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Autore: TwinStar    25/09/2006    18 recensioni
I delitti sono proporzionati alla purezza della coscienza,
e quello che per certi cuori è soltanto un errore,
per alcune anime candide assume le proporzioni di un delitto.
(Honorè de Balzac)
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note di inizio fic di cui si sente il bisogno: Ringraziamenti di rito innanzitutto ad alcune anime candide che si sono prese la briga di dirmi che questa storia non faceva poi così schifo.

Quindi, grazie a Nykyo e a Boll11, che nonostante siano Pitoniche convinte si sono prese la briga di darmi una mano con una storia che con Piton non ha niente a che vedere ma nemmeno di striscio e a rassicurarmi in continuazione coi loro commenti entusiasti. Grazie, ragazze. ^^

Già che ci sono rassicuro il lettore e giuro su quanto ho di più caro (il poster di Gary in camera mia e la guida tattica di Final Fantasy X) che questa storia è praticamente finita, l’unico motivo per cui la posterò a capitoli è perché sento che così potrà trasmettere di più a chi avrà il buon cuore di leggerla. E, magari di lasciare un commentino.

Ringraziamenti di rito a TUTTE le persone che commentano TUTTE le mie storie, non posso rispondere nello spazio commenti ma sappiate che apprezzo ogni singola recensione che ricevo, per me sono motivo di grande gioia e un grande sprono a continuare (prima o poi completerò tutte le mie fic, lo giuro, lo giuro, lo giuro!!! >_<), per cui vi ringrazio davvero di cuore.

Sperando che questa storia possa farvi affezionare almeno un po’ al mio Sirius, vi lascio alla lettura del primo capitolo di questa storia. ^^

TwinStar

 

***

 

LO SMISTAMENTO

 

 

2 settembre 1971

 

Ricevetti la lettera di mia madre il primo giorno di lezione.

 

Ero in Sala Grande a far colazione assieme agli altri. Assieme per modo di dire, s’intende. Al tempo, trovavo un senso di appagante benessere nel consumare il più rapidamente possibile il mio pasto, un po’ in disparte (per quanto me lo consentisse lo spazio della tavola, certo). Per scoraggiare eventuali chiacchieroni mattutini (quella pestilenziale sottospecie umana che non vede l’ora di condividere la gioia che provano nello svegliarsi all’alba coi tipi come me, quelli che proprio non riescono a ritrovare la propria affabilità umana prima delle undici. Di sera) avevo persino creato una barricata di fortuna, mettendomi intorno a mo’ di fortino tovagliolo e posate, e tentavo di risultare il più sgradevole possibile mangiando con la bocca aperta, di modo tale che tutti potessero bearsi del contenuto masticato del mio palato, dei pezzi di cibo impastati di saliva, facendo poi bene attenzione a produrre rumori quanto più possibile discutibili.

Con buona pace dell’etichetta.

L’espressione disgustata sul volto della ragazzina  che avevo di fronte mi fece raddoppiare gli sforzi di risultare stomachevole: quella carotina petulante che solo la sera prima, a seguito del mio maldestro tentativo di ficcarmi nel dormitorio delle ragazze per il semplice gusto di verificarne di persona il sistema difensivo, in mezzo a una folla di sguardi ridenti aveva abbassato lo sguardo su di me con sufficienza.

Mi aveva infastidito.

Fu un vero e proprio orgasmo vederla arricciare schifata il naso, con tutte quelle stupide lentiggini rossastre; posare lo sguardo sulle labbra carnose deformate in una smorfia tesa; lasciar vagare la mente sui pensieri che le attraversavano la mente, dietro le folte sopracciglia accartocciate.

Mi fissava come un Legilimens.

A tradimento cacciai fuori la lingua dando una perfetta visuale della poltiglia informe che stavo masticando, e ridacchiai soddisfatto nel vederla alzarsi di scatto inorridita, gli occhi verdi protetti dalle palpebre semichiuse, mentre un gemito le si strozzava in gola. Uscì dalla Sala Grande percorrendo a grandi falcate lo spazio che la separava dal pesante portone, mormorando quelli che sembravano a tutti gli effetti degli improperi. Strano, sembrava una persona così educata…

Avrebbe saltato il pasto, a quanto pareva.

La cosa non mi toccava neanche un po’. Se l’era meritato.

Tornai ad occuparmi della mia abbondante colazione, con lo spirito più leggero.

Purtroppo sembra che qui, come a casa mia, non sia permesso crogiolarsi troppo a lungo nella soddisfazione che segue ad un lavoro ben fatto. Viene quasi l’idea che sia una regola oggettiva dell’esistenza e non il caso, o un mio particolare legame astrale con la sfiga.

Un tenue frullio d’ali annunciò l’arrivo dello stormo di gufi con la posta del mattino.

Vidi con la coda dell’occhio gli altri ragazzi incrociare le posate sul piatto e volgere lo sguardo al cielo, la bocca spalancata in una larga O di divertito stupore. Scossi la testa, affranto da tanta pochezza. Merlino, sembrava che non avessero mai visto uno stormo di uccelli, o che fosse la prima volta che ricevevano una lettera da casa.

Io non avevo neanche sollevato il mento dal piatto.

Quei gufi non mi riguardavano.

O almeno così credevo.

Impegnato com’ero a straniarmi dal frastuono di mille battiti d’ali e acuti stridii che s’andavano unendo al brusio eccitato dei ragazzi, venni colto totalmente di sorpresa nel momento in cui sentii artigliarmi la nuca da lunghe unghiette aguzze: giusto il tempo di strapparmi dalle labbra un patetico grido da ragazzina, poi mi svolazzò via dalla testa (senza dimenticarsi di portare con sé come souvenir una ciocca corposa di capelli) per appollaiarmisi davanti… Dritto nel mio piatto. Lo fissai con odio mentre dondolava la testa in avanti, ondeggiando tutto soddisfatto il collo in quel modo disgustoso tipico dei gufi, come fosse sprovvisto di vertebre.

Stupide bestiacce, non le sopportavo.

E quella che mi stava di fronte mi piaceva ancora meno. Lo conoscevo fin troppo bene: Tantalo, l’enorme gufo reale bruno di mia madre mi fissava immobile, altezzoso, con l’unico occhio tondo e giallo (l’altro era andato perduto durante quello che mi piace chiamare uno sfortunato incidente di percorso, una tiepida mattina di luglio in cui avevo deciso che sarebbe stato divertente lanciargli addosso dei sassi). Col senno di poi mi sarei reso conto che da allora persino i gufi di casa nostra avrebbero cominciato a squadrarmi con sufficienza.

Ma sul momento non vi feci caso.

Il mio sguardo era catalizzato altrove.

Alla lettera che teneva legata alla zampa sinistra.

 

 

Avevo sciolto lo spago nero che gli stringeva la zampa, ricevendo in cambio una beccata decisa, come se lo disgustasse la sola idea di essere toccato da me. Se non fosse stato altro che uno stupido uccello avrei pensato che gli fossero state date disposizioni ben precise a riguardo.

Ignorando il sottile rivolo di sangue che mi colava dall’indice avevo allungato una mano verso il collo dell’animale nel vano tentativo di togliermi almeno la soddisfazione di strangolarlo, ma nonostante mi fossi sempre ritenuto un tipo piuttosto agile, mi aveva evitato con una facilità irritante, irridente, e si era librato in volo sparendo in pochi battiti d’ali fuori dalla finestra.

Ero rimasto immobile a fissare il mio piatto ora sporco di piume e guano (bestiaccia!), la lettera ben chiusa tra le dita. Avevo aggrottato le sopracciglia, assumendo un’aria meditabonda. Stringevo a me quel pezzo sottile di pergamena come se mi aspettassi di vederlo esplodere da un momento all’altro, pur sapendo che non si trattava di una Strillettera (non ne avevo mai ricevuta una in vita mia ma avevo imparato a riconoscerle, la zia ne mandava in continuazione alla povera Andromeda), ma avvertivo lo stesso un forte disagio scorrermi lungo la spina dorsale.

Sostenitori di un’educazione basata su una ferrea disciplina di stampo dittatoriale, i miei genitori avevano sempre concepito come base e pilastro di sostegno della comunicazione famigliare la ramanzina. Ogni volta che mi veniva rivolta la parola era per riprendermi su qualcosa che avevo combinato o che stavo anche solo pensando di mettere in atto.

Il fatto stesso di aver mandato proprio Tantalo, che tanto mi odiava, tra tutti i gufi che avevamo in casa, mi lasciava in bocca il sapore amaro dell’umiliazione, unito a un’esaltante sensazione di condanna.

Strinsi i denti, sentendomeli stridere nel palato.

L’avevano già saputo.

Narcissa aveva preso davvero sul serio la richiesta di mia madre di avvisarla immediatamente nel caso in cui fosse accaduto qualcosa degno di nota, immaginando (e a ragione) che in quel caso io non l’avrei avvisata.

In fondo erano affari miei.

Narcissa però non la pensava allo stesso modo. Doveva aver mandato un gufo ai miei subito dopo il mio sconvolgente Smistamento, quando l’avevo vista alzarsi e uscire dalla sala in preda ad uno dei suoi proverbiali attacchi di algido sdegno.

Volsi uno sguardo astioso nella sua direzione, al tavolo dei Serpeverde, e ne ricevetti in cambio uno sottilmente malizioso. Dietro quella smorfia perennemente annoiata, negli occhi sprezzanti di mia cugina, c’era un lampo tutto nuovo di segreto godimento a illuminarle le iridi chiare. Sembrava non aspettare altro che “la zia” me le cantasse come una Banshee. Aprii la busta con un gesto deciso mentre muovevo le labbra tirate in un ghigno sghembo, fugace, di modo da formare una sola parola, che però mi diede la soddisfazione di vederle aggrottare, seppur impercettibilmente, le sopracciglia sottili nella patetica imitazione di un broncio.

Stronza.

 

 

Non temevo le paternali.

Coi predicozzi ci avevo convissuto una vita intera (per quanto esagerato mi sembrasse definire in questo modo appena undici anni d’esistenza). Ero talmente avvezzo ad essi da lasciarmeli scivolare addosso quasi fossero una cosa dolce.

Più che altro mi annoiava la loro vacuità.

Tutte quelle promesse bieche, le minacce mai mantenute, alla lunga perdevano d’efficacia.

Ora mi risultavano quasi divertenti, al punto che a volte a casa davanti alla collera funesta di mia madre avevo cominciato a darmi, non visto, dei pizzicotti sulle braccia per impedirmi di ridere. Di questo non credo che mia cugina fosse al corrente, altrimenti non sarebbe stata così ansiosa di avvisare casa.

Sperava che ne sarei uscito distrutto, credo.

Che la mia sicurezza non fosse altro che una maschera.

Del resto siamo sempre stati tutti molto bravi a fingere, in famiglia.

Confesso però che feci fatica a trattenere lo stupore nel momento in cui mi ritrovai quel pezzo di carta spiegato tra le dita.

C’era solo un pezzo di spessa pergamena bianca, poco più grande di una figurina trovata nelle Cioccorane. Riconoscevo il tratto sottile della piuma d’oca col pennino d’argento di mia madre, la sua calligrafia elaborata, leggermente curvata a destra. Le aste delle “T” leggermente tremolanti.

Questo era strano.

C’era scritta un’unica frase, incisa nella carta con inchiostro di un cupo scarlatto come una condanna.

“Com’è potuto accadere?”

Nessun insulto. Nessuna parola di biasimo.

Rimasi attonito, stravolto. Era una cosa nuova per me.

La collera, le minacce, le sfuriate: quelle le conoscevo bene, sapevo come reagire.

A quella placida disperazione di una madre ferita non sapevo proprio cosa rispondere. Perché era ferita, mia madre: turbata al punto da non poterci passare oltre con una semplice lavata di capo come faceva di solito, nel modo che ci faceva star bene entrambi alla fin fine, perché rappresentava un qualcosa di conosciuto, un territorio esplorato.

Mi aveva chiesto com’era potuto accadere.

In realtà, quello che avrebbe voluto sapere era: “C’è qualche probabilità che possa accadere anche a Regulus?”

Se credeva che davvero avrei potuto rispondere a quell’assurdo sottinteso, la vecchia era ancora più stupida di quanto credessi. Ridussi le labbra ad una linea esangue, gli angoli della bocca tesi verso l’alto.

Allora, come adesso, riuscivo a pensare solo alla profonda assurdità della cosa, e alla cieca idiozia della vecchia carampana.

Secondo lei era colpa mia se ero finito smistato a Grifondoro.

Mi ci aveva incastrato quel fottutissimo Cappello Parlante in mezzo a quegli stronzi boriosi, col cravattino ben appuntato e l’aria da padroni della scuola, e solo perché per me una Casa valeva l’altra, io che cavolo c’entravo? Perché veniva a chiederlo a me, come se avessi avuto voce in capitolo?

Era ridicolo.

Sbuffai divertito.

Appallottolai il biglietto, lanciandomelo alle spalle come un rifiuto privo d’importanza, e uscii dalla Sala Grande allentandomi la cravatta giallo-oro di modo da avere un’aria volutamente trasandata.

Tanto qualcuno avrebbe pulito.

 

Fine Capitolo 1

  
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