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Autore: _hush    02/02/2012    3 recensioni
« Non so se è una storia da raccontare, in verità.
Non posso nemmeno dirvi con precisione il motivo per cui lo faccio.
Non posso dirvi se sia una storia d'amore felice, né so nemmeno se sia completamente una storia d'amore.
E' una storia. »
Dal capitolo sedici.
Lo abbandonai sul comodino e mi sdraiai, cercando di districare le coperte da buttarmi addosso. Dopo esserci riuscita, affondai la guancia nel cuscino, fissando il solitario scattare dei minuti della sveglia.
Mezzanotte meno tre.
Mezzanotte meno due.
Mezzanotte meno uno.
Il cellulare squillò.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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02.  Heat

 
Quando mi svegliai era ormai sera. Mi occorsero circa dieci minuti per snebbiare la testa completamente e non cadere giù dal divano. Era un miracolo che non ne fossi già rotolata giù, ma probabilmente mi ero aggrappata allo schienale durante il sonno, a causa di un sogno movimentato, che non ricordavo già più. 
Sapevo solo che era ansiogeno e fin troppo complicato. 
Quando poggiai i piedi scalzi sul pavimento freddo rabbrividii e andai, in punta di piedi, alla ricerca delle pantofole, che sembravano essere scomparse dalla faccia della Terra. Già di malumore, andai al piano di sopra e mi misi un paio di spessi calzini come sostituzione. Di norma, adoravo andare in giro per casa scalza, ma quella sera provavo un freddo incredibile, e dal momento che i termosifoni scottavano ancora -lo testai- c'era una grande probabilità che stessi covando qualche virus. Cercai di ignorare l'eventuale problema e tornai al piano inferiore, trascinandomi giù per le scale di legno, strette e dagli scalini alti. Sembravano antiche, anche se il caseggiato non poteva avere più di trent'anni, ed era stato spesso ristrutturato, da quanto sapevo. 
Ero stata io a cambiare completamente gli interni della mia casa, prima di trasferirmi lì per l'erasmus. Mi irritava l'ambiente sterile e troppo moderno che avevano creato i precedenti proprietari, così io mi ero sbizzarrita ad aggiungere un sacco di dettagli e cose inutili; mazzi di fiori secchi appesi al soffitto, come nelle vecchie erboristerie; una parete ricoperta di scritte e citazioni dai miei libri e poesie preferiti; serie di post-it attaccati qua e là, a comporre parole. O ancora, un'altra parete tappezzata da disegni fatti a carboncino o ad acquerelli. Per il resto, molte cose me le ero portate dietro da Milano. Sapevo che sarei dovuta tornare, e quindi fare quel grande trasloco di nuovo, ma forse una parte di me sperava che quella traversata della Manica sarebbe stata definitiva. 
Di quel posto non mi sarebbe mancato nulla. Della mia famiglia, nessuno. Non mia madre, che mi stava attaccata in modo ossessivo, solo per controllare che non facessi nulla di sconveniente, che avrebbe potuto turbare l'aspetto angelico della nostra famiglia ai conoscenti. Non mia sorella, una presuntuosa viziata anche più di me. Non di certo mio padre, che in me non voleva vedere altro che una sua replica al femminile, anche se sapeva benissimo che non la sarei mai potuta essere. Non quel mucchio di amici spocchiosi e falsi che mi circondavano dall'infanzia e che erano tutto quello che, per decoro, potevo frequentare.
Ma lì, a Londra, era diverso. Semplicemente, per la loro estrema lontananza. 
Lì era dove per la prima volta in vita mia mi ero sentita libera.
Certo, libera non si collega sempre a felice. Ma è un passo.
 
Quella sera, sentivo che qualcosa non andava. Ero stata fin troppo scontrosa già da quando avevo aperto gli occhi la mattina, ed ogni volta che decidevo che una giornata sarebbe stata negativa, in un modo o nell'altro, presto o tardi, quella lo sarebbe diventata.
E' un fenomeno psicologico. Accade anche nelle relazioni: se si teme di essere antipatici ad una persona, tendiamo ad allontanarla perché pensiamo di non piacerle. Quindi, automaticamente abbiamo comportamenti irritanti verso quella persona. E quella persona ci troverà per forza antipatici, anche se prima non lo pensava.
Fu esattamente quello che feci quella sera. 
Ero di nuovo stesa sul divano, quando il cellulare, appoggiato sul bracciolo, iniziò a cantare "Dream On" degli Aerosmith. Lo fissai per qualche secondo, osservando senza espressione il nome Nikolai scritto in grosse lettere bianche sullo schermo. Non riuscivo a credere che mi avesse chiamata davvero, perciò pensai subito che lo facesse per un motivo negativo. Urlarmi contro, lasciarmi, annunciarmi la fine del mondo. Cose così. 
Di conseguenza, la mia risposta non fu certo felice. 
-Che c'è?- Dissi acida al cellulare. 
Nikolai non rispose subito, evidentemente non molto entusiasta di come lo avevo accolto. Potevo sentire della confusione lontana, come se si fosse appartato ad una festa. Sperai non fosse ubriaco. 
"Ah, ecco. Mi ha chiamata perché è ubriaco."
In effetti, la sua voce era impastata. Avevo detto che ti avrei chiamata. Non dovresti essere così sorpresa.-
Improvvisamente molto attiva, mi alzai dal divano, afferrai la coperta che vi tenevo sempre sopra e iniziai a girovagare per il salotto, con quella gettata sulle spalle. -La maggior parte delle volte in cui dici che chiami non lo fai mai. Ho un buon motivo per essere sorpresa, se ci pensi.- Mi aggiustai i capelli scompigliati, anche se con i ricci potevo fare ben poco.
Nikolai mugugnò dall'altra parte della cornetta. Sapeva che avevo ragione. -Parliamo d'altro, è meglio.-
Mi accigliai. -Mai una volta che ti scusi.-
Quella sera stavo decisamente prendendo la via sbagliata. Mi odio, quando faccio così.
-Si può sapere cosa c'è che ti irrita tanto?- Lo sentii sbottare. Quella era una bella domanda. Che cosa avevo? Cosa avevo in realtà per essere così irritata?
 
C'era il fatto che di me stessa odiavo praticamente ogni cosa; c'era il fatto che non riuscivo ad apprezzarmi veramente, non importava quanto bene mi fossi truccata, quanto bene fossi vestita, quanto gli altri mi dicessero che ero carina, o intelligente, o piena di fantasia, in ogni caso non ero abbastanza rispetto a tutte quelle ragazze splendide, magre, grasse, alte o basse ma sempre migliori di me, perché... Perché pensavo che loro erano di sicuro più intelligenti di me, più belle di me anche senza trucco, di più e basta. 
C'era il fatto che ero probabilmente bipolare, lunatica, senza uno scopo reale nella vita; senza qualità reali o particolari. 
C'era il fatto che non riuscivo realmente a dimenticare quel disastro della mia famiglia, che non riuscivo a perdonare mia madre per aver tradito mio padre, anche se mio padre era quel che era; c'era che volevo davvero sempre perdonare tutti, ma non ci riuscivo sul serio. 
Oppure il fatto che fossi ipocrita, falsa, distaccata dal resto del mondo, viziata anche se dicevo di odiare la spocchiosità della mia famiglia, imbarazzante. Che fumassi anche se ero una studentessa di medicina, e non so per quale motivo fumassi. Che prendevo tutte le relazioni fin troppo leggermente, e poi mi lamentavo se andavano male. Che facevo pesare eccessivamente qualsiasi piccola cosa negativa che mi accadeva.
O anche, che erano due giorni che avevo perso il mio gatto.
 
-Niente.- 
Mi grattai un sopracciglio e camminai lentamente fino alla porta-finestra del giardino. Aggiustai la coperta scozzese sulle spalle, afferrai il pacchetto di Black Devils appoggiato su un tavolino e uscii nel freddo della notte londinese. Mi piazzai vicino alla siepe, cercando di non schiacciare le foglie bagnate con le mie calze, e tirai fuori una sigaretta. 
Nikolai sospirò, facendo vibrare leggermente il Blackberry. -Perché non mi dici mai nulla?-
Portai la sigaretta nera alla bocca e fregai nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di un accendino. Lo trovai e la accesi con la mano sinistra, cercando di coprire la fiamma dal leggero vento che stava iniziando a tirare con l'altra mano.
Ne tirai una prima boccata, cercando di fare un anello con il fumo. -Perché tu te ne sei sempre fregato.-
Ora Nikolai era davvero irritato. Potevo sentirlo rodere. -Stai scherzando?- Mi gridò. Sobbalzai. Non me lo aspettavo. -Con tutte le volte che ti chiedo come stai quando sono lontano? Con tutte le volte che cerco di aiutarti?-
-Mio Dio!- Gli gridai in risposta. Non volevo iniziare un'altra discussione come quella di qualche giorno prima. Però lo feci, e basta. -Non ci provi mai davvero! Tu te ne freghi! Le uniche due volte che ho tentato di parlarti dei miei problemi eri dall'altro capo del mondo, e mi hai quasi attaccato il telefono in faccia solo perché dovevi andare!- Mi portai una mano alle tempie e tirai un'altra boccata di fumo. Mi morsi un labbro, forte. -Ti sembra aiuto, questo?- Ripresi, urlando. Perché dovevamo gridare? Non ce n'era ragione.
Ormai, però, era l'unico modo in cui dialogavamo.
-Sei ridicola!- Ridicola. Non sapeva nemmeno insultarmi decentemente. Ma forse ero davvero ridicola, a commentare cosa mi stesse dicendo. -E' assurdo continuare ad aggrapparti sul fatto che sono occupato, questo non c'entra affatto. Hai sempre saputo che non potevo farci niente. Sei TU che non vuoi mai ammettere che stai male, perché sei sempre così stupidamente orgogliosa!-
Ero già stanca. Forse perché non volevo più reggere tutto ciò, forse perché non volevo sentire la verità. 
-Come fai ad essere così ipocrita?- Insistette, malvagio. 
Gettai la sigaretta, ancora a metà, a terra, con violenza. Lasciai che bruciasse sul cotto delle piastrelle. 
Cosa avrei dovuto fare? Replicare, continuare ad urlare, come facevamo da settimane? Lasciar andare tutto? Non lo sapevo. Non ne avevo la minima idea.
-E tu, come fai ad essere così stronzo?- Mormorai. Sperai che mi avesse sentito.
Chiusi la chiamata. 
Rivolsi di nuovo lo sguardo a terra e osservai quella sigaretta ancora accesa, dai bordi rosso brillante. Presi un sasso qualsiasi e la schiacciai. 
Cercai di distrarmi su qualsiasi cosa, perché sapevo che stavo per piangere. Di nuovo. E non volevo. Odiavo piangere.
Sentii un movimento improvviso al di là della siepe scura e mi voltai di scatto. Vidi una coda soffice e grigia spuntare dal buco nella rete e mi avvicinai. Si sentivano delle fusa. 
Era Elia, il mio gatto, scomparso qualche giorno prima. Mi abbassai, e vidi che dall'altra parte del buco giungeva una mano che lo stava accarezzando. Da lì, le fusa. Elia mi guardò, con un che di accigliato e rimproverante nello sguardo. 
Un viso comparve vicino alla mano. Era un ragazzo -un altro- con un sorriso dolce e imbarazzato in volto. 
-Suppongo sia tuo.-
Gli feci un sorriso triste di rimando. -Sì, è mio.-
Il ragazzo smise di accarezzare Elia e tolse la mano. -Come si chiama?- Aveva un voce strana, particolare per un uomo, ma musicale e piacevole. Le sue guance erano ancora rosse. Doveva aver sentito la discussione. 
Afferrai il gatto da sotto la pancia e me lo misi in braccio. -Elia.- La mia voce, invece, era troppo roca. Stavo per scoppiare. Sentivo gli occhi lucidi.
Lui mi rivolse un altro sorriso gentile, prima di alzarsi e andarsene. -Buonanotte.- 
Io non feci altro che mordermi di nuovo le labbra screpolate e tornare in casa.














N.d.A.

Bene, e qui c'è il secondo capitolo. Ammetto che è abbastanza lungo, e non doveva essere così -mi sono dilungata troppo su alcune parti, ma non volevo toglierle, perciò-; in ogni caso, sono abbastanza soddisfatta. All'inizio non mi piaceva, ma adesso funziona, suppongo.
Poi, ditemelo voi.

*So che la storia non è ancora veramente iniziata, e mi dispiace, ma mi rifarò nel prossimo capitolo.
**So anche che avrei dovuto postare il disegno, ma il guaio è che il mio scanner si è rotto, quindi devo aspettare di rimediare una scannerizzazione da qualcuno.
***Oh, e grazie a HazzaIsMine e shygirl_96 che l'hanno messa fra le seguite già dal primo capitolo <3

Come sono stata fredda, sarà l'atmosfera del capitolo, LOL.

_Hush
  
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