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Autore: Medea00    12/03/2012    27 recensioni
"Headshot. Dritto in mezzo al petto. Un colpo di fulmine, a confronto, aveva l’intensità di una minuscola scossa elettrica."
Cheerio!Kurt/Nerd!Blaine. C'è bisogno di aggiungere altro?
Liberamente ispirata da un sacco di gifset che in questo periodo popolano Tumblr.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 18
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Blaine non aveva mai capito tutta l’euforia che coglieva i ragazzi al suono della campanella, fino a quando non ci si trovò catapultato lui stesso: allo scoccare del minuto saettò fuori come una gazzella, si diresse verso l’aula di storia, trascinando a stento la tracolla che strabordava di libri e fogli pieni di calcoli e attraverso un ultimo slancio arrivò esattamente davanti all’aula in cui stava Kurt, giusto un secondo prima che uscisse: fingendosi rilassato e perfettamente calmo, appoggiò una mano sul muro accanto alla porta sussurrando “buon giorno signor Hummel”, sotto allo sguardo sorpreso ed ammaliato di lui. Mercedes apparve qualche secondo dopo, rivolgendo a Kurt un sorriso timido, e facendo l’occhiolino a Blaine. Gli altri ragazzi, semplicemente, sembravano ignorare quella piccola interazione che, in realtà, stava mandando entrambi su di giri.
“Passata una buona lezione?”
“Sì –rispose Kurt – e tu?”
“Analisi avanzata? Una pacchia.”
“Ti prego”, ridacchiò, scuotendo appena la testa. Dopo qualche secondo si morse un labbro e fu costretto a malincuore a distogliere lo sguardo, perchè non poteva pensare di baciare quella bocca perfetta magari appoggiandosi al muro su cui teneva la mano e, magari, posizionando quella stessa mano sul suo collo, sui suoi fianchi, su qualsiasi altra cosa. Si sentì quasi ridicolo a pensare a tutte quelle cose mentre il resto del mondo passava di fronte a sè, ma poi, scorse lo sguardo scuro di Blaine ed intuì che, probabilmente, stavano immaginando la stessa cosa.
“Blaine, hai fatto bene a venire. –Riuscì ad esclamare Kurt – perchè devo dirti una cosa.”
Il ragazzo, in risposta, lo guardò incuriosito e adesso si scostò un poco da lui, permettendo così di lasciarlo passare. Ma Kurt allungò il suo sorriso, e gli fece cenno di seguirlo mentre si dirigevano agli armadietti. Una volta posato il libro di storia moderna ed afferrato quello di filosofia, Kurt si appoggiò e con voce che diventava quasi un sussurro provò a dire: “Oggi c’è un’esibizione dei Cheerios, in palestra. E quindi volevo chiederti se...”
“Se voglio venire?”
Non era sua intenzione quella di interromperlo; semplicemente, non era riuscito a contenere il suo entusiasmo: era passato un mese da quella esibizione in cui lo aveva notato seriamente, per la prima volta, e adesso erano lì, l’uno di fronte all’altro, che facevano a gara a chi sorrideva per primo.
Kurt nel frattempo aveva annuito, arrossendo appena immerso in chissà quali pensieri: “volevo...voglio farti una sorpresa. Ci vediamo lì, d’accordo? Quattro in punto.”
Adorava le sorprese; commentando con voce ferma “ci sarò” si rivolsero un’ultima occhiata eloquente, e poi la campanella suonò per l’ennesima volta, lasciandoli alle loro lezioni.
 
 
 
Sue Sylvester. Il suo nome era conosciuto in mezzo Ohio, anche se lei preferiva pensare che l’altra metà la conoscesse sotto il denominativo “sua maestà imperiale”. Non aveva mai avuto dubbi nella sua vita, soltanto certezze: avrebbe fatto l’insegnante. Avrebbe ottenuto titoli a livello nazionale. Avrebbe vinto, sempre e comunque, a qualunque costo. Non le era mai importato dei mezzi, o dei motivi che lo spingevano a farlo: questi ultimi erano troppo nascosti perfino per essere ponderati, così con il passare degli anni si era limitata soltanto a pianificare, eseguire, contemplare: il suo genio, ovvio. Non c’era nient’altro che fosse degno di qualche sua attenzione; non più, ormai.
Adesso camminava per i corridoi del McKinley, i suoi corridoi, e qualche ragazzino un po’ spaventato si faceva da parte per farla passare; non aveva tempo da perdere, a minuti ci sarebbe stata un’esibizione dei Cheerios e lei voleva controllare che le ragazzine strillassero come delle fangirl e i ragazzi sbavassero in piena crisi ormonale: il numero sarebbe stato un assaggio di ciò che avrebbe portato alle nazionali, e avere un po’ di feedback da quei sputabrufoli non era poi così male.
Era quasi arrivata in palestra quando udì qualche risata sin troppo meschina e qualche suono sordo e netto, metallico, che le ricordò molto quello di un corpo sbattuto contro gli armadietti. Appena svoltato l’angolo trovò un ragazzo accasciato a terra, il volto dolorante, le labbra serrate in una smorfia; ma con gli occhi resisteva: davanti a lui, un gruppetto di ragazzi alti almeno il doppio e grossi il triplo, che sembravano aver intenzione di continuare.
“Non ti sei ancora stancato frocetto?” Gracchiò uno dei tre, afferrandolo per il colletto della polo bianca e accennando a spingerlo di nuovo contro la lastra di metallo.
Il ragazzo non parlò: era come concentrato ad assimilare il dolore passato, o quello che doveva venire. Sembrava tranquillo ed indifeso, e la professoressa poteva giurare di averlo visto qualche volta alle prese con chissà cosa, ma senza mai rimanergli impresso nella mente: c’erano altri pensieri, adesso, che albergavano i suoi ricordi; immagini crude, che non aveva voglia di rispolverare.
Con un tonfo sugli armadietti per richiamare l’attenzione fece sobbalzare i tre energumeni che, alla sua vista, si fermarono di colpo; il primo lasciò andare il ragazzino, che si limitò a rassettarsi la maglietta e raccogliere gli occhiali frammentati tra una mattonella e l’altra.
“Coach – balbettò uno, incerto, quasi intimorito – non stavamo facendo niente, solo chiacchierando, ecco.”
“Ma guardatevi.”
Si avvicinò a loro, squadrandoli dall’alto verso il basso ed emettendo una smorfia. Era quasi incerta se sprecare quella battuta geniale per tre idioti simili, ma poi, alla fine, pensò che un poco ne valesse la pena. Perchè era vero: “Sembrate talmente mocciosi che se quel Justin Bieber volesse imitarvi non ci riuscirebbe.”
Si voltò verso i tre soltanto per ordinar loro di filare via. E così fecero: sgattaiolarono come il gatto a cui era stato appena sottratto il cibo. Ma non appena notò che anche il quarto stava facendo cenno di andarsene, lo richiamò con un fischio e per poco non lo mise sull’attenti.
“Come ti chiami.”
“Blaine – fece lui, calmo – Blaine Anderson.”
E lei lo fissò: aveva già sentito quel nome. Ma dove lo aveva sentito?
Oh. Giusto. Tutto ad un tratto, sfoggiò un sorriso che il ragazzo non capì molto bene.
“Non importa – disse subito dopo, aggiungendo un gesto convesso della mano – fila via anche tu, dovunque tu debba andare.”
 


La palestra brulicava di gente, come accadeva spesso in quegli eventi popolari. La coach era seduta al suo solito posto come se fosse una tribuna, intenta a dare le ultime indicazioni a Brittany e qualche altra cheerleader.
Blaine era arrivato poco prima, posizionandosi in una delle prime file nel modo più anonimo possibile: gli dispiaceva non avere gli occhiali, perchè adesso il mondo gli sembrava una chiazza informe e non sarebbe mai riuscito a vedere Kurt.
Invece, lui lo aveva visto sin dal primo momento che aveva varcato la soglia. Aveva sorriso: sapeva che sarebbe venuto, ma adesso trovarlo lì gli donava una sensazione ancora più intensa. Per un attimo si domandò che fine avessero fatto i suoi occhiali, ma subito dopo la musica partì riecheggiando in tutta la sala e lui fu costretto a prendere posizione nella coreografia, in modo perfettamente simmetrico rispetto a Mercedes che lo fissava emozionata quasi quanto lui.
Perchè, dopo qualche minuto di ballo, le luci si abbassarono, la musica si spense, e adesso Kurt era perfettamente al centro della palestra, con gli occhi tremanti che vagavano da una meta e l’altra: non riusciva più a vedere Blaine; ma lui era lì, davanti a lui, e così, con voce chiara e decisa cominciò a cantare. Nessuna base, nessun coro. Soltanto lui, e la sua unica voce.
E Blaine, in quel momento, non sapeva dire con esattezza come facesse il suo cuore a battere così forte, nè come facevano i suoi occhi a pungere terribilmente protestando per sfogarsi, esprimersi, mostrare tutto ciò che stava provando in quel momento: sapeva soltanto che Kurt stava cantando per lui. Il testo, la voce. I suoi occhi così splendidi che sapevano di averlo trovato. Ogni fibra del suo corpo sembrava urlare il suo nome così come Blaine voleva chiamare il suo.
Era fortunato. Non avrebbe mai pensato di trovare qualcuno così, qualcuno come lui; non in quella scuola. Non in quella vita, perlomeno.
Quando le luci si riaccesero, uno scroscio di applausi accolse quella toccante esibizione, e lui li accompagnò con qualche secondo di ritardo, perchè la musica era ancora lì, impressa nel suo cuore. Kurt lo trovò immediatamente con lo sguardo e gli rivolse un sorriso che, se possibile, lo aveva ucciso per la seconda volta.
Mentre la folla acclamava il talento indiscusso del ragazzo più popolare del McKinley la Sylvester si era soffermata ad ascoltare i commenti di qualche giocatore di Hockey poco distanti da lei, che avevano fissato la scena in silenzio, senza plauso nè gioia.
Alla fine, dissero soltanto questo: “che checca.”
E nella memoria della professoressa riecheggiò un’altra frase: “che mongola.”
Sua sorella non era mongola. Sua sorella era brava e buona, non aveva mai fatto niente di male. E allora, perchè la riempivano di insulti? Perchè non potevano lasciarla stare, perchè, diavolo, aveva già tante cose da affrontare, potevano risparmiarle almeno quello?
Era l’umiliazione di sentirsi dire: “sei la sorella della scema.” Era la rabbia di urlare che gli unici scemi erano loro.
“Sorellona” la chiamava lei, con quel sorriso dolce e gentile, che le faceva sempre tanto piacere. A volte sembrava che fosse ancora lì, insieme a lei.
A volte Jean le mancava così tanto da star male.
 


Era strano. Occhi che lo fissavano, quasi scrutandolo, sorrisetti spezzati a metà; il tepore dei jeans e quello del cardigan blu scuro, che si intonavano perfettamente a tutto il resto. Kurt non avrebbe mai pensato di sentirsi diverso senza quella divisa, eppure, le sue mani stringevano quella scatola rossa e bianca con sin troppa esitazione, come se tutto il resto del suo corpo temesse di fare qualcosa di sbagliato, ma non avesse il coraggio di ammetterlo.
Passi vuoti, lungo il corridoio, che si dirigevano lentamente verso qualcosa: l’ufficio della Sylvester, arredato con i suoi mille trofei, era sempre lo stesso. Si domandò quante volte era stato in quel posto, per ramanzine, complimenti, piani diabolici architettati dall’insegnante; si domandò se ci sarebbe tornato mai. Con quel pensiero impresso nella mente bussò un paio di volte, e qualche secondo dopo la voce roca e bassa della coach lo invitò ad entrare; sembrava seccata, come sempre del resto: Kurt ricordava di averla vista sorridere soltanto una volta, ad una gara delle nazionali; ma anche allora, si rese conto che assomigliava di più ad un ghigno.
“Porcellana.” Commentò lei, come se fosse del tutto scontata la sua presenza. Sembrava intenta a scrivere qualche nota su una sorta di quaderno. La sua calligrafia era piccola, ben marcata, e le parole distanziavano l’una dall’altra con sufficienza: gli avevano sempre detto che si poteva capire tutto di una persona, soltanto osservando la sua scrittura. Kurt, però, non era esperto nelle calligrafie, e quindi non potè cogliere la vena malinconica che circondava alcune lettere, e nemmeno quella sorta di indecisione nascosta tra uno spazio e l’altro. Notò solo quello che era essenziale agli occhi: la sua professoressa, la sua mentore, la donna che, senza nemmeno saperlo, lo aveva aiutato tantissime volte.
Per questo gli fu un po’ difficile spiegare il perchè stava consegnando la sua divisa, perfettamente stirata e ripiegata nella scatola, con annesse le sue evidenti dimissioni.
La coach abbassò di un poco i suoi sottili occhiali da vista; non sembrava sorpresa; non sembrava nemmeno turbata, in realtà. Era sempre stata una donna dal volto indecifrabile, probabilmente, con pensieri ancora più oscuri di quelli detti.
“La motivazione?”
Era una domanda piuttosto ovvia da fare, a colui che era stato il capo-cheerleader per anni. Era una domanda lecita, questo Kurt lo sapeva bene. Tuttavia, trattenendo a stento il respiro rimase in silenzio, non distogliendo lo sguardo da quei due occhi. Buffo: erano così simili, nel loro colore chiaro e trasparente, ma in quel momento stavano rivelando emozioni talmente differenti, che Kurt cominciò a sentirsi molto vulnerabile e le sue mani si intrecciarono in modo impacciato.
“Kurt – incalzò lei; si stupì un poco sentendo il suo nome pronunciato per la prima volta in modo corretto- se vuoi dimetterti, devi darmi un motivo. E sappi che se si tratta di quel maledetto numero delle prove ti ordino immediatamente di andare a Quel Paese, e già che ci sei di inviarmi anche una cartolina.”
“Non è per il numero.” Rispose lui. Ma certo che non era per il numero: ogni microespressione del suo viso sembrava chiarire che ci fosse qualcos’altro.
Osservò la scatola della divisa, diventando lentamente più calmo e serio: adesso che la vedeva lì, piegata, quasi anonima, nel suo taglio e nel suo stemma inciso sul petto, gli sembrò nient’altro che un oggetto. Tuttavia, non riuscì a definirlo come senza valore: c’era ancora quel piccolo taglio all’altezza del fianco che si era provocato durante le esercitazioni alla trave, per provare un numero piuttosto rischioso abbinato ad una canzone di Funny Girl; c’era ancora quella parte della caviglia un po’ sbiadita dal tempo, dalle scarpette e dal caffè che Finn gli aveva accidentalmente rovesciato un giorno. C’era rinchiuso tutto il calore che gli abbracci di Mercedes gli avevano donato; e sì, tutto sommato, quella era proprio una bella divisa. Ma niente di più. Non era uno scudo; non era una protezione. Non era l’abbraccio che gli aveva regalato Blaine quando aveva terminato l’esibizione, sorridendo in modo radioso e sussurrandogli con fare tenero: “Mi hai fatto emozionare.”
E le emozioni non sono tessuto: sono colore. Fuochi d’artificio che ti partono da dentro, che non riesci proprio a trattenere. Kurt aveva cominciato da poco a capire tutte quelle cose, e adesso che ne aveva avuto una vaga idea, desiderava di poter chiedere di più. Tuttavia, sapeva anche che doveva dare una spiegazione alla coach, e senza interpellare Blaine. Non voleva che sapesse; così, dopo qualche altro secondo di meditazione, trovò le parole da dire.
“Vorrei...” si fermò: aveva la gola secca. Con un altro tentativo mormorò: “Vorrei provare a finire i miei anni di liceo come Kurt Hummel.”
Come un ragazzo che aveva trovato qualcosa di troppo prezioso e reale per lasciarlo andare via. Sue Sylvester lo osservò, perchè aveva capito tutto, aveva capito benissimo.
“Mio caro, non sai quanto mi piacerebbe farti svenire con dei calzini usati del tuo fratellastro, portarti di peso dall’anagrafe e farti cambiare quel nome in qualcosa di più opportuno come Porcellana, Mrs Brick o Faccia da Pizzichi, ma per quanto tu possa fingere il contrario, è molto difficile essere un’altra persona. E ti è sempre venuto male.”
Inarcò un sopracciglio: non era sicuro di aver afferrato, tra una battuta acida e l’altra, il filo del discorso.
“Andiamo –seguitò lei, cominciando a giocare con un trofeo al suo fianco - pensi davvero di poter nascondere qualcosa a me? So tutto della tua tresca con il ragazzino dei conti. Per favore, mi sembra di vedere una radice quadrata sbucare da quella tua sottospecie di coda a forma di peluche che tieni attaccata alla cintura.”
Ecco. Kurt sentì l’aria evaporare completamente dal suo corpo.
“P-può ripetere?”
La coach sfoggiò un ghigno, sistemandosi meglio su quel trono che si ritrovava al posto della sedia. Fece cenno a Kurt di sedersi, come per dire che sarebbe stata una cosa lunga, e il ragazzo era talmente stremato che acconsentì senza troppe storie, fissando ancora in stato di confusione letale un punto non ben definito davanti a sè, a metà tra lo spremi-agrumi e la cyclette “spremi-polmoni”.
“Avevo cominciato a nutrire qualche dubbio – esordì la coach – più o meno da quando ho saputo della tua misteriosa B-. Ma poi ho pensato che, magari, ti eri fatto di pon-pon, o qualcos’altro. Così ho chiesto un po’ in giro, e a parte qualche strano commento di Brittany sui delfini e sugli squali bianchi Santana mi ha parlato di questa calcolatrice umana che frequenti da più di un mese.”
Santana. Oh cavolo, Santana. Come aveva fatto a dimenticarsi di lei?! Quella volta, nel corridoio: sicuramente aveva notato l’occhiata che si erano lanciati lui e Blaine. Sicuramente aveva afferrato qualcosa, perchè, lo sapeva da tempo, aveva questa innata abilità di cogliere messaggi nascosti e subliminali. Ed era ovvio che aveva detto chissà che cosa alla Sylvester, con tanto di aggettivi fantasiosi e coloriti. Poi, magari, aveva intuito qualcosa ascoltando la canzone... e così era fregato.
“Puoi negarlo?”
La coach gli aveva fatto un’altra domanda. Sembrava a metà tra il seccato e il calmo, e lui non aveva la più pallida idea di che cosa fare. Però, ormai che era in ballo, si sentì quasi più leggero nel momento in cui dichiarò: “No, non voglio negarlo.”
“Non avevo dubbi.”
E allora che me lo hai chiesto a fare, voleva dire. Invece, con grande apprezzamento da parte della prof, rimase in silenzio.
“Mi chiedevo quando sarebbe venuto il momento in cui ti avrei visto sgattaiolare in qualche sgabuzzino assieme a qualche giocatore di football. Mi hai stupito: un matematico? Fissato con i videogiochi, per di più. Non ci avrei scommesso un soldo bucato.”
Le guance di Kurt si stavano velocemente accendendo di rosa.
“Comunque dovevo capirlo da quella specie di furetto morto che usi come accessorio per la cintura che hai dei gusti alquanto discutibili; ma non è affar mio.”
E stava già per risponderle a tono e dirle che i suoi gusti non erano affatto discutibili, che lei non poteva etichettare in quel modo Blaine, nè lui, quando, improvvisamente, strabuzzò gli occhi e dovette riepilogare nella sua mente l’ultima frase appena sentita, per almeno una trentina di volte.
“Come sarebbe a dire: non è affar suo?”
“Esattamente questo. Non mi interessa con chi ti sposi, Hummel, basta che vieni puntuale agli allenamenti. E ti sarei grata se evitassi di indossare imitazioni afro dei capelli di Shuester come cinture, se proprio non vuoi mettere la divisa nell’orario di lezione.”
Allenamenti, divisa. Tutte quelle parole presero a scorrere in modo frenetico davanti a sè, in un vortice di sensazioni strane, dolci, belle, rincuoranti, gioiose, festive. Lui poteva essere Kurt Hummel. Lui poteva essere chi voleva, poteva stare con Blaine, poteva continuare gli allenamenti.
“Davvero?”
Si sentì un po’ stupido per aver sussurrato quella domanda così, con tono piccolo ed incredulo: perchè era un sogno. Perchè, diavolo, come aveva fatto a non considerare quella terza opzione? Non erano mai state destra o sinistra, cheerios o non cheerios. Forse aveva semplicemente sottovalutato la professoressa. O forse, non si era reso conto di quanto, un’altra volta, lo avesse protetto più di quanto desse a vedere.
Sul suo volto c’erano tutte le emozioni in un’espressione sola: così la coach si concesse un minuscolo sorriso, prima di annuire e buttarlo fuori dal suo ufficio. Non un ghigno, non una smorfia: era la seconda volta che Kurt aveva visto quel sorriso, e non poteva sapere che la prima era stato per via della sua sorellina presente sugli spalti, in quel giorno alle nazionali.
La Sylvester lo guardò chiudere la porta, immaginandosi la sua corsa alla ricerca di Blaine per lanciarsi in un abbraccio e raccontargli tutto il loro dialogo: sicuramente, aveva dato loro un motivo in meno per essere tristi; ma ripensando alla scena di quella mattina, a quegli spintoni contro di Blaine, ai commenti sentiti su Kurt, sapeva bene che loro avevano un motivo in più per essere preoccupati.



   
 
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