Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |       
Autore: Doralice    29/01/2012    17 recensioni
Dal secondo capitolo:
– Spiegami com'è possibile che il tuo migliore amico eterosessuale provi il costante bisogno di baciarti. –
– Lo scambio di effusioni tra amici è del tutto normale. Nella maggior parte dei casi. –
[...]
– Nella maggior parte dei casi, gli amici non fingono di essere morti per tre anni per poi ricomparire come se niente fosse nella tua vita e pretendere che sia tutto come prima. –
Evidentemente Sherlock aveva mancato il punto. E anche in maniera lampante.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ho visto tutte e due le serie di Sherlock in una settimana e l'innamoramento che mi ha causato è stato violento e profondissimo. Di lì a decidere di scriverci qualcosa – ovviamente una Sherlock/John – il passo è stato molto breve.

Devo precisare che non sono una slasher: ogni tanto leggo qualcosa, ma non ho mai scritto nulla di mio; nessun pregudizio, semplicemente non è il mio genere. Tempo fa, infatuata di Death Note e del rapporto tra L e Light, mi ero messa in testa di scriverci una long, ma il progetto era troppo ambizioso ed è naufragato. Dunque questo è il mio primo, vero tentativo di slash e spero con tutto il cuore che sia venuto decentemente, perché tengo molto al soggetto.

Il titolo è ispirato al famoso skatch dei Monty Python: Nobody Expects the Spanish Inquisition. La fanfic sarà composta da due, massimo tre capitoli.

Sono solita inserire delle canzoni in ogni storia, a mo di colonna sonora. Per il primo capitolo ho scelto 40 Day Dream, di Edward Sharp and the Magnetic Zeros (la trovate linkata nel titolo).

Buona lettura!







Forty Days


La mano sgusciò dalle coperte e spense la sveglia prima ancora che questa si mettesse a suonare.

Il dottor John Hamish Watson, reduce pluridecorato, giacque ancora un momento sul letto. Il braccio riverso sul cuscino, gli occhi aperti nel buio, seguì invisibili volute che si diramavano sul soffitto scuro, come faceva ormai da qualche ora. Diciamo da tutta la notte. Diciamo tutte le notti.

È facile non dormire quando si ha la consapevolezza che chiudere gli occhi equivale a rivivere la diretta del suicidio del tuo migliore amico. Il sonno scivola via appena la figura ad angelo riemerge dalla memoria.

John si mise lentamente a sedere, strofinando la faccia stanca. Fissò la carta da parati davanti a sé senza vederla. Infine voltò la testa verso la porta e si decise ad alzarsi.

La cucina era fredda, il caffè amaro, il latte finito, doveva portare alla lavanderia a gettoni un po' di vestiti, quel giorno aveva almeno dodici pazienti da visitare all'ambulatorio, il latte era finito, non si ricordava mai di dare acqua alle piante, doveva decidersi a rispondere alla chiamate della signora Hudson, il latte era finito, non aggiornava il blog da quasi tre anni, il latte era finito. Il latte era finito.

Lo compri tu il latte, John?

John lasciò la tazza nel lavello e andò a lavarsi. Ogni giorno usciva di casa e andava a lavorare, mangiava, cercava di dormire. Per mantenere vivo quel corpo. Per dare un motivo, un dannato "perché" a ciò che era successo. Un motivo abbastanza inutile e stanco di vivere, ma pur sempre un motivo.

John Watson era morto dentro da tre anni. Trentasei mesi. Millenovantacinque giorni. Era morto nel momento in cui aveva sentito il polso assente di Sherlock. La sua anima s'era tirata addosso la coperta del dolore e ci si era uccisa. Era l'unico modo per sopportare il senso di colpa del sopravvissuto.

Non era come in guerra. Accetti una missione e lo sai a cosa vai incontro, sai che sei stato addestrato per ammazzare e possibilmente evitare che tu e i tuoi compagni vengano ammazzati. Sai che da qualche parte il sangue scorrerà. Sai che è la guerra: uno yin-yang di codardia ed eroismo allo stato puro.

Gli eroi non esistono. E se esistessero, io non sarei uno di loro.

Sherlock si era illuso – aveva osato illudere John – di non essere vittima degli umani sentimenti. E poi aveva compiuto la più grande e stupida azione sentimentale cui avesse mai assistito. Non passava giorno che John non lo odiasse per aver scelto, per avergli imposto la sua scelta, senza appello. Lo odiava tanto quanto gli voleva bene. Abbastanza da soffocare la mancanza che aveva di lui. Un trucchetto facile per sopportare il dolore.


John chiuse la porta del monolocale e scese le scale verso l'ingresso del palazzo. L'auto nera lo attendeva davanti alla porta, la portiera lucida già aperta. Aggrottò la fronte, immobile davanti al portone, con le chiavi sospese in mano. Si sentiva impotente, come gli succedeva sempre quando aveva a che fare con Mycroft: in balia di eventi più grandi di lui, dei quali non comprendeva i meccanismi. Era un soldato e un medico, John: distingueva i buoni dai cattivi, la salute dalla malattia. Le sfumature nel mezzo erano qualcosa d'inconcepibile. Ci aveva provato ad accettarle, una volta, ed ecco il bel risultato.

Voltò le spalle alla portiera aperta e s'incamminò con passo deciso verso la fermata della metro che l'avrebbe condotto all'ambulatorio. Quella mattina John aveva deciso d'ignorare quella particolare sfumatura. E ci sarebbe anche riuscito bene, se non fosse che la sagoma scura dell'auto già gli camminava affianco come un carro funebre, rasente al marciapiede. John continuò ad ignorarla finché poté, poi gli sguardi dei passanti si fecero insistenti.

Si bloccò d'un tratto, esasperato. Serrò gli occhi e sospirò, aprendo e chiudendo le mani a pugno. Si voltò rigidamente verso l'auto, in attesa. Quella accostò lentamente e si fermò. John roteò la testa e mosse la mascella nervosamente, chinò il capo e quando lo rialzò stava già camminando verso l'auto, la mano tesa alla maniglia della portiera.

Sedette di fianco alle lunghe gambe accavallate dell'assistente di Mycroft. Tick-tick-tick facevano le dita ben curate sul blackberry. John soffocò l'impulso di strapparglielo dalle mani e gettarlo fuori dal finestrino. Posò il gomito sulla portiera e il mento sulla mano e guardò fuori, senza vedere, senza cercare d'ipotizzare dove stavano andavando. Macchie di colore che sfilavano davanti ai suoi occhi, prive d'importanza.

Tu guardi, John, ma non osservi.

Si accorse troppo tardi. Voltò la testa di scatto e deglutì a vuoto, battendo furiosamente le palpebre. Tratteneva il fiato, quasi temendo di respirare l'odore familiare di quella via. Quasi temendo che gli entrasse dentro, dopo tre anni in cui aveva fatto di tutto per cacciarla fuori da sé. Per cacciarlo fuori di sé.

Quando l'auto rallentò, John chiuse gli occhi e si artigliò le ginocchia, pregando insulsamente che non si fermasse. La forza d'inerzia stroncò le sue speranze, la folata d'aria fredda che lo investì all'apertura della portiera gli diede il colpo di grazia.

Uscì dall'auto e seguì l'assitente di Mycroft come un'automa. Varcò la soglia del 221B di Baker Street senza guardarsi attorno, cercando di razionalizzare il tutto come un incubo. Il “perché” aveva iniziato a martellargli il cervello. Perché proprio lì? Perché dovevano fargli questo?

Perché? Perché? Perché? Gli rimbombava in testa ad ogni scalino.

Signor Watson. –

L'assistente si fece da parte rivelando l'alta figura del suo capo, in piedi di fianco al camino. John salutò Mycroft con un freddo cenno del capo.

Oh, caro! –

John fece appena in tempo a realizzare che la signora Hudson gli aveva parlato, che se la ritrovò abbarbicata addosso in un abbraccio soffocante.

Oh, caro... caro, John! Sapessi! –

A John non sfuggì l'occhiata che scambiò con Mycroft. Né il fatto che la sua ex padrona di casa apparisse sconvolta.

La prese per le spalle, scrutandola con l'occhio del medico: – Signora Hudson sta bene? –

Non sono mai stata meglio! – se ne uscì sorridendo – Vado a preparare del té. –

John aprì la bocca in un principio di domanda che morì sul nascere. Guardò Mycroft interrogativo e l'uomo gli fece cenno di sedersi su una delle poltrone.

Si starà chiedendo perché proprio qui. –

John prese posto strofinandosi nervosamente i palmi sui pantaloni. Non sapeva nemmeno perché volesse parlargli, ma la cosa bizzarra era che, sì, la domanda che non riusciva a togliersi dalla testa era proprio quella. Osservò Mycroft che si accomodava sulla poltrona davanti a lui.

Non lo faccia. – lo ammonì.

L'uomo si bloccò a metà del gesto e osservò le proprie mani stupito, rendendosi conto della posa inconscia. John aveva cesellato in testa ogni gesto, ogni abitudine, ogni atteggiamento suo e non sopportava l'idea che qualcuno potesse appropriarsene. Tantomeno Mycroft.

Il silenzio teso venne interrotto dalla signora Hudson che tornava con il té.

Gliel'ha già detto? – chiese la donna con aria cospiratoria.

Mycroft le rivolse una smorfia comprensiva.

Certo che no, singora Hudson. – si rivolse poi a John e gli spiegò con un gesto codiscendente – Vuole essere lei a dirglielo. –

Mi sembra di averne tutto il diritto. – protestò la donna con aria fiera, mentre serviva il té.

John prese in mano la sua tazza e si accorse di tremare. Sentiva un formicolio non molto piacevole all'altezza dello stomaco.S'incassò nella spalle e guardò prima l'uno poi l'altra, sforzandosi s'ignorare il fatto che stava iniziando a capire.

La signora Hudson si torse le mani nervosamente.

È tornato. – soffiò.

Il tempo rallentò fino a bloccarsi. L'aria si dissipò fino a svanire dai polmoni. Il cuore affievolì i battiti fino fermarsi.

Quando il tempo riprese a scorrere, la coperta sotto cui l'anima di John Watson era sepolta venne scostata bruscamente. L'aria gli bruciò la gola e i polmoni e il cervello. Il cuore esplose, ricordandogli dolorosamente che esisteva ancora. Dentro di sé urlava, esteriormente era impietrito.

John riconosceva un attacco di panico e non si stupì di vedere la tazza schiantarsi al suolo. Una parte di lui si dispiacque di aver incrinato il bel servizio di porcellana della signora Hudson. Il resto di John era impegnato a fare in modo che non crollasse come un pupazzo privato della segatura.

Oh, caro! –

Ignorò il richiamo della donna. Ignorò i loro sguari preoccupati. Non riusciva a sentire altro se non il rombo sordo del sangue che gli andava alla testa.

Watson... John. –

Sarebbe stato meglio ignorare anche Mycroft, ma aveva fatto il grosso errore di chiamarlo per nome. C'era un solo Holmes che poteva permeterselo e non era quello seduto davanti a lui. John alzò lo sguardo e lo trafisse sul posto. Un attimo dopo l'aveva preso per il bavero. Rotolarono sul pavimento tra gli strilli della signora Hudson e i tonfi dei pugni.

John non seppe mai chi e come riuscì a dividerli. Nell'esercito era noto per i suoi corpo-a-corpo. Fattostà che adesso erano di nuovo seduti, guardati a vista dalla signora Hudson. John si premette un panno umido sul labbro contuso e guardò Mycroft senza trovare le parole. L'uomo accennò di aver compreso e tacquero entrambi per un lungo momento.

Era stanco, John. Così stanco, dopo quella botta di adrenalina pura, che adesso voleva solo dormire. Ascoltò senza sentirle le spiegazioni di Mycroft: il piano di suo fratello, l'aiuto di Molly, la chiamata che l'aveva coinvolto. Praticamente obbligato. Perché Sherlock l'aveva capito, ovviamente: aveva intuito che la falla che aveva permesso a Moriarty d'incastrarlo era proprio Mycroft. Suo fratello aveva dovuto aiutarlo e l'aveva fatto al meglio dei suoi mezzi. Pur sapendo che non avrebbe mai potuto riparare a ciò che aveva commesso.

John reclinò la testa sullo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Il sospiro gli riempì le narici dell'odore del té che aveva versato e fu accompagnato da quello che prese sonno. Da quello e dall'angoscia di aver passato tre anni – tre fottuti anni – a piangere su una tomba finta.


Come ci fosse tornato al suo appartamento era poco chiaro. Tutto era poco chiaro, in quel momento, nella mente di John. Non era granché lucido e tutta la tensione accumulata gli si stava sfogando sullo stomaco. Arrancò fino al bagno e raggiunse la tazza appena in tempo. Vomitò anche l'anima, che nemmeno quel virus beccato in Afghanistan gli aveva rivoltato le budella in quel modo.

Si sedette a terra, la schiena contro la ceramica fredda del water e il volto tra le mani.

John Watson aveva ucciso la sua anima, l'aveva strangolata tre anni prima. Ma adesso non si poteva dire che fosse rinato. Diciamo che era passato da uno stato di letargo a quel lieve dormiveglia in cui si fanno strani sogni. L'incredulità lo stava divorando. A suo tempo aveva passato tutte le fasi – rifiuto, rabbia, trattativa, depressione – fino a giungere all'agognata accettazione. Adesso le stava riattraversando daccapo. Peccato che gli fossero piombate addosso tutte assieme.

Si rialzò da terra con un grugnito stanco e andò al lavandino per lavarsi.

Quaranta giorni. Questo ricordava di tutto il discorso che gli aveva fatto Mycroft. Solo questo. Quaranta giorni e Sherlock avrebbe potuto rimettere piede nella società.

Quaranta giorni e lui sarebbe tornato nella vita di John.

Quaranta giorni e faceva fatica a pronunciare il suo nome. Era tutto molto biblico.

John schioccò la lingua e si appoggiò stancamente al lavandino, guardandosi allo specchio con aria perplessa. Cosa avrebbe visto quando se lo sarebbe trovato davanti?

Cosa vedrai, Sherlock?

~

Occhi pesti: soffre d'insonnia. Stessi vestiti, anche se puliti e ben curati: non ha una donna. Da tre anni. Non ha alcun interesse ad andare avanti. Trauma mai superato. Taglio di capelli fresco, barba fatta: lo tiene su la disciplina militare. No, non solo. Non vive più a Baker Street, ma ha preso alcune cose che mi appartenevano: sente un debito d'onore.

Sherlock si accostò appena al cipresso, seguendo con gli occhi la figura che si avvicinava.

È questo? E adesso cos'è che ti farà andare avanti, John?

Voltò la testa verso la corteccia e la fissò confuso. Era convinto che non si sarebbe presentato alla sua solita visita mensile.

E allora perché sei venuto qui? Perché sei venuto ogni mese, Sherlock?

Scosse la testa, come a scrollarsi di dosso quelle riflessioni.

Oh, ma che incredibile stronzo! –

Sherlock trasalì. Accigliato, sbirciò verso la lapide. Verso John.

Mi hai fatto fare la figura dell'idiota. – John allargò le braccia e guardò la lapide con aria comicamente scornata.

Vaffanculo. – dichiarò con voce calma, facendogli sgranare gli occhi per lo stupore.

Sorrideva. Scoteva la testa e si mordeva il labbro, trattenendo una risata. Sherlock dovette dimenticare per un momento che si stava nascondendo, perché fece un passo avanti.

Vaff... – la mano scattò alla fronte, lo sguardo incredulo al cielo – Oh, Cristo... –

John chinò la testa, la mano scivolò sugli occhi.

Oh. Cristo. – scandì con un sospiro.

Sherlock s'immobilizzò, sentendosi improvvisamente molto stupido. E a lui non piaceva per niente sentirsi supido. Restare nascosto là dietro, ormai, era la cosa più patetica e ridicola che potesse fare, ma semplicemente non aveva il coraggio di affrontarlo.

Cos'è che ti spaventa? La paura è irrazionale.

Adesso mi sento davvero il più colossale idiota sulla faccia della terra. Grazie. –

Un immotivato senso di colpa lo investì in pieno.

Temi il suo giudizio.

Sherlock. –

Temi il suo sguardo da “perché non ti sei fidato di me?”. Temi che tu risponderai alla sua delusione con una delle tue argomentazioni del tutto logiche e stringenti.

È ridicolo. Esci da là dietro. –

Temi che, nonostante la ragione stia dalla tua parte e John sia abbastanza intelligente da capirlo, lui non te lo perdonerà lo stesso.

Per favore. –

E sopratutto temi che, pur non potendotelo perdonare, lui non smetta di considerarti la persona più importante della sua vita.

Sherlock Holmes, esci di lì. Fallo adesso o giuro che ti faccio pentire di essere nato. –

Temi i sentimenti.

Accadde così, dietro un cipresso del cimitero dove stava la sua finta lapide, e fu appena per un secondo. Sherlock chiuse gli occhi e si concesse di lasciarsi andare ai sentimenti. Il secondo più lungo della sua vita. Fu doloroso e bellissimo e pregò che non finisse mai e al contempo che finisse il più presto possibile.

Terminò come era iniziato: per sua volontà. Quando riaprì gli occhi, John si stava allontanando e la mano gli doleva. Osservò con stupore le schegge di corteccia conficcate nelle dita.


Sherlock Holmes era troppo intelligente per potersi permettere d'ignorare l'importanza che i sentimenti avevano assunto nel rapporto tra lui e John Watson. Il fatto che non fossero palesi, inoltre, li rendeva esponenzialmente più pericolosi. Finché si era trattato di una convivenza ai limiti dell'accettabile, poteva gestirla senza problemi, ma adesso la situazione era sfuggita dal suo controllo.

La sua caduta prima, il suo imminente ritorno poi: tutto aveva contribuito a minare le basi di quell'equilibrio. La situazione si era ribaltata. Fare finta di niente, continuare a non considerare ciò che provavano, sarebbe stato un colossale errore che prima o poi avrebbe distrutto il delicato equilibrio che si era instaurato tra di loro.

Era innegabile: Sherlock possedeva una mente fuori dal comune. Probabilmente – e del tutto immodestamente – la più strodinaria del Regno Unito. Eppure questo genio non aveva la minima capacità di gestire qualsiasi cosa avesse a che fare con i sentimenti. Lo trasformavano in un essere vulnerabile, relegandolo a quell'umana fallibilità che tanto disprezzava.

Sherlock era bloccato in un'impasse, incastrato nell'infantile rifiuto di accettare ciò che non capiva. Ancora non lo sapeva, ma quella sarebbe stata la sua condanna – o la sua salvezza, dipende dai punti di vista.


I giornali ci andarono a nozze per qualche settimana, facendogli una pubblicità tale da fargli guadagnare immediatamente tanti casi quanti non se ne sarebbe mai potuto sognare prima. Era utile – e non solo economicamente. Lo distraeva. Sherlock stava tentando di riprendere la sua routine al 221B di Baker Street e la presenza della signora Hudson compensava con la sua aria familiare il caos che regnava attorno alla figura mediatica che era diventato.

Aveva ovviamente preventivato il disagio che gli avrebbe causato il suo ritorno nella società. Peccato che un conto sia preventivarlo, ben altro è viverlo. Se John fosse stato al suo fianco, sarebbe stato tutto più semplice. Ma John non c'era.

Tanto per mettere più carne al fuoco, Lestrade ebbe la brillante idea di organizzare una festa in dipartimento. Per lui, sì. Orrore. Ma non poteva non esserci, come gli aveva ingiunto la signora Hudson.

C'era mezza Scotlan Yard, compresi Donovan e Anderson. Sherlock non riuscì a prendersela: era troppo concentrato su John. Quella era la prima occasione in cui si rividevano. O, per meglio dire, la prima occasione in cui erano ufficalmente e dichiaratamente nello stesso posto e nello stesso momento.

Perché tra di loro, oltre ad una turba di poliziotti ipocriti e fiumi di drink analcolici, si stagliava una muraglia di ghiaccio dallo spessore inaudito. Sherlock la studiò con attenzione, notando le falle e i punti incrinati, chiedendosi se e come avrebbe potuto abbatterla.

Non raggiunse alcuna conclusione entro il termine della festa.

Vide, infine, John infilare il cappotto e andarsene ridendo con un'agente della buoncostume. Lei era cotta a puntino, lui non provava alcuna attrazione. Era triste – lui, loro, la situazione, tutto. Sherlock non riusciva a comprendere i sentimenti ambivalenti che quelle consatazioni gli causavano e preferì relegarli nel solito angolo in cui stipava le cose che non capiva. Un angolo che ultimamente era abbastanza sovraffolato.


Prima che John Watson trovasse il “tempo” per andare a trovare il suo redivivo amico Sherlock Holmes, ci vollero quaranta giorni. Tanto lo fece aspettare. Sherlock aveva il fondato sospetto – no, anzi, la certezza – che l'avesse fatto di proposito.

Dispettoso, vendicativo, sentimentale John.

In quel mese e passa, esattamente come non si era fatto vedere al cimitero, Sherlock non l'aveva chiamato. Aveva lottato contro l'impulso di inviargli un messaggio chiedendogli – reclamando – la sua compagnia. Aveva seppellito ogni pretesa, nella convinzione che John avesse bisogno dei suoi tempi, dei suoi modi. Accettare il fatto che quella realtà nella quale aveva vissuto per tre anni era falsa, non doveva essere facile. Giusto?

Chiunque altro avrebbe intuito che era John che stava aspettando da lui – come aveva sempre fatto, come avrebbe sempre fatto, nonostante tutto. Ma non Sherlock. Sherlock, lo abbiamo già detto, non è mai stato una cima in fatto di relazioni. E così fu John a doversi muovere per primo – ancora una volta.


Un anonimo venerdì sera, dopo la chiusura di un caso, Sherlock era appollaiato sulla poltrona a guardare la televisione. Stava borbottando qualche impropero verso Jessica Fletcher, quando sentì il campanello.

Quaranta giorni erano passati dal suo ritorno. Quaranta giorni che aspettava quello scampanellio.

Saltò giù dalla poltrona e schizzò fuori dal salotto, doppiò la signora Hudson e si bloccò davanti al portone. Si voltò nervoso, passandosi una mano nei capelli, cercando inconsciamente aiuto nella sua padrona di casa. Lei intercettò il suo sguardo allarmato e gli andò incontro. Prese la mano con cui si stava praticamente strappando i capelli e con un gesto delicato ma deciso la allontanò. Gli sistemò le ciocche arruffate con cura e gli sorrise, stringendogli le spalle con aria materna.

Infine svanì al piano di sopra, lasciandolo solo al suo destino. A John.


Sono passati quaranta giorni. –

Lui lo ignorò ed entrò. Si tolse il cappotto, appendendolo al solito gancio. Il gesto familiare e la sua tranquillità – la sua rassegnazione – spiazzarono Sherlock.

Quaranta giorni, John. – ripeté, incapace di fare la persona matura e lasciar perdere quel preciso argomento.

Chiudi, fa freddo. – gli disse rabbrividendo nel maglione a rombi.

Accigliato, Sherlock richiuse la porta con una spinta, ma non si mosse. John si voltò a guardarlo dalla base della scale, in attesa.

Sono passati... –

Quaranta giorni. – lo interruppe lapidario – Sì, Sherlock, sono passati quaranta giorni. Lo so. –

Se l'avesse preso a sprangate nei denti sarebbe stato meno doloroso. Lo fissò incredulo e ferito, con l'ingenuità fanciullesca di chi non comprende. Di chi è incapace di comprendere, di accettare tutta la pena che gli leggeva addosso.

Ringrazia che non ti ho fatto aspettare tre anni. – aggiunse voltandogli le spalle.

John” avrebbe voluto richiamarlo. Ma lui era già svanito al piano di sopra.


Non fu un piacevole ritrovo tra vecchi amici. Non lo fu nemmeno la volta dopo e neanche quella dopo ancora. Non lo fu per molte volte. Eppure John tornava sempre e ogni volta ad intervalli più brevi. Ce ne vollero comunque parecchi di questi incontri affinché tornassero ad essere solo la pallida eco degli amici complici che erano stati. Affinché la rabbia repressa e la frustrazione e la delusione che trasudavano da John la smettessero di soffocare ogni tentativo di riavvicinamento.

Non parlavano del passato. Mai. Non parlavano di niente che fosse anche solo lontanamente ricollegabile a ciò che era successo tre anni prima. Il nome “James Moriarty” era impronunciabile.

Quella muraglia di ghiaccio che Sherlock aveva sentito alla festa era ancora lì, tutta intera e abbagliante. Era quasi ridondante e aveva la sensazione che non vedesse l'ora di farsi abbattere. Ma Sherlock era semplicemente terrorizzato – sì, terrorizzato – dalle possibili conseguenze.

Aveva fin troppo chiara l'idea di cosa potesse implicare. Sapeva che l'equilibrio era spezzato e quella muraglia, quel continuo fingere per proteggersi e proteggere l'altro, era l'unico modo che aveva per mantenere quello status quo.

Andarono avanti così per mesi. Mesi estenuanti di altalene emotive che li lasciavano spossati. Sherlock stava accumulando una notevole quantità di tensione e ciò lo rendeva poco lucido. Fu così che commise il suo primo errore – o la sua prima mossa giusta? Anche qui, certo, dipende dai punti di vista.

   
 
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Doralice