada a lato del letto accendendo un fiammifero. Il fuoco e la scintilla mi fecero spalancare gli occhi, terrorizzato da quella fiammella che ricordava improvvisamente la scintilla della polvere da sparo, accorgendosi del mio sgomento spense il cerino soffiandoci subito sopra, lasciando la stanza nella gelida oscurità.

In quell’istante, quando le sue iridi repentinamente si accesero alla luce del fuoco, tornai abbastanza in me da asciugarmi le guance e tentare di ricompormi con scarso risultato. Le mie mani, con mio estremo imbarazzo, tremavano e il collo era gelido di sudore.

Holmes si sedette sul bordo del letto con sguardo grave,tuttavia non mi si avvicinò e non mi toccò come altri avrebbero cercato di fare.

“Dorma Watson, resto a vegliarla sulla poltrona.” la sua voce era bassa e rassicurante.

“Non deve.” cercai di insistere, scuotendo la testa.

“No, non devo. Ma non riesco a dormire se lei grida: come vede è tutto nel mio interesse.” sorrise, un cordiale e sincero ghigno luminoso che mi fece socchiudere la bocca per lo stupore.

“Prenderò una coperta e mi siederò là. Se la sentirò agitarsi la sveglierò. Ora dorma Dottore.” si alzò senza che il materasso scricchiolasse e mi chiesi come quell’uomo sottile potesse essere tanto forte da battere un pugile al suo stesso gioco (giorni addietro l’avevo visto all’opera in una bettola sul fiume e ne ero rimasto sbalordito).

“Grazie Holmes.” mormorai alla figura raggomitolata sulla poltrona, una mano aperta abbandonata sul bracciolo. Sapendo che non avrei ottenuto una risposta dalla figura stagliata contro la finestra mi accinsi a riposare sulla spalla sana e chiusi gli occhi.

Mi riaddormentai e non mi sveglia di nuovo, quella notte.

 

Dato la forma privata di questi diari e l’impossibilità che chiunque estraneo a me li legga trovo adatto approcciarmi alla scrittura con un linguaggio meno formale di quello riservato alle pubblicazioni ufficiali ad opera del mio editore, il signor Conan Doyle, e più adatto a raccontare quello che accadde dopo quel primo strano contatto fra me e Sherlock Holmes.

Non è necessario dire che, nel caso questi scritti vengano trovati, la reputazione mia e del mio compagno sarebbero macchiate dalla colpa della nostra relazione e probabilmente saremmo processati e arrestati secondo le leggi in vigore a seguito del processo a Sir Oscar Wilde, rispettabile cittadino e intellettuale dell’impero inglese.

Ad ogni modo, in questo luogo privato che sono le mie memorie posso raccontare con tranquillità come si svolsero le giornate a seguire.

La mattina seguente la strana nottata mi svegliai solo nella stanza, la coperta ripiegata sulla seduta della poltrona e il profumo del caffè che risaliva dal vano delle scale, accompagnato dal rumore tintinnante di posate.

Scesi con fatica le scale, appoggiandomi al bastone ignorando il dolore al polso, e mi ritrovai in salotto dove Holmes stava tranquillamente imburrando un toast, il viso riposato nonostante la notte in poltrona, perfettamente vestito e pronto ad uscire appena finita la colazione. Al contrario il mio aspetto era ridicolo: gli occhi segnati, i capelli chiari spettinati e la vestaglia messa alla bell’e meglio a causa del braccio colpito.

Holmes alzò gli occhi dal suo toast e dal giornale che affiancava il piatto per sorridermi divertito.

“La trovo in forma Watson.” fu il suo unico commento, prima di riprendere a scorrere le notizie sul quotidiano.

“Come sta la sua schiena, Holmes? Mi spiace per ieri notte.” zoppicai con i denti stretti fino alla sedia all’altro capo del tavolo, lasciandomi cadere stancamente reprimendo un gemito.

“Ho dormito più che bene, si fidi Dottore. Lei come si sente?” chiese, sorseggiando il the e guardandomi da sopra il bordo della tazza con i suoi occhi limpidi.

“Piuttosto bene.” dissi, passandomi una mano fra i capelli scompigliati in un patetico tentativo di appiattirli.

“Lei mente. In ogni caso devo andare. Mangi Watson!” si alzò con sorprendente agilità e afferrò il cappotto appoggiato sul divano, prima di fare un cenno e lasciare la stanza.

“Arrivederci.” bisbigliai, mescolando il the tiepido e abbassando gli occhi fino a trovare due fette di pane già imburrate nel piatto. Mi strofinai il viso nei palmi aperti e sospirai di stanchezza, per poi trovarmi a fissare il pane per un minuto o due prima di mangiarlo con appetito.

Che la avesse preparate Holmes non c’era dubbio e mi appuntai di ringraziarlo per la gentilezza così insolita alla sua persona algida e composta.

Dopo alcuni mesi nella stessa casa mi chiedevo quando i nostri universi si sarebbero sfiorati e quando si sarebbero effettivamente infrante le barriere, senza rendermi conto che non avrei mai osato invadere il suo spazio o chiedergli più del necessario perché intimorito dalla sua freddezza.

Nonostante la sua glaciale pacatezza la convivenza fu tranquilla per i giorni avvenire, con il passare dei giorni ci adeguammo silenziosamente alle abitudini dell’altro condividendo gli spazi con una pace inaspettata.

Una sera, raccontando una barzelletta da taverna, lo sorpresi a ridere contro il dorso della mano in un gesto che, per eleganza e bellezza, non sono mai riuscito a dimenticare. Le sue esecuzioni al violino si adattarono con garbo ai gusti comuni, nonostante i suoi assoli strimpellati occupassero comunque gran parte della sua pratica.

Scoprii che sapeva cantare perché lo sentii intonare distrattamente una vecchia canzone popolare mentre sperimentava con diversi solventi e liquidi dall’odore pungente, in piedi davanti al tavolo della cucina con le ampolle in mano.

La mia vita si riempì piano di una serie di dettagli rassicuranti, all’ombra dei quali si completava la mia guarigione.

Holmes mi studiava al mattino appena sveglio per accertarsi della mia salute e poi usciva per recarsi al laboratorio dell’ospedale, per poi tornare verso sera e appendere il cappotto fino alla mattina successiva. Per qualche tempo non menzionò nessuno dei suoi casi in mia presenza e non mi invitò a presenziare a nessuna delle sue indagini, riconoscendo le pessime condizioni della mia precaria salute soggetta a ricadute piuttosto violente.

L’estate londinese sembrava dover essere straordinariamente secca quell’anno e, in una di quelle notti che in Inghilterra precedono scrosci terrificanti dopo la siccità, ci congedammo tranquilli per tornare ognuno nelle proprie camere proprio allo scoppio del primo tuono che annunciava il temporale che Holmes aveva predetto quello stesso pomeriggio.

Mi feci forza nonostante la paura montante nel petto e scalai i gradini con determinazione per potermi infilare sotto le coperte il prima possibile, preda di quella credenza che da ragazzino ti faceva pensare alla grotta delle lenzuola come un luogo sicuro dai pericoli del mondo. Mi svestii in fretta e mi infilai sotto le coltri con un impeto che sarebbe risultato buffo anche ai miei occhi se non fossi stato così terrorizzato dalle luci e dai rumori fuori dalla finestra.

Un vigile soldato britannico tremante sotto le lenzuola non faceva certo onore a se stesso ma non riuscii neppure a raccogliere il coraggio necessario a spegnere la luce.

Probabilmente fu quel tremulo bagliore in cima alle scale che allarmò Sherlock Holmes, che salì i gradini senza fare rumore per non turbarmi e si introdusse attraverso l’uscio scricchiolante della stanza, avvicinandosi piano al mio capezzale. Con lentezza appoggiò la mano ferma, dal tocco delicato, sulla mia nuca scoperta per avvertire i brividi di paura corrermi lungo la schiena.

Spense la luce lasciandoci per alcuni istanti nell’oscurità più totale e poi strinse le dita fra le ciocche dei miei capelli, le mani incredibilmente tiepide contro la mia pelle fredda.

“Cosa fa Holmes?” chiesi, voltandomi e cercando i suoi occhi nella semioscurità. Giurai di averlo visto socchiuderli appena con espressione rapita ma quando sbattei le palpebre il suo viso era quanto di più illeggibile potesse esistere al mondo.

Non rispose alla mia domanda ma continuò ad affondare la mano fra i miei capelli, mi spostò di poco verso il centro del letto, con l’attenzione necessaria a non toccarmi la spalla ferita, e poi fui io a fargli posto. Si sdraiò, tiepido sotto le coperte e ossuto contro la mia schiena, lasciandomi ad ascoltare il mio cuore nelle orecchie, timoroso che potesse sentirlo contro lo sterno. Nell’odore di saponaria delle coperte inamidate il suo profumo di tabacco e colonia spiccava magnificamente, impregnando l’aria sotto le coltri.

“Si rilassi John. E’ solo un temporale.” parlò pianissimo contro la mia tempia, capace di una comprensione sconosciuta e di una dolcezza di tatto sorprendente. Mi sfiorò la schiena con cautela facendosi spazio nelle lenzuola e dopo alcuni minuti di silenzio e immobilità appoggiò con incertezza il braccio sul mio stomaco e toccò la pelle nuda della pancia con un sussulto, sollevando appena le dita con una compostezza rassicurante.

Fu allora che appoggiai il palmo sulle sue dita, a sigillarle contro la pelle. Ascoltò il mio diaframma alzarsi e abbassarsi sotto le dita finche il suo petto non si appoggiò totalmente alla mia schiena e il viso cadde con gentilezza contro la mia nuca.

Nell’istante in cui fui sicuro del suo sonno mi addormentai.

Mi svegliai più tardi, quando nel cuore della notte mi attorcigliai nel lenzuolo per voltarmi sull’altro fianco e incontrai le ciglia scure di Sherlock a suggellare i suoi occhi, l’arco delle sopracciglia scure e la fronte distesa, le labbra schiuse.  Non dormiva con le gambe allungate ma flettendo le ginocchia verso il petto, la schiena incurvata e un braccio piegato sotto la testa. Probabilmente cogliere Sherlock Holmes durante il sonno sarebbe stato il solo modo di osservare l’immobilità e la profonda bellezza del suo corpo spigoloso.

Era splendido, realizzai in quel momento con lo sgomento di un ragazzino che scopre per la prima volta il conturbante mistero dell’attrazione.

 Accarezzai lievemente il polso che fino a poco prima aveva riposato sul mio fianco e lui nel dormiveglia si fece vicino fino a cercarmi. Lo cinsi con le braccia e non riuscii più a dormire: era un nodo di ossa e lunghi arti spigolosi che raccolsi e accarezzai finche il sole non illuminò le tende.

Forse fu la solitudine degli ultimi mesi o semplicemente il fatto innegabile che ogni osso di Holmes, ogni vertebra sotto le dita, schiudeva il mistero e la vertigine a generare in me il disperato desiderio di riposare nella sua ombra e poter respirare l’aria che respirava.

Verso le sei Holmes si liberò dall’abbraccio e io mi svegliai dallo stato di lieve incoscienza nel quale ero sprofondato per osservarlo  scostare le coperte e alzarsi in piedi, ogni articolazione assestarsi con uno scricchiolio sordo mentre si muoveva verso la porta.

Rimasi fermo per non costringerlo a darmi il buongiorno in un contesto così bizzarro ma, nonostante il mio impegno, si voltò a lanciarmi una lunga occhiata criptica prima di varcare la soglia e scendere le scale.

Rimasi a letto per qualche altro minuto, intontito dal ricordo della notte passata, ma le coperte erano diventate troppo fredde quindi mi alzai e mi lavai in fretta, indossai la vestaglia e scesi le scale lentamente, la spalla che immancabilmente protestava e uno strano disagio alla bocca dello stomaco all’idea di mangiare con Holmes. Di fatto nessuna notte abbracciato al proprio coinquilino combaciava con il concetto di normale decenza inglese.

Quando mi sedetti lui leggeva, perfettamente vestito e pettinato, il mento rasato e gli occhi ostinatamente incollati alla pagina nonostante il mio saluto sussurrato.

“Buongiorno, Watson.” fu la replica pacata, con totale assenza di contatto visivo.

Mi sedetti, osservando il suo piatto immacolato e la tazza vuota e chiedendomi quando quell’uomo avrebbe riconosciuto di avere bisogno di nutrirsi. Mi persi un secondo nel disegno delle venature azzurre delle sue mani per poi scuotere la testa con insistenza e perdermi nuovamente in un altro dettaglio della sua figura. Cercai di ignorare la sensazione di tepore alla bocca dello stomaco e tentai di ingoiare qualche boccone di porridge con l’unico risultato di smarrirmi nell’immagine dell’uomo addormentato marchiata a fuoco nella memoria.

“Spero che tu abbia dormito meglio, questa notte.” lo sentii chiedere, la voce bassa e noncurante, gli occhi fissi sulla stessa pagina dall’inizio della colazione. Dal formale ‘dottor Watson’ a un ‘tu’ bisbigliato a colazione era passata solo una fredda nottata londinese e appena me ne accorsi il cuore accelerò.

“Si, grazie. Mi dispiace Holmes.” mugugnai, seppellendo gli occhi nella tazza di earl grey.

“Non ti dispiacere, non ce n’è ragione.” alzò gli occhi per qualche istante, una scintilla di eccitazione sul fondo degli occhi chiari che mi paralizzò a metà di un sorso col disastroso risultato di farmi tossire come un pazzo. Holmes sogghignò e uscì salutando con una mano, il suono cristallino della risata che si spegneva fra le pareti dell’appartamento.

Inutile dire che passai il resto della giornata a rimuginare sugli accadimenti delle ultime due settimane e sul motivo dello slancio inaspettato da parte di Holmes nei miei confronti. Non è un mistero che spesso fra le file dell’esercito si finisce per apprezzare anche la compagnia maschile e io non avevo fatto eccezione durante la leva, ma non pensavo che Holmes, che non aveva mai mostrato interesse per anima viva nelle settimane precedenti, potesse essere interessato ad accompagnarsi ad un uomo. Certamente era stato mosso da qualcosa di diverso, probabilmente dall’amicizia che si andava consolidando fra noi due oppure, pensiero che realizzai con un certo imbarazzo, aveva trovato le mie condizioni psicologiche piuttosto penose. O ancora era stufo dei miei incubi nel cuore della notte e non potei che dargli ragione, dato che anch’io ne ero ormai stanco morto.

Uscii a fare due passi nel pomeriggio, dopo aver mangiato molto poco, e accarezzai l’idea di sedermi su una panchina al sole e passare l’eternità a guardare la gente passare, senza tornare mai più al 221B di Baker Street e agli occhi indagatori (e freschi e bellissimi) di Sherlock Holmes.

Quando l’aria cominciò a farsi troppo fredda e il cielo troppo nuvoloso erano passate da poco le cinque e decisi di tornare a casa. Mi aggrappai al bastone e, ignorando la spalla, mi diressi verso l’abitazione con la mente affollata dalle possibili deliranti conversazioni che sarebbero potute scaturire dall’argomento “Cos’è successo ieri notte?” o dall’ostinato silenzio dietro il quale Holmes si sarebbe trincerato pur di non discuterne.

Salii i gradini dell’ingresso del 221B poco meno di un’ora dopo e compresi con un certo sgomento che Holmes era già in casa, circostanza alquanto insolita che mi avrebbe costretto a sostenere i suoi occhi prima ancora di aver preparato me stesso alla sensazione di turbamento che questi mi avrebbero suscitato. Lo scoprii seduto in poltrona di fronte al camino, una siringa ipodermica nel braccio e la luce a disegnare ombre sconosciute sul suo volto. Distolsi lo sguardo velocemente e con un certo imbarazzo per poi osservare il suo viso spegnersi lentamente perso nella droga, il collo rilassarsi abbandonando il capo in una posizione innaturale che gli avrebbe procurato sicuramente qualche seria contrattura.

Mi tolsi la giacca e lasciai il bastone con impeto per zoppicare verso di lui, l’ansia che montava silenziosamente nel petto. Gli tastai il polso e scoprii che si era solo assopito, sospirando di sollievo sfilai la siringa dalla vena pallida scoprendo con angoscia decine di altri segni dell’ago e infine gli presi delicatamente il capo fra le mani e lo appoggiai alla seduta sostenuto da una coperta ripiegata a mo’ di cuscino.

Prima che potessi lasciargli la nuca Holmes aprì gli occhi arrossati, le fibre azzurre delle iridi che spiccavano nella sclera iniettata di sangue, e appoggiò la guancia alla mia mano con abbandono totale.

“Non avresti dovuto.” sussurrai, carezzandogli la tempia e mitigando il rimprovero nella mia voce preoccupata. Non fui capace di dire niente di diverso, nonostante la consapevolezza delle pericolosità di quella che ai miei occhi pareva cocaina.

“John…” la voce roca fece contrarre qualcosa nello stomaco e più in fondo.

“Ti prendo dell’acqua.” sussurrai, voltandomi verso la cucina e cercando di mascherare lo sconvolgimento sul mio viso.

“No.” disse soltanto, afferrandomi il polso con forza inaudita e tirandomi verso di lui.

“Holmes.” protestai, la gamba tremante nello sforzo di mantenere l’equilibrio.

Mi lasciai trascinare verso di lui, che improvvisamente mi strinse la vita con le braccia, affondando il viso nel gilet e respirando nei miei vestiti.

“Non vada via, non ho sete.” la sua voce sembrò per un attimo un lamento triste.

Ignorai il mio cuore assordante nelle orecchie e gli accarezzai i capelli, non erano pettinati e i ricci scuri scorrevano freschi fra le dita, l’osso della scatola cranica sotto i polpastrelli a ricordarmi che stavo accarezzando la sua mente: la sua bellissima mente acuta e luminosa.

Nonostante la romantica stupidità dei miei pensieri chiusi gli occhi assaporando le sue braccia contro la schiena, mosse la testa con lentezza e io sollevai le palpebre per sorprendere i suoi occhi calmi e stanchi osservarmi da quella posizione di svantaggio così inusuale per un uomo della sua altezza. Tracciai la forma dei suoi zigomi puntuti con mano malferma e lo vidi sorridere appena.

“Un tremito alla mano dottore?” chiese, lo sguardo improvvisamente acceso di un’intensità così splendente che sgranai gli occhi sbalordito.

Osservai l’espressione spenta subito dopo la scintilla e sentii i muscoli dell’uomo cedere lentamente contro le mie mani.

“Devi riposare.” gli dissi, la voce troppo grave e vacillante per risultare autorevole.

“Si, penso di aver bisogno di stendermi, amico mio.” e si alzò dalla poltrona con un gesto repentino che lo fece barcollare. Gli afferrai il braccio magro e lasciai che si appoggiasse leggermente a me mentre saliva le scale. Nulla nella mia espressione tradiva il dolore alla gamba eppure lui se ne accorse, lo seppi dal modo in cui cercava di non pesarmi addosso.

Si voltò subito dopo aver superato la soglia della sua stanza e mi fissò per un istante, il volto inclinato da un lato come in attesa, poi si inginocchiò davanti alla mia gamba ferita con un unico perfetto movimento fluido che lo fece somigliare ad un magro felino.

“Holmes?” chiesi, pensando fosse preda di qualche allucinazione, pronto a chinarmi su di lui e costringerlo ad alzarsi e a recarsi a letto.

Compresi le sue intenzioni quando mi fissò negli occhi mentre appoggiava la guancia alla mia coscia, nel punto esatto dove il proiettile aveva colpito, e abbracciò la martoriata massa di tessuto cicatriziale che doleva sotto la stoffa del pantalone. Rimasi impietrito solo qualche istante, l’odio per la ferita che mi avrebbe impedito una camminata normale per il resto della vita misto allo stupore per lo slancio del mio amico. Con mio disappunto mi salirono le lacrime agli occhi perché Holmes, che odiava perdere anche solo agli scacchi, che odiava la sottomissione all’autorità ed era vanitoso e superbo più di ogni altra mia conoscenza, era prostrato ad adorare la gamba di un infermo, di un militare tornato a casa senza neppure l’onore della vittoria.

“Alzati, ti prego.” mi accucciai di fronte a lui, permettendogli forse di vedere i miei occhi lucidi.

“John, la tua semplicità è spettacolare.” sussurrò, accarezzandomi la guancia. Qualsiasi cosa avesse chiesto dopo quel gesto, mi resi conto, avrei potuto assecondarlo senza pensare.

“Così mostruosamente perso, così bello e ferito. Sei l’eroe di uno di quegli stupidi romanzi romantici che ti ostini a leggere e io non posso credere di essermi infatuato di un così blando cliché. Ma guardo i tuoi occhi e non riesco a pensare a nulla che non suoni come una stolta dichiarazione d’amore. John, se sei solo a questo mondo e nessuno scalda il tuo letto resta e dormi con me.” concluse. Non potei far altro che tremare di paura ed eccitazione e abbassare gli occhi sulla sua bocca in una resa silenziosa.

Senza darmi il tempo di vedere la gloria dei suoi occhi gelidi poggiò le labbra sulle mie, trasformando la proposta in voto, schiudendo finalmente il segreto della sua freddezza con il tocco della lingua. Non potei far altro che arrendere la mente sovraccarica e corrispondere il suo impeto con le mani e le labbra, già preda del suo corpo lungo e sottile e di ogni ombra che la luce potesse disegnare nei solchi fra un osso puntuto e l’altro nella scoscesa caduta della sua schiena nuda.

 

 

 

 

 
Ci sono risvegli che non dimenticheremo mai nel corso della nostra vita: un mattino di Natale in cui abbiamo scoperto la neve oltre i vetri delle finestre, la mattinata in cui ci è stato annunciato che nostro fratello è infine stato mortalmente soggiogato dal vizio del bere, l’alba nella quale abbiamo scoperto di essere ancora vivi nonostante decine di ferite ricevute dal fuoco nemico.

Quando aprii gli occhi la notte dopo aver giaciuto con Holmes fui immediatamente certo che di quell’aurora oltre le finestre e del suo corpo addormentato avrei rievocato l’immagine ogni giorno avvenire nella mia vita.

La luce oltre i vetri era color del vino e le tende gettavano ombre lunghe sulle sue gambe stese. Giaceva col busto scoperto, sdraiato prono, la luce a illuminare il rilievo di ogni vertebra e i capelli spettinati sul viso appena arrossato e affondato nel cuscino. Realizzai di essere stato per la prima volta più mattiniero di lui e, subito dopo, compresi di aver passato le poche ore di sonno sottratte al tocco di Holmes nella calma e nell’oblio più assoluto senza neppure l’ombra di un incubo. Gli presi la mano con lentezza, attento a non svegliarlo, e la strinsi con gentilezza e gratitudine, aspettando una reazione che non si presentò. Mi riaddormentai spossato tenendogli la mano calda fra le dita per risvegliarmi un’ora dopo, stretto dalla morsa amabile delle sue braccia lunghe e con il viso tuffato nei suoi capelli. Gli accarezzai la schiena per sapere se fosse sveglio e lui mi baciò la spalla per rispondere, quella conversazione silenziosa continuò ancora per qualche minuto, poi Holmes sussurrò piano per non infrangere quell’attimo.

“Sono le sette del mattino di martedì e dovrei alzarmi.” sospirò contro la mia spalla, facendomi venire i brividi.

“Ancora solo un istante, ti prego.” chiesi, la voce fiacca contro il suo orecchio. Lo sentii stringersi a me, ossa contro ossa e gambe intrecciate, poi cercai la sua bocca alla cieca, sfiorando il suo naso, e la baciai senza pensare.

“Resterei a casa se solo tu potessi trattenerti in questo letto per tutta la giornata.” propose Holmes e io risi, accarezzandogli la nuca con la possessiva forza di chi riconosce che, lontano dal letto, il proprio compagno non ha altri padroni all’infuori di se stesso.

“Ho trovato un posto come medico in uno studio modesto e penso che parlerò col responsabile per chiedere di poter esercitare di nuovo la mia professione.” gli dissi, fra una carezza di labbra e l’altra, soffiando sul suo collo. Ci perdemmo in un lento rituale di carezze e alla fine smarrimmo il filo del discorso: Holmes rideva alle mie frasi strascicate sulla sua pelle trovandole, parole sue, deliziosamente insensate.

Ci frenammo faccia a faccia, i suoi occhi improvvisamente analitici a percorrere ogni dettaglio del mio viso.

“Quanti segni mi hai lasciato? Vedi qualcosa di interessante?” lo provocai, sorridendo.

“Hai dormito bene: non hai più gli occhi stanchi. Giusto ieri sera pensavo che fosse un peccato tutto quel viola ad adombrare iridi di un blu così bello” mi sussurrò sul viso la sua bizzarra versione di un complimento, carezzandomi la guancia calda con le dita fresche e evitando commenti sul mio rossore imbarazzato.

“Niente incubi stanotte e devo ringraziarti Holmes.” allacciai le gambe ai suoi fianchi e baciai l’angolo aspro della mascella.

“Dottore, non andrà al suo appuntamento se continua di questo passo.” il suo tentativo di un ghigno si perse in un brivido a occhi chiusi quando assaggiai la pelle tiepida del suo collo lungo, si chinò a mordermi la spalla fremendo leggermente contro il mio addome e improvvisamente pensai che i suoi brividi fossero la mia pace.

Chiusi gli occhi con tutta l’arrendevolezza di cui ero capace e lasciai che avesse quello che desiderava, perché lo desideravo con altrettanta forza: dopo tutto il mio colloquio era alle dieci e Lestrade, lui disse, poteva aspettare.

 

  
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