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Autore: kiku_san    12/03/2012    3 recensioni
Primavera 1945.
Lui e lei, in un un mondo che ha deciso di risolvere ogni problema con l’odio.
Lui e lei fin dall'inzio avversari inconsapevoli, in balia di un destino che ha giocato con le loro vite, che ha stravolto ogni loro azione.
Lui e lei, carnefice e vittima tra l’orrore che sommerge ogni umanità, tra la pazzia che nega ogni ragione.
Lui e lei che rivendicano prima della fine, il potere del desiderio e del sogno, la forza della disubbidienza.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 8


Sarah è sola e capisce che qualcosa di grave sta succedendo. Sa che ciò che deve accadere ormai è imminente, questione di giorni, forse di ore.
Quella sera decide di smetterla di aspettare che la morte le passi sopra senza che lei faccia niente, non ha più nulla da perdere, nessuno ha più nulla da perdere.
Quando Wilhelm Kraus rientra è infreddolito e pallido, si lascia cadere sul letto senza neanche togliersi il cappotto e gli stivali.
“Che sta succedendo, ci siamo?” chiede lei con voce sottile, avvicinandosi.
Lui annuisce senza parlare.
“L’ordine di Himmler è quello di smantellare i campi, i nemici non devono trovare nulla.”
“Perché? Se ormai la guerra è persa a che scopo fare questo?”
“La guerra è persa, i russi e gli americani sono vicini, sono già in Germania, non c’è più nessuna speranza, ma gli ordini sono questi.”
“Non può bastarti, non ora, non alla fine di tutto.”
“Mi è sempre bastato, me lo farò bastare.”
Sarah scuote la testa, gli volta le spalle, sedendosi accanto a lui sul letto, sente la mano di Kraus accarezzarle le spalle, vorrebbe scuotersi, allontanarsi, ora finalmente può farlo, ora che non ha importanza se la morte arriverà un’ora prima o dopo.
Ha voglia di sfidarlo ora che finalmente è libera, questo è il grande vantaggio di chi non ha più nulla da perdere.
“Perché ci hai odiati così? Come hai potuto farlo?”
Lui solleva il viso e sembra guardare attraverso di lei, perso nei suoi pensieri.
“Non è difficile sai, non quando sei un ragazzino e cerchi disperatamente di trovare qualcuno da seguire, da ammirare, a cui credere ciecamente, con tutto l’entusiasmo e l’incoscienza dei tuoi pochi anni. Non devi far altro che fidarti che quello che ti stanno dicendo sia la verità. Non sei il solo naturalmente, sei circondato da folle che credono in quello in cui credi tu, ti sembra che tutto sia giusto a quel punto. Non cerco di giustificarmi ma per me è andata così.”
“E come mai per tua madre no e neppure per Berti, perché non sei andato al fronte a combattere per il tuo Furher, perché hai preferito fare queste cose ignobili e folli: i rastrellamenti, i campi, la paura, l’odio?”
“Ero convinto che fosse necessario farlo, eliminare le razze inferiori per lasciare il posto alla razza ariana.”
“E allora cosa ci fai qui insieme ad una sporca ebrea, perché passi le tue ultime ore in compagnia di uno scarafaggio?”
Lui la guarda con una sorta di malinconia.
“Perché ti ho sempre amata, fin dalla prima volta che ti ho vista. Ti ho cercata disperatamente, avevo dato ordine affinché fossi presente io all’arresto della tua famiglia, ma le cose sono andate diversamente. Non era per vendetta ma era perché volevo metterti al sicuro, impedire che ti buttassero in qualche campo. Quando ho saputo che la tua famiglia era stata presa ti ho cercato sperando di non arrivare tardi, ho rintracciato il vostro percorso, il campo in cui siete stati portati e lì ho scoperto che tutta la tua famiglia era stata eliminata. Non pensavo che tu fossi scampata, nessuno mi ha informato, i documenti dicevano che tu eri stata gasata con tutti gli altri. Ero convinto di averti perduta finchè ti ho trovato qui, nel bordello di questo campo, ti ho odiato così tanto…”
“Hai odiato me?”
“Ho odiato tutti, te perché hai permesso che ti riducessero così e gli altri perché avevano osato trattarti in quel modo, nessuno avrebbe dovuto metterti le mani addosso, tu eri solo mia, avevo sognato così tante volte che tu potessi essere solo mia. Ho fatto spostare Weiter, ho chiesto di occupare il suo posto, l’ho fatto per te, perché nonostante l’odio e il disprezzo che provavo per te ero felice, per averti ritrovato, per aver scoperto che eri ancora viva e che non tutto era finito. So che è assurdo, non pretendo che tu mi capisca, nessuno può farlo, neppure io, ma le cose sono andate così.”
“Che razza d’amore è il tuo, che razza d'uomo sei? Forse non sei stato colpevole delle tue scelte, eri un ragazzo, ti hanno suggestionato, plagiato, ma ora sei cresciuto, hai visto le persone che ti erano care fare scelte diverse eppure continui a voler seguire una strada che porta al nulla. Perché? Come puoi dire di amarmi, tu non sai neppure cos’è l’amore.”
“E tu si?”
“Tu e tutti quelli come te non mi hanno permesso di scoprirlo.”
“E allora non parlare di cose che non sai.”
“Hai ragione, dell’amore non so niente ma conosco molto bene quelli come te quindi non dirmi che mi ami, non si può amare una persona e ucciderle tutta la famiglia, distruggerle la vita, eliminare tutta la sua gente.”
“Odio la tua razza e ho odiato la tua famiglia, non rinnego proprio niente, ma per te ero disposto a rischiare, ti avrei tenuta con me, nascosta a tutti, sarebbe stato il mio unico segreto, forse non è amore quello che provo per te, forse mi hai fatto una stregoneria, una maledizione ma le cose stanno così.”
Come per chiudere definitivamente il discorso il capitano lascia la camera ed entra nel suo ufficio, si siede alla scrivania e comincia ad estrarre dai cassetti fascicoli pieni di incartamenti, si sofferma per un attimo su ogni foglio, gli occhi corrono sulle parole dattiloscritte e poi il foglio viene stracciato con minuzia ed accantonato.
Ad intervalli Kraus si alza e getta la carta nella stufa attento a non riempirla troppo, in modo che non rimanga nessuna traccia dei dispacci che sta eliminando.
Sarah rimane sulla porta appoggiata allo stipite, lo osserva senza sapere più cosa dire.
Sa che quello che il capitano sta facendo è il primo di una lunga serie di gesti che distruggeranno tutto e tutti, gesti che elimineranno ogni prova dell’orrore, forse per poter trattare la pace in modo più onorevole, forse per scampare alla giustizia degli uomini, per poter negare che davvero quell’olocausto sia stato reale.
“Dopo questo cosa farai?”
Kraus alza il capo, con sguardo sorpreso.
“Dopo cosa?”
“Dopo aver distrutto tutti i documenti cosa distruggerai?”
“Domani tutte le prigioniere saranno portate alla stazione, lì in treno verranno condotte ad un campo di sterminio dove verranno eliminate.”
“E così questo onore non tocca a te, come mai?”
“Non mi piace uccidere anche se sicuramente tu sei convinta del contrario, ma non è per questo che le prigioniere non saranno eliminate qui. Tu non riesci proprio a capire che è solo questione di organizzazione. Questo è un campo di lavoro, come posso eliminare migliaia di donne? Per questo scopo ci sono campi appositi.”
Sarah volta la testa e trattiene le lacrime e cerca di bloccare la nausea che le sale dallo stomaco. Come può stare lì in quella stanza, al caldo, chiacchierando con qualcuno che parla di uccidere migliaia di persone con la stessa emozione che mette nel bruciare documenti dentro la stufa. Tutte le prigioniere faranno la stessa fine di quelle carte che Sarah vede crepitare debolmente nella bocca della stufa, accartocciarsi nelle fiamme, diventare cenere. Questo toccherà a tutte loro, diventare mucchi di cenere.
E lei cosa farà? Continuerà a dormire con lui, a farsi accarezzare e a baciarlo?
“Cosa ne farai di me?” bisbiglia ma vorrebbe urlarglielo in faccia.
“Tu rimarrai con me, lasceremo il campo appena le donne saranno caricate sui convogli.”
“E dove andremo?”
Wilhelm Kraus ha un moto di disappunto, abbassa gli occhi e fruga con l’attizzatoio nel fuoco.
“Non ci ho ancora pensato.”
“Un capitano delle SS e la sua puttana ebrea in giro per la Germania, ti rendi conto di quello che stai dicendo?”
“Smettila, non ho chiesto il tuo parere.”
“Pensi di andare a Berlino, pensi che Himmler sarà felice di rivederti, che ti darà una medaglia per aver assolto al tuo compito o ti manderà a sistemare le faccende da qualche altra parte, in qualche altro campo che necessita di essere smantellato?”
“Berlino non esiste più.”
Sarah lo guarda negli occhi come se non capisse.
“Berlino è completamente rasa al suolo, non c’è più nessun posto dove andare, l’unica possibilità è riuscire ad uscire dalla Germania.”
“Scapperai? Proprio tu?”
“Stanno scappando tutti, maledizione Sarah tutto il mio mondo sta crollando, tutto ciò in cui credevo sta precipitando, che devo fare? Vorrei avere fede fino alla fine, ho cercato di impormi di avercela, di non dubitare, ma arrivati a questo punto non riesco più a chiudere gli occhi. Ci siamo sbagliati, il Furher si è sbagliato e con lui tutti noi; tutta la Germania ha creduto in qualcosa che non era vero, siamo stati incapaci di rendere reali i nostri sogni.”
“Non erano sogni, erano incubi e mi dispiace dirtelo ma siete stati capaci di renderli reali più di quanto si potesse immaginare.”
Il capitano fa una smorfia di fastidio.
“Lascia perdere, vai di là finisco di bruciare le ultime carte e poi vengo da te.”
A Sarah sembra di stare recitando una tragedia surreale, scuote con forza la testa, mentre gli occhi le si velano per le lacrime che cerca di trattenere con forza.
“No basta, non mi farò più toccare da te, se mi vuoi dovrai prendermi con la forza ma ti avverto che mi ribellerò e non ti renderò la vita facile. Non scapperò con te, non sarò mai tua, non ci sarà mai la possibilità di un futuro per me e te, buttami con le altre, chiudimi sul treno domani, meglio bruciare che vivere un giorno in più vicino a te, io ti odio, ti odio e ti vorrei vedere morto.”
Sarah sta urlando e mentre urla si avvicina alla porta d'ingresso e cerca spasmodicamente di aprire la porta, Kraus le si accosta, la afferra con forza, la allontana, la porta in camera e la chiude dentro.
Per tutta la notte Sarah sente i passi di Wilhelm andare avanti e indietro.
L’indomani mattina si aspetta il frastuono e la confusione dell’evacuazione del campo: le grida secche e crudeli dei guardiani, i gemiti delle prigioniere, almeno un vociare confuso, uno sbattere di zoccoli, di corpi gettati uno contro l’altro e invece niente.
Silenzio.
Fuori dai vetri il campo è deserto, solo le guardie passano ad intervalli regolari con i mitra imbracciati nei loro soliti giri di sorveglianza, ma sembra che non ci sia più nessuno da sorvegliare.
Sarah ha un fremito d’orrore e pena.
Che è successo durante la notte? Che ne è stato di tutte le detenute? Non è possibile che siano sparite nel nulla, senza fare rumore.
Le ore passano in un’attesa sconcertante, solo nel tardo pomeriggio la porta si apre, il capitano Kraus è solo, le fa cenno d'uscire, sul tavolo c’è un piatto di minestra per lei.
Sarah non può far altro che sedersi e mangiare senza riuscire a parlare perché tutta la stanza è invasa da un’atmosfera strana, piena di morte e di vuoto.
La scrivania è sgombra e così pure gli scaffali, nessun documento, nessuna prova.
“Dove sono le prigioniere?” chiede.
“Nelle baracche.”
“Come mai?”
“Cambio di programma.”
“Che significa?”
“Non è necessario che tu lo sappia, ora sarà meglio che tu torni dentro” e le fa cenno di rientrare in camera, “dormi, domani sarà una giornata faticosa.”
E’ notte fonda quando dei rumori la svegliano, accosta il viso ai vetri e osserva un andirivieni di soldati, riconosce il tenente Lehman che sta dando degli ordini, gli ufficiali salgono sulle auto, i soldati si stringono sulle panche dei camion, i cancelli si aprono, una lunga sfilata di mezzi esce dal campo e sparisce nella notte ferita dai fari.
Ritorna il silenzio, pesante e innaturale.
Il riflettore continua a solcare il buio, ma non c’è nessuna guardia sulla torretta.
E’ già mattina tarda quando Kraus apre la porta della camera.
“Spogliati” ed è un ordine senza nessuna emozione.
Sarah ubbidisce senza chiedere più nulla, intuisce che la fine è arrivata e qualunque essa sia è pronta ad accettarla.
Il capitano la guarda e i suoi occhi l'accarezzano tristi.
“Mettiti questo” e le porge un camicione a righe, lacero e sporco.
Sarah lo indossa con una sorta di pietà e nello stesso tempo di ribrezzo. E non può fare a meno di chiedersi a chi è appartenuto quell’indumento impregnato di sofferenza e dolore. Calza degli zoccoli infangati, ecco ora è diventata una di loro, una prigioniera senza speranza.
“Siedi qui” e il capitano accenna ad una sedia.
Prende un paio di forbici e le si avvicina.
“Mi dispiace, non avrei mai voluto farlo ma è necessario” e comincia a tagliarle i lunghi capelli e lo fa delicatamente ciocca per ciocca.
Sarah guarda i capelli sparpagliarsi ai suoi piedi e cerca di trattenere le lacrime, quando l’operazione si conclude ha sulla testa corte ciocche frastagliate.
Il capitano si china e raccoglie un lungo riccio e lo gira tra le dita.
“Raccoglili e bruciali nella stufa.”
E’ come se stesse recitando un copione già scritto, poi la prende per mano e apre la porta.
Da quanto tempo Sarah non esce più all’aria aperta? Stringe gli occhi accecata dalla luce di un sole che le sembra troppo brillante, in un cielo primaverile solcato da nubi che sembrano galoppare velocemente in modo disordinato. L’aria è fresca e lei rabbrividisce.
Kraus la spinge per terra e si china accanto a lei, prende della terra umida e le sporca la faccia, le braccia.
“Togliti gli zoccoli, sporcati i piedi, sporcati le mani, fai penetrare la terra sotto le unghie.”
E alla fine Sarah sembra ad una prima occhiate come tutte le altre: infagottata in una divisa lacera, sporca, rapata. Certo la pelle sotto lo sporco è morbida e levigata e le mani non sono piagate e non ha pidocchi, non ha croste e soprattutto non è uno scheletro vivente, ma tutto questo lo si nota solo se ci si ferma da osservarla minuziosamente.
Kraus la prende per mano e la strattona verso una baracca isolata dalle altre. Dentro c’è un lettino medico e alcuni armadietti con ante di vetro ormai vuoti.
“Devi restare qui, non so per quanto ma non per molto, entro domani dovrebbe essere tutto finito. Gli americani sono vicini, quando sentirai il rumore delle truppe esci e mescolati alla altre prigioniere, nessuno ti noterà, ci sarà confusione e tu passerai inosservata, fra poco sarai libera.”
“E tu?”
Wilhelm Kraus sorride orgoglioso.
“Fra poco lo sarò anch’io, da questo momento le nostre strade si separano per sempre, come del resto è sempre stato per tutta la nostra vita, se non per questi brevi giorni che ci siamo inventati. Ti lascio la porta aperta, sii pronta ad uscire quando vedrai i soldati aprire le baracche.”
Si salutano così senza nient’altro e in fondo come avrebbero potuto salutarsi: abbracci, baci e carezze?
Se tra loro ci sono state è perché la situazione lo imponeva, pensa tra sé Sarah, le stesse carezze e gli stessi baci e lo stesso sesso che ha dato a tanti, che ha dato al tenente Lehman o al capitano Weiter, che le è stato estorto e rapito.
Ora non sa cosa l’attende, non vuole pensare alle parole di Wilhelm Kraus, che sono parole di speranza e di liberazione.
Gli americani.. le baracche aperte..le prigioniere libere.. che senso ha tutto ciò? Perché il capitano ha deciso di non eseguire gli ordini, quali eventi improvvisi si sono verificati per fargli cambiare i piani? Perché ha rinunciato a lei architettando un piano che la possa mettere al riparo da eventuali vendette delle altre prigioniere, da sospetti di collaborazionismo?
Non riesce a darsi una risposta, non riesce neppure a credere che tutto questo sia reale, che si realizzerà veramente, aspetta solamente con l’orecchio teso al minimo rumore.
Che cosa starà facendo Kraus? Sarà fuggito lasciando il campo senza sorveglianza? I soldati se ne sono andati tutti? Non sarà un terribile imbroglio come quello delle docce verso cui i prigionieri si avviavano sicuri che fosse un’operazione di pulizia, mentre invece c’era il gas ad attenderli?
Passano le ore, passa il giorno, passa la notte.
E’ l’alba quando sente i rumori di un convoglio avvicinarsi, voci straniere, scalpiccio di piedi, cancelli che si aprono.
Sbircia fuori dalla porta e vede che nel cortile del campo si è fermata una colonna di militari, riconosce la bandiera americana, riconosce la lingua inglese.
I soldati si aggirano con i mitra imbracciati in posizione d’attacco ma non c’è più nessuno che li ferma, che li blocca, non c’è più nessuno d’attaccare. C’è solo d’aprire le porte delle baracche con un misto di precauzione, che potrebbe essere un tranello, un imboscata. Ma poi l’espressione si tramuta in sorpresa e in orrore, quando dalle baracche cominciano a sciamare fuori all’aria che s’indora figure spettrali che non si riconoscono neppure come donne, come esseri umani ma come zombie stordite dal sole, dai rumori, spaventate, intontite.
Sarah aspetta che il cortile si riempia di questi cadaveri che stringono l’anima con tutte le loro poche forze e poi esce di soppiatto, si mescola alle altre cercando di rendersi invisibile: gli occhi bassi, le mani troppo curate nascoste, ingobbita, rannicchiata in se stessa.
Non vuole guardare, vuole solo andarsene via e dimenticare anche se sa già che mai potrà dimenticare.
Gli ufficiali danno ordini concitati dopo che sono riusciti a ritrovare la voce, le donne vengono ordinate in gruppi, ma i militari sono impreparati ad affrontare questa emergenza, ci vogliono medici, cibo, acqua, le loro razioni non bastano per tutte.
Sarah si avvicina alla costruzione che ospitava il capitano. Non sa neppure lei perché, è sicura di trovarla vuota. Alcuni ufficiali sono sulla porta e guardano dentro.
Wilhelm Kraus è steso sul pavimento con indosso la sua divisa nera perfetta. Solo il cappello gli si è sfilato ed è rotolato poco più in là.
A vederlo così di sfuggita sembra che dorma se non fosse per la macchia di sangue nero e rappreso che si allarga accanto alla sua testa; è caduto su un fianco e la parte del viso che si vede è intatta, solo schizzata da alcune gocce, in mano tiene ancora la Luger con cui si è sparato.
Lo sguardo di Sarah corre sul corpo del capitano e si ferma sulla mano sinistra abbandonata sul pavimento che stringe qualcosa, fa un passo avanti per vedere meglio e si accorge che quello che il capitano tiene nella mano è un ricciolo dei suoi capelli.
“Non deve stare qui” un ufficiale le prende dolcemente il braccio e le sorride, parla un tedesco scolastico con una pronuncia assurda.
Sarah annuisce fiaccamente e torna nel gruppo.
E’ sera quando arriva un convoglio e le donne vengono caricate sui camion o sulle ambulanze. Il sole sta per tramontare e Sarah sta ancora chiedendosi cosa ha spinto Wilhelm Kraus a non adempiere al suo dovere, a non far trasportare tutte le prigioniere ad un campo di sterminio, a non mettere in atto coscienziosamente l'eliminazione finale. Cosa lo ha spinto a lasciarla libera e a morire proprio lì.
Sarah non sa cosa pensare, Kraus non si merita pietà, non perdono, non una lacrima. Quelli come lui hanno devastato la Germania, hanno cercato di spazzare via dalla faccia della terra un'ntera razza e tutto questo è imperdonabile.
Ma mentre Sarah aspetta il suo turno per salire su uno dei camion, si chiede quale peso potrà avere quel gesto quando Kraus sarà davanti a Dio, quanto conterà nel giudizio finale che lo attende.
Non riesce a pensarci in questo momento ma sa che per tutta la sua vita dovrà fare i conti con quell’oscuro segreto che solo lei conosce: lei e tutte queste donne devono la loro vita proprio al loro nemico.
Ed è terribile perché lei vorrebbe poterlo solo odiare e invece dentro di sé sa che dovrà venire a patti con un altro sentimento che non riesce ad accettare assolutamente e che forse non accetterà mai, ma che forse è riconoscenza.
E mentre Sarah sale sul camion che la porterà via di lì per sempre, il sole che sta per tramontare butta un ultimo raggio su una costruzione piccola e solitaria: la casa delle bambole.

FINE.
  
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