“Funeris heu tibi causa
fui? Per sideras iuro, per superos
et si qua fides…”
“Ti prego” disse
improvvisamente Mecenate con voce stanca e
triste, ma con un pallido sorriso sulle labbra. Orazio ebbe un sussulto
e si
volse immediatamente verso di lui, poggiandosi una mano sul cuore.
“Mecenate” disse,
poggiando l’opera sul suo leggio. “Spero
che non ti dispiaccia se stavo leggendo la tua Eneide.”
“Figurati”
rispose Mecenate,
sedendosi lentamente su un lettino. “Ma ti prego,
non… non amo molto sentirla
leggere. Perdonami.”
“Lo
so. Perdonami tu” disse
Orazio. Guardava il suo caro protettore: gli appariva molto vecchio, e
molto
stanco. Eppure non aveva che tre anni più di lui.
Andò a sedersi al suo fianco
sul lettino, e dopo un poco mormorò: “Pare che
alla fine avesse imparato la
metrica, eh…?”
“No”
disse Mecenate “Non è
vero, purtroppo. Quando Ottaviano ha convinto Vario e Tucca a curarne
la
pubblicazione, l’Eneide era ancora piena di
errori.” Chinò lo sguardo, come
consapevole di una grande colpa, e mormorò:
“Malgrado tutti i mie sforzi, le
mie preghiere… Ottaviano ha voluto pubblicarla a ogni
costo.”
Chinatosi
verso di lui, Orazio
gli ripeté ancora qualcosa che tentava di dirgli da molto
tempo: “Non è stata
colpa tua, Mecenate.”
“Ah,
se mi fossi opposto…se l’avessi
bruciato lo stesso, malgrado Ottaviano…”
“E
se tu fossi morto, proprio
come Cicerone?” domandò Orazio sorridendo.
“L’Eneide era troppo importante per
Augusto, lo sai.”
“Ma
a che mi è valso vivere
fino a ora?” chiese Mecenate con una triste voce amara e
carica di rimpianto,
alzandosi.
Si
avvicinò al leggio e
appoggiò le mani sul poema. Le sue povere, stanche mani
ingiallite e fragili
come pergamena antica e ormai sciupata, come quei preziosi manoscritti
dell’Antico Regno che il Nilo, talvolta, restituiva. Era
proprio stanco.
“Gli
vuoi ancora molto bene,
vero?”
Mecenate
esitò, immobile.
Orazio era in piedi, fermo, alle sue spalle; ora taceva, ma la sua voce
si era
appena spenta nell’aria ed era diventata, lentamente,
silenzio: in quel
silenzio Mecenate percepiva la sua presenza, la sua attesa, la sua
pazienza.
Eppure era un’altra la presenza che avrebbe voluto percepire,
una presenza che
talora, chiudendo gli occhi e respirando appena, in quei lunghi anni
aveva
potuto illudersi di sentire, di percepire… ecco, anche ora,
come tante volte in
quei lunghi anni, ora che ristava immobile, in silenzio, gli pareva di
udir
risuonare l’aria della cara dolce amata voce di Virgilio, di
quella voce carica
ed espressiva, quella voce che talora era stata di gioia o di pianto,
di
disperazione o di tenero amore o di passione, o talora anche di rabbia,
ma di
una rabbia che Mecenate sarebbe stato lieto di subire ancora, se solo
avesse
potuto avere ancora una volta la presenza di Virgilio, lì,
in quella stanza. Ma
Virgilio non c’era, egli lo sapeva, ne era consapevole,
cosciente, e forse per
questo Mecenate non accennava a voltarsi, per il solo poter godere,
ancora per
un momento, di quella dolce amarissima illusione, che Virgilio non
fosse morto,
che la sua vita esistesse ancora e che esistesse lì, con
lui, in quella casa a
Roma.
“Gli
voglio ancora molto bene”
disse stancamente, lentamente: gli pareva per la prima volta di dire a
parole
qualche cosa che il suo cuore gli ripeteva da molto tempo.
Chinò lo sguardo di
nuovo su quelle sue vecchie odiose fragili mani ossute, poggiate su
quel suo
libro per cui provava sentimenti tanto contrastanti, e dopo un attimo
la sua
voce mormorò: “Ora va’, ti prego,
Orazio…non vorrei cacciarti, ma sono molto,
molto stanco.”
Sì,
Mecenate era stanco, era
stanco davvero. Udì un sospiro, un saluto, un suono di
passi, una porta, poi
silenzio, finalmente. Mecenate era di nuovo solo, così
com’era stato per tanto
tempo, per tutti quegli anni, solo in quella lussuosa casa a pochi
passi dal
Colosseo. Un giorno, da giovane – se si poteva dire che mai
fosse stato giovane,
lui che per quasi tutta la sua vita non si era curato mai che della
gloria e
della ricchezza, che aveva sempre anteposto il proprio nome a ogni
cosa,
persino al rispetto e alla pietà umana- da giovane,
sì, aveva forse creduto che
quella ricca e lussuosa casa fosse tutto ciò di cui avrebbe
avuto bisogno, che
non avrebbe mai provato la solitudine in quelle ampie stanze, forse che
non
avrebbe provato mai alcun sentimento davvero. Sì, un tempo
era stata questa la
sua illusione, che la ricchezza potesse mettere a tacere tutto, ogni
suo
sentimento o emozione, che quella domus bastasse a fare la sua
felicità.
Ebbene, ora Mecenate non la pensava più così, ora
avrebbe volentieri venduta o
persino regalata la sua casa, se solo con tale gesto avesse potuto
riavere
quella vita che aveva amata più della propria, in un certo
momento, e se solo
Virgilio fosse stato con lui ancora, magari per qualche giorno
soltanto, a
ridirgli tutte le cose belle che gli aveva insegnato in quegli anni.
Certo, non
che Mecenate le avesse scordate, ma avrebbe voluto ripassarle con lui.
“Ah,
Mecenate, vecchio mio”
proruppe infine, bruscamente strappandosi, come altre volte, a quel
leggio e a
quei pensieri troppo tristi e ormai noti, che in quegli anni lo avevano
sempre
condotto alle stesse conclusioni. Si toccò con le dita la
pelle fragile, gonfia
e rugosa là sotto l’occhio, e trovò che
essa era umida e fredda. Vergognoso, si
asciugò in fretta le guance bagnate e, allontanandosi dal
leggio, borbottò,
come sentendosi in dovere di giustificarsi verso quell’uomo
altero e severo che
era stato: “Ah, Mecenate, Mecenate, stai
invecchiando… piangi per un nulla e
poi ti chiedi perché.”
Ma
Mecenate lo sapeva il perché
di quelle lacrime e ancora, imbarazzato, mormorò:
“Oh, andiamo,
Mecenate…dopotutto, sono passati undici anni. A dicembre
saranno undici anni.”
Già,
undici anni. Le sue guance
erano asciutte ora. Mecenate sistemò il volume sul leggio,
stancamente, e
lentamente si avviò verso la porta. Sì, a
dicembre sarebbero stati undici anni:
sarebbe tornato a Napoli anche quell’anno, certo, ma non
sapeva se si sarebbe
sentito molto in grado, o molto in forze…
Si
sentiva stanco, stanco per
davvero.
Ecco
qua, è finito. Che dire? Era una storia nata per caso, per
giustificare i miei
continui errori nell’accentazione metrica
dell’Eneide; e ora, ecco qua, è
diventata per me una delle storie d’amore che più
mi è piaciuto scrivere, nella
quale ho versato forse un po’ dei miei ideali romantici senza
essere melensa.
Un
caldo, caldissimo ringraziamento a chi ha voluto seguire fino alla
fine, ma
anche a chi si è fermato a metà strada, magari
quando ho cambiato temi. Grazie
dunque a chi ha recensito: Smolly, OlandeseVolante, gleeklove e
Wadding; a chi
ha aggiunto la storia ai preferiti: Wadding e gleeklove; a chi
l’ha aggiunta
alle seguite: Hadi_Foltler, prelude10, Smolly e Wadding.
In
particolar modo, un grazie speciale a gleeklove e a Smolly, per aver
contribuito anche personalmente nel sostenermi.
Ma
soprattutto un pensiero a quelle grandi personalità della
cui fama ho
indegnamente usufruito, in modo spero non offensivo né
degradante: Virgilio,
Mecenate, Orazio, Ottaviano, sia che compaiano saltuariamente, sia come
personaggi protagonisti.
Insomma,
detto questo, spero che questa mia abbia saputo riscuotere un poco di
apprezzamento; spero altresì di ricevere almeno qualche
parere, positivo o
negativo che sia.
A
presto!
Afaneia
;)