Prologo.
Morte.
A volte non ci
rendiamo conto delle cose, finché non le perdiamo.
Io credo di non
essermi mai accorta di nulla, in vita mia, come ora non mi accorgo del
rumore
delle ruote sull’asfalto, del ticchettare della pioggia sui
vetri, del lento
scivolare della vita.
Mi chiamo Miharu
Matsuura, vengo dal Giappone e ho appena diciassette anni.
Mi chiamo Miharu Matsuura, e non ho più una famiglia.
«Stai bene?» la
voce
distinta del signor Watari (così si era presentato, pochi
giorni fa) mi scuote
un attimo dal silenzio, mi ricorda che c’è un
mondo al di fuori della mia
testa, e che sono sola.
«Sì, certo.» rispondo
in tono piatto, senza scompormi. A volte mi faccio paura, da quanto sia
forte
il distacco fra me e tutto il resto.
Gli occhi vivaci del
conducente dell’auto mi scrutano attraverso lo specchio
retrovisore, nelle
iridi qualcosa a metà fra la tristezza e la compassione, o
forse tutte e due,
non saprei dire.
«Vedrai che da noi
starai bene: è un posto adatto per te. Non è per
tutti. Non ti sentirai sola.»
Se non fosse stato
per quello sguardo sincero, quei suoi gesti che avevo continuato ad
osservare per
ore, la sua figura vagamente misteriosa e brillante, avrei seriamente
dubitato
che quelle parole potessero essere vere.
Ma d’altronde, non
m’importa.
Sarò sola comunque,
senza di loro.
Soltanto ora mi rendo
conto di quanto mi mancano: gli occhi pizzicano, ma le lacrime non
scendono.
Non l’hanno mai fatto, non lo faranno adesso, per quanto
sarebbe legittimo.
Non è nello stile di
Miharu Matsuura, piangere.
Non è nel mio stile.
E non era neppure nel
loro.
«Promettimi
che non cercherai di vendicarci in alcun modo, Miharu.»
Era come chiedere ad
un vulcano attivo di trattenere la lava, di non esplodere.
Eppure l’ho promesso.
«Promettimi
che penserai sempre alla tua vita per prima.»
In quello sono sempre
stata molto brava.
Ho promesso anche
questo.
«Ricorda
che ti amiamo»
I loro ultimi respiri
li avevano utilizzati per ricordarmi tutto quello che stavo perdendo,
seppur
indirettamente.
Ho pensato che avrei
dovuto odiarli, per questo, ma non ci riesco.
E’ già fin troppo
triste, essere così soli.
La pioggia non smette
di ticchettare sul vetro dell’auto: sebbene non la senta, so
che è così.
Gli occhi di Watari
sono fissi sulla strada, ma ogni tanto guizzano sullo specchio
retrovisore,
ritornando dopo pochi minuti a guardare l’asfalto nero:
sebbene non li veda, so
che è così.
«Tu non sei sola.»
Quattro parole, una
bugia.
«Fidati di me.»
La macchina frena, è
tempo di impedire che i pensieri scorrano come un fiume in piena,
almeno per
ora.
L’edificio che mi
ritrovo davanti è così grande che mette addosso
una strana soggezione, un senso
di rispetto, di austerità, eppure dall’interno
provengono risate, un vociare
sottile, allegro. Arrivata sulla soglia scorgo in un angolo un bambino
con i
capelli biondo platino, quasi bianchi, impilare con minuzia e
incredibile
attenzione un centinaio di dadi, a formare una struttura molto simile
all’edificio in cui mi trovo, incurante degli altri bambini
presenti.
Al centro della
stanza, un altro ragazzino con i capelli color miele sta addentando una
tavoletta di cioccolato, gli occhi puntati su un puzzle molto
complicato.
Neanche lui sembra accorgersi degli altri.
«Benvenuta alla
Wammy’s House.»
Benvenuta ad un nuovo
inizio.
Benvenuta nella tua
nuova vita.
Benvenuta, Miharu.
Aspettate,
uhm... Dovrei dire davvero qualcosa? Sembra di sì.
Allora, è la prima volta che scrivo qualcosa su un manga e,
uhm... Insomma, considerando che amo Death Note, mi sembrava una buona
scelta.
Le vicende sono inizialmente ambientate l'anno precedente alle indagini
sul caso Kira, e ... dio, non so cosa dire: sono una completa pippa,
lol.
Boh, spero di non combinare obbrobri con trama e personaggi, soprattutto coi
personaggi (prego affinchè l'OOC non contagi anche me).
Voglio, pretendo
consigli, pareri, qualunque cosa per migliorare pecche o correggere
eventuali errori.
Spero piaccia e non faccia tanto schifo come penso, lol. (:
Angelsv.