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Autore: Eloise_Hawkins    08/03/2012    7 recensioni
Cassie ha cinque anni quanto le viene diagnosticato un neuroblastoma al cervello. Da quel momento in poi, sua madre, pur continuando a sostenerla ed amarla, si è involontariamente allontanata da lei per paura di soffrire, aggrappandosi al coraggio di sua figlia e alla sua proposta: «Lascia che sia io il tuo eroe». Perchè a volte si può essere eroi anche semplicemente per rinunce che sembrano dovute ma che sono, in realtà, un enorme atto d’amore.
Questa storia ha vinto il contest "Hero for one day", indetto da Total Drama, classificandosi prima.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nickname autore: Eloise_Hawkins
Titolo: Let me be your hero
Genere: Drammatico, Introspettivo
Rating: Verde
Avvertimenti: One-shot
Pacchetto scelto: Thor (Luogo: Centro commerciale; Oggetto: Casco; Canzone: Hero, Enrique Iglesias)


 

Let me be your hero





                                                              
 

«Mamma, noi due staremo insieme per sempre, non è vero?» La vocina della bimba, acuta e infantile, raggiunse la donna come un soffice batuffolo di ovatta. Joanne deglutì, prese un profondo respiro, e poi si voltò verso la figlia. Quando la bambina incrociò il suo sguardo, non c’era più tracce di lacrime, né di tristezza, in esso.
«Per sempre» rispose con un sorriso piuttosto amaro, ma pur sempre sincero, guardando il piccolo nasino  di Cassie che spuntava fuori dalle coltri di lenzuola rosa pesca. Seguì qualche istante di silenzio, durante il quale la giovane madre fu indecisa se avvicinarsi alla figlia per rimboccarle le coperte e darle il bacio della buonanotte, o rimanere immobile dov’era. Alla fine, propese per la seconda opzione.
«Tu pensi che Superman mi salverà?» domandò ingenuamente, sporgendo il braccino verso il comodino, sul quale era posato il pupazzo di un supereroe vestito di blu e rosso. «Gli eroi salvano le persone, non è vero, mammina?» aggiunse con vivacità, lo sguardo fisso sul suo giocattolo in miniatura: lo stava facendo volare in modo piuttosto buffo, facendo vibrare le labbra per simulare il rombo dei motori. Joanne strinse le labbra, trattenendo dentro di sé le parole che stavano per sfuggirle; con un sospiro stanco, annuì. Stava per lasciare la stanza, quando la voce di sua figlia la bloccò, strappandole un moto di tenerezza e angoscia che le fece battere il cuore più velocemente del consueto.
«Io non ho paura» La bambina si era messa a sedere, in un fruscio di lenzuola, e guardava il profilo della madre con sguardo profondo e serio. Joanne si voltò lentamente, e la luce proveniente dal corridoio disegnò giochi di luce buffi e talvolta inquietanti sul suo corpo esile e muscoloso; quando i suoi occhi si posarono sul visetto paffutello della figlia, ciò che vide la lasciò senza fiato.
Le iridi verdi di Cassie erano accese di una determinazione e un coraggio così adulti e maturi, che Joanne si sentì improvvisamente piccola e fragile rispetto a quella bambina che la fissava con ingenua sincerità. Solo allora, la madre scoppiò a piangere, e si accasciò a terra, sciogliendosi in lacrime. Le sue difese crollarono, e per la prima volta dopo tre mesi, Cassie vide lo scudo che sua madre aveva eretto: era in frantumi su quello stesso pavimento su cui lei, ora, singhiozzava. La bimba rimase un attimo a guardarla, perplessa e indecisa; poi, lentamente, poggiò il pupazzo sul comodino, spinse da parte le lenzuola, e scivolò fuori dal letto. I piedini nudi producevano un suono ovattato e morbido sulla soffice moquette bordeaux che ricopriva il pavimento della sua stanza, eppure quel ritmo delicato era stato completamente risucchiato dal ticchettio scostante e straziante delle lacrime disperate di sua madre.
Cassie le si avvicinò, in silenzio: sul suo visetto c’era un’espressione imperscrutabile, seria e quasi indifferente. Mentre fissava sua madre, il viso seppellito tra le mani e il corpo scosso da un tremore spaventoso nel vano tentativo di celare quella momentanea debolezza, la sua mente e il suo cuore annaspavano alla ricerca di una scappatoia da tutto quel groviglio di sentimenti che si erano accesi in lei.
Era arrabbiata, senz’altro, perché sua madre non aveva il diritto di piangere. Tanto per cominciare, era un’adulta, e gli adulti non piangono. Secondariamente, era sua madre, e doveva essere lei a consolare sua figlia, e non viceversa. E poi, cosa da non sottovalutare, era lei ad avere il diritto di piangere: lei era malata, lei doveva subire punture, prelievi, iniezioni, terapie.
Era confusa, anche. Non capiva il motivo di quelle lacrime, e vedere la donna che l’aveva cresciuta da sola, con forza ed energia, raggomitolata su quel pavimento, fragile e spaventata, la spiazzava: non sapeva cosa fare, né cosa pensare.
Era delusa, perché non aveva mai pensato a sua madre come a una donna debole, e ora vederla lì, spalmata sul pavimento a vomitare lacrime, le faceva uno strano effetto. Questo, ai suoi compagni delle elementari, non l’avrebbe mai detto: loro dovevano continuare a pensare che sua madre fosse una specie di eroina, perfettamente capace di prendersi cura di lei anche da sola, in grado di destreggiarsi tra carriera e famiglia senza il minimo sforzo.
Cassie protese una manina verso la madre, e, lentamente, quasi con timore, poggiò il palmo sulla sua spalla. Avvertì sotto i polpastrelli il tremore di quel corpo, e il sussulto di quella donna che, tra un singhiozzo e l’altro, alzò il capo verso di lei, come se la vedesse per la prima volta. Aveva una luce strana, negli occhi, come una collera inspiegabile e malata; e il suo volto era congestionato dal pianto, rosso e rigato di lacrime lucenti.
«Non esistono gli eroi, Cassie» disse quasi con rabbia, con la voce spezzata dal pianto. La bimba incassò il colpo in silenzio, mantenendo sul volto quell’espressione altera e distaccata. Sembrò pensarci per istanti infiniti, e Joanne ebbe l’impressione di sentire gli ingranaggi del suo piccolo cervello guasto muoversi alla ricerca di una soluzione a quella nuova, drastica verità.
Dopo pochi minuti, Cassie fece un passo verso sua madre, si piegò, e si accucciò accanto a lei, raggomitolandosi contro il suo petto. La donna sussultò a quel contatto, incerta e sorpresa; poi, lentamente, le cinse la piccola vita e la strinse forte a sé, mentre la sua vocina, sottile e soffocata, giungeva dolcemente alle sue orecchie.
«Lascia che sia io il tuo eroe»
 

***

 
Sopravvissuta. Era così che si sentiva Cassie, ogni volta che usciva da quell’ospedale, con qualche capello sottile e stopposo a decorare il cranio lucido e glabro, eccezion fatta per qualche ciocca che, comunque, presto avrebbe perso.
Colpevole. Era così che si sentiva Cassie ogni giorno, mentre vedeva la sua vita scivolarle dalle dita, e quella di sua madre condannata all’eterna angoscia.
Silenziosamente, minuto dopo minuto, in quell’eterna e dolorosa esistenza a metà, Joanne combatteva una battaglia che non le apparteneva, mentre sua figlia lottava per una vita che non era davvero vita: scandita da giorni di fuoco e sofferenza, da gite ormai sempre più frequenti in ospedale, e lacrime che sembravano non poter finire mai.
Se la madre si sentiva ottimista e fiduciosa, pur vivendo nella costante paura di perdere il suo unico amore, Cassie attendeva la fine quasi con speranza, per liberare se stessa e Joanne da quello che era solo uno scomodo fardello. Si sentiva egoista, quando pensava di abbandonarsi tra le braccia della morte, eppure quell’idea era dolce, quando la raggiungeva, lentamente, come emergendo dalle nebbie tenebrose della coscienza, nel mare di dolore che la avvolgeva ogni volta che quell’ago maledetto le penetrava la pelle. Perché dentro di lei, insieme a quel male subdolo e strisciante, ardeva un bruciante senso di inadeguatezza, come se la bambina stesse vivendo una situazione che non riusciva a gestire. Era come essere sospesa in un limbo, costantemente in bilico tra la vita e la morte, tra giusto e sbagliato. E solo il pensiero di sua madre riusciva a salvarla.
Cassie aveva un dovere, da quando era venuta al mondo: amare Joanne, intensamente, e accompagnarla in quel viaggio chiamato vita. Che questo percorso fosse stato tortuoso e doloroso, fino a quel momento, era senz’altro vero; ma quell’amore che aveva ormai la forza della disperazione, era l’unico appiglio che la salvava dalla morte, l’ultima scappatoia a quella sofferenza atroce, che le rendeva impossibile anche solo pensare di poter abbandonare chi l’aveva desiderata, rispettata, e cresciuta. Così Cassie viveva in silenzio la sua condanna, e con coraggio continuava a tenere per mano sua madre, senza rendersi conto che stava precipitando insieme a lei nel vortice della depressione.
 
Era cominciato tutto sei anni prima, e i medici non avrebbero mai scommesso su di lei, né sulla sua longevità: la data di scadenza della sua vita era fissata a poco più di tre anni dal momento della diagnosi.
Cassie aveva cinque anni quando tutto ebbe inizio, e da allora quel fuoco maligno non aveva smesso di divorarla da dentro, succhiandole energie e vitalità ogni giorno che passava in quell’inferno.
Era una lotta che la bambina aveva accettato in silenzio, e che tacitamente portava avanti: la sua personalissima battaglia contro quel mostro subdolo la vinceva ogni giorno, quando, con il sorriso sulle labbra, usciva a testa alta dall’ospedale, nonostante le ciocche castane che abbandonavano il suo cranio, nonostante il senso di nausea costante, la debolezza, il dolore – tanto che la stessa frizione contro le coperte del suo letto le risultava atroce.
Era una sfida che sua madre perdeva ogni giorno, quando, sola, teneva la mano di sua figlia durante la chemioterapia, osservando il suo fragile fiore appassire giorno dopo giorno. Cassie impallidiva, perdeva i capelli, dimagriva tanto da sembrare malata di anoressia, più che di cancro.
Eppure cresceva. Contro ogni aspettativa, la piccola Cassandra Davies cresceva, con la forza del mare in tempesta e la profondità del cielo azzurro; con il suo sorriso onnipresente – perché non poteva permettersi di mostrarsi fragile, perché doveva essere forte anche per sua madre, altrimenti  Joanne non l’avrebbe sopportato, e sarebbe crollata come quella volta, di tanti anni fa, quando, scoperta la diagnosi, si era sciolta in lacrime, sconfitta dal dolore e dalla paura.
La sfida di Cassie era quella di sopravvivere, ma non per sconfiggere il cancro, bensì per non lasciare sola una madre che l’aveva amata e cresciuta, e accompagnata ogni giorno della sua breve vita in quell’inferno da cui temeva di non riuscire più ad uscire. La sfida di Cassie era quella di mostrarsi più viva che mai, quando dentro era morta. La sfida di Cassie era nel sorriso che ostentava ogni giorno, nell’ostinazione con cui negava il dolore durante la chemioterapia, nella caparbietà con cui ad ogni parere dei medici scuoteva la testa e affermava che ce l’avrebbe fatta.
Cassie non aveva mai avuto davvero il coraggio di domandare quanto tempo le restasse, innanzitutto perché era certa che l’oncologo la ritenesse troppo piccola per venire a conoscenza di certe, imprescindibili verità; e in secondo luogo perché non aveva bisogno di dimostrare a se stessa di essere coraggiosa; le bastava che lo credesse sua madre.
C’era un feroce autolesionismo in quella vita costantemente in bilico, ma la tenacia di quella bambina dimostrava una volta per tutte la potenza del cervello umano, e il suo importantissimo ruolo, se non nella guarigione, senz’altro nel rallentamento della malattia. Perché Cassie si era convinta di dover rimanere in vita; eppure non voleva a tutti i costi guarire.
 
Cassandra aveva accettato la sua malattia nello stesso istante in cui i medici le avevano diagnosticato quel neuroblastoma che la stava distruggendo, giorno dopo giorno. Forse la sua tenera età l’aveva senz’altro aiutata a minimizzare la faccenda, ma nonostante avesse solo cinque anni, quella bambina possedeva una maturità decisamente maggiore rispetto alla media, per cui aveva inteso da subito la gravità della cosa, grazie allo sguardo di sua madre, che si era tinto di sfumature fosche talmente colme di dolore che lei, di primo acchitto, aveva avuto una gran paura. Poi era sopraggiunta la stasi dei sensi, e la consapevolezza che lei aveva il dovere di farcela per quella stessa madre che era stata tanto spaventata da quella diagnosi; e allora Cassie aveva incassato il colpo ed era andata avanti, silenziosamente consapevole che il suo dolore e le sue paure se le sarebbe portate dietro per sempre senza mai poterle mostrare.
La bambina era cresciuta lentamente, osservando Joanne, e rassicurandola così tanto che la madre si era convinta, nonostante i pareri dei medici, che lei sarebbe sopravvissuta e che quel tumore l’avrebbe sconfitto: perché sua figlia era forte, e non poteva perdere. Quella convinzione, che più che una certezza era una selvaggia speranza, aveva instillato nella giovane madre una sorta di curiosa condizione di precario equilibrio: costantemente in bilico tra angoscia e gioia – quella che provava ogni volta che Cassie sembrava rinascere dopo la terapia – viveva la malattia della figlia come un ostacolo alla sua felicità, o forse una sorta di punizione divina che entrambe avrebbero dovuto sopportare prima di vedere il sole.
Joanne amava sua figlia come solo una madre che ha portato dentro di sé per nove mesi il frutto di un amore imperituro potrebbe amare. Non le aveva mai fatto una colpa per le mancate uscite con le amiche a causa delle continue chemioterapie, né per i guadagni sempre troppo esigui, perché nessuno pagava bene una cameriera che mollava il lavoro per correre dalla figlia che vomitava sangue. L’aveva sempre sorretta, tentando per quanto possibile di nascondere il dolore, totalmente ignara del martirio della figlia, e sempre rincuorata dal suo sorriso, dalla sua falsa forza, dalla sua caparbietà nel dire: “Quando starò meglio andremo al mare”.
Solo che al mare non c’erano ancora andate.
 

***

 
«Quando uscirò di qui voglio comprarmi quel vestito che ti piace tanto. Quello giallo, a fiori»
«Ma avevi detto che non ti piaceva»
«Non importa. Piace a te, e io lo voglio»
 

***

 
«Cassandra Davies?» Un medico che la bambina non aveva mai visto bussò due volte alla porta aperta, e Cassie e Joanne si voltarono verso di lui. Aveva sul volto un sorriso sereno, eppure dietro gli occhiali squadrati, al di là degli occhi neri, sembrava esserci un velo di intenso dolore – quello stesso con cui lui probabilmente aveva a che fare ogni giorno.
«Cassie. Mi chiami Cassie» rispose la bambina, seduta sulla poltrona, con la testa adagiata sulla spalliera.
«Sono Joe Marsters, il tuo nuovo oncologo» L’uomo si avvicinò con un paio di passi, e le tese la mano con un gesto disinvolto e garbato. Cassie allungò il braccio destro per ricambiare quell’atto di gentilezza e informalità, ma si ricordò troppo tardi dell’ago della chemioterapia, che a quel gesto si mosse dentro la vena. Una smorfia di dolore irrigidì il viso della bambina, per un attimo fugace e tanto breve che, se il medico non fosse stato tanto preparato a registrare il dolore altrui, non avrebbe mai visto. Rapidamente, si piegò verso di lei e sistemò la cannula della siringa, per poi rivolgere alla bambina un delicato sorriso.
«Piacere» rispose allora Cassie, sperando intensamente che sua madre non si fosse accorta di quell’attimo di esitazione e debolezza. Non osò, però, spostare lo sguardo su Joanne, un po’ per il timore di ciò che avrebbe visto, un po’ perché era sinceramente incuriosita da quel medico così caloroso. Era diverso da tutti quelli che lei aveva conosciuto sino a quel momento, perché sembrava in qualche modo partecipe del suo dolore e della sua malattia. Il suo era un sorriso dolce e rassicurante, ma al tempo stesso intriso di una sofferenza velata, di una compassione che faceva ben intendere la sua empatia. Sebbene sua madre avesse sempre diffidato di questo tipo di medici, troppo umani e troppo poco professionali, Cassie, ora che conosceva le migliaia di sfaccettature che il dolore poteva assumere, insieme a tutte le sue componenti emotive, sentiva di aver bisogno di una figura di riferimento di quel tipo: non di un medico, ma di un uomo. Comprensivo e disponibile come sembrava essere lui, il quale si voltò verso Joanne e le rivolse quel sorriso tanto affabile che aveva colpito la figlia.
«Le dispiace lasciarci soli?» domandò con cortesia, e nonostante la delicatezza impressa nella voce, la sua richiesta era un ordine che emanava un’aura potente di autorevolezza, tanto che dopo una breve esitazione – sua madre si stava torcendo le mani con incredibile nervosismo – la donna annuì, e dopo aver lanciato un breve sguardo alla figlia, uscì dalla stanza.
Joe Marsters non si curò del tragitto che la madre di Cassie fece per uscire dalla stanza; tutta la sua attenzione era concentrata sul suo piccolo paziente, che a sua volta ricambiava quello sguardo con la stessa limpidezza.
«Quanto dolore oggi, da uno a dieci? Ti prego di essere sincera. Tua madre non c’è, e puoi parlare liberamente» L’autorità di quell’uomo era potente, e per nulla mitigata dalla dolcezza con cui si rivolgeva alla bambina. Cassie era rapita da quello strambo cambio di ruoli: sino a quel momento aveva conosciuto solo medici distanti e freddi, che non la guardavano quasi mai negli occhi, e che di certo non comprendevano quanto di menzognero ci fosse nel suo atteggiamento.
«Sette» rispose prontamente Cassie, come un automa creato in vista di quel momento. La risposta le uscì fluida e veloce dalle labbra, meccanica come solo un’abitudine poteva esserlo; e lei era talmente avvezza a rispondere a quella domanda, che non ebbe nemmeno bisogno di pensare: era diventata una cosa automatica, e puramente istintiva.
Il medico la guardò per un istante, come per soppesare il suo sguardo, per capire quanto di vero ci fosse in quell’affermazione; dopo qualche minuto, evidentemente convinto della veridicità di quella risposta, domandò: «Quanti anni hai, Cassie?».
«Dieci» replicò subito lei, senza mai smettere di fissarlo, con quella curiosità tipica dei bambini, e la sorpresa di una nuova scoperta stampata negli occhi.
«Vivi da sola con tua mamma?» chiese, per nulla disturbato dal suo sguardo. Si voltò un attimo, prese una sedia poco distante, e la avvicinò un poco alla poltrona della bambina; quindi, vi si sedette sopra. Cassie seguì quei gesti come rapita, sorridendo appena nel notare la posa scomposta con cui l’uomo si era assiso; poi, annuì.
«Ti piace il mare?» domandò ancora, sorridendo amabilmente, e sempre con quel tono sfumato di gentilezza. A quella richiesta, Cassie reclinò il capo di lato, sconvolta.
«Cosa c’entra questo?» disse lei in risposta, confusa dall’atteggiamento inusuale di quel medico.
«Voglio solo conoscerti» rispose prontamente Joe Marsters, e sul suo volto si aprì nuovamente un sorriso garbato e gradevole. Cassie considerò per un attimo quella risposta, in silenzio. Senza smettere di guardarlo, ma anzi insistendo maggiormente con la sua occhiata perplessa, pensò brevemente a quel bislacco incontro e alla strana autorevolezza, così affettuosa e dolce, che quel medico emanava.
«Preferisco la montagna» commentò lentamente, scandendo piano le parole, come se fosse ancora in dubbio se rispondere o meno. Il medico inarcò un folto sopracciglio, e la osservò, incuriosito.
«Mary mi ha detto che non appena guarirai andrai al mare con tua madre» le fece notare con tono neutro, leggermente perplesso.
«Mary?» ripetè automaticamente Cassie, sorpresa dalla confidenzialità con cui quell’uomo si rivolgeva alla donna che da tre anni si occupava di bucarle il braccio ad ogni nuovo ciclo di chemioterapia.
«L’infermiera» spiegò Joe, il quale non era a conoscenza del fatto che la bambina sapesse chi fosse la donna; pensava che la sua fosse sincera curiosità.
«So chi è. Ma nessun medico chiama mai gli infermieri per nome» replicò immediatamente lei, punta sul vivo da quell’ovvia spiegazione, che, per altro, era quella sbagliata. Ma la nuova, calda intimità che si era creata nella stanza, e la confidenzialità che quel medico era riuscito a creare nel giro di pochi minuti, la sorprendevano ogni momento di più.
«Sei una bambina intelligente» Il viso dell’uomo si aprì in un sorriso sincero e luminoso. Cassie, rincuorata dalla gradevolezza e dall’amabilità di quell’uomo, gli sorrise di rimando; spezzato il primo velo di diffidenza, e intuita la dolcezza di quel medico, la bambina si sentì più propensa alle confessioni.
«A mia madre piace il mare» disse con una sfumatura amara nella voce, benché gli occhi brillassero, vispi e vivaci nonostante la malattia e il dolore che lentamente cominciava a irradiarsi dall’ago.
«Non devi fare tutto quello che vuole tua madre» considerò Joe, con il tono grave e profondo. A Cassie piaceva, il suo modo di parlare: semplice e diretto, e soprattutto serio; si rivolgeva a lei come ci si rivolge agli adulti, sebbene la sua dolcezza facesse intendere che la differenza di età contasse più di quanto lasciasse trapelare dai suoi modi di fare.
«Mia madre fa tanto per me» replicò laconica, il tono piatto e spento. Come se quella risposta fosse meccanica; giungeva direttamente dal cervello, eppure era dal cuore che era scaturita, in un modo indiretto e per nulla prevedibile. Sembrò che Joe Marsters non sapesse cosa replicare a quell’ovvietà tanto semplice e scontata, ma che per lui, evidentemente, assumeva sfumature nuove e inaspettate.
«Pensa che guarirò?» La vocina di Cassie interruppe i suoi pensieri, e sul suo volto comparve una smorfia fugace di dolore. Fu un istante, tanto che la bambina non era certa di aver davvero visto quella strana espressione; poi, il medico tornò sereno, e le si rivolse con tono serio.
«È difficile dirlo. Ci sono…» fu interrotto da Cassie prima che potesse finire di propinarle false speranze, farcite di menzogne dolcissime ed inganni abilmente tessuti.
«Sia sincero. Sono grande abbastanza. Non voglio illusioni, solo la verità» La bambina lo guardava dritto negli occhi, con una profondità talmente pulita e limpida, che Joe pensò di crollare davanti a lei: scoppiare a piangere, implorare perdono in ginocchio, chiederle scusa perché tutto il suo sapere medico non sarebbe servito a nulla, nel suo caso; perché il suo era e sarebbe stato un dolore a sé stante, senza conseguenze auspicabili, senza speranze future. Si prese tutto il tempo che gli era necessario per formulare quell’unica, sincera, dolorosissima sillaba.
«No» Fu più che altro un sospiro di mesta rassegnazione, quello che fluì, flebile ma ben udibile, dalle labbra dell’uomo. Cassie non si mosse, né parlò; nulla mutò nell’espressione del suo viso, e Joe non era sicuro di aver davvero visto quel lampo di crudele soddisfazione che per un istante saettò negli occhi smeraldini della bambina. Per un attimo, quel minuscolo involucro tutto ossa e lividi, le sembrò una donna dalla forza feroce e dalla bellezza selvaggia: stagliata contro un cielo luminoso, se la immaginò agghindata di mantello, con i lunghi capelli al vento e lo sguardo serio a vigilare sul mondo per salvarlo dagli ultimi stralci di cattiveria: come l’eroina di quel libro che sua madre gli leggeva quando aveva la sua età. Poi quella visione sparì, e davanti a lui comparve la piccola Cassandra Davies: nessun mantello, solo un semplice vestitino di cotone rosa pallido; nessuna chioma ribelle, solo qualche pallida ciocca ad agghindare il cranio lucido e quasi glabro, eccezion fatta per qualche ciuffo crespo; ma comunque coraggiosa e forte, a suo modo. Sparì persino la luce di profonda liberazione che Joe le aveva visto nello sguardo sereno; tuttavia, il segno palese e lampante che quello che le aveva letto negli occhi non fosse stato frutto della sua sola immaginazione, lo confermò la totale assenza di paura che Cassie ostentava: non perché si volesse mostrare coraggiosa agli occhi del medico. Non avrebbe funzionato, comunque, perché Joe era abituato a leggere i sentimenti della gente, attitudine necessaria nel suo lavoro di oncologo; per di più, la bambina non sarebbe mai riuscita a reggere il confronto con una seconda menzogna: mentire alla madre, giorno dopo giorno, aspirava ogni sua energia.
No, Cassie non aveva paura perché quella risposta era tutto ciò che aveva sperato, egoisticamente e incredibilmente.
Tuttavia, tutto ciò che il medico intuì in quell’unico istante di silenzio che seguì la sua secca risposta, leggendo gli occhi della bambina e la sua anima come un libro aperto, fu immediatamente smentito dalle parole della stessa.
«Mia madre ha rinunciato al suo sogno per me. Per seguirmi negli ospedali, per farmi compagnia durante la chemio. Per sostenere le spese mediche. Se io non sopravvivo, come farò a ripagarla di tutto questo?» I suoi occhi brillavano di determinazione, eppure era pallida e fioca quella sicurezza, se confrontata con la liberazione che quel “no” sembrava averle provocato.
Invece di rispondere, Joe la guardò profondamente negli occhi, e domandò: «Qual era il suo sogno?».
Cassie lo guardò per qualche minuto, senza replicare, forse offesa dal fatto che lui avesse ignorato totalmente la sua principale richiesta, per concentrarsi su quell’inezia. Tuttavia, non per questo si spezzò la sua fiducia in quell’uomo, incrementata dalla sua precedente, lacerante sincerità.
«Lei ballava. Era un angelo quando danzava» Il suo tono assunse una sfumatura sognante, mentre la sua mente evocava immagini di un passato che lei aveva vissuto solo in modo indiretto, tramite foto o video che sua madre le aveva fatto vedere. Tornò seria subito dopo, per concludere con estrema compostezza la sua preghiera. «Dottore, se io muoio, lei morirà con me. Non posso permetterlo, riesce a capirlo questo?» Non sbatté nemmeno per un attimo le palpebre, e gli occhi le si velarono di un sottile strato di lacrime. Joe non era sicuro se fosse per il timore di lasciar sola sua madre, per l’emozione che quei ricordi avevano suscitato in lei, o perché la chemio cominciava a manifestare i suoi effetti collaterali, provocandole acuti e lancinanti dolori in tutto il corpo.
«Faccio il possibile, Cassie» disse, e si rese conto solo in quel momento che la sua gola era incredibilmente secca, e che quelle parole sfuggirono dalle sue labbra come carta vetrata; o forse come un vaso di porcellana maneggiato con estrema disattenzione: un vaso che piombò a terra nello stesso momento in cui quella risposta abbandonò la sua bocca, come un sospiro di rassegnata sconfitta, mista a un dolore profondo e irraggiungibile. Joe si maledisse tra sé per quella sua debolezza.
Quella bambina l’aveva sorpreso sin dal primo istante in cui l’aveva incontrata: aveva una forza che pochi possedevano, un altruismo piuttosto masochista e una determinazione che l’avevano aiutata a sopravvivere fino a quel momento – perché di vita non si poteva parlare; non in quelle condizioni, almeno.
«Grazie» rispose Cassie, totalmente ignara delle riflessioni del medico. Eppure nel suo sguardo non c’era ombra di gratitudine; semmai un incerto, profondo rancore, come una tristezza insita in quegli occhi color smeraldo. E a Joe non poté sfuggire quella sofferenza sottile, ma palpabile.
«Ma devi crederci. Devi volerlo» La mano del medico, grande e scura, si posò su quella, minuscola e pallida, della bambina; la strinse con vigore, ma dolcemente, come se avesse paura di romperla, cercando di non concentrarsi sulla rete di vene che si poteva intravedere attraverso la pelle fragile e sottile . «Tu vuoi vivere, Cassie?» domandò a bassa voce, come se temesse la sentenza che poteva giungergli alle orecchie.
Cassie abbassò il capo, fuggendo il suo sguardo, e non rispose.
 

***

 
Col tempo Joanne aveva imparato a capire molte cose di sua figlia, ma continuava a rifiutare con tutte le sue forze la realtà del suo coraggio. Cassie aveva, a sua volta, imparato a convivere con la sua sofferenza, e questo era forse il tratto del suo carattere che sua madre odiava di più: la sua forza. Perché lei per prima non riusciva ad essere forte, ma solo fragile, inutile, frustrata: non aveva saputo proteggere la sua bambina.
E questo senso di impotenza, misto a un’angoscia di cui non poteva fare a meno, dovuta al peso della data di scadenza – sempre più vicina – della vita di sua figlia, aveva instillato in lei una rabbia che, giornalmente, si riversava, seppur in modo involontario, su Cassie: con urla, bisticci, rimproveri e rancore – un rancore che non le apparteneva, e che di certo non era rivolto a sua figlia. La malattia non aveva inciso solo la carne di Cassandra, ma aveva anche eroso, lentamente ma inesorabilmente, il loro rapporto. Non era una cosa manifesta o feroce: erano rari gli scoppi e i litigi; ma il cancro aveva scavato una distanza ormai impossibile da colmare, fatta di incomprensioni silenziose e mancate attenzioni a cui, ormai, nessuna delle due faceva più attenzione. Era un rapporto contrastato ed equivoco, perché nonostante tutto Cassie continuava a lottare con tutte le sue forze pur di mostrarsi forte e coraggiosa; più per altruismo, che per reale desiderio di guarire. Ma quell’abnegazione era forse la rappresentazione più palese dell’enorme amore per sua madre, che non si era estinto, nonostante tutto. I loro corpi erano vicini, ma i loro cuori erano lontani; eppure, cercavano costantemente di avvicinarsi, senza però riuscire mai a toccarsi. Era inutile negare quella distanza, e Joanne non poteva far altro che accettare quella realtà che le era piombata tra capo e collo. Voleva sostenere sua figlia, ma alla fine, chissà come mai, era sempre Cassie a sorreggerla: era il suo appiglio in quella tempesta di emozioni e terrore che era la sua vita. A volte, Joanne si domandava chi fosse davvero la madre, in quello strano rapporto: sua figlia aveva sempre cercato di proteggerla, e lei non aveva mai fatto nulla per impedire che ciò avvenisse; anzi, si era cullata in quella situazione di ribaltamento un po’ assurda, e dall’atteggiamento di Cassie aveva tratto la forza per andare avanti. Era, d’altronde, l’obiettivo di quella ragazzina, salvarla dall’angoscia, dalla paura, dalla tristezza; ma Joanne non poteva fare a meno di domandarsi se non avesse in tal modo reso ancor più faticosi e malinconici gli ultimi anni di vita di sua figlia.
C’era un senso di colpa sottile, che si faceva strada dentro di lei, giorno dopo giorno; cresceva ad ogni rassegnato sguardo dell’oncologo, ad ogni sorriso rassicurante di Cassie, ogni volta che un incubo notturno le strappava sua figlia dalle braccia, con la sibillina crudeltà di un futuro che non voleva vedere avverarsi. Joanne sentiva il bisogno di fare qualcosa per sua figlia, ora che il suo tempo stava per finire; fare qualcosa, qualsiasi cosa, prima che fosse troppo tardi. Solo che non sapeva cosa.
 
Cassie aveva gli occhi chiusi, e la testa reclinata sullo schienale della poltrona; un’espressione inquieta le corrugava il viso pallido. Respirava piano, con fiacchi sospiri profondi e tremanti, e sua madre la guardava con un misto di angoscia e terrore negli occhi scuri, la mano stretta a quella della figlia, come se quello fosse l’unico appiglio possibile; come se volesse trattenerla, con la sola forza dell’amore, in quel mondo.
Sospesa tra la vita e la morte, il respiro corto e il corpo scosso da fremiti di dolore, Cassie ascoltava il ticchettio lento e spietato della flebo. Era uno stillicidio crudele e selvaggio, che sembrava scandire l’ultimo tempo di un’anima forte e coraggiosa, come un canto del cigno particolarmente stonato e feroce.
Passi ovattati e silenziosi si aggiunsero a quel suono stridente e disarmonico; la ragazzina avvertì una mano calda che le prendeva il polso, per ascoltarne i battiti. Da dietro le palpebre chiuse – erano così pesanti che aprirle sembrava un’impresa impossibile – Cassie intuì lo sguardo che Joe Marsters doveva aver lanciato a sua madre: immaginò gli occhi di Joanne riempirsi di lacrime silenziose. Le bastò avvertire la stretta convulsa ma attesa con cui le dita della donna si serrarono sulle sue, stritolandole e strappandole un gemito di dolore tanto acuto da sorprendere persino se stessa, che non si aspettava di avere tanta forza per cacciare quell’urlo stridulo. Seguì un sospiro – l’oncologo – un singhiozzo – sua madre – il plic costante del medicinale che si tuffava nel miscuglio di farmaci. Poi, la voce spezzata di Joe Marsters – ormai diventato un amico, un confidente, una speranza, quella stessa speranza subito naufragata in quelle parole pregne di dolore, rassegnazione, sconfitta.
«Potrebbe essere il suo ultimo giorno»
 

***

 
«Mamma, balleresti se io ti chiedessi di ballare?»
«Certo, amore»
«E rideresti? Oh, ti prego, dimmi di sì. Ho bisogno di vederti ridere»
 

***

 
Joanne era seduta accanto al letto di sua figlia, la schiena dritta e rigida come la disciplina della danza classica le aveva insegnato. Tremava, la donna, ed era nervosa, tanto che, le mani posate sul grembo, non faceva altro che tormentare la stoffa della lunga gonna che le copriva le gambe, stropicciandola e sgualcendola, senza darle tregua. Guardava sua figlia con il cuore gonfio di lacrime; stille infuocate che, con coraggio e per caparbietà, Joanne non voleva mostrare. E lì, sull’orlo delle ciglia, insieme alle lacrime c’erano ancora tutte le emozioni e i ricordi che Cassie aveva portato con sé dal momento della sua nascita.
«Tesoro, ti ricordi quel vestito che volevi comprare? Quello giallo, a fiori?» domandò con la voce tesa, seppur avesse tentato di imprimere al tono una sfumatura di dolce sicurezza. Joanne avrebbe voluto mostrare un’audacia e una serenità che non le erano mai appartenute; troppo fragile per sopportare tutta quella situazione, aveva sempre dato alla figlia il compito di vivere anche per sé, nonostante proprio lei avesse più bisogno di leggerezza. Solo ora, con orrore, Joanne si rese conto del carico impossibile che aveva depositato sulle spalle della figlia; solo qualche minuto prima, quando Joe Marsters le aveva svelato, in un moto di umanità inaspettato e sorprendente, la verità sul conto di sua figlia: il suo desiderio di abbandonare quel mondo di sofferenze in favore di una quiete eterna che sua madre non avrebbe mai accettato; e solo per questo Cassie continuava a lottare. Non per se stessa, ma per sua madre, con quell’altruismo che Joanne non aveva mai capito.
Nell’udire la domanda della mamma, la ragazzina annuì, gli occhi ancora chiusi e le sopracciglia ora corrugate in una muta domanda. Era stanca, si sentiva debole, spaventata, fragile come non era mai stata; e tutto ciò la indisponeva, la disturbava, le faceva montare in corpo una rabbia che devastava le ultime cellule sane del suo corpo malato.
«Pensavo che potremmo andare a comprarlo» tentò Joanne con la voce sottile, e fragile almeno quanto quel corpo steso sul letto di fronte a sé. Temeva la sua risposta; temeva che sua figlia avrebbe, infine, mollato; che avrebbe scelto la strada più semplice, quella dell’attesa.
«Non voglio uscire, sono orrenda» Come sempre, Cassie ribaltò le sue aspettative, sorprendendola con quell’assurda affermazione. Come poteva, in un momento come quello, pensare alla bellezza? Proprio lei, che di bellezza ne aveva da vendere – perché la sua anima splendeva di fascino e attrattiva, e tutti avevano potuto vedere la sua luce.
In quel momento, Cassie avrebbe dovuto urlare contro sua madre; dirle che era troppo debole e stanca per qualsiasi cosa che non comprendesse l’attesa sterile e spaventosa della morte. Invece no; lei non ci pensava affatto; non era preoccupata per la sua vita – quella vita che aveva mantenuto, per un sottile e spietato altruismo, con tenacia e coraggio; temeva, piuttosto, il giudizio degli altri. Perché aveva imparato a sua spese che la crudeltà della gente può non avere fine; che gli sguardi di compassione degli estranei possono essere pugnalate al cuore, più dolorose della chemioterapia stessa.
«Sei bellissima, tesoro» la smentì allora Joanne, con un sorriso di pura tenerezza sul volto. Cassie sbuffò, e tentò di aprire gli occhi.
«Non voglio quello stupido vestito» sputò acida, le palpebre socchiuse, lanciando un’occhiata di sprezzo e fiele in direzione della madre. La donna strinse le labbra, e sospirò.
«Bugiarda» disse con tono d’accusa. Sembrò che sua figlia fosse sul punto di scoppiare a piangere: forse, sarebbe stato un bene. Esplodere prima della fine, così da lasciare questo mondo leggera, per poter volare via con la serenità che non aveva potuto avere durante quell’esistenza a metà. Al solo pensiero di doverla abbandonare, il cuore di Joanne si strinse in una morsa di dolore che soffocò ogni parola. Abbandonò il viso di Cassie, contratto in una smorfia – sofferenza o semplice tentativo di trattenere le emozioni? – e abbassò lo sguardo. Gli occhi le caddero sul casco del motorino, abbandonato accanto alle gambe sottili della sedia, immobile e silenzioso. Deglutì, prima di parlare, come per inghiottire l’amarezza e l’orrore del futuro, in favore di un coraggio che doveva a tutti i costi dimostrare, per permettere alla figlia di abbandonare quello scudo di coraggio e ostinazione che aveva sempre illuso e rassicurato sua madre, per quanto fosse fallace. Non aveva mai capito sua figlia; ma lei aveva fatto di tutto per proteggerla. Adesso, toccava a Joanne fare la madre, e salvare sua figlia.
«D’accordo, allora facciamo una cosa» schioccò le labbra con una sicurezza che sorprese Cassie, tanto che la ragazzina aprì un occhio, sospettosa, osservando la donna mentre si piegava, prendeva il casco del motorino, e se lo rigirava brevemente tra le mani. «Un tempo avevi detto di lasciare che tu fossi il mio eroe» Gli occhi scuri di Joanne si spostarono, lentamente, dall’oggetto che aveva tra le mani, al viso della figlia, la quale stette semplicemente a guardare sua madre, immobile e ancora tremante, come in attesa. «Sii il mio eroe adesso. Dimostra di essere più forte della tua malattia, e del giudizio della gente» Il tono della donna assunse una sfumature di implorante preghiera, tanto che Cassie sgranò gli occhi, incredula.
«Sii il mio eroe, Cassie» concluse Joanne. E le porse il casco.
 
Il centro commerciale era gremito di gente. C’era un via vai continuo, e l’aria era colma di un brusio allegro e frenetico. Le persone camminavano senza prestare alcuna attenzione a ciò che era loro attorno, le buste appese alle mani e i passi frettolosi. Il sole trafiggeva le alte e grandi vetrate, con i suoi raggi fiammeggianti e caldi; la luce dorata si posava sul verde lucente delle piante, illuminandole di un chiarore magico che, tuttavia, nessuno riusciva davvero a vedere.
Cassie avrebbe dovuto sembrare una condannata sulla strada per il patibolo, invece sembrava solo una ragazzina di tredici anni che aveva tanta voglia di scherzare. A differenza della gente, il suo sguardo verde smeraldo si posava su ogni cosa: osservava con particolare vivacità il pulviscolo di polvere aurea che galleggiava nell’aria luminosa, si fermava dopo due passi per guardare con attenzione gli occhi ingenui di un neonato, o il pianto disperato di un bambino di tre anni che non aveva ottenuto il giocattolo che voleva; il frullar d’ali di un uccellino che, per errore, era entrato da una finestra aperta, divenne il salvifico e buffo avvenimento che le concesse la speranza, seppur illusoria, di quelle ore inquiete, sospese in un tempo che non apparteneva alla sua vita, e che, pure, era al tempo stesso tutta la sua vita.
Indossava quel casco che sua madre le aveva porto, sul volto un sorriso; e quell’unico copricapo era arma e al tempo stesso difesa al suo fragile essere. Non che nascondesse del tutto la sua malattia: era pallida, Cassie, e aveva gli occhi arrossati, il corpo smagrito e debole, e di tanto in tanto doveva fermarsi, sorreggersi al muro e riprendere fiato. Ma si sentiva forte, e si sentiva bella, e si sentiva nuova, nel suo ruolo: dare coraggio a se stessa e a sua madre.
Gli sguardi della gente dardeggiavano verso di lei: gli adulti la guardavano e scuotevano il capo, sul volto un’espressione di sprezzo e sconcerto; i bambini la additavano con sorpresa, meravigliati da quella ragazzina che, come un supereroe, camminava con il casco in testa, per proteggere la sua testa calva dalle occhiate degli altri; i suoi coetanei semplicemente la deridevano, ignari della sua tragedia.
Ma Cassie non vedeva nient’altro che quella vetrina, a pochi metri da lei; e non sentiva altro che la mano di sua madre, stretta alla sua, per darle forza, e sostegno – come non aveva mai fatto prima – e calore. Quella ragazzina non si era mai sentita così viva, e Joanne non aveva mai passato un solo giorno più spensierato e magico di quello. Perché Cassie aveva le braccia coperte dal maglione sformato che indossava, e i segni degli aghi sulla sua pelle erano solo un pessimo ricordo stipato in un cassetto lontano della sua mente angosciata; il terrore era stato stemperato dal sorriso di sua figlia, il groppo in gola e il peso sullo stomaco si erano dissipati quando quella piccola eroina le aveva rivolto un’occhiata – e le sue iridi erano così brillanti di vita che Joanne aveva desiderato che quel momento durasse all’infinito.
Era da anni che non passavano un momento così intimo. Cassie e Joanne camminavano mano nella mano, come due adolescenti innamorati, che si sono appena lanciati nell’entusiasmo del primo amore; ma tra madre e figlia non c’era il minimo imbarazzo. Si davano sostegno reciproco con quell’unico, esile contatto, e quel fondamentale appoggio non era l’ultima àncora di un amore che sarebbe presto naufragato, bensì la vicinanza di due cuori che dopo anni di vuoto si erano infine trovati, e nell’approssimarsi si erano riempiti l’uno dell’altro. Le due avevano passato anni, l’una accanto all’altra, ma non per questo si erano mai capite; anzi, la malattia di Cassie aveva scavato tra di loro un baratro di differenze e incomprensioni che era sfociato nel silenzio. La figlia non le aveva mai fatto pesare la distanza tra di loro, ma la madre non faceva altro che rinfacciarle quella lontananza, cieca a tutte le attenzioni della ragazzina. Questo non aveva fatto altro che allontanarle sempre di più, tanto che gli unici momenti in cui le due incrociavano i propri sguardi erano durante le ormai sempre più frequenti chemioterapie di Cassie.
Joanne non si era resa conto di quanto il cancro della ragazzina la stesse uccidendo e portando lontana da sua figlia, sino a quando, quella stessa mattina, Joe Marsters non le aveva fatto infine notare tutte le silenziose attenzioni di Cassie – il suo darle coraggio, il suo rassicurarla, il suo accontentarla sempre. Allora Joanne aveva sentito il suo cuore spezzarsi sotto i colpi spietati dell’emozione; si era sentita al tempo stesso fiera di sua figlia e nauseata da se stessa, e aveva sentito il bisogno di ripagare sua figlia con la stessa moneta: dandole coraggio e speranza in un momento in cui la luce sembrava totalmente oscurata. E ci era riuscita, colmando in un attimo tutte le distanze che in quegli anni le avevano allontanate.
 
Il vestito giallo, quello a fiori che a Joanne piaceva tanto, non c’era più; in compenso, al suo posto, in vetrina era esposto un abito rosa pesca – il colore preferito di Cassie – che sembrava fatto apposta per lei. Mentre provava l’indumento, non poté naturalmente fare a meno di sorridere all’indirizzo della madre.
Quando Joanne intercettò il suo sguardo brillante di gioia, lo stomaco fece qualche, consulta capriola, e il cuore le si strinse in una morsa caldissima ma non per questo meno dolorosa. Aveva visto sua figlia sorridere innumerevoli volte, eppure, quella era la prima volta che la vedeva davvero. Le labbra arcuate, gli angoli della bocca sollevati, e gli occhi luminosi, Cassie sembrava davvero felice. E persino il pallore, il rossore dello sguardo, la fatica evidente nel minuscolo e fragile corpo curvato, sembravano essere oscurati da quel sorriso.
Joanne aveva le lacrime agli occhi e tra le mani un maglioncino di cashemire, quando si abbatté su sua figlia, stritolandola in un abbraccio che tutto era, meno che disperato. Non la abbracciava perché stava andando via, non le dava attenzioni perché in futuro lei non ci sarebbe stata e non avrebbe più potuto farlo, non la stringeva a sé per sentire che era ancora viva; faceva tutto questo, solo perché era sua figlia, e aveva voglia di tenerla tra le braccia, con calore e amore, come non aveva mai fatto in quegli anni, solo per il piacere di farlo – e nemmeno l’acre odore dei medicinali poté niente, in quell’attimo. In quel momento, Cassie le sembrò incredibilmente piccola, e fragile: non si era mai accorta di quanto fosse magra, forse perché non l’aveva mai davvero abbracciata. C’era stata solo disperazione, nel suo modo di coccolarla, in quegli anni, e adesso che aveva abbandonato tutte quelle orribili sensazioni in favore del suo amore di madre, si rese conto che tutto ciò di cui sua figlia aveva bisogno era esattamente questo: una madre. Cassie si era sciolta in quell’abbraccio, si era svestita di tutta la sua forza e aveva impresso in quella stretta delicata tutta la sua paura e la sua disperazione. Per la prima volta, sua figlia non si sentì in dovere di cancellare quelle sensazioni dal corpo tremante di sua madre; avvertì solo il bisogno di scacciarle dal suo.
Quando si staccò, lentamente e delicatamente, da quella stretta, aveva gli occhi lucidi di emozione, e sul volto ancora quel sorriso. Senza dire una parola, prese dalle mani della madre il maglioncino che lei aveva precedentemente recuperato, e cominciò ad armeggiare con l’indumento, nel tentativo di infilarlo dalla testa – impresa non facile, data la massa del casco. La commessa osservava quelle mosse con preoccupazione, già preannunciando una prossima rottura del capo.
«Forse, se togliesse il casco…» accennò, mordicchiandosi con nervosismo il labbro inferiore. Sembrava nervosa, forse perché timorosa di contrariare la propria cliente, o magari semplicemente perché era curiosa di scoprire cosa celasse quel casco.
Cassie lanciò un’occhiata a sua madre, le labbra già increspate in un sorriso che divenne ben presto una risata, alla quale si accodò anche Joanne.
«Mia cara, i supereroi non mostrano mai la propria identità in pubblico» disse la donna, riprendendo un contegno, e guardando la commessa con tanta serietà che quella ricambiò perplessa il suo sguardo. Allora Joanne prese per mano sua figlia, e la trascinò fuori dal negozio, seguita dal coro di risate suo e di sua figlia, e dallo sguardo confuso della signorina.
 
Quando tornarono, con le buste tra le mani, Cassie si teneva ancora in piedi, eppure era pallida di morte. Con il respiro corto, poggiò il vestito nuovo, con una cura quasi maniacale, sulla sedia accanto al suo letto, e poi si gettò tra le coperte come se non avesse aspettato altro che quell’abbraccio, morbido e confortante, suo eterno riposo.
Joe Marsters le si avvicinò, la visitò velocemente, i battiti accelerati dall’angoscia e dal timore. Poi, con il cuore stretto dal dolore, disse: «Credo che non arriverà a stanotte».
 

***

 
«Non voglio che tu ti illuda, mamma. Potrei non svegliarmi mai, domani mattina»
«Non m’interessa. Tu sei qui stanotte»
 

***

 
Il ricordo dell’abbraccio di quella mattina bruciava ancora da qualche parte nella pancia di Cassie. Quella prima e unica dimostrazione d’affetto – un affetto vero, sincero e disinteressato – aveva riempito il suo cuore di una nuova consapevolezza. Sua madre le era mancata nelle piccole attenzioni quotidiane: non le aveva mai dato il bacio della buonanotte, non le aveva mai lasciato l’ultimo pezzo di torta, non le aveva mai chiesto come stava, non le aveva mai cucinato il suo piatto preferito; e tutto per paura che un giorno quelle piccole abitudini quotidiane potessero distruggerla a causa dell’assenza di sua figlia.
Per questo, Cassie si era sempre sentita un’estranea, quasi un errore che altro non aveva portato se non dolore, e, pur continuando ad essere forte – più per gratitudine che per amore – aveva vissuto la sua situazione come un’esule. Non si era mai davvero sentita amata, o considerata; ma si sentiva comunque in dovere di sorreggere sua madre, perché, volente o nolente, ogni giorno era accanto a lei durante le chemio, pagava le sue terapie, e le aveva dato la vita, l’aveva cresciuta, nutrita, vestita.
Tuttavia, quella mattina, era successo qualcosa. La sottile ma impenetrabile lastra di ghiaccio che divideva madre e figlia si era sciolta, Cassie aveva visto la luce e Joanne le aveva infuso tutto quell’affetto che per anni le aveva negato. E sua figlia non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Fu per questo che, nella penombra della stanza d’ospedale, il suo respiro flebile fu spezzato da un lamento. Non era un vero e proprio gemito, e nemmeno un’autocommiserazione. Quando Joanne sentì la voce di sua figlia, le venne in mente un piccolo sassolino che, sospinto dal vento, rotola fino all’orlo del precipizio e infine cade giù, senza più freni. Subito seguito da tutta la parete del baratro.
Allo stesso modo, infine, crollò anche Cassie.
«Mamma, ho paura» Una lacrima le scivolò sulla guancia, silenziosa ma non solitaria. Non figlia unica come lei, ma subito seguita da salate sue gemelle. «Non voglio morire. Non voglio lasciarti» aggiunse, ma in un sussurro talmente fioco che a stento sua madre lo udì.
«Allora non farlo, amore. Non farlo, ti prego. Resta con me. Resta con me» continuava a ripetere Joanne, come una litania reiterata all’infinito, preghiera crudele figlia di un terrore di chissà che cuore. E la stringeva: forte, fin quasi a stritolarle la mano fragile, come se quel solo contatto bastasse a tenerla ancorata lì, a quel mondo, a quella vita, a quel corpo stanco. Abbandonarla avrebbe significato liberare sua figlia dalla schiavitù da una malattia che non le aveva lasciato modo di vivere; ma significava anche rimanere sola, e di questo Joanne aveva paura. Significava affrontare la realtà del cancro, e la solitudine e il lacerante dolore che ne avrebbero seguito.
Tuttavia, quel giorno non c’era tempo per l’egoismo; così Joanne si vestì del suo ruolo di mamma per la prima volta dopo tanto, troppo tempo.
«Fa così male» Cassie deglutì, e chiuse gli occhi, abbandonano la testa calva sul cuscino. Il suo volto era contratto in una smorfia di sofferenza. La donna respirò a fondo, avvicinandosi un po’ di più a lei. Non riuscì, però, a trattenere le lacrime; avrebbe voluto essere forte, in quel momento, coraggiosa almeno quanto lo era stata sua figlia durante quegli anni splendidi che le aveva regalato – anni in cui erano state lontane pur essendo vicine, anni in cui Cassie le aveva regalato momenti di intimità che pur nella loro freddezza erano ricordi preziosi. Invece la sua voce risultò flebile, quasi fosse stata lei, quella malata; risultò rotta dai singhiozzi, spezzata dal terrore, frantumata come il suo cuore in quel momento.
«Posso essere il tuo eroe. Posso far sparire il dolore» bisbigliò piano. Con la coda dell’occhio, vide il viso di Cassie distendersi in un sorriso dolcissimo, talmente struggente da fermarle i battiti per qualche istante.           
«Ti starò vicino per sempre» disse la ragazzina, in un sussurro tanto flebile, che Joanne non avrebbe potuto sentirlo se non fosse stata tanto vicina alla figlia, piegata su di lei, a bagnarle il petto di lacrime.
«Voglio solo tenerti qui» Joanne piangeva, e le stringeva la mano. Ma Cassie era già lontana.

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Dalla canzone "Hero", di Enrique Iglesias: 
Let me be your hero – Lascia che sia io il tuo eroe
Would you dance if I ask you to dance? – Balleresti se ti chiedessi di ballare?
Would you laugh? Oh, please tell me this – Rideresti? Oh, ti prego dimmi di sì.
I don’t care, you’re here tonight – Non m’interessa, tu sei qui stanotte
I can be your hero. I can kiss away the pain – Posso essere il tuo eroe. Posso far sparire il dolore.
I will stand by you forever – Ti starò vicino per sempre
I just wanna hold you – Voglio solo tenerti qui
   
 
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