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Autore: _hush    01/02/2012    5 recensioni
« Non so se è una storia da raccontare, in verità.
Non posso nemmeno dirvi con precisione il motivo per cui lo faccio.
Non posso dirvi se sia una storia d'amore felice, né so nemmeno se sia completamente una storia d'amore.
E' una storia. »
Dal capitolo sedici.
Lo abbandonai sul comodino e mi sdraiai, cercando di districare le coperte da buttarmi addosso. Dopo esserci riuscita, affondai la guancia nel cuscino, fissando il solitario scattare dei minuti della sveglia.
Mezzanotte meno tre.
Mezzanotte meno due.
Mezzanotte meno uno.
Il cellulare squillò.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hide and seek


;dedicata a Sara.
Perché me l'hai chiesta tu.


01. Upheaval



Camminavo a passo svelto, cercando di schivare le varie pozzanghere, residui della pioggia pesante di quella mattina. Accidentalmente, il mio piede destro, fasciato solo in Converse di tela blu, si immerse per metà in uno di quei maledetti piccoli laghi. Imprecai e scossi il piede come un cane bagnato. 
Mentre mi allontanavo borbottando da sola -ancora solo due di quei vicoli vuoti e sarei stata a casa- il cellulare mi vibrò in tasca. Lo ignorai stizzita e continuai a camminare. Era Nikolai, quasi di sicuro. Una ragione in più, insieme al mio immotivato cattivo umore che mi seguiva dalle sei del mattino, per non sprecarsi a tirare il Blackberry fuori dalla tasca. Eppure, lo feci. Era ovvio. Gli cedevo sempre, anche quando era a centinaia di chilometri di distanza. In un altro continente. 
 
Domani shoot a San Francisco. 
Cambio il fuso, ti chiamo io. 
 
Che patetica scusa. Non mi avrebbe chiamata. Era la prima volta in quattro giorni che mi rivolgeva parola, ed era tutto quello che sapeva dire. Dopo tutto quel gran casino che era successo proprio il giorno prima della sua partenza, mi accenna solo al fuso orario e a quel suo fottutissimo lavoro. 
Ricordavo ancora troppo lucidamente la nostra ultima discussione. Come sempre, negli ultimi tempi, su una questione così futile. Ma da lì, partiva un litigio su tutto ciò che ci creava fastidio. La cosa non funzionava più da un mese, ormai. E nessuno dei due, lo ammetto, aveva fatto sforzi per aggiustare le cose. A volte credo di coprire la mia vigliaccheria con la scusa dell'orgoglio. Forse lo fanno in molti. 
Oh, eccole ancora una volta, le lacrime a pizzicarmi gli occhi. Non riuscivo a contenerle, non riuscivo a contenere tutta quella scena, che stava di nuovo esplodendo nella mia testa, violentemente. Era la terza volta che scoppiavo in quel modo nella settimana, ed era solo mercoledì mattina. Lacrime, senza ragione, al solo pensare il suo nome. E poi il flashback. Iniziai a vedere i suoi capelli scuri e morbidi, come se fossero davanti a me, ancora bagnati dalla doccia. Ogni dettaglio, si faceva più definito... La libreria dietro le sue spalle, comprata insieme. Come se la speranza di andare a vivere insieme avesse mai potuto farsi concreta, con lui che non rimaneva in un posto per più di tre mesi. 
La sua maglietta rossa. La sua preferita. Comprata anche quella con me, proprio lì, a Londra. 
Iniziarono a scendere, salate. Mi appoggiai a un muro qualsiasi e cercai di contenermi, per lo meno di resistere fino a che non fossi entrata in casa. L'edificio era proprio al di là dell'angolo, dietro a quel muro, ma avevo intravisto del movimento, sagome che entravano e uscivano dalle loro case. 
Mai piangere in pubblico. Che perdita di stile, avrebbe detto mia madre. Riuscivo ad essere stupida e a tirarmela anche in momenti come quello. "Cielo, faccio schifo."
Mi sfregai la faccia, ravvivandomi e capelli e asciugandomi le lacrime. Aggiustai il trucco alla cieca e attraversai la strada, ora deserta. Ravanai nella borsa alla ricerca delle chiavi, ma non riuscii a trovarle, anche dopo una caccia di tre minuti in qualsiasi grotta recondita della borsa o delle mie tasche.
Ci mancava.

Mi massaggiai le tempie, cercando di restare calma, e mi sedetti sui gradini davanti la verde porta di casa, con un che di barboneggiante e disperato. Chissà cosa pensavano, quei vicini pettegoli che mi erano capitati. Abitavano nella casa vicina alla mia, a sinistra. Due vecchietti impertinenti, che consideravano sconveniente ogni cosa e amavano profondamente parlare alle spalle degli altri. Sì, loro avrebbero avuto da ridire anche sul fatto che mi ero seduta sui gradini di casa. 
Sconveniente, per un simile quartiere, già. Altolocato, vicino alla City, solo famiglie benestanti o giovani rampolli promettenti. Io ero fra gli ultimi, anche se forse non così promettente. E vivevo proprio in una di quelle schiere di case tipicamente londinesi, tutte attaccate alle altre, alte, cinque scalini per arrivare alla porta, muri bianchi. Costose.
L'aveva scelta mio padre, come ovvio. Come se avesse mai fatto scegliere qualcosa della mia vita a me. Liceo classico; medicina; al terzo anno, erasmus a Londra; un appartamento da sola, niente campus, per farmi sperimentare la vita da adulta. Fino a qui, escludendo l'erasmus in corso solo da due mesi, avevo messo un tic di fianco ad ogni cosa. Nessun esame perso, nessun anno mancato. Mi mancavano ancora, nella sua lista, in ordine: specializzazione in oncologia, come lui; laurea; tirocinio; entrata nel suo studio medico; matrimonio; figli; eredità dello studio medico. Poi magari sarebbe anche crepato il vecchio, alla fine.
Tutte cose che a molti avrebbero fatto gola. Mi sentivo orribile ad odiare tutto ciò. Se avessi potuto, avrei regalato tutto -i soldi, l'ammissione a medicina, la casa a Londra-; io non li volevo, nessuna di quelle cose faceva per me. 
Non sapevo cosa facesse per me, in realtà. Disegno, dipingo. Ma il fatto di non avere mai avuto il coraggio di mostrare qualcosa di mio a qualcuno che non fosse mio parente non mi ha certo aiutata a credere di potercela fare nel mondo dell'arte. Visto anche che i miei non mi ripetevano altro che quello di dipingere non era un lavoro.

E allora ero arrivata lì, in quella casa che, anche se da una parte odiavo per ciò che rappresentava, era diventata l'unico angolo completamente personale della mia vita; a quella relazione fallimentare con Nikolai, un modello (assicuro che non c'è da esaltarsi troppo) di ventidue anni, che all'inizio mi aveva fatta sentire incredibilmente fortunata ad averlo acchiappato, ma in verità era solo uno qualunque, soltanto con una faccia molto bella; a quella me, che mi disgustava fin da troppo tempo. A quella me seduta come una disperata sui gradini di casa sua, senza chiavi.
Gettai la borsa, ancora aggrappata alla spalla, lì di fianco, allungandomi sui gradini, quasi sdraiata. Mi puntellai sui gomiti e chiusi gli occhi, cercando di non pensare a niente, solo per un minuto, e di catturare quel sottile raggio di sole che aveva avuto il fegato di spuntare fra le nuvole ammassate. 
Inspirai ed espirai.
Sentii alle mie spalle il rumore di una porta che si apriva. Erano probabilmente i vecchi. I nuovi vicini, quelli della casa a destra, non si erano ancora fatti vedere. Me ne fottei, e lasciai andare la presa sui gomiti, appoggiando direttamente la schiena sull'angolo di un gradino. Ero tentata dal mettermi ad ascoltare l'IPod per evitare le loro chiacchiere. Cosa avevano da dire, poi? Chi ha bisogno di una casa, quando si può abitare tranquillamente sulle scale? Stavo già infilando la mano in borsa, quando udii una voce che chiaramente parlava a me.
Feci una smorfia, ancora ad occhi chiusi, per poi realizzare che la voce stessa non era assolutamente vecchia, anzi. Giovane, roca. Allegra.
Mi ero anche persa cosa aveva detto, nel frattempo.
-Mi hai sentito?- Disse sempre la stessa voce. 
Con molta tranquillità, aprii gli occhi e mi raddrizzai, facendo scrocchiare la schiena. Mi volsi verso la fonte della voce, alla mia destra. -No. Non ti ascoltavo.-  Solo dopo focalizzai il tipo che stava fermo sui gradini d'ingresso della casa di destra, la mano ancora poggiata sul pomello della porta color verde pino, identica alla mia. Lui alzò un sopracciglio, con uno strano sorrisetto sulle labbra. Aveva dei muscoli facciali incredibili, quel sopracciglio si era sollevato come minimo di tre centimetri. 
-Ti ho chiesto se avevi bisogno d'aiuto.- Ripetè, chiudendo bene la porta, sempre con quel mezzo ghigno stampato in faccia. Sembrava più giovane di me; aveva la faccia da bambino, occhi grandi e una massa di capelli castani e ricci, come i miei. Tutto in lui, almeno da quella distanza, aveva un che di infantile, tranne la voce. 
Cercai di sollevare ironicamente un sopracciglio anche io, sapendo bene che non avrebbe raggiunto certo l'arcata del suo. -Niente che tu possa fare, grazie.-
Stavo per tornare a sdraiarmi e cercare di ignorare il resto del mondo prima di chiamare i pompieri, quando mi giunse un'illuminazione. -Ah!- Scattai in piedi e con uno sguardo probabilmente folle mi rivolsi al ragazzo, che mi osservò con un che di preoccupato. -Tu vivi lì? Sei quello nuovo?- Dissi, indicando la porta da cui era spuntato prima. Si limitò ad annuire, sempre sul chi-va-là. Sorrisi. -Senti, sono rimasta chiusa fuori. E nella siepe fra i nostri due giardini c'è un buco. E la mia porta sul retro è aperta. Perciò- il sorriso si fece ancora più largo, e ci aggiunsi una molto innocente sbattuta di ciglia. -non è che mi faresti passare?-
Lui mi fissò per qualche secondo, impassibile, poi scoppiò a ridere. Forte.
A lungo.
Lo guardai di rimando, con una faccia per niente divertita. Ancora sorridente riaprì la porta e mi fece cenno di seguirlo. 
Raccolsi la borsa e salii i gradini tra l'irritato e il gratificato, per attraversare la soglia. Il tipo era già a metà del corridoio, e andava spedito e ridacchiante verso la porta che dava sul giardino. 
-La vuoi piantare di ridere, ragazzino?- Sbottai, cercando di tenergli dietro. A stare su quelle scale mi si erano addormentate le gambe. 
Mentre ancora camminava si voltò verso di me, ilare. -Oh, dai, ti sto facendo un favore.- Poi mi squadrò da capo a piedi. -E non puoi essere di molto più grande di me.- 
Mugugnai e uscii insieme a lui nel giardino. -Io ho ventidue anni. Tu al massimo quindici, ragazzino.- Gli soffiai, cercando di individuare il buco nella siepe. I vecchi vicini non si erano mai dati pena di chiuderlo, e figurarsi se l'avrei fatto io. Perciò era rimasto lì, ignorato e mordicchiato dal loro cane a cui piaceva accucciarsi lì sotto. 
Lo trovai, nascosto da un vaso piazzato proprio lì davanti. Lo scostai e osservai la rete sfaldata e il terreno umidiccio su cui sarei dovuta strisciare; il buco lo ricordavo molto più ampio. Mentre iniziavo ad infilare la testa e le braccia, la voce del ragazzo mi giunse da dietro; si capiva che stava sorridendo. -Ne ho diciotto.-  Con la coda dell'occhio notai che si era mosso e piegato sulle ginocchia.
Borbottai un "ma cosa cambia" e proseguii la mia missione molto marines. Finalmente toccai le mattonelle di terracotta del mio non molto verde giardino e in un momento fui dall'altra parte. Tutto quello che feci fu sdraiarmi davanti al buco, stanca di tutto. Voltai la testa e vidi la faccia del tipo al di là dello squarcio, leggermente inclinata, come quella di un gufo. Iniziò di nuovo a ridacchiare e quella volta non potei fare a meno di ridere anch'io, rotolando sul pavimento. Avrebbero dovuto filmarmi, una deficiente che striscia sulla terra bagnata, invadendo case altrui per intromettersi illegalmente nella propria. -E' così ridicolo- riuscii a dire alla fine, mentre cercavo di smettere di sghignazzare. 
Allargai le braccia e rimasi così, guardando il cielo grigio. -Dio.-  

Era la prima volta che ridevo così da una settimana. E per una cosa assurdamente stupida. 
Una mano con annesso braccio pieno di braccialetti spuntò dal buco. -Io sono Harry.- 
Mi rialzai e gliela strinsi. Era calda. Probabilmente lo feci rabbrividire. Le mie mani sono sempre gelide. -Belle.- Perchè presentarmi con il mio nome completo? Gli inglesi non lo sapevano mai dire correttamente, anche se Isabella è uno dei nomi italiani più usati all'estero. Semplicemente, in effetti, mi irritava la pronuncia, e dire solo "Belle" era diventata un'abitudine.
Lui mi sorrise, mostrando i denti bianchissimi e un paio di fossette. Come odiavo le fossette. Senza motivo, poi. Cercai di non sembrare irritata per una schiocchezza simile. -Bene, ragazzino.- Mi alzai in piedi, scollandomi la terra di dosso. -Grazie per avermi fatta passare.-  Gli dissi, muovendo la mano a mo' di saluto davanti al buco. 
-E' stato un piacere.- Sorrideva ancora, si sentiva. Come faceva ad essere continuamente allegro?
-Ci si vede.- Gridai spalancando quella graziatamente non chiusa a chiave porta del retro. 
Mi accolse il caldo termosifoni. Abbandonai la borsa e insieme ad essa gli appunti del corso di anatomia, e tutto quello che feci fu gettarmi sul divano. 
 
 



 
 
N.d.A.
Boh.
Che gran inizio di note, vero?
Caspita.
La verità è che sono piuttosto imbarazzata, non perché questa sia la mia prima pubblicazione su EFP (di fan fiction ne ho scritte parecchie, molte delle quali con account dimenticati e persi -argh!), piuttosto, la prima nel fandom dei One Direction. 
Mi farebbe, comunque, molto piacere sapere cosa ne pensate, anche con un commento di dieci lettere contate.
Sul serio, mi farebbe piacere.
Grazie, in ogni caso, per aver letto fino a qui.

_hush

*giusto per precisare: "Hide and Seek", il titolo della storia, in inglese è l'equivalente del nostro nascondino.

  
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