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Autore: Alaire94    07/02/2012    3 recensioni
Sono passati sette anni da quando Eric è partito e ora si accinge a ritornare, a camminare ancora per quelle piccole strade piene di ricordi dolorosi: il bar dove si ritrovava con gli amici e il Sun, dove incontrò lei. Raffaella aveva lasciato un solco profondo nella sua anima, il suo ricordo l'opprimeva e l'aveva costretto a una vita vagabonda, lontano da quella piccola città.
Prima o poi, però, ognuno deve sconfiggere i propri fantasmi ed Eric è tornato per questo, per rispettare la promessa fatta a Raffaella ben sette anni prima...
Avevo preferito l'anonimato di larghe strade trafficate, le grandi città dove non percorri mai la stessa via, dove non puoi affezionarti all'asfalto su cui cammini e al semaforo a cui ti fermi.
[classificata terza al contest sul forum di efp"From the video to the fiction]

[classificata settima al contest sul forum "Amor ch'a nullo amato amor perdona"]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta in un sabato sera di pura noia, sull'onda di una bizzarra malinconia XD Presentata al concorso sul forum di EFP ha guadagnato il terzo posto! Buona lettura e non esitate a scrivere un parere :) 

 

Ritornerò

 

 

Il tempo passa con la velocità di un fulmine, il tempo non si ferma mai. Non si ferma ad aspettare la decisione giusta, ma ti abbandona lungo il suo corso senza rimorso. E' spietato, forse, ma è il più grande maestro. Ti insegna che ogni momento è unico, che non può essere più recuperato perché il tempo prima o poi finisce il suo corso.

Proprio come questo aereo, l'aereo che mi riporta a casa.

L'aeroporto è stipato di gente, si incontrano centinaia di persone qui: uomini d'affari con le ventiquattrore alla mano che corrono nel corridoio, la giacca svolazzante, altri seduti a gambe incrociate nella sala d'aspetto, guardando impazienti il loro Breil. Vi sono dei turisti eccitati o preoccupati, gente qualunque come me. Persone abituate a viaggiare, a sorbirsi i chiacchericci in una qualche lingua sconosciuta e che non vedono l'ora di un bel letto comodo e una tazza di tè fra le mani.

Fuori dall'areoporto l'aria è frizzante: la primavera è alle porte e con i suoi profumi e i suoi colori spazza via l'inverno, rimette a nudo ciò che la coltre di neve aveva coperto. Non c'è stagione più bella: il profumo dei ciliegi in fiore, il sapore dolce delle fragole appena colte ti fanno sentire più vivo, ti danno coraggio.

Un taxi si ferma proprio davanti all'aeroporto e io salgo senza pensarci due volte.

- Dove la porto? -

La voce viene dal conducente che non riesco a vedere in volto se non per quel paio di occhi nocciola riflessi nello specchietto centrale.

- Corso Martiri 58, per favore.

Il taxi si rimette in moto, portandomi verso il centro della città. Una città non tanto grande tutto sommato: i palazzi bianchi ingrigiti dallo smog, ma resi colorati dai fiori sul davanzale, le villette a schiera della periferia. Nulla al confronto dei grattacieli, dei palazzi a trenta piani che ti opprimono con la loro grandezza e con le loro vetrate dall'aria moderna.

Il taxi si ferma davanti a una casetta graziosa. Un nodo mi si forma nella gola mentre scendo dall'auto insieme ai miei bagagli, tanto che quasi mi dimentico di pagare il tassista.

Questo riparte sgommando, per poi sparire svoltando l'angolo e lasciandomi solo coi ricordi. Cerco le chiavi nelle tasche e apro il cancello, attreverso il giardino trascurato ormai da tempo e giungo fino alla porta d'ingresso.

E' ammaccata sulla destra e sorrido ricordando di essere stato proprio io ad averla danneggiata mentre giocavo a pallone in giardino. La mamma si era tanto arrabbiata quella volta!

Entro e appoggio i bagagli a terra. Sono tornato a casa. Casa. E' una parola stramba, che può avere mille connotazioni per chi ha viaggiato per anni, senza mai mettere radici. Londra, Parigi, Amsterdam, New York: tanti posti ho visitato, vissuto in svariate abitazioni. Eppure mi ostino a chiamare casa una casetta modesta di quell'insignificante città italiana.

Sistemo le mie cose nell'armadio, mi guardo qualche secondo allo specchio: le occhiaie mi segnano il viso e rendono più spenti i miei occhi azzurri, la barba è già ricresciuta. Cresce troppo in fretta per i miei gusti.

Mi riposo qualche minuto sul divano di pelle dove la mamma mi prendeva sempre fra le braccia quando guardava la tv e mi preparo per una passeggiata.

Mentre cammino tengo le mani nelle tasche dei jeans, guardo le macchine sfilare di fianco al marciapiede.

C'è un motivo che mi ha tenuto lontano dalla tranquillità di casa: quelle strade mi fanno male, mi feriscono più di mille lame. Sono strade che mi lanciano addosso dei ricordi che voglio sotterrare sotto metri di terra.

Giro l'angolo e mi ritrovo davanti al Bar Europa, quello dove parlavo coi miei amici, dove ci raccontavamo delle bravate e delle prime cotte.

Parcheggiavamo gli scooter qualche metro più indietro, davanti al cancello di un'abitazione. Il proprietario ci rimproverava perché non riusciva a uscire con la macchina, ma noi ce le mettevamo ugualmente: all'epoca ci divertiva farlo arrabbiare.

Il bar ora è gestito da una famiglia cinese: il vecchio barista, quello che ci offriva sempre la birra, deve essere andato in pensione.

Continuo a camminare lungo la via, il mio sguardo viene catturato da una donna sulla quarantina che porta a spasso il cane, un labrador che assomiglia molto a quello della mia vicina ad Amsterdam.

Quando volto nuovamente lo sguardo il cuore mi sale in gola, rischia di strozzarmi: il Sun, la discoteca dove andavo tutti i sabati sera, dove si trovano i ricordi più dolorosi, le spine che non sarei mai riuscito a togliere.

Precisamente un ricordo, quello del 9 novembre di sette anni prima...

 

L'atmosfera era entusiasmante come sempre, la musica era quella giusta, quella che ti faceva muovere i piedi anche mentre eri in fila al bancone a prendere da bere.

- Che ne dici di quella bionda col vestito verde? - diceva Christian di fianco a me.

All'inizio della serata decideva sempre le ragazze con cui ballare, nella speranza di ricevere qualcosa di più e la maggior parte delle volte i suoi piani si compivano veramente.

- E' fidanzata - commentai, riferendomi al ragazzo che ballava con lei.

- Come fai a dirlo? -

- Lei lo guarda in modo troppo intenso per essere solamente di passaggio - osservai con un sorriso mentre sorseggiavo la birra appena comprata.

- Allora... quella coi capelli corti, con la maglia rossa? - azzardò ancora Christian, guardandosi attorno.

Annuii. - Sì, mi sembra un buon partito.

Tra le luci multicolore lo vidi sorridere. - Mi aspetti un secondo? Vado un attimo in bagno...

Annuii ancora e mi misi dietro le orecchie una ciocca di capelli che allora tenevo lunghi e legati in una coda. Mi appoggiai al bancone, approfittandone per guardarmi un po' attorno.

Fu allora che la vidi. Il mio sguardo si focalizzò immediatamente su di lei, come se una forza magnetica lo attirasse.

Ballava sensualmente, i capelli lunghi e neri le saltavano attorno alla testa, la camicia in parte sbottonata lasciava intravedere le curve del seno. Per un attimo fui folgorato dall'idea di fare anche io come Christian, ma decisi che probabilmente non ero fatto per quel genere di relazione e in ogni caso una sola notte non sarebbe bastata.

Poi d'improvviso vidi un uomo avvicinarsi a lei, le appoggiò le mani sui fianchi, la toccò impudentemente. Lei lo respingeva, ma lui insisteva, cercò di trascinarla via.

Non riuscii a resistere: quella visuale mi lasciava irrequieto, non potevo sopportarla un minuto di più.

Appoggiai la birra sul bancone e mi avvicinai.

- Lasciala stare! Non vedi che non gli interessi?! - urlai per sovrastare la musica, cercando di spingere via l'uomo dalla ragazza.

- Chi sei? Cosa vuoi tu?! - mi rispose l'altro, riavvicinandosi a lei, visibilmente spaventata.

- Non ti vuole! Lascia stare! - insistetti, facendo la voce grossa e dandogli uno spintone che lo fece finire addosso a un gruppo di ragazzi che ballava proprio lì di fianco.

L'uomo mi mandò a quel paese con coloriti insulti, ma fortunatamente sparì fra la folla.

Uscii dalla pista da ballo, mentre ancora la rabbia ribolliva nelle vene. Lei mi aveva seguito silenziosamente e soltanto quando presi in mano la birra me ne accorsi.

Si mise di fianco a me, guardandomi con quei piccoli occhi color della foresta illuminati ad intermittenza dalle luci della pista.

La mente mi diceva di dire qualcosa, di mostrarmi spavaldo e pieno di savoir faire, altrimenti presto sarebbe sparita nuovamente fra la gente, lasciando godere altri di quei suoi movimenti sensuali. Eppure dalla gola non usciva alcun suono e nel profondo sapevo che non avrei fatto altro che rendermi ridicolo. Mi limitai a sorseggiare la birra con un sorriso imbarazzato.

- Perché? - mi chiese tutto d'un tratto, rompendo il silenzio. Mi soffermai a fissare qualche secondo i suoi lineamenti dolci.

- Perché l'hai fatto? Nemmeno mi conosci...

Le porsi la mano, lei la prese un po' titubante. - Eric - dissi.

- Raffaella, piacere - rispose lei.

Raffaella. Aveva davvero un bel suono, bello almeno quanto lei.

La ragazza continuò a guardarmi perplessa, io sorseggiai la birra e poi affermai: - ecco, ora mi conosci.

Raffaella scoppiò a ridere. Aveva una risata cristallina e solare che fece spuntare il sorriso anche a me.

- Grazie, Eric... mi sembri davvero simpatico - commentò.

Le sorrisi, poi mi guardai un po' attorno: scorsi Christian appena tornato dal bagno, che mi fece l'occhiolino.

- Vieni a ballare con me? - propose Raffaella, guardandomi con aspettativa.

Non me lo feci ripetere due volte: la trascinai in pista, fra la folla danzante.

Ballammo fino all'alba, le luci psichedeliche le illuminavano il viso dolce e le facevano brillare gli occhi, rendevano ancora più affascinanti i suoi movimenti e più sensuali le curve.

Stetti con lei anche fuori dal locale, la luce della luna illuminava le soffici onde nere che le ricadevano sulle spalle.

Le labbra, un cuoricino rosso e carnoso, mi invitavano a sfiorarle, a imprimere ancor più in profondità quell'incontro. Le appoggiai le mani suoi fianchi, mi avvicinai lentamente, pieno d'iniziativa, ma lei si discostò leggermente, scuotendo la testa.

- Abbiamo solo ballato, cosa ti dice che desideri un bacio? - spiegò, lasciandomi di sasso.

Non ebbi il tempo di rispondere che mi lasciò un biglietto in tasca e se ne andò senza voltarsi più.

 

Mi soffermo qualche secondo a guardare attraverso le vetrate del locale e quasi mi sembra ancora di vederla ballare sotto le luci multicolore, con la camicetta aperta, gli occhi verdi e dolci, le onde nere che si infrangono sulle spalle.

Continuo a camminare, calciando una lattina di Coca-cola lasciata da qualche maleducato e presto mi ritrovo davanti a un parchetto. Due bambini corrono nell'erba e saltano sulle altalene con qualche schiamazzo.

Ancora una volta vedo me stesso inseguire Raffaella fra le risate. La riesco appena ad acchiappare, afferrandola per la maglietta lilla, per poi rovinare tutti e due nel prato, uno sopra l'altra.

Il suo petto si alza ed abbassa per la corsa, le guance sono imporporate e i capelli sparsi a corona attorno alla testa.

Non l'avevo mai vista così bella. Mi piego leggermente su di lei, gli sguardi incatenati. Finalmente la bacio.

Non si ritrae come mi aspettavo, lascia che le nostre labbra si sfiorino, che per la prima volta si uniscano in un gioco d'amore.

Continuo a camminare, riportato alla realtà dal clacson di un'auto. Volto l'angolo, passo davanti a un barbiere e poi a un negozio d'animali. Giro nuovamente a destra, in un vicolo stretto dove è vietato l'accesso alle auto.

Non ho una meta precisa, lascio che i piedi mi portino da soli, un passo dopo l'altro, dove vuole il mio cuore.

Mi portano all'abitazione di Raffaella, un appartamento al primo piano in quel vicolo stretto. Mi aveva trascinato lì in un pomeriggio d'agosto. Mi aveva detto che i suoi genitori erano partiti, che era da sola.

Ci eravamo distesi sul suo letto dalle coperte azzurre, sembrava d'essere immersi in un cielo d'estate e lei diceva che era dello stesso colore dei miei occhi.

Mi baciava con passione. Nei suoi occhi c'era l'amore focoso che era nato fra di noi, un amore che non aveva nulla a che vedere con le infatuazioni della giovinezza. Era un sentimento maturo, qualcosa che io per primo non avevo mai provato.

Le slacciai la camicetta a quadri con mani tremanti, il suo respiro era leggermente affannato.

- Non devi farlo se non te la senti - le avevo detto dolcemente, accarezzandole una guancia.

- Sono sicura - aveva affermato, accennando un sorriso preoccupato.

Ci ritrovammo nudi, i nostri cuori che battevano allo stesso ritmo frenetico.

- Tu non hai avuto paura la prima volta? - aveva domandato Raffaella, lo sguardo più luminoso che mai.

Le diedi un bacio leggero sulle labbra. - E' questa la prima vera volta e sì, ho paura.

Era la pura verità; avevo avuto altre ragazze prima di lei, ma ciò perdeva totalmente senso davanti alle emozioni che provavo. Lei era unica per me, io stesso mi sentivo diverso quando le parlavo, quando mi regalava la sua risata cristallina e rendeva i giorni fantastici.

Fu allora che ci unimmo e fu uno dei momenti più belli, di quelli che rimangono impressi, quelli che dopo fanno più male.

Soffermo lo sguardo sul giardino del palazzo. Non è altro che un fazzoletto di terra con qualche ciuffetto d'erba e una panchina, ma era stato lì che le avevo dato la notizia. Una notizia che era così entusiasmante e allo stesso tempo triste, che mi faceva sentire più vicino al mondo degli adulti.

- Mi hanno preso a La Sorbonne di Parigi. Parto in settembre - l'avevo detto così, tutto d'un fiato e mangiandomi le parole per non rischiare di bloccarmi a metà.

Lei, al contrario di ciò che mi aspettavo, sorrise e mi abbracciò. Raffaella era così: imprevedibile. Sorrideva quando si sarebbe dovuto piangere e piangeva quando chiunque avrebbe riso.

- Sono così contenta per te! E' fantastico! - aveva esclamato, un bel sorriso aperto sul viso. Poi la sua espressione era tornata seria. - Ma ritornerai, vero? -

Le diedi un bacio sulla guancia. - Ritornerò, te lo prometto.

Le gambe cominciano ad essere stanche: forse mi sto allontanando troppo da casa, ma non mi sento ancora pronto a tornare indietro. Ci sono altri posti che voglio vedere, altri ricordi da affrontare. Forse sono tornato anche per questo, per sconfiggere finalmente quei fantasmi del passato che mi trascino da anni, che pesano sulla mia schiena come macigni.

Arrivo su una via trafficata. Le macchine mi sfrecciano a fianco e il suono dei clacson riempie l'aria. Tante persone mi affiancano sul largo marciapiede, camminando a passo concitato. Soltanto io procedo lentamente fino a fermarmi al semaforo.

Ecco l'incrocio, il maledetto incrocio. Raffaella mi aveva dato un leggero bacio prima di attraversare la strada, l'ultimo. Il suo sorriso solare si era spento sotto il semaforo verde, la sua vita spezzata sul cofano nero di una macchina.

E io guardavo spiazzato, senza il tempo di agire, senza sapere che fare.

Mi ero sentito impotente, una piuma sballottata dal vento, in balia di una sorte crudele. C'era stata la corsa in ospedale, in un'ambulanza a sirene spiegate. Il sangue imbrattava i vestiti, le lacrime mi offuscavano la vista. Ma non c'era stato niente da fare, tutto era finito per sempre.

Ci sono cose che avrei voluto fare, che le avrei voluto dire, ma il coraggio mi è mancato, ho lasciato che il tempo passasse. Il tempo, però, prima o poi ha una fine, il tempo non aspetta nessuno.

Così me n'ero andato per dimenticare, per lasciare quelle strade, quei luoghi che mi avevano donato ricordi dolorosi. Avevo preferito l'anonimato di larghe strade trafficate, le grandi città dove non percorri mai la stessa via, dove non puoi affezionarti all'asfalto su cui cammini e al semaforo a cui ti fermi.

Ritornerò, te lo prometto. E io non infrango mai le mie promesse: sono tornato per lei, perché Raffaella è ancora viva in quella piccola città.

C'è una piccola libreria dall'altra parte della strada: Il vecchio libro. Mi fermo davanti alla vetrina, osservando i nuovi libri usciti e pensando che ho davvero bisogno di un bel libro da leggere, magari una di quelle storie in cui ti immergi a capofitto senza uscirne più.

D'improvviso mi accorgo che c'è qualcuno accovacciato nell'angolo, intento a sistemare qualche volume contro la parete. Volta la testa bruscamente: è una ragazza dagli occhi ambrati con un rossetto rosso acceso sulle labbra carnose.

Mi sorride leggermente, poi la vedo sparire e ricomparire qualche secondo dopo dalla porta d'ingresso.

- Ha l'aria stravolta... Ha qualche problema? - chiede la giovane con aria preoccupata.

- Sono solo appena tornato da New York, un viaggio stressante... - rispondo, passandomi una mano fra i capelli.

- E quindi lei è solo di passaggio? - domanda ancora.

Chiunque forse avrebbe trovato quella ragazza snervante, forse un po' impertinente. Io invece l'avrei definita semplicemente fascinosamente curiosa.

- Forse sì, forse no - rispondo un po' ambiguamente.

La ragazza si morde un labbro colorato di rosso. - Vuole qualcosa da bere? Un caffè, magari? - propone con un sorriso invitante, uno sguardo gentile nascosto sotto la frangetta bionda.

Io accetto, perché la vita è troppo effimera per sprecarla, il tempo a noi concesso è davvero poco, si deve godere di ogni secondo. Oggi un caffè, domani una cena e magari fra una settimana qualcosa di più, chi può saperlo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credits: storia ispirata dal video ufficiale di "1973" di James Blunt  

   
 
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