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Autore: PattyOnTheRollercoaster    21/03/2012    1 recensioni
Tutti gli uomini vogliono lasciare un segno di sé, un ricordo del loro passaggio, una prova del fatto che anche loro, un giorno, avevano calpestato quella stessa terra che ora era dimora di altri. Sarebbe stato bello passare alla storia come un grande artista. Fiorenzo Da Rubbio, il pittore. [...]
Il boia si mosse dietro Fiorenzo e lui poté vedere appena l’ombra dell’ascia che veniva sollevata. Chiuse i suoi occhi troppo azzurri per l’ultima volta.
“Ti sbagliavi, Michelangelo. E’ la morte che vince ogni cosa.”
Fanfiction partecipante al Collapsing Night - II Edizione, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Amor vincit omnia





Le sbarre della prigione erano fredde più del marmo, più dure dello stesso, eppure rassicuranti come un abbraccio. Dietro quelle sbarre chissà cosa lo stava attendendo? Quale mostro?, avido di prendersi la sua anima mutilata dall’amore e macchiata dall’omicidio. Fiorenzo si appoggiò contro la parete e deglutì la saliva amarognola, chiudendo gli occhi e abbandonando il capo sulla pietra fredda.
Era già da un mese che si trovava lì e il suo processo doveva ancora iniziare, eppure si sentiva già un condannato. Non c’erano dubbi su cosa sarebbe accaduto; la vera domanda era come sarebbe accaduto? Avrebbero preferito l’impiccagione? Lo avrebbero lapidato? O forse la decapitazione era preferibile in quei casi? Certo non troppo pulita, ma comunque veloce e – a quanto Fiorenzo poteva immaginare – indolore. Così fulminea da non essere nemmeno percepita.
Un rumore di passi fece destare Fiorenzo, che si era addormentato contro la parete della cella. Una guardia munita di spada e voce sprezzante lo chiamò, colpendo le sbarre con il palmo della mano e producendo un rumore metallico con l’anello che portava al mignolo. «Ehi, imbrattatele!» Fiorenzo alzò lo sguardo. «Fra una settimana c’è il tuo processo, non mancare.» L’uomo ghignò, facendo piegare con il viso quei folti baffi che aveva.

Fiorenzo Guaschi nacque a Rubbio nel 1581. Suo padre, Pietro Guaschi, era uno scalpellino. Dall’età di dodici anni Fiorenzo aveva aiutato il padre nella sua bottega ed era diventato abile nello scolpire la pietra. Tuttavia la sua vera passione era il disegno, e il padre gli dava sempre il compito di preparare i bozzetti da mostrare ai clienti.
Fiorenzo aveva avuto l’opportunità di andare a visitare Venezia, perché Rubbio si trovava a soli quattro giorni dalla laguna. Dopo aver conosciuto le opere dei grandi maestri veneziani aveva deciso che avrebbe fatto il pittore. Quello era sicuramente il suo destino. Fiorenzo lo vedeva rifulgere di fronte a sé con sicurezza, gli bastava allungare appena la mano per toccare il suo glorioso futuro.
In particolare si convinse a seguire la sua passione all’età di sedici anni, quando aveva accompagnato suo padre a Venezia per fare affari con il nobile Umberto Vendramin. Nella sua casa c’era una tela ad olio, di dimensioni piuttosto ridotte, che ritraeva un uomo, una donna e un bambino su di uno sfondo che vedeva le porte di una città nuova e delle rovine al loro fianco. L’aria attorno a loro sembrava muta e pesante, e nel cielo sul fondo s’intravedeva la tempesta. Il dipinto colpì il giovane Fiorenzo con una tale forza da farlo sentire in mezzo a quella bufera, sballottato qua e là con il cuore in subbuglio.
Quando furono di ritorno a casa Fiorenzo pregò il padre di mandarlo a fare un apprendistato in una bottega del luogo. Pietro Guaschi, dopo appena qualche giorno, accettò la cosa di buon grado, perché considerava il figlio abbastanza talentuoso. Fece un contratto con un pittore della zona perché tenesse Fiorenzo per tre anni, perché lo aiutasse e nel contempo lo istruisse.
Quando Fiorenzo entrò in bottega aveva sedici anni ed era buono solo a disegnare e scolpire la pietra. Quando ne uscì era diciannovenne, e la sua pittura era in fase di formazione. Con i soldi che gli dava il maestro per il suo lavoro e che lui aveva messo giudiziosamente da parte per quanto aveva potuto, decise di andare a Roma a studiare i grandi pittori dei secoli passati. Lasciò il suo paese natale nel 1600.

Il giudice era un uomo corpulento, annoiato, e leggeva i fascicoli che riguardavano il caso di quel giorno con disinteresse. Alla fine alzò lo sguardo sul ragazzo che gli stava di fronte. Era seduto su una sedia scomoda e spoglia, aveva le mani legate strette con delle funi grosse, che gli premevano contro la carne dei polsi. I suoi capelli erano neri e lisci, dello stesso colore del carbone, ma gli occhi grandi erano di un azzurro intenso, pulito. Nessuno avrebbe mai detto, guardando quegli occhi, che il giovane che li portava fosse un assassino.
Il giudice si schiarì la gola e domandò: «Il tuo nome?».
«Fiorenzo Guaschi, signore.»
«Sei di qui?»
«No signore, vengo da Rubbio, vicino a Venezia. Mi sono trasferito qui sei anni fa.»
«Perché?»
«Sono un pittore, signore. Sono venuto a Roma per conoscere i grandi artisti, e per lavorare in bottega.»
Il giudice fece un verso e diede un’altra occhiata alle carte. «Qui dice che il giorno due di Giugno di quest’anno sei stato trovato nella casa del ricercato Michelangelo Merisi, con le mani macchiate del sangue dell’uomo che era andato a prelevarlo, Tiberio Uganetti. Confermi?»
Fiorenzo, nelle notti di prigionia solitaria, aveva pensato molte volte a fuggire. Perché non c’era altro modo in cui avrebbe potuto rispondere alla domanda del giudice, e questo lo rendeva assolutamente colpevole. «Sì».
«Tu lo hai quindi ucciso. A sangue freddo, senza esitare?»
«Sì.»
Il giudice posò le carte e bevve dell’acqua, poi tornò a rivolgersi a Fiorenzo. «Tu conosci il pittore Michelangelo Merisi?»
«Sì, lo conosco.» Fiorenzo si umettò le labbra e mosse leggermente i polsi. Il fastidio che gli procuravano quei lacci schiacciati sulle ossa stava cominciando a diventare dolore.
«Come?»
«Signore, era il mio maestro, e occasionalmente posavo per i suoi dipinti.»
«Per ciò sai bene cos’è successo al signor Merisi.» Il giudice aveva un volto grasso e arcigno, le guance piene e rosse, e si rivolgeva al ragazzo chinandosi verso di lui.
«Io… so che deve essere fuggito da qualche parte.»
Il giudice parve fremere di rabbia. «Merisi è stato accusato di omicidio, e condannato a morte. Tu sei uno dei suoi allievi e lo hai aiutato a fuggire! Come dimostra la morte di Uganetti. Lo hai ucciso per permettere al tuo maestro di fuggire!» Il dito grasso che l’uomo gli puntò contro fu peggiore di tutte le accuse che Fiorenzo poteva subire. Il ragazzo aderì con la schiena sulla sedia e tirò indietro il collo, sperando di poter semplicemente scomparire in quell’istante. «Dicci dove si trova!»
«Io non lo so! L’ultima volta che l’ho visto è stato almeno una settimana prima del mio arresto.»
«E perché allora avresti dovuto uccidere una guardia in casa di Merisi?»
«I- io ero andato a trovare il maestro. Quell’uomo… lui ha offeso la sua arte, giudicandola spazzatura.»
«Bugiardo!», tuonò il giudice. Si rivolse alle guardie e fece un brusco gesto verso l’imputato. «Portatelo nella camera di tortura, vediamo se rammenterà dopo.»
Le due guardie avanzarono verso Fiorenzo e lo presero da sotto le ascelle per farlo alzare. Il ragazzo era talmente magro che lo sollevarono senza sforzo e lui saltò in piedi come un burattino. Guardava fisso il giudice, con quei suoi occhi azzurri, e le parole dell’uomo ancora gli rimbombavano nelle orecchie. Le guardie cominciarono a trascinarlo via, e solo allora Fiorenzo reagì. «No… No, io non so niente!» Cominciò a dimenarsi in mezzo alle due guardie, ma quelle lo tennero più stretto senza fatica. «Non so dove sia! Signor giudice non so niente di Michelangelo Merisi! Lo giuro su Dio non so niente!»

La porta si chiuse dietro al ragazzo con uno schianto doloroso, come solo il rumore amaro del rifiuto può essere. Fiorenzo rimase fermo per qualche istante, le labbra leggermente socchiuse, gli occhi vuoti. Si destò come da un sogno e appoggiò la borsa di cuoio a terra, poi dispiegò la tela che il maestro gli aveva restituito con malagrazia. Non aveva neanche dato all’olio il tempo di seccare, aveva staccato i ganci che tenevano la tela ben tesa sul supporto e quando quella era caduta morbidamente fra le sue braccia l’aveva lanciata al ragazzo e gli aveva intimato di andare via.
Riguardandola, Fiorenzo si disse che non era poi così male, anche se in quel momento molta della pittura si era mischiata e aveva formato una macchia scura sulla parte bassa del dipinto. Era una natura morta, dai colori piuttosto spenti. Nel farla Fiorenzo si era ispirato a quel nuovo pittore che stava dipingendo molte tele e tavole soprattutto per il cardinale Francesco Del Monte, lì a Roma. Si chiamava Michelangelo Merisi, Fiorenzo aveva visto i suoi dipinti nelle chiese e ne era rimasto affascinato. La luce, i colori, le movenze, le espressioni, la realtà che quei dipinti avevano erano impressionanti, ed era rimasto a guardarli per ore.
Ma a quanto aveva capito, al suo maestro quel Merisi non piaceva neanche un po’. Lo aveva sgridato quando il ragazzo aveva terminato il quadro di un’assunzione nella quale era incaricato di occuparsi della figura centrale della Vergine e aveva notato i tratti simili a quelli del pittore milanese. Ma quella volta Fiorenzo si era salvato, solo per il fatto che il committente, un nobile romano, era rimasto molto soddisfatto del dipinto. Il ragazzo aveva cominciato a maturare uno stile nuovo, fortemente ispiratogli da colui che chiamavano semplicemente Caravaggio, e che Fiorenzo considerava ormai un maestro a tutti gli effetti. Ma il suo vero maestro, quello in carne ed ossa che gli pagava lo stipendio, sembrava avere una repulsione verso il pittore. Lo considerava irriverente e in certi casi addirittura blasfemo. Quando vide che i dipinti di Fiorenzo cominciavano a somigliare a quelli del Merisi, lo cacciò.
Erano passati due anni da quando Fiorenzo era arrivato a Roma, e ancora nessuno gli aveva commissionato nulla. Il futuro che pareva così vicino da poterlo toccare si era bruscamente allontanato non appena lui aveva mosso un passo per raggiungerlo.
Fiorenzo si trovava solo, al buio, al freddo, nella vasta città di Roma che, seppur fosse in continua evoluzione da diversi anni a quella parte, non era affatto accogliente come voleva sembrare. Il ragazzo mise la borsa in spalla e cominciò a camminare lungo le stradine buie, cercando un posto dove dormire. Alla fine entrò in una locanda, pagò per rimanere lì cinque giorni, e s’infilò subito a letto. Contò quanti soldi gli rimanevano e giudicò che erano abbastanza per sopravvivere per qualche settimana finché non avesse trovato un’altra bottega pronta ad accoglierlo.
Passò un mese prima che Fiorenzo finisse i soldi che aveva messo da parte, e una sola settimana perché, in preda alla disperazione, chiedesse aiuto ad un amico fidato. Questi gli prestò il tetto della sua casa, a condizione che lo aiutasse nel lavoro. Fiorenzo trasportava merci pesanti su un carro, e lo fece per vitto e alloggio per qualche mese, fino a che il suo amico, che sapeva che lui era pittore, gli diede l’indirizzo di qualcuno che cercava modelli per quadri. «Se guadagni abbastanza ricominci a dipingere, magari», gli aveva detto.
Fiorenzo era rimasto molto stupito quando si era ritrovato in casa dell’uomo che aveva popolato, con le figure monumentali che emergevano dalla luce, i suoi dipinti più arditi. Si era ritrovato a casa di Caravaggio.
L’uomo che aveva di fronte era piuttosto basso, la sua pelle era bruna e la barba e i baffi crescevano disordinati. La casa dove abitava e dipingeva era formata da due grosse stanze, entrambe in disordine, piene di colori, tele, cavalletti, matite. La prima stanza che costituiva l’ingresso era piena di quel ciarpame, gettato sulle sedie, su un tavolo, e forse addirittura anche dentro i mobili che costituivano la cucina. La seconda stanza aveva un letto in un angolo, un piccolo armadio e un mobiletto basso dove c’erano gli strumenti per dipingere, oltre che diverse bottiglie di vino, libri, vestiti, e una spada gettata in un angolo.
Michelangelo Merisi guardò il ragazzo che aveva di fronte con occhi indagatori, poi si diresse verso il tavolo, prese due bicchieri e li riempì di vino. Ne porse uno al suo ospite. «Come ti chiami?»
«Fiorenzo, signor Merisi», fece il ragazzo fissandolo.
«Fiorenzo, dici?» Il pittore corrugò la fronte.
«Sì signore. Forse ha sentito parlare di me con il nome che mi hanno dato in bottega: Fiorenzo da Rubbio.»
Immaginando dove voleva andare a parare, Michelangelo fece uno schiocco con la lingua e posò il suo bicchiere di vino sul tavolo. «Mi spiace ragazzo, non ho una bottega, non voglio degli allievi.»
«No, no! Io non volevo quello, volevo dirle che sono disponibile come modello. Un mio conoscente mi ha indirizzato qui, ha detto che lei cerca sempre nuovi modelli per i suoi dipinti e così…» Fiorenzo lasciò la frase in sospeso.
Il Merisi assottigliò gli occhi e pareva che stesse per dire di no, ma ad un’occhiata più attenta a Fiorenzo la smorfia che aveva in volto scomparve di poco. Il ragazzo era sottile ma sembrava in forze, parlava con voce sicura e il suo modo di muoversi aveva un che di elegante e allo stesso tempo irriverente. Aveva fascino. Michelangelo si fermò a pensare qualche istante. L’unica cosa di quel ragazzo che non gli andava a genio erano gli occhi, troppo brillanti per essere inseriti nei suoi dipinti, un colore troppo freddo per i suoi abituali toni caldi. Nonostante questo il suo corpo pareva degno di essere ritratto, e Michelangelo gli tese una mano. «Ho proprio bisogno di uno come te.»

Fiorenzo si trascinò verso la porta della cella e si fece cadere in ginocchio sul pavimento. Con le mani che gli tremavano forte prese la brocca d’acqua che la guardia aveva appoggiato a terra e bevve a lunghe sorsate rumorose. Il liquido gli cadeva lungo il mento e formò una piccola pozza sul pavimento. Fiorenzo posò la brocca ma aveva ancora sete, così si sdraiò a terra, a pancia in giù, e succhiò il liquido rimasto sulla pietra. Poi si avventò sul cibo: mezza pagnotta. Il ragazzo la ingollò in un attimo. Quando ebbe terminato il suo pasto si accucciò sull’ammasso di paglia che era il suo letto e rimase lì, a contare lo scorrere del tempo con il battito sonoro dei suoi denti che tremavano l’uno contro l’altro.
Era da tre giorni che non mangiava né beveva nulla, il suo unico pasto quotidiano consisteva in tre o quattro ore di tortura. In quei lunghi istanti di agonia si domandava se per caso non fosse stato il caso di inventare qualcosa, qualsiasi cosa, e dire al giudice che Michelangelo Merisi era fuggito a Genova, come aveva già fatto in passato, o meglio in Francia, a chiedere aiuto ai suoi contatti parigini che aveva stretto grazie all’ambasciatore francese, suo protettore. Ma alla fine si diceva di non avere speranze, che non gli avrebbero creduto e che comunque sarebbe morto: aveva ucciso una persona.
Perché diavolo lo aveva fatto? Come aveva potuto essere tanto sciocco? In tutta onestà non poteva dare la colpa al suo maestro, anche se la faccenda lo tentava. Scaricare la colpa su di lui, dicendosi che lo aveva soggiogato, che lo aveva reso fedele e servile come un cagnolino, sarebbe stato semplice, ma Fiorenzo non ci avrebbe mai creduto nel profondo di sé. Non era mai stato una persona che si faceva comandare, ma certo era un uomo rispettoso. Purtroppo quello che era iniziato come rispetto aveva finito per diventare qualcos’altro, una sorta di insana venerazione che lo spingeva a fare cose di cui prima si sarebbe vergognato. Cose che pochi anni prima avrebbe condannato come comportamenti innaturali.
No, la colpa era solo sua, che si era lasciato rendere schiavo.

Erano passate tre settimane da quando Fiorenzo aveva iniziato a posare per Michelangelo. Il ritratto che gli stava facendo era una tela ad olio, alta un metro e mezzo e larga quasi altrettanto. Gli era stata richiesta dal banchiere Vincenzo Giustiniani, e Michelangelo vi lavorava incessantemente. In un primo abbozzo presentato al Giustiniani era raffigurato un ragazzo ignudo, che si torceva per togliere il piede dalle lenzuola, in equilibrio sull’altro. A terra giacevano armi, strumenti musicali, corazze e libri, una tipica natura morta del maestro.
Per Fiorenzo era un primo impegno parecchio arduo, perché la posizione che doveva assumere non era affatto comoda. Tuttavia lo faceva quasi ogni giorno senza lamentarsi, soprattutto perché dopo Michelangelo aveva preso l’abitudine di fargli trascorrere qualche ora in casa sua, per farlo dipingere. Fiorenzo attingeva ai suoi consigli e li assorbiva come la terra assorbe l’acqua, in maniera naturale e completa. Con i soldi del suo mestiere di modello e con i dipinti che aveva ricominciato a fare e vendere a piccoli commercianti o compratori privati riuscì ad affittare una stanza a Roma e la sua vita stava riprendendo una forma definita.
«Come lo chiamerai?», domandò Fiorenzo rivestendosi e guardando il maestro con un sorriso sulle labbra.
«Non lo so ancora. Ma stavo pensando a un titolo in latino.»
«Quale?»
Michelangelo si volse verso di lui e poggiò le mani sui fianchi. «Amor Vincit Omnia, che ne pensi?»
Fiorenzo annuì. «Mi piace. Giustiniani è passato a vederlo?»
«Sì, dice che per il momento va bene così, che gli piace.»
Fiorenzo e Michelangelo si vedevano tutti i giorni, a volte tutto il giorno. In città il ragazzo aveva sentito strane storie su di lui. Oltre che le solite malelingue riguardo alle sue frequenti liti e il vizio del gioco che non riusciva mai a togliersi – e nel quale sperperava tutto il denaro che aveva – c’erano anche altre voci, voci che giravano in maniera ancor più sottile e che Fiorenzo riteneva irritanti. Molte volte aveva rischiato di arrivare a litigare con qualcuno perché aveva difeso il nome del suo maestro con troppa foga, e si era reso conto che quell’uomo stava diventando il cardine della sua esistenza. Nelle lunghe ore pomeridiane si scopriva a osservarne il volto con interesse. Aveva imparato a conoscere l’espressione che faceva quando dipingeva, come corrugava gli occhi quando lo guardava, il movimento fluido, automatico, della sua mano che andava a intingere il pennello nel colore.
A dipinto quasi ultimato Michelangelo lo congedò, dicendogli di tornare fra un paio di settimane.
Quando alcuni giorni furono passati Fiorenzo si ripresentò alla casa del pittore, fremente, chiedendosi il perché di quella pausa e allegro al pensiero di rivedere il maestro. Michelangelo lo fece accomodare e tornò a dare gli ultimi ritocchi al quadro.
«Lo hai finito?», domandò stupefatto Fiorenzo, avvicinandosi alle spalle del pittore.
«Sì.»
Era ultimato, Fiorenzo poté riconoscere le sue cosce, il suo piede con il tallone sollevato, la sua pelle sull’addome che formava tante piccole pieghe da un lato e si tendeva sulle costole dall’altro. Ma non poté riconoscere il suo volto. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. «Questo non sono io», obbiettò, osservando il dipinto e poi il suo maestro.
«No, infatti», fece questi, le labbra leggermente dischiuse mentre ritoccava un po’ lo sfondo scuro.
«E chi è?» Fiorenzo era indignato, non capiva perché Michelangelo avesse bisogno di un altro modello quando c’era lui. Lui, che era stato così attento, così paziente; che tornava a casa e si distendeva sul letto con tutte le ossa doloranti, ma non si era mai lamentato neanche una volta. Il ragazzo arrossì, e i suoi occhi azzurri si fecero per la prima volta arrabbiati. «Perché non ci sono io?»
«Questo è Cecco, Cecco Boneri, uno dei miei apprendisti.»
«Avevo capito che non prendessi apprendisti.»
«E tu cosa credi di essere?» L’uomo alzò gli occhi verso il ragazzo, e Fiorenzo vide chiaramente che quella conversazione lo stava facendo spazientire.
«Sì be’… E perché non mi hai messo nel quadro?»
«Questo sei tu!», esclamò Michelangelo indicando la tela.
«Sì, sono io senza la testa! Perché hai scelto un altro? Che ho io che non va bene a te? Ho passato delle ore intere in quella posizione ridicola!»
Il pittore s’infiammò e le guance gli divennero rosse tutto d’un tratto. «Ridicola?!»
Fiorenzo sbiancò. Non voleva dire quello, gli era sfuggito solo perché era arrabbiato. Ma che senso aveva farlo posare se poi non intendeva nemmeno far comparire il suo volto nel ritratto? Era sicuro che ci fossero giovani con un corpo simile al suo dappertutto, perciò era il suo volto quello che contava. Le sue labbra, i suoi occhi, la forma della sua mascella, erano quelli che avrebbero fatto capire che quel dipinto, l’ennesimo meraviglioso dipinto del suo maestro, era, in un certo senso, un po’ anche suo. «I-Io non volevo dire così.» Il ragazzo sbatteva le palpebre in fretta e rivolse lo sguardo altrove.
Michelangelo fece un grugnito e si volse verso il quadro. «Ho già ritratto Cecco diverse volte», decretò mettendosi le mani sui fianchi. «Il suo volto è familiare e per di più non ha i tuoi occhi.» Si volse e guardò Fiorenzo, dritto in quegli occhi azzurri che avrebbero stonato con il resto del dipinto. Il ragazzo ricambiò l’occhiata con sguardo ferito. «Non voglio ritrarre i tuoi occhi, Fiorenzo. Desidero tenermeli per me.»
Senza alcun preavviso Michelangelo afferrò la nuca del ragazzo, avvicinò i loro visi e poggiò forte le labbra sulle sue. A Fiorenzo non parve possibile che quello stesse capitando a lui – dopotutto, le voci erano vere – e spalancò gli occhi tenendo le labbra più saldate che poteva. Non gli era mai capitato qualcosa di così orribile. Passò qualche secondo e Fiorenzo si rese conto che il contatto con quelle labbra poteva essere molte cose, ma non orribile.
Cominciò così la loro relazione segreta, relazione che andava avanti fra dipinti, bevute in compagnia e ore dedicate all’amore. Tuttavia, dopo appena un paio di mesi, Fiorenzo non era sicuro di essere l’unico amante di Michelangelo Merisi. Eppure non si tirò mai indietro, non pretese mai l’esclusiva su di lui. Caravaggio era il suo maestro e il suo idolo, e non voleva rovinare la relazione che c’era fra di loro, di qualunque tipo di relazione si trattasse. Fiorenzo era spesso confuso: a volte il Merisi lo trattava come un allievo, altre volte come un ragazzino, altre ancora come un uomo e certe notti come un amante.
Così andò avanti per quattro anni, con quella confusione nella testa che Fiorenzo non riusciva a collocare.

Il giudice si sistemò sul suo scranno e osservò con disprezzo Fiorenzo Guaschi. Il giovane era molto cambiato dall’ultima volta che lo aveva visto. L’aurea consapevole e fiera che aveva l’ultima volta era svanita, ed era rimasto solo un guscio vuoto, carico tutt’al più di spossatezza. Non c’era più nulla in lui, solo lividi, sangue rappreso e sporcizia nera che gli macchiava il volto, le mani e il petto. Il giudice soffiò uno sbuffo. «Mi hanno comunicato che ancora non parli, ragazzo. Si può sapere perché? Se tu ci dessi una mano, io sarei anche propenso a lasciarti andare, e tutta questa faccenda verrebbe bollata come uno spiacevole equivoco.»
Fiorenzo, la testa bassa a ciondoloni sul petto glabro e magro, rispose a voce bassa senza guardare negli occhi nessuno. «Io non lo so. Io non vedo Michelangelo Merisi da molto ormai.»
Il giudice respirò con rabbia. «Bene. Se è così venga messo agli atti che il prigioniero non ha voluto collaborare, come ci si aspetta da ogni civile cittadino. E dato il fatto che non ci sono più dubbi sulla sua colpevolezza, come ha confessato nella precedente udienza, Fiorenzo Guaschi, altrimenti conosciuto come Fiorenzo da Rubbio, è condannato a morte tramite decapitazione. L’esecuzione avverrà Lunedì, al tramonto.»
Le guardie sollevarono Fiorenzo e lo portarono via. Le parole del giudice non ebbero effetto su di lui, perché il ragazzo sapeva già di aver abbandonato la sua vita tempo addietro. Non durante le torture, ancora prima, quando aveva il privilegio di trascorrere giornate normali, quando vedeva il suo amante tutti i giorni, quando dipingeva rischiarato solo dalla luce della torcia. Mentre viveva la sua vita in maniera tanto pacata e addirittura quasi perfetta, era accaduto qualcosa di ingiusto, qualcosa che avrebbe preferito dimenticare, e che forse la morte gli avrebbe risparmiato di ricordare in ogni sogno tormentato che faceva.

«Hai sentito che è successo l’altro ieri notte? Caravaggio e Rinuccio Tomassoni hanno duellato, lui è morto.»
«Chi?!»
«Ranuccio, chi altri? Quel Caravaggio combina un disastro dopo l’altro. Dicono che è matto.»
A quelle parole Fiorenzo era diventato molle e il suo cuore fece un tuffo. Quando tornò a galla batteva tre volte più veloce di prima e il ragazzo abbandonò la birra che stava bevendo per uscire dall’osteria di corsa. Si scapicollò fino a casa del suo maestro e bussò furiosamente con le nocche. «Caravaggio! Caravaggio apri la porta!» Il ragazzo, ansante, spinse la maniglia, ma la porta era bloccata dall’interno. «So che sei lì dentro, aprimi! Apri subito!» Un rumore di ferro che scorreva sibilò e la porta si aprì di uno spiraglio. Fiorenzo non lasciò nemmeno che si aprisse del tutto, entrò e diede un forte spintone all’uomo che aveva di fronte. «Che cosa ti salta in testa?! Dove l’hai messo il cervello?!» Il ragazzo continuava ad avanzare, e diede al suo maestro un altro spintone. «Tutta Roma va dicendo in giro che hai ucciso il più giovane dei Tomassoni!» L’uomo accusò un altro spintone e abbassò il capo, e allora Fiorenzo capì che quelle non erano solo dicerie. «E’… è la verità?», domandò contraendo il volto in una smorfia.
Michelangelo deglutì varie volte, la bocca secca. «Sì.» Il silenzio calò come un manto di nebbia calda, si dispose fra loro come in un sogno, dolce e umido. Tutto pareva un sogno a Fiorenzo, sentiva di trovarsi al di fuori del suo corpo. «Io non volevo, volevo solo spaventarlo un po’, ha fatto il baro a pallacorda e allora…»
«Ha fatto il baro a pallacorda?! Cos’è? La giustificazione che darai alle guardie? Ha barato a pallacorda, meritava di morire!»
«Non mi parlare in questo modo!»
«Io ti parlo come mi pare! Sei uno sciocco, devi pensare prima di agire, non puoi andartene in giro per la città a picchiare chi ti pare, a tirare sassi ai vetri delle finestre delle donne che non ne vogliono sapere di te!» Fiorenzo gridava con quanto più fiato aveva in corpo, il suo viso si era fatto rosso dallo sforzo e le vene sul collo erano gonfie. «I-io non ci posso credere.» Merisi si torceva le mani e guardava ovunque che verso di lui. «Che cosa farai adesso?»
«Me ne vado.»
«Dove?»
«Dove mi possono ospitare. Filippo… Filippo ha detto che mi aiuterà.»
«Filippo Colonna?»
«Sì.» Con queste parole Michelangelo cominciò ad aggirarsi per la stanza, raggrumando fra le mani tutti i soldi che trovava e mettendoli nelle tasche della camicia. Poi prese una borsa e cominciò a riempirla di tutto ciò che aveva sottomano; nel frattempo continuava a parlare. «Me ne vado fuori Roma, forse fuori dal paese. Chiederò scusa a tutti, a Filippo per primo. Non potrò più tornare in città, sono ricercato.»
«Ma… ma potresti chiedere perdono, e…»
«Chiedere perdono? E come? Perdonatemi, ho ucciso vostro figlio ma è stato solo un incidente.»
Fiorenzo era fermo in mezzo alla stanza, senza sapere che cosa fare né cosa dire. Senza sapere come risolvere la questione. D’un tratto non era più arrabbiato con Michelangelo, era solo impaurito perché non l’avrebbe visto mai più.
La porta si spalancò con forza e i due uomini si volsero di scatto. Certo la scena non poteva essere equivocata: Michelangelo Merisi, su cui gravava una pena di morte, era chino su una borsa e vi stava infilando dentro dei vestiti in tutta fretta. Sulla porta, la guardia non poté fare altro: estrasse la spada e la puntò verso il Merisi, avanzando a larghi passi. «Fermo!» Michelangelo balzò di lato e afferrò la sua spada. I due cominciarono a duellare, mentre Fiorenzo era indietreggiato e ora si trovava dietro la guardia. Il duello durò poco meno di cinque minuti, si concluse con una stoccata da parte della guardia, che andò a graffiare Merisi all’addome e poi con un movimento abile fece saltare l’arma del pittore lontano. «Michelangelo Merisi, lei è accusato di omicidio a danni di Ranuccio Tomassoni, deve…» La voce dell’uomo si affievolì e quello cadde a terra dolcemente senza fare rumore.
Dietro di lui, ansimante, stava Fiorenzo, la spada di Michelangelo stretta fra le mani. Lasciò andare l’elsa di scatto quando la spada si mosse assieme al corpo, e indietreggiò, inciampando e accasciandosi contro la parete. I suoi occhi azzurri erano spalancati dall’orrore, il ragazzo ansimava forte e le mani gli tremavano violentemente. Fiorenzo si volse verso i mattoni scuri della parete e vomitò.
Michelangelo, una mano premuta sulla ferita e gli occhi che non abbandonavano il cadavere sul pavimento, si avvicinò piano al ragazzo. «Andiamo. Andiamo Fiorenzo», disse dandogli una botta sul braccio. Non fece in tempo a usare parole più persuasive perché la porta si aprì una seconda volta e un gruppo di uomini entrò. I loro sguardi si fermarono sul cadavere riverso in mezzo alla stanza, su Michelangelo, e infine sul ragazzo con la camicia macchiata di sangue vermiglio.
Michelangelo Merisi, nonostante il bruciore della ferita, scattò e uscì dalla porta sul retro. Venne inseguito per diversi metri prima di nascondersi dentro ad una cassa e riuscire a raggiungere in nottata la casa di Filippo I Colonna.
La fine, per Fiorenzo, fu molto amara. Non solo aveva tolto la vita ad un uomo, ma anche il suo maestro lo aveva abbandonato.

Il boia era parato dietro di lui con un’ascia affilata e attendeva che terminassero di leggere le sue accuse. Fiorenzo non vedeva le numerose persone che assistevano al suo massacro, come se fosse uno spettacolo.
La sua vita era passata come un alito di vento in mezzo ad un uragano, inascoltata, ignorata. A nessuno sarebbe importato della sua morte, nemmeno all’uomo che aveva tanto amato, rispettato, ammirato. A dispetto del suo sesso, a dispetto dei suoi tradimenti, a dispetto del fatto che lo preferiva come modello e non come artista, a dispetto del fatto che lui, al contrario, non lo amasse affatto.
Fiorenzo ripensò al primo dipinto nel quale aveva posato per Michelangelo Merisi. Amor vincint omnia.
Tutti gli uomini vogliono lasciare un segno di sé, un ricordo del loro passaggio, una prova del fatto che anche loro, un giorno, avevano calpestato quella stessa terra che ora era dimora di altri. Sarebbe stato bello passare alla storia come un grande artista. Fiorenzo Da Rubbio, il pittore. Suonava anche meglio del suo vero nome. Ma lui non era un pittore: lui si limitava a copiare, a prendere spunti da altri, riutilizzare la tecnica già inventata prima – era un caravaggista. E nemmeno come modello poteva essere riconosciuto, perché in quel dipinto Caravaggio aveva egoisticamente cambiato le sue fattezze per quelle di un altro, per tenerselo tutto per sé. E se Fiorenzo non avesse voluto essere tutto, ma proprio tutto suo? Il ragazzo deglutì, il collo esposto. Sciocchezze. Lui era sempre stato suo, fin da quando aveva posato gli occhi sulla sua prima natura morta.
Il boia si mosse dietro Fiorenzo e lui poté vedere appena l’ombra dell’ascia che veniva sollevata. Chiuse i suoi occhi troppo azzurri per l’ultima volta.
“Ti sbagliavi, Michelangelo. E’ la morte che vince ogni cosa.”





Fine




















Fanfiction partecipante al Collapsing Night - II Edizione, indetto dal «Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »

Se vi siete presi la briga di andare a leggere in cosa esattamente consisteva il concorso saprete che a tutti i partecipanti sono state date delle icon, realizzate da Boundary, su cui basare il personaggio. Per vedere l'icon di Fiorenzo (cosa che vi consiglio di fare, perché Fiorenzo è veramente a un figaccione e ha degli occhi azzurri veramente bellissimi), cliccate qui.

Passiamo alla storia.
Uh! Allora, è la prima volta che scrivo un racconto storico, e anche la prima volta che partecipo ad un contest. Non ho vinto, ma chi se ne frega! xD Sono abbastanza soddisfatta della storia, perché ho fatto un po' di ricerca per scriverla, e ho rispolverato i miei libri di storia dell'arte.
A questo proposito, nella storia vengono citati due dipinti, uno che è un po' meno importante ai fini della storia, che è La Tempesta, di Giorgione. L'altro, ben più importante, è quello che dà il titolo alla storia, Amor Vincit Omnia, di Caravaggio. Ho avuto la fortuna di vedere questo quadro durante una gita a Berlino con la scuola (perché si trova allo Staatliche Museen) e l'ho letteralmente amato! Se avete l'opportunità di andare a Berlino e vi piacciono queste cose, davvero, andate a vederlo perché la foto non rende affatto.

A parte questo, spero che tu, viandante nelle valli di EFP, abbia trovato questa storia di tuo gradimento!
Patrizia
   
 
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