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Autore: Afaneia    17/03/2012    4 recensioni
L'autore delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide, l'intellettuale dell'epicureismo e dello stoicismo, il poeta di Ottaviano Augusto, il cantore della virtus Romana: ma chi era veramente Publio Virgilio Marone? Era realmente così come la leggenda lo vuole, timido e schivo? Quali erano realmente i suoi rapporti con il potente Mecenate e com'erano entrati in contatto questi due uomini così diversi?
Siete disposti a scoprirlo?
Genere: Satirico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Funeris heu tibi causa fui? Per sideras iuro, per superos et si qua fides…”

“Ti prego” disse improvvisamente Mecenate con voce stanca e triste, ma con un pallido sorriso sulle labbra. Orazio ebbe un sussulto e si volse immediatamente verso di lui, poggiandosi una mano sul cuore.

“Mecenate” disse, poggiando l’opera sul suo leggio. “Spero che non ti dispiaccia se stavo leggendo la tua Eneide.”

“Figurati” rispose Mecenate, sedendosi lentamente su un lettino. “Ma ti prego, non… non amo molto sentirla leggere. Perdonami.”

“Lo so. Perdonami tu” disse Orazio. Guardava il suo caro protettore: gli appariva molto vecchio, e molto stanco. Eppure non aveva che tre anni più di lui. Andò a sedersi al suo fianco sul lettino, e dopo un poco mormorò: “Pare che alla fine avesse imparato la metrica, eh…?”

“No” disse Mecenate “Non è vero, purtroppo. Quando Ottaviano ha convinto Vario e Tucca a curarne la pubblicazione, l’Eneide era ancora piena di errori.” Chinò lo sguardo, come consapevole di una grande colpa, e mormorò: “Malgrado tutti i mie sforzi, le mie preghiere… Ottaviano ha voluto pubblicarla a ogni costo.”

Chinatosi verso di lui, Orazio gli ripeté ancora qualcosa che tentava di dirgli da molto tempo: “Non è stata colpa tua, Mecenate.”

“Ah, se mi fossi opposto…se l’avessi bruciato lo stesso, malgrado Ottaviano…”

“E se tu fossi morto, proprio come Cicerone?” domandò Orazio sorridendo. “L’Eneide era troppo importante per Augusto, lo sai.”

“Ma a che mi è valso vivere fino a ora?” chiese Mecenate con una triste voce amara e carica di rimpianto, alzandosi.

Si avvicinò al leggio e appoggiò le mani sul poema. Le sue povere, stanche mani ingiallite e fragili come pergamena antica e ormai sciupata, come quei preziosi manoscritti dell’Antico Regno che il Nilo, talvolta, restituiva. Era proprio stanco.

“Gli vuoi ancora molto bene, vero?”

Mecenate esitò, immobile. Orazio era in piedi, fermo, alle sue spalle; ora taceva, ma la sua voce si era appena spenta nell’aria ed era diventata, lentamente, silenzio: in quel silenzio Mecenate percepiva la sua presenza, la sua attesa, la sua pazienza. Eppure era un’altra la presenza che avrebbe voluto percepire, una presenza che talora, chiudendo gli occhi e respirando appena, in quei lunghi anni aveva potuto illudersi di sentire, di percepire… ecco, anche ora, come tante volte in quei lunghi anni, ora che ristava immobile, in silenzio, gli pareva di udir risuonare l’aria della cara dolce amata voce di Virgilio, di quella voce carica ed espressiva, quella voce che talora era stata di gioia o di pianto, di disperazione o di tenero amore o di passione, o talora anche di rabbia, ma di una rabbia che Mecenate sarebbe stato lieto di subire ancora, se solo avesse potuto avere ancora una volta la presenza di Virgilio, lì, in quella stanza. Ma Virgilio non c’era, egli lo sapeva, ne era consapevole, cosciente, e forse per questo Mecenate non accennava a voltarsi, per il solo poter godere, ancora per un momento, di quella dolce amarissima illusione, che Virgilio non fosse morto, che la sua vita esistesse ancora e che esistesse lì, con lui, in quella casa a Roma.

“Gli voglio ancora molto bene” disse stancamente, lentamente: gli pareva per la prima volta di dire a parole qualche cosa che il suo cuore gli ripeteva da molto tempo. Chinò lo sguardo di nuovo su quelle sue vecchie odiose fragili mani ossute, poggiate su quel suo libro per cui provava sentimenti tanto contrastanti, e dopo un attimo la sua voce mormorò: “Ora va’, ti prego, Orazio…non vorrei cacciarti, ma sono molto, molto stanco.”

Sì, Mecenate era stanco, era stanco davvero. Udì un sospiro, un saluto, un suono di passi, una porta, poi silenzio, finalmente. Mecenate era di nuovo solo, così com’era stato per tanto tempo, per tutti quegli anni, solo in quella lussuosa casa a pochi passi dal Colosseo. Un giorno, da giovane – se si poteva dire che mai fosse stato giovane, lui che per quasi tutta la sua vita non si era curato mai che della gloria e della ricchezza, che aveva sempre anteposto il proprio nome a ogni cosa, persino al rispetto e alla pietà umana- da giovane, sì, aveva forse creduto che quella ricca e lussuosa casa fosse tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno, che non avrebbe mai provato la solitudine in quelle ampie stanze, forse che non avrebbe provato mai alcun sentimento davvero. Sì, un tempo era stata questa la sua illusione, che la ricchezza potesse mettere a tacere tutto, ogni suo sentimento o emozione, che quella domus bastasse a fare la sua felicità. Ebbene, ora Mecenate non la pensava più così, ora avrebbe volentieri venduta o persino regalata la sua casa, se solo con tale gesto avesse potuto riavere quella vita che aveva amata più della propria, in un certo momento, e se solo Virgilio fosse stato con lui ancora, magari per qualche giorno soltanto, a ridirgli tutte le cose belle che gli aveva insegnato in quegli anni. Certo, non che Mecenate le avesse scordate, ma avrebbe voluto ripassarle con lui.

“Ah, Mecenate, vecchio mio” proruppe infine, bruscamente strappandosi, come altre volte, a quel leggio e a quei pensieri troppo tristi e ormai noti, che in quegli anni lo avevano sempre condotto alle stesse conclusioni. Si toccò con le dita la pelle fragile, gonfia e rugosa là sotto l’occhio, e trovò che essa era umida e fredda. Vergognoso, si asciugò in fretta le guance bagnate e, allontanandosi dal leggio, borbottò, come sentendosi in dovere di giustificarsi verso quell’uomo altero e severo che era stato: “Ah, Mecenate, Mecenate, stai invecchiando… piangi per un nulla e poi ti chiedi perché.”

Ma Mecenate lo sapeva il perché di quelle lacrime e ancora, imbarazzato, mormorò: “Oh, andiamo, Mecenate…dopotutto, sono passati undici anni. A dicembre saranno undici anni.”

Già, undici anni. Le sue guance erano asciutte ora. Mecenate sistemò il volume sul leggio, stancamente, e lentamente si avviò verso la porta. Sì, a dicembre sarebbero stati undici anni: sarebbe tornato a Napoli anche quell’anno, certo, ma non sapeva se si sarebbe sentito molto in grado, o molto in forze…

Si sentiva stanco, stanco per davvero.

 

 

Ecco qua, è finito. Che dire? Era una storia nata per caso, per giustificare i miei continui errori nell’accentazione metrica dell’Eneide; e ora, ecco qua, è diventata per me una delle storie d’amore che più mi è piaciuto scrivere, nella quale ho versato forse un po’ dei miei ideali romantici senza essere melensa.

Un caldo, caldissimo ringraziamento a chi ha voluto seguire fino alla fine, ma anche a chi si è fermato a metà strada, magari quando ho cambiato temi. Grazie dunque a chi ha recensito: Smolly, OlandeseVolante, gleeklove e Wadding; a chi ha aggiunto la storia ai preferiti: Wadding e gleeklove; a chi l’ha aggiunta alle seguite: Hadi_Foltler, prelude10, Smolly e Wadding.

In particolar modo, un grazie speciale a gleeklove e a Smolly, per aver contribuito anche personalmente nel sostenermi.

Ma soprattutto un pensiero a quelle grandi personalità della cui fama ho indegnamente usufruito, in modo spero non offensivo né degradante: Virgilio, Mecenate, Orazio, Ottaviano, sia che compaiano saltuariamente, sia come personaggi protagonisti.

Insomma, detto questo, spero che questa mia abbia saputo riscuotere un poco di apprezzamento; spero altresì di ricevere almeno qualche parere, positivo o negativo che sia.

A presto!

Afaneia ;)

   
 
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