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Autore: Ilarya Kiki    05/02/2012    2 recensioni
La vita di Amy Wong fa schifo.
Lavora sottopagata in un call-center in una cantina, vive sola in un monolocale nel peggior sobborgo della sua città, Leadenville, con un dirimpettaio invadente e le bollette con cui fare i conti.
Ogni notte va ad ubriacarsi e vaga, solitaria, per le strade notturne come un fantasma…
Finché non si imbatte in una strana ragazza dai capelli rossi.
Quell’incontro stravolgerà la miserabile esistenza di Amy, e la farà intrecciare con i fili rossi dei destini di innumerevoli creature in un misterioso disegno più grande, l’ordine del mondo e l’equilibrio tra bene e male,
fino a risalire al suo oscuro e terribile passato.
Genere: Azione, Dark, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cypress street n° 18


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Il mattino seguente Amy stava andando al lavoro sul suo motorino scassato, compiendo il solito tragitto attraverso il centro della città, finché l’occhio le cadde su una vecchissima villa disabitata dietro ad un cancello di ferro arrugginito, davanti cui passava regolarmente ogni mattina.
Notò il numero, poi la via, e fu colta da una divina folgorazione.
“Ma quanto sono cretina!?”

Quando rientrò a casa, Tarja se ne stava in piedi sulle punte sul divano di pelle, circondata da tutti i poster staccati dal muro e ben ripiegati, intenta a dipingere viticci e fiori colorati sul muro.
Amy sulle prime rimase immobile a bocca spalancata, indecisa tra furia omicida e sbalordimento, ma poi si ricordò subito qual’era la cosa urgentissima che doveva riferire alla rossa e che le aveva occupato il cervello per tutto il giorno, avendo tra l’altro suscitato diverse rimbeccate dalla sua acida superiore.
“Tarja ho trovato la tua casa!”gridò, gettando la borsa nel lavello della cucina.
Tarja si voltò di scatto con un salto e un urlo, e ci mise così tanta enfasi che perse l’equilibrio e si schiantò sul pavimento, rialzandosi poi con i lunghissimi capelli rossi tutti davanti alla faccia.
“Davvero!? Cypress Street!?” esclamò incredula, e poi, gettandosi a braccia aperte sulla blu“…sei magnifica! Stupenda! Incredibile! Un dono degli Angeli! Cherì, ti rivedrò! Sì! Cavolo, devi averla cercata tutta la mattina, visto che nemmeno tu che vivi qui l’avevi mai vista… ” “Eheheh…già, certo, certo Tarja.” Imbarazzata, Amy si divincolò dall’assalto affettuoso della rossa, e poi, cercando di evitare con lo sguardo il suo muro imbrattato di vernice, cominciò a spadellare per preparare il pranzo.
“Quindi…” cominciò, esitante “…andrai da tua sorella, ora, cioè…”
Tarja interruppe subito i suoi vaneggiamenti, dall’alto del divano sul quale era appena risalita.
“Oh, no, questo è impossibile. Madelin non me lo permetterebbe mai. Io voglio portare via Cherì da quella casa, e poi vivere insieme a lei per sempre in un’altra casa, in qualsiasi altro posto, ma non lì. Sai, non so cosa mi farebbe Madelin se mi rivedesse, e non oso pensare a cosa abbia potuto fare alla mia sorellina in tutti questi anni. ”
Amy sentì si scorrere un tremito lungo la spina dorsale, a quelle parole inquietanti ed indefinite , e si voltò lentamente verso Tarja, per spiare non vista la sua espressione, in modo da poter interpretare meglio tutti quegli enigmi che uscivano dalle sue labbra.

Tarja per lei era un mistero.
Naturalmente le era immensamente grata e riconoscente perché le doveva la sua integrità di donna, ma quella ragazza le sembrava anche incredibilmente strana, insolita, fuori posto: era come se fosse scesa da un pianeta alieno lontanissimo, profondamente diverso dal nostro, ma abitato da creature antropomorfe simili ai terrestri, intrappolati a vivere un’epoca che era una via di mezzo tra l’Inghilterra vittoriana e le scenografie di Tim Burton.
Osservò il bel corpo slanciato di Tarja inguainato nel suo strettissimo corsetto di pelle nera, allacciato lungo la schiena con un nastro sottile che stringeva il cuoio incrociandosi in mille piccole “X” sulla spina dorsale –visibile poiché una crocchia disordinata aveva intrappolato i chilometrici capelli fulvi-, per poi liberare all’altezza delle anche le ampie pieghe di velluto scuro della gonna, talmente lunga da lasciar solo intravedere le punte dei piedi candidi.
Ma dove li aveva trovati quei vestiti!?
Amy ricordava di averne visti di simili indosso solo ad attrici di film fantasy, o a stupide galline che per moda si abbigliavano come le dame inglesi ottocentesche facendosi chiamare Goth Loly, o qualcosa di simile.

All’improvviso la porta d’ingresso si spalancò e comparve Davey di ritorno dall’università, con la tracolla dei libri in spalla e un sorriso a trentotto denti stampato sulla faccia magra.
“Potresti almeno bussare!? Cos’è questo, un ristorante!?” urlò Amy alla sua venuta, arrabbiatissima.
Quello mantenendo il suo buonumore infantile s’accomodò al tavolo e rispose semplicemente: “Ho fame! Che prepari?”
Amy ringhiò come una iena, mentre Tarja saltava di nuovo giù dal divano tutta contenta e si sedeva accanto al nuovo venuto, il quale si mise ad ammirare prima il muro, poi la faccia ed i vestiti della ragazza, tutti macchiati di vernice.
“Wow, hai trasformato questo buco deprimente in un campo fiorito! Ci voleva proprio, farà bene all’umore di Amy!”
“In verità sarebbe edera” sillabò Tarja lusingata, guardandosi le mani “solo che mi sono presa qualche libertà nei colori delle foglie e dei fiori. Quel muro mi è sembrato invocare un po’ di edera che crescesse su di lui per tutta la notte, così io…”
“Il mio muro stava benissimo così com’era!” sbraitò Amy, sbattendo sul tavolo un vassoio ricolmo di sandwich col prosciutto spalmati di maionese, “…e mi aspetto che tu cancelli quegli sgorbi schifosi, quando hai finito di divertirti, perché questa è casa mia e non il muro di un asilo!”
Tarja impallidì per un secondo, ma poi vide l’amica sedersi pure lei sbuffando nel suo modo buffo da bambina capricciosa, e pensò che in fondo un asilo infantile non era poi così tanto sbagliato per una come Amy, anzi, le calzava proprio a puntino, e questo pensiero la fece scoppiare a ridere.
“Dunque, Tarja, come pensi di recuperare tua sorella?” chiese Amy alla sprovvista, con una punta di nervosismo decrescente nella voce.
Tarja smise subito di ridere, e si mise a borbottare: “Oh, emh…io…non credevo che l’avrei ritrovata così presto e…non ci ho ancora pensato.”
“Ouh, perciò hai ritrovato la tua casa!”
“Sì, sì, stamattina…cioè, mi stai dicendo che non hai un piano?” esclamò Amy, allungandosi sul tavolo masticando.
“Emh…no.” Ammise Tarja, imbarazzata.
“Questo non va bene! Se hai un obbiettivo devi concentrarti corpo e anima per raggiungerlo, o non otterrai mai nulla nella vita!”
Amy si ritrovò in piedi, avvampante, ed in un istante si rese conto di avere reagito tale e quale a come una volta faceva lui. Tale quale a Serji.
Quella frase che aveva detto a Tarja, poi, lui gliela aveva ripetuta in continuazione.
“Bene, quale piano proponi, allora?” chiese Davey. Lui e Tarja sembravano non aver notato nulla di strano.
Amy si risedette sulla sedia, con una fitta terribile allo stomaco e una gran voglia di vomitare: “Boh, cosa vuoi che ne sappia, io?” mugugnò.
“Bene, in tal caso, io avrei un’ideuzza.” Proseguì Davey, attirandosi lo sguardo adorante di Tarja:
“dunque, noi prenderemo la mia bibliografia di Hegel, e poi…”

La stanza era molto buia.
Solo qualche raggio di sole polveroso che filtrava dalle finestre sbarrate e la luce tremula di due candele tradivano a stento le alte librerie ricoperte di libri, addossate alle pareti oscure.
Una fanciulla se ne stava accucciata in un angolino, con le ginocchia vicine al petto, tra le quali era appoggiato un immenso libro antico, retto da due fragili manine bianche, che pareva potessero spezzarsi in ogni momento sotto il peso della sua pergamena.
Leggeva, alla luce delle due candele, mormorando i versi del passato, come se desiderasse ascoltarne anche la musica, per penetrare meglio il loro significato profondo.
Una porta si aprì, interrompendo la soave cantilena, ed entrò una donna.
“Sharon, tesoro mio, è l’ora del bagno. Sai che è importante purificare il corpo, oltre che l’anima.”
Sharon non rispose, ma continuò a leggere i suoi versi in silenzio, rintanandosi di più tra le sue ginocchia, come se non avesse sentito nulla.
La donna sospirò e si avvicinò a lei con passi sonori sul pavimento di legno, giungendole accanto.
“Cosa c’è? Vuoi finire il canto? E va bene, ma fai in fretta, perché l’acqua del bagno si raffredda.”
Le infilò le dita tra i soffici capelli rossi, rossi come legno di ciliegio, tagliati cortissimi in un severo caschetto, e continuò ad accarezzarla attirando la sua testa sul proprio grembo.
“Madre…”
sussurrò la ragazza stortando le orbite nere verso l’alto, per guardare il volto della donna:
“…io so già in quale girone dell’Inferno andrò. Tu sai in quale girone dell’Inferno potresti andare?”
La madre si abbassò all’altezza della figlia, severa, per afferrarle un polso e costringerla ad alzarsi.
“Quante volte ti ho detto che tu non andrai all’Inferno, Sharon!? Non devi dire mai più cose simili, la tua anima è intatta e Dio ogni notte accoglie le tue preghiere con gioia, tu sei pura, capito? Quante volte ti ho detto di non leggere più quella parte della Divina Commedia! Ti fa pensare cose sbagliate…”
Sharon si fece passivamente strattonare fino nel corridoio, mormorando sottovoce a se stessa che lei sapeva in quale girone dell’Inferno sarebbe andata, quando, all’improvviso un rumore di campana rimbombò tra le pareti.
Era un suono che le due non sentivano da anni.
La madre sobbalzò e lasciò il polso inerte della figlia, sibilando tra i denti dalla preoccupazione, ordinò alla ragazza di filare in bagno a lavarsi e si inoltrò lungo il corridoio buio a lunghi passi stentorei, mentre Sharon, con sguardo vacuo, tornava a rifugiarsi nel suo angolino con la sua Commedia, e riprendeva la cantilena;
era da moltissimo tempo che qualcuno non si azzardava a suonare alla porta.

La vita era noiosa.
Ogni lento giorno vissuto nel buio era identico al lento giorno vissuto nel buio che sarebbe seguito, tra quelle quattro spesse, oscure mura polverose.
Che stupida, la vita, e che brutta: sarebbe stato meglio morire subito, e scoprire se il proprio destino era quello di precipitare tra le fiamme degli inferi oppure volare in paradiso in mezzo agli angeli nella gloria di Dio, piuttosto che strisciare da una stanza all’altra facendo sempre le stesse cose, pregare, mangiare, pregare, studiare, studiare, pregare…
Sharon non conosceva il mondo, quello vero, quello fuori.
Nel suo cuore riecheggiava come un disperato richiamo alla vita la brama di viverlo, anche se solo l’idea la riempiva di paura. Sua madre le diceva sempre che la stava proteggendo da esso, perché, se fosse uscita, avrebbe corrotto la sua anima e l’avrebbe imprigionata nei suoi abissi di peccato e lussuria, oltre che infliggerle ferite inguaribili nel corpo e nel cuore, deturpandola come un niveo bocciolo di rosa strappato e calpestato nel fango.
Lo ripeteva giorno e notte e Sharon, solo ad udire quelle parole, se le sentiva sprofondare dentro come macigni acuminati, almeno finché era ancora piccola, perché poi, col tempo, quelle spine l’avevano lacerata a tal punto che non le facevano più male: il dolore annegava in una densa nebbia che le riempiva il petto, la stordiva, una nebbia indefinita dove aveva imparato a rifugiarsi quando il tedio, che si annidava nella lucidità della sua mente fuori dal grigiore, minacciava di farsi troppo prepotente e strangolarla.
Poi, quando leggeva, la nebbia prendeva la forma di selve e fiumi e mari in tempesta e cieli infiniti, nei quali Sharon si perdeva come una bambina ed immaginava di corrervi senza sosta fino a perdere il respiro…
finché sua madre non la chiamava per andare a fare il bagno.
Sharon, in realtà, odiava sua madre: dai lembi nebulosi della sua mente nei quali si rifugiava la odiava, perché era capace di raccontarle solo menzogne.
Menzogne.
Erano riflessioni che sfioravano solo vagamente il suo pensiero torbido, perché nella loro spietata consapevolezza erano così taglienti da uccidere di disperazione, ma Sharon sapeva benissimo che sarebbe finita all’Inferno e non in Paradiso, era inevitabile, e sapeva anche che non era vero che Jaja era dannata, e, soprattutto, che non l’avrebbe rivista mai più.
Nei brevi momenti in cui si concedeva di uscire dalla nebbia e di pensare a lei, Sharon veniva trafitta da un lontanissimo ricordo di gioia perduta, non senza una certa, timida punta di invidia.
Papà era “dannato” e anche Jaja lo era, e così se l’era portata via.
Lei sì che doveva averlo visto, il mondo…
Lei invece era bloccata lì, soffocata dalla noia del dentro ed incapace di affrontare il fuori, per sempre.

Quando Sharon riemerse dal canto e sollevò per un attimo lo sguardo, si accorse che davanti a lei si era accesa con un boato silenzioso la luce del Paradiso, ed un Angelo vi si stagliava in tutta la sua celeste bellezza.
Un vago sorriso le comparì sulle labbra, ed i suoi occhi si riempirono di lacrime: era venuto a prenderla.
  
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