Giorni di luglio

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quel 17 Luglio ***
Capitolo 2: *** Quando si odia ***
Capitolo 3: *** Quando il diavolo t'accarezza ***
Capitolo 4: *** Quando il vento fa il suo giro ***
Capitolo 5: *** Quando il dito indica la luna ***
Capitolo 6: *** Quando le cose vanno male ***
Capitolo 7: *** Quiconce ***
Capitolo 8: *** Quando tramonta il sole ***
Capitolo 9: *** Quando a tordi e quando a grilli ***



Capitolo 1
*** Quel 17 Luglio ***


IL risveglio è il momento più duro.
Le sarebbe piaciuto tagliare la corda prima, mentre lui dormiva ancora come un sasso. Mettere le sue cose in valigia e andarsene quatta quatta, in punta di piedi, per evitare silenzi assordanti. Ma lui l’ha cercata, nel sonno. Le ha messo un braccio attorno alla vita e l’ha attirata a sé, come avrebbe fatto un bambino con il proprio orsacchiotto, e tutta la sua determinazione è evaporata nel momento in cui le ha sussurrato un «Rimani qui» a fior di pelle.
Brava, brava. Brava davvero. E adesso?, si chiede coprendosi con il lenzuolo, tirandolo fin sotto il mento. Per quanto tempo ancora potrà fingere di stare dormendo?
Lui è già sveglio. È uscito. È rientrato. Ha armeggiato in cucina fino a pochi minuti fa. E lei non riesce a pensare ad altro che ad una patetica colazione di benservito, mentre la sua dignità e il suo amor proprio minacciano il suicidio mostrandosi con tanto di corda attorno al collo.
Che ieri sera fossero ubriachi l’ha capito troppo tardi. Troppo retsina tracannato dalla bottiglia a sorsate generose. Troppa euforia per le strade di Tripiti in onore di Agia Marina. E quella luna che brillava dietro le sue spalle, così enorme, così splendente e così vicina da darle la certezza di poter allungare una mano e strapparla dal cielo nero per mettersela in tasca.

La luna. Dietro le sue spalle.

Chiude gli occhi, le guance in fiamme e i denti che mordono piano il labbro inferiore. Non riesce a scacciare dalla mente il ricordo dei suoi occhi che brillavano - che scintillavano - nel buio.

Stupida! Stupida! Stupida! In che situazione ti sei andata a cacciare?!

Il suo peso sul letto. Lei serra ancora di più gli occhi. Se ne andrà se mi crede addormentata?, pensa.

Se ne è già andato. Ed è tornato. Perché questa è casa sua, ricordi?

Lui si sdraia al suo fianco. Il suo profumo le accarezza le narici. Le scosta i capelli dalla fronte e lei pensa che deve andare dal parrucchiere. Poi un bacio a fior di labbra. E una carezza di velluto e rugiada che corre lungo il suo naso. Pensa alle olimpiadi invernali. E al salto con gli sci.

Io sto male. Tanto male.

Apre gli occhi e vede una candida rosa in boccio, dal fragrante profumo di… croissant?!
Sbatte le palpebre. Annusa l’aria, come un cane che ha perduto la pista, e si volta a cercare il suo sguardo per sapere che succede.
«Buongiorno», le dice. Soffiandole sul naso. A due centimetri dal suo viso. Ha un sorriso indecifrabile.
«B… buongiorno», risponde lei.
«Buon compleanno», le sussurra prima di stamparle un bacio delicato sulla punta del naso. «Dormito bene?»
«Sì. Tu?»

Parliamo a monosillabi? Brutto segno...

Lui sorride, e un fuoco d’artificio le esplode nel petto.
«Poco», e un lampo malizioso gli accende lo sguardo. Come se ce ne fosse bisogno… «Ma ne è valsa la pena, no?»
Lei annuisce. Che altro può fare? Dirgli di no? E poi… sì, ne è valsa la pena. Eccome. Anche se questo ha sbaragliato qualsiasi equilibrio.
Le porge la rosa. «È per te», e lei la osserva come se fosse un oggetto mai visto prima. «Non è stagione di narcisi, questa», si giustifica accarezzandole una guancia.
Lei la porta al viso. Si nasconde dietro quella corolla ancora socchiusa, come se potesse salvarla dal lupo cattivo.
«Grazie.» Non sa cosa aspettarsi.
Lui sorride. «La colazione è pronta», le dice. Poi la prende tra le braccia e la solleva. Lei riesce a coprirsi con il lenzuolo, la rosa tra di loro come una spada. «Ecco qui. Yogurt. Caffè. Tè. Frutta. E dei cruassà
È spiazzata. Non sa cosa dire. Anzi, sì.
«Croissant», lo corregge. È più forte di lei.
Lui la osserva sollevando un sopracciglio, come a dirle «Devi sempre cercare il pelo nell’uovo, eh?».

Fai la carina. Fai. La. Carina.

Sorride. «Hanno un aspetto delizioso», e piega la testa da un lato.
«Sono i migliori di tutta l’isola.»
Sì, sì. Come no?, pensa lei. «Mettimi giù. Mi lavo, mi vesto, e… » mi eclisso. Prima che sia troppo tardi.
«No, no», l’interrompe lui. «Faremo colazione a letto», le dice e la deposita con dolcezza, ignorando i suoi «ma?» di confusione e protesta. «È il tuo compleanno, no? Dobbiamo festeggiare.»
Posa il vassoio sulle lenzuola – lei riesce a coprirsi – lui si sveste e la raggiunge.

Giusto. È il mio compleanno. E tu mi hai fatto la festa, vero?

«Zucchero?», le domanda versandole del tè in un bicchiere celeste.
C’è un che di surreale in tutto ciò. Lui si comporta come se fossero intimi da anni, e lei pensa che sia perché sta cercando di indorarle al meglio la pillola. Si aspettava delle gentilezze da parte sua, certo; non ha mica a che fare con un bruto che mette le donne alla porta con un ciao ed una stretta di mano, ma lei si domanda se la cura non sia peggiore del male. Lui scherza. Ride. Fa battute sulla festa della sera prima. Si comporta come se tutto fosse normale. Giusto così, in qualche modo.
Lei lo osserva di sottecchi. Addenta un croissant e sì, è davvero buono. Sorseggia il tè. Mangia a morsi una pesca-noce. E aspetta solo che lui entri in argomento, dopo averci girato attorno. Perché lui glielo dirà. Sicuro come il sole sorge ad est.
«Eravamo ubriachi ed abbiamo commesso un errore», questo le dirà, o magari qualcosa di meno brutale. Non sarà la prima volta che liquida una donna, no? Sarà ben in grado di… di dirglielo senza massacrare il suo amor proprio e la sua autostima, no?
Ecco perché lei cerca nel suo cervellino una risposta brillante da dargli, qualcosa che non gli faccia intuire che si sente più fragile di un filo di ragnatela ghiacciato e quanto le battesse forte il cuore, ieri sera, mentre la luna splendeva oltre le sue spalle e il mare cantava la sua ninnananna nella notte di velluto.
Ma non le viene in mente nulla.
E la colazione sta per finire.
E lui posa il suo bicchiere.
E la guarda negli occhi.
E le dice: «Senti…».

Ecco. Ci siamo. Arriva la mazzata.

Lei trattiene il fiato. Serra i muscoli della mascella e si prepara all’impatto.
«Sì?», soffia fuori, a fatica, come se avesse un enfisema.
Lui abbassa gli occhi. Si porta l’incavo della mano sinistra a coprirsi la bocca. Lei aggrotta le sopracciglia e un enorme punto di domanda le si disegna sul viso. Ancora non sa che lui compie quel gesto quand’è imbarazzato.
«No, niente. Lascia stare…», e poi scrolla la testa, come a scacciare via quel pensiero, quasi fosse una mosca fastidiosa che ronza sopra il pane caldo.
«No, no. Dimmi.»

Oh Dio, no. Ti prego, no. Tutto, ma i voti no.

«Non è niente, davvero.»
«E tu dimmelo lo stesso», insiste lei. Si sta innervosendo.

Se non si decide a vuotare il sacco, mi alzo, ringrazio e me ne vado.

La fissa.

Allora? Vuoi star qui tutto il giorno? Dimmi quello che mi devi dire e…

«Come hai capito chi fossi?»
«Eh?» Lei non è certa di aver sentito bene. «Scusa… puoi ripetere?»
«Tu non mi conoscevi. Non mi avevi mai visto in vita tua, giusto?» Lei annuisce. «Eppure sapevi molte cose di me. Come mai?»
Oddio. Pericolo, pericolo, pericolo, pensa.
«L’armatura», risponde con un sorriso. «L’indossavi quel giorno, ricordi?»
Lui annuisce. «Me lo ricordo come se fosse ieri», e lei arrossisce. Abbassa la testa mentre lui torna alla carica. «Ma il resto?»
Non devono parlare di questo. Non ora. Non dopo ieri sera. «Lo sapevo», taglia corto, ma lui non gliene dà il tempo.
«Sì, ma come?», insiste. «È questo che non mi torna. Dimmelo, per favore», ed è il tono con cui lui pronuncia quel parakalò a far scattare un interruttore dentro di lei.

Diglielo. Tacere non ha più senso. Non dopo ieri sera.

«Ok», risponde. Posa il bicchiere sul vassoio, mentre i suoi occhi non si staccano da lei. Si umetta le labbra. Si porta i capelli dietro le orecchie. «Però promettimi di non dire nulla, nulla hai capito?, fino a quando non avrò finito. Intesi?»
«Intesi.»
Lei scende dal letto. Si avvolge meglio che può il lenzuolo attorno al corpo e cerca dove sia finita la sua borsa. La trova sotto la finestra, ai piedi di una sedia. Si accuccia. La apre. Rovista al suo interno. Ne tira fuori un libretto e torna indietro, senza pensare al fatto che sta saltellando come un canguro sbronzo.
Lui le chiede cosa diamine sia quell’affare tramite uno sguardo molto eloquente. Poi i suoi occhi si allargano. E rischiano di cadere e rotolare sul pavimento come biglie azzurro mare. Ha capito, pensa lei.
«Questo… me l’ha dato Nadja», gli dice mostrandogli la copertina, un’anonima copertina bordeaux. «Me ne ha dati un po’ quando ci siamo incontrate. Pare che il Sacerdote… sì, insomma, che Saga ci tenesse che voi…»
Lui è bianco come un lenzuolo. Ha capito, ma lei non sa dire se la cosa gli garbi o no. Per questo resta in piedi. Lui non dice una parola.
«Sì, lo so. Lo so. Ho letto i diari di un’altra persona, e non si fa, però… ne avevo bisogno!» Ed è stato anche divertente, pensa, avendo la buona creanza di tenerselo per sé.
Lui stringe un tovagliolo tra le dita. «Qual è?» Non ce l’ha fatta a non interromperla. «A che anno risale?»
«1972», risponde aprendo la copertina.
«Prima… o dopo la faccenda delle… »
«Delle pulci nel letto di Aphrodite?», domanda lei. Lui assume l’espressione di chi vorrebbe che la terra si aprisse sotto ai suoi piedi e l’ingoiasse come un bocconcino prelibato. Un senso di trionfo le gonfia il petto. «Prima, prima. Me li sto leggendo a ritroso.»
Lui rimane di sasso. Lei reprime a stento una risata degna del suo maestro. La ricaccia in gola a forza.
Silenzio.
Lui si passa una mano sugli occhi. «Perfetto…», commenta fissando il vassoio della colazione senza vederlo. E lei si sente un mostro.

Da uno a millemila, quanto ti saresti infuriata se avessero fatto la stessa cosa a te?

Si mordicchia le labbra.

Millemila elevato alla n.

Si avvicina, lo strascico del lenzuolo tra le braccia assieme al quaderno, e si siede accanto a lui. «Scusami. Non avrei dovuto farlo, lo so…»
«Magra consolazione…»
«…ma mettiti nei miei panni!»
Lui fa scorrere il suo sguardo azzurro sulla sua pelle. Lei incrocia le braccia al petto. «Intendevo in senso metaforico!», arrossisce. «Avevo bisogno di saperne di più… E la tentazione era troppo forte», aggiunge con un soffio, sperando che lui la capisca. E che non la sbatta fuori a calci. Io l’avrei fatto da un pezzo.
Lui abbassa la testa. Un respiro frustrato, poi le chiede: «Almeno, hai letto solo i miei?».
«I… i tuoi?», ripete lei, come un parrocchetto ammaestrato. «No, qui c’è un equivoco. Io ho letto solo quelli di mio fratello…»
Lui si rianima. «Di tuo… Non i miei?»
Deluso, eh?, pensa lei, chiedendosi in un angolo del suo cervello quali inconfessabili misfatti potrebbe trovare nei suoi diari. Roba con cui ricattarti a vita?
«No. Ma tranquillo, mi è bastato leggere quelli di Etienne per cogliere due piccioni con una fava.» E poi, all’epoca, non m’importava un fico secco di te.
Storce le labbra, come a cercare di mettere a fuoco qualcosa.
«1972… 1972…», ripete, nel tentativo di pescare un dettaglio, uno qualsiasi. Poi alza lo sguardo su di lei. Che si stringe tra le braccia e gli mostra quel diario dalla copertina bordeaux come se fosse la chiave di tutti i misteri.
«Devo ancora cominciarlo…»
«Non dovremmo fare una cosa del genere…», protesta lui. Flebilmente. Troppo perché lei non rilanci con un: «Tranquillo, non lo saprà nessuno. Resterà tra te e me», che farebbe capitolare anche la più riottosa delle comari. E infatti lui si volta verso di lei, solleva un braccio, come ad accoglierla, e lei si sistema contro il suo petto.
«Un giorno a testa?», chiede lei, guardandolo da sotto in su.
«D’accordo», risponde lui addentando un croissant. «Comincia tu.»




Sì, lo so.
Ho innaugurato l'ennesima storia, ma avete amato così tanto i Baby Gold Saint che non ce l'ho fatta a resistere.
Prima delle note, una brevissima spiegazione.
Nel mio headcanon il Sacerdote impone ai Santi di redigere un diario in duplice copia (lingua madre del Santo con testo in greco a fronte) per avere un resoconto delle varie missioni affidate loro. Di tutte le missioni. Compresa questa. Milo non ha redatto il resoconto, ed il Sacerdote non l'ha mai richiesto perché non ce n'era bisogno. Camus, invece, l'ha fatto, da bravo precisino quale egli era. E Milo ringrazia...
I Baby Gold Saint salteranno fuori dal prossimo capitolo, non disperate!

Il titolo è un omaggio ad un racconto di Hermann Hesse, Heumond pubblicato nella raccolta Diesseits, del 1905, inedita in Italia. I due racconti non hanno molto in comune se non essere ambientati nel mese di luglio (e prima che ve lo chiediate, per me Hesse e luglio vanno assieme come il cacio sui maccheroni, o la salsa tzatziki sull'horiatiki se preferite), ma semmai vi fosse venuta la curiosità, TEA editore ne ha fatto uscire una traduzione nel 1990, intitolata, appunto Giorni di Luglio.

Agia Marina corrisponde alla nostra Santa Margherita, protettrice delle partorienti (sia mai servisse a qualcuno); la chiesa ortodossa la festeggia il 17 Luglio, la chiesa romana, il 20. Sono molte le zone della Grecia che organizzano delle celebrazioni in onore di questa santa, e l'iter è sempre lo stesso: feste, balli, canti e fuochi d'artificio la sera precedente la festività; e la celebrazione religiosa il mattino dopo.
Se siete su Milos, potete godervela ad Halakas. Per esigenze di copione, ho spostato i festeggiamenti a Tripliti. Voi chiuderete un occhio, vero?

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Capitolo 2
*** Quando si odia ***


Quando odiamo un uomo, odiamo nella sua immagine qualche cosa che sta dentro di noi.
(Hermann Hesse,
Demian, 1919)




«Sei stato tu!»
 
Etienne si volta. Alle sue spalle, il viso contratto dall’ira, c’è il Santo dello Scorpione. Nilos, Milos o una cosa del genere. Lo ricorda perché è quello che fa più chiasso dei suoi nuovi compagni. E perché è quello che capisce di meno. Quando parla, certo, con quelle parole ammassate l’una sull’altra che sembra non ci sia spazio per tutte sulla sua lingua; ma anche quando ragiona, sempre se di ragionamenti si può parlare, con uno come lui.
 
«A fare cosa?», domanda, tornando a leggere la lettera che Rémy gli ha spedito da casa. Maman lo saluta e lo abbraccia. Rémy lo conforta ed esorta a migliorarsi sempre. Armatura o non armatura. E no, la sua sorellina non è ancora nata. L’aspettavano per gli inizi di Luglio, ma si vede che nella pancia di Maman si sta così bene… I suoi occhi stanno per terminare la frase lasciata a metà quando la lettera sparisce da sotto le sue dita e qualcuno lo afferra per lo scollo della maglia. Nilos, Milos, o come si chiama lui. E lo sguardo che gli scocca è madido di pura furia. Che sta per esplodere, da un momento all’altro.
«Sfotti, marmocchio?», sibila a pochi millimetri dal suo viso. Il suo alito profuma dell’aroma dolciastro della liquirizia. Avrà anche la lingua annerita.
«No», risponde pacato.
 
Etienne sa che non ci si può battere senza l’ordine della dea Athena, men che meno per motivi personali. Sia il Sacerdote che Rémy sono stati molto chiari su questo punto. Mai battersi. Anche se ti prudono le mani dal desiderio di suonarle di santa ragione ad un pazzo appena scappato dal manicomio. E che fa tanto il gradasso solo perché è nato quattro mesi prima di te.
 
«La calma è la virtù dei forti.» Il Sommo Sion lo ripete spesso, e i freddi occhi color rubino della maschera sembrano sempre volergli leggere dentro l’anima e oltre, per vedere se quel concetto abbia messo radici. Se si sia conficcato nel suo cervellino, come un chiodo da tenda nel terreno. Ché se il chiodo è piazzato male, la tenda volerà via al primo soffio del vento e ciao.
Ma è sempre calmo e tranquillo, lui. È lo Scorpione ad essere esagitato. E ad avercela con lui. Chissà mai perché.
Etienne se l’è chiesto spesso, ed un giorno ha rivolto il medesimo quesito all’esagitato in questione. Il quale gli ha risposto – gli ha ringhiato: «Perché sei tu.».
.
Non c’è una logica precisa nelle azioni di Milos, Nilos o come si chiama lui.
«O meglio, c’è», gli ha confidato Aphrodite il mese scorso, con il tono di chi dispensa saggezza spicciola ad un tanto al chilo. Era tarda mattinata, e il sole splendeva in un cielo azzurrissimo. Come gli occhi del Santo dei Pesci. «Ma è una logica tutta sua.»

Aphrodite non gli piace. È un tipo pericoloso. Come quelle piante carnivore dall’aspetto lussureggiante. O quei pesci tropicali dai colori sgargianti.
Sa che non ha prove da portare a suffragio della sua tesi; tesi che si basa su una semplice sensazione, per altro; ma c’è qualcosa nello sguardo del Santo dei Pesci che lo induce ad alzare le difese. Come se, invece che trovarsi di fronte ad un delfino, gli sembrasse di guardare vis à vis la dentatura affilatissima di uno squalo.
Però sembrerebbe che Aphrodite, almeno per quel che riguarda il Santo dello Scorpione, abbia ragione. E se solo non fosse così pericoloso, Etienne gli domanderebbe perché, secondo lo svedese, Milos, Nilos o come si chiama lui sia così insofferente alla sua presenza. Cosa lo spinga mai ad accusare sempre e soltanto lui di quello che gli accade.
 
«Sei stato tu!!», ruggisce ancora Milo, Nilos… lo Scorpione, insomma. Il suo sguardo incenerirebbe un ghiacciaio in una vampa istantanea.
«No. Non sono stato io.»
«Menti!»
«No.» Coi pazzi ci vuole fermezza. Bisogna assecondarli, sì; ma con fermezza. Per non ritrovarci, poi, in manicomio assieme a loro.
«Te la sei cercata, stavolta!», urla Milos, Nilos o come si chiama lui; il pazzo, insomma. E mentre lui si domanda Stavolta?, vede apparire l'indice destro dello Scorpione nel suo campo visivo. Ha un’unghia rossa, e questa cosa un po’ lo disturba. Perché è dello stesso colore delle unghie di Julie, la tabaccaia. Ma Julie è una donna. Julie può. Maman può. Sua sorella potrà. Ma un uomo?!
 
L’unghia del pazzo brilla. Cupissima. E un senso di pericolo serpeggia sulla pelle di Etienne.
Non starà per colpirmi, vero?, si domanda. La sua mano destra si ricopre di una patina di ghiaccio. Rémy ed il Sacerdote non potranno biasimarlo per essersi difeso, giusto?
 
«Che succede qui?»
Aiolos del Sagittario.
Li sta fissando, mani sui fianchi, fermo sulla soglia della camerata, la luce delle torce alle sue spalle proietta un’ombra allungata sul pavimento rosso scuro. Lo Scorpione s’è fermato col braccio a mezz’aria, pronto a colpire. Si volta in direzione del Sagittario, come una furia, mentre Etienne fissa l’ombra sul pavimento con un senso di malessere.
Un letto di sangue, pensa. E alza lo sguardo mite sul compagno più anziano. Compagno che si avvicina, tre passi ed è alle spalle di Milo. E li fissa. Entrambi.
 
«Allora?», domanda Aiolos. Non afferra il polso di Milo, né libera Etienne dalla stretta. «Sapete che i combattimenti tra Santi sono vietati, vero?»
«È stato lui!», ringhia Milo, lasciando libera la propria preda. «Ha cominciato lui!»
Gli occhi di Aiolos si posano su Etienne.
«Non è vero!», protesta – si difende – l’Acquario. «Non so di cosa sta…»
«Ah! E così sarei pazzo, eh?» L’aculeo di Milo è sempre estratto e pronto a scattare. «E allora chi ce le avrebbe messe le formiche nella mia borsa?»
Formiche?! «Non io. Io stavo leggendo quella lettera», prima che tu me la strappassi di mano. Non conclude la frase. Indica i fogli di carta, vergata con la grafia spigolosa di Rémy, ancora sparpagliati sul pavimento.
«Certo, certo. Il mammone leggeva la letterina…»
«Basta così.» Aiolos ne ha abbastanza del loro battibeccare. Scocca ad entrambi uno sguardo severo, poi aggiunge:«Non mi interessa di chi sia la colpa o chi sia stato a cominciare. Voi. Non. Dovete. Battervi. Siete Santi d’Oro, non monelli di strada!».
Milo ritrae l’unghia rossa, che scompare senza lasciare traccia. Ma le sue labbra fremono.
«Non finisce qui», sibila, minaccioso, all’indirizzo dell’Acquario. Come un serpente a sonagli che avvisa la preda della propria presenza. E poi se ne va. Senza dire altro, lasciando Etienne con la consapevolezza che la questione, tra loro, è tutt’altro che chiusa.
Anzi.
 




Capitoletto veloce veloce tanto per entrare in argomento.
Con dolcezza.
Approfitto delle note per spiegare la cronologia di questa storia.
 
Stando a Kurumada, le vicende di Saint Seiya iniziano nel 1986.
L’unica data certa è riportata su un quotidiano all’inizio della storia, quando– nel primo volume, tipo – si introducono le Galaxian Wars.
La data è 15 settembre 1986. O comunque, da metà Settembre parte la nostra storia.
Prendendo quella data, si fanno i conti. E se ne deduce che, se Milo ha vent’anni, ne stia per compiere ventuno, mentre Camus, che di anni ne ha venti, ne compirà ventuno il 7 febbraio dell’anno successivo. Che poi non ci arriverà a compierli è un'altra questione.
 
Sicché, nel mio headcanon almeno (perché Kurumada butta cose e info a casaccio ed è prontissimo a ritrattare senza battere ciglio ciò che non può essere ritrattato. La butta in caciara, come si dice dalle mie parti. E lo fa benissimo.), Milo è nato l’8 novembre 1965. Camus, il 7 Febbraio 1966.
 
Siamo nel luglio 1972. In uno dei suoi poderosi flash-back, di quelli creati ad mentula canis, Kurmada-sensei ci dice che prima che la dea Athena apparisse ai piedi della propria statua, vi fossero già i Santi d’Oro. Ed infatti appaiono in una vignetta con le facce da bambini e le armature addosso! Ed è l'anno di grazia 1973.
Io rilancio. E sposto la cronologia degli eventi indietro di un anno. Sono freschi d’investitura – e non l’ho deciso io che diventassero supermegacicciobomboscalciacooli® a sette anni. Io mi adeguo. Sennò faccio prima a chiamarlo Peppe, il Santo – ma sono ancora piccoli. Sono bambini. E si comportano come tali.
 
E sì, Milo e Camus, la supercoppia di amici che tanto fa trillare i cuori delle yaoiste incallite, non c’era ancora. È la storia di come è nata un’amicizia, questa. E si sa che più si litiga, prima, più si va d’amore e d’accordo dopo. Almeno fino a quando non si finisce con le dita dell’amico strette attorno al collo, ma sono dettagli.
Sì, ho scelto un topos letterario stra-abusato, ma che da Gilgamesh ed Enkidu in poi si è riproposto con forza nella letteratura. Perché ha ragione Hesse: quando odiamo una persona, odiamo in lei qualcosa che sappiamo essere in noi stessi.
 
In tutto ciò, vado in ferie anche io. Due settimane di svacco totale! Me le sono meritate, che dite? Voi divertitevi, riposatevi, abbronzatevi. Ci si sente dal dieci di agosto in poi.
Buona canicola a tutti. E grazie per essere passati di qui!
 

 

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Capitolo 3
*** Quando il diavolo t'accarezza ***


Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima.
(Proverbio italiano)





Milo esce scalciando ogni singolo ciottolo che ha la sfortuna di trovarsi sul suo cammino.
Se i pensieri potessero uccidere, l’Acquario sarebbe morto e risorto almeno una decina di volte. Per tornare ancora a crepare e rinascere, crepare e rinascere…
È sempre lui a giocargli degli scherzi atroci, ma è bravo, molto bravo a non lasciare alcuna traccia che possa ricondurre a lui, quello stronzo di un mangia lumache. E quell’aria da innocentino che mette su gli fa fremere i pugni.
 
Ci mancava solo Aiolos, pensa Milo sedendosi su quello che resta di una colonna di marmo. Mai che si faccia i fatti suoi, quello.
Sprofonda il viso tra le mani a coppa, l’aria più furiosa, infelice e sconsolata del mondo. La verità è che non sa come fare. Lui è sempre stato un tipo diretto, che prende di petto le situazioni, mentre quell’altro è uno che gioca di sponda, come avrebbe detto zio Kostas.
Come posso fare?
 
«Cos’è quel faccino disperato?»
Aphrodite è spuntato dal nulla, a pochi centimetri da lui. È più alto, più vecchio di tre anni e ha una voce più profonda della sua, ma Milo non è sicuro che si tratti di un uomo. È troppo bello. E profuma di rose. E ha le ciglia più folte e nere di quelle di zia Effi dopo dosi generose di mascara. E anche le sue labbra sono più rosee e carnose.
«Non dirmelo, fammi indovinare. È colpa di quel francese con la puzza sotto al naso, vero?», e il dilemma sul reale sesso del Santo dei Pesci è dimenticato, spazzato via come fa il vento quando gioca con un nugolo di foglie secche.
«Ti capisco, sai? Nemmeno io lo posso soffrire. Si crede di essere chissà chi. Come tutti i francesi, d’altronde…», aggiunge, notando gli occhi azzurri dello Scorpione spalancarsi dalla sorpresa.
 
Milo annuisce. E salta giù dalla colonna.
Stanno per fare un discorso tra uomini, giusto? E gli uomini non se ne stanno appollaiati sulle colonne come galline sulla staccionata, giusto?
Giusto.
«Io quello lo odio!», esclama, felice di aver trovato un sodale. Bizzarro e vanitoso e bello come una donna, ma anche a lui, anche a lui Camus dell’Acquario sta antipatico. Quasi non lo crede possibile. Tutto il Santuario sembra essere innamorato del mite, serafico e tranquillo Acquario. «Io lo odio!», ripete, e semmai il concetto non fosse ben chiaro, aggiunge anche una bella pestata a terra.
 
Aphrodite osserva il piccolo sbuffo di polvere sollevato dal piede di Milo come se fosse una nube radioattiva. Fa un passo indietro – dovesse sporcarsi – e con espressione severa si pone un dito davanti alle labbra.
«Sst! Non c’è bisogno di gridare.»
 
«Come no?»
Milos è perplesso. Coltiva la genuina convinzione che il volume della propria voce sia direttamente proporzionale alla validità delle proprie ragioni. E che lui odi l’Acquario è quel che si chiama tautologia, giusto?
Giusto.
 
«Anche i muri hanno orecchi», gli dice Aphrodite in un sussurro. Gli fa cenno di avvicinarsi con un dito, come faceva zio Kostas quando gli allungava le liquirizie di nascosto da nonna Melpomenê. Solo che Aphrodite è più bello di zio Kostas – e non puzza di tabacco – ma anche più pericoloso. Glielo dicono i suoi occhi color del ghiaccio, attraversati da una luce che mette all’erta il suo sesto senso. Sì, Aphrodite è pericoloso, e Milo dovrebbe rammentare come abbia raccontato di aver ucciso in tre mosse quella sfinge che scorazzava per la Tessaglia senza troppi complimenti. Ma Aphrodite potrebbe essere un suo alleato contro Camus. L’unico, in tutto il Santuario, forse.
Così il giovane Scorpione si avvicina in punta dei piedi al compagno e si guarda intorno con fare sospettoso, come due congiurati che si incontrano per decidere chi dovrà affondare il pugnale nel cuore della vittima.
 
Aphrodite sospira.
Deve fare caldo, per uno abituato al freddo come lui, pensa Milo.
«So della tua… disavventura con le formiche», e a questo punto Milo ringhia. I suoi panini al prosciutto e robiola sono adesso nel più vicino formicaio e non nel suo stomaco. E dire che li aveva sgraffignati nelle cucine apposta! Li avrebbe tirati fuori stanotte, e li avrebbe mangiucchiati nel letto, studiando – sfogliando – il libro di mitologia. Per mettersi in pari. Non aveva risposto correttamente l’ultima volta che il Sacerdote gli aveva chiesto chi fossero Icario, Erigone e Mera. Camus, invece, sì. E non era possibile che lui, un greco, si facesse bagnare il naso da un francese proprio sulla mitologia.
 
«Sai… io ho visto Camus armeggiare vicino alla tua borsa», gli confida Aphrodite. E Milo, invece di chiedergli perché mai, allora, non l’abbia difeso – non era presente anche Aphrodite, mentre Aiolos lo sgridava? – esulta.
«Grazie a Dio!», urla, felice, i pugni stretti stretti ed alzati al cielo e gli occhi che scintillano dalla contentezza. «Andiamo subito da Aiolos!»
 
«Noi non andiamo proprio da nessuna parte», dice Aphrodite.
«Ma…»
«Mettiamo le cose in chiaro. Io non ho visto Camus mettere le formiche nella tua borsa. L’ho visto solo aggirarsi lì vicino. Non è abbastanza», gli spiega con pazienza.
«Ma…»
«Lui potrebbe dire che stava cercando qualcosa che gli era caduto lì vicino», prosegue il Santo dei Pesci, «e noi passeremmo per bugiardi. Credimi, Milo. Fare la spia è una medicina peggiore del male.»
«Ma…»
«Dobbiamo fargli passare la voglia di giocare questi scherzi da prete, non incattivirlo. E per fargli passare la voglia, dobbiamo fargli assaggiare la sua stessa medicina. E io so come fare…»
 
Milo lo guarda speranzoso. Talmente speranzoso da risultare quasi comico.
«Gliela vogliamo dare una bella lezione a quel presuntuoso?», sussurra Pisces, soffiando sulle braci di un fuoco che non chiedo altro che divampare e portarsi il mondo appresso in una fiammata colossale.
Milo annuisce. Fosse un cane, scodinzolerebbe e gli farebbe le feste. Uggiolando di gioia.
«Hai un’idea?», gli chiede.
Aphrodite sorride.
«Ho qualcosa di meglio. Un piano…»
 
 
Aphrodite conosce quel ghigno. È quello che Mask tira fuori quando ha in programma di fare qualcosa di veramente subdolo, meschino e malvagio. Come abbindolare un bambino dai grandi occhi blu che crede di aver trovato in loro due preziosi alleati, e non i suoi carnefici.
Milo prende il pacchetto che gli passa Mask come farebbe un carbonaro. Si guarda attorno, convinto che qualcuno – magari proprio il Sommo Sion – stia per spuntare da dietro le rocce e coglierli in castagna. Sai che risate, pensa Aphrodite.
 
«Secondo letto da destra. Partendo dalla finestra», dice il Cancro, sputando via i semi di un’anguria.
«Mi raccomando a te. Acqua in bocca. Con chiunque. Noi negheremo che questa conversazione sia mai avvenuta», aggiunge Aphrodite.
Perché?, domandano gli occhioni di Milo. Non siamo complici?
«Un vero uomo mantiene i segreti. E la parola data», spiega Mask, prima di addentare un’altra volta la sua fetta d’anguria. «Fottici, e noi fottiamo te. Intesi?»
«Intesi», e Milo si sputa nel palmo della mano destra prima di porgerla ai suoi due nuovi compagni. Mask lo osserva con la coda dell’occhio, un sopracciglio alzato. Aphrodite è impallidito.
 
«E che mi significherebbe?», domanda il Cancro, sputando altri semi nerissimi. Come formiche.
«Suggelliamo il nostro patto d’onore», dice Milos. Serissimo. Così serio che per un attimo – uno solo – Aphrodite è convinto che Mask gli stringerà quella mano sudata, sporca ed impiastricciata. E che poi toccherà anche a lui. Piuttosto lo rendo monco, pensa, mentre osserva l’espressione indecifrabile del compagno.
Mask indugia. Scuote la testa, poi dice: «Hai visto troppi film, tu». Pisces riprende a respirare. «Adesso vai, prima che qualcuno s’insospettisca», e via, un altro morso all’anguria.
 
Milo tentenna.
«Che c’è?», domanda Mask. Con quel tono che Aphro conosce bene quasi quanto il sorriso. Sta per perdere la pazienza. E sta pensando che la testa di Milo potrebbe essere un ottimo trofeo di caccia. Dopo tutto, ne spariscono di ragazzini ogni anno. Uno in più, uno in meno…
«Perché lo fai?», chiede Milo dopo aver preso una boccata di coraggio, assieme al fiato. «Voglio dire, perché mi aiuti. A te Camus ha fatto qualcosa?»
«Assolutamente nulla», replica il Cancro. Si disfa della buccia dell’anguria gettandola oltre le rocce alle sue spalle. Poi recupera qualcosa da un anfratto alle sue spalle e lo fissa. «Non mi ha fatto nulla. Non mi fa né caldo né freddo, quello lì. Ma è una questione diversa, la mia.»
«Sarebbe?»
 
«È una questione di onore. E solidarietà. Tu sei un Segno d’Acqua. Come noi due. E da dove vengo io, quelli simili si aiutano a vicenda. Si danno appoggio. Sostegno. Tutto qui.» Prima, lunghissima pausa. «Chi piecura se fa, 'u lupu si lu mangia. Chi si fa pecora, il lupo se la mangia, si dice a casa mia. E tu non mi sembri proprio una pecora, no?»
«No», dice Milo.
«Bene. E adesso, ti vo’ livari da li cujjuna?», aggiunge il Cancro, sapendo che non c’è bisogno di fornire una traduzione.
Milo annuisce. Tentenna un saluto e trotterella via, con la finta noncuranza di chi sta tramando qualcosa.
 
Aphrodite sorride.
«Sei un essere spregevole…», esordisce guardando le nuvole tingere il cielo. «È solo un bambino…»
«È proprio questo il divertimento! Non trovi?»
E Aphrodite non può fare a meno di sorridere, maligno, mentre il canto delle cicale si spande nell’aria.




Buona domenica! Avete visto qualche stella cadente, ieri notte?

Icario, Erigone e Mera sono i protagonisti di un mito forse poco conosciuto. La mitologia altro non è che un mix di filosofia e religiosità, ma anche un inesauribile serbatoio a cui attingere a piene mani per creare opere letterarie; così come quegli uomini e quelle donne avevano compiuto imprese famose, o famigerate a seconda dei casi, così la fama delle loro gesta sarebbe rimasta di monito ai posteri. I più meritevoli, poi, avevano l’onore di assurgere al rango massimo di onore, divenendo delle stelle, seguendo quel processo noto come “catasteria”, dal greco katà, verso, e astèr, stella. Da cosa di preciso derivi questo fenomeno è ancora oggetto di dibattito tra gli addetti ai lavori; sia che essa sia figlia della sfrenata fantasia dei marinai, che allontanavano il tedio inventando storie circa le stelle che usavano come riferimento per orientarsi la notte in mare, sia che si tratti di un riflesso della vicina religiosità babilonese, in cui gli dei di notte erano le stelle mentre durante il giorno abitavano all’interno dei loro stessi simulacri, resta comunque il fatto che la stragrande maggioranza dei miti più antichi sia stata immortalata nelle costellazioni che ricamano la volta celeste durante la notte. Per premiare gli uomini, oppure impietositi dalle loro vicende sfortunate, gli dei trasformavano i mortali in stelle, posandole delicatamente nel firmamento.
Icario era un pastore che ospitò nella sua casa il corteo di Dioniso. Il dio, per ringraziarlo, gli regalò la vite e gli insegnò a fare il vino. Si fermarono presso Icario dei pastori e l'uomo offrì loro la bevanda. Non essendo abituati, gli uomini finirono con l'ubriacarsi e, temendo di essere stati avvelani, lo uccisero e nascosero il suo cadavere in un pozzo.
Sua figlia Erigone lo cercò per giorni e giorni, finché Mera (o Maira), il fedele cane di Icario, non trovò il corpo dell'uomo e vi condusse la ragazza. La quale, per il dolore, si impiccò all'albero che era nato dal cadavere del padre. Il mito disse che anche Mera la seguì (ma non specifica come abbia fatto un cane a suicidarsi. Dettagli), e che per punizione si abbatté sull'Attica un caldo tremendo. Interrogato Apollo al riguardo, il dio disse che il vento non sarebbe tornato a soffiare se non fossero stati puniti (con la morte, ché in Grecia non ci sono mai andati alla leggera) gli assassini di Icario. Trovati i colpevoli, ed appesili allo stesso albero cui si era appesa Erigone, il caldo mortale passò e iniziò a spirare il Meltemi.
Zeus, impietosito, pose Icario, Erigone e Mera nel firmamento.
Icario divenne Boote, il Bifolco.
Erigone, la Vergine.
E Mera, il Cane Maggiore.

Se Camus conosce bene questa storia non è tanto perché l'abbia studiata, quanto perché suo padre, Rémy (Etienne LeBeau) nel mio headcanon è il Santo d'Argento della Costellazione di Boote. La sua storia la trovate qui.

Nel mio universo Mask è calabrese, della zona di Crotone (costa ionica), e spesso ricorre al suo dialetto quando vuole sottolineare un concetto importante. O prendere in contropiede il proprio interlocutore.
Chi piecura se fa, 'u lupu si lu mangia, significa esattamente quello che Mask traduce a Milo.
Non credo occorra traduzione per ti vo’ livari da li cujjuna, vero?

Mi spiace, JudithlovesJane: ci sei andata vicina, ma non abbastanza. È Mask la mente, ed Aphrodite, invece, il braccio. Il diavolo deve essere bello, se vuol essere convincente quando accarezza l'anima della propria preda, no?

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Capitolo 4
*** Quando il vento fa il suo giro ***


El aura fai son vir
(Il vento fa il suo giro)
(Proverbio occitano)



«Io sono Aldebaran del Toro.»
È la quarta volta che lo ripete. Davanti allo specchio mezzo storto del bagno attiguo al dormitorio. A bassa voce. Solo. Si schiarisce la voce e prova una nuova versione.
«Il mio nome? Aldebaran…»
No. Ancora non ci siamo. La sola cosa di cui è sicuro è che il nome vada messo per ultimo. Buttato lì. Ad effetto. Con un nome importante – «altisonante», avrebbe detto Zuleika – è quasi costretto a giocare la carta rullo-di-tamburi-e-squilli-di-trombe. È solo indeciso sul come.
Meglio una frase formale – «Il mio nome celeste è Aldebaran del Toro» - oppure una più neutra – «Sono Aldebaran del Toro» – o una più informale – «Puoi chiamarmi Aldebaran…» - ?
 
Arriccia il naso e si porta una mano sotto al mento. È importante trovare un modo per presentarsi. Capitale. Zuleika e nonna Adriana direbbero che si sta perdendo in un bicchiere d’acqua –  E forse è così, ammette al se stesso dall’altra parte dello specchio. Non che a lui sia mai successo di stringere mani scandendo il proprio nome, ma ricorda che quando Saga era nei paraggi a lui capitava, eccome. Ad ogni passo. La gente lo fermava. Gli donava cibo. Pane. Frutta. Fiori. Specialmente le ragazze, che scappavano via ridacchiando dopo avergli consegnato delle corone di un bianco purissimo.
Adriano da Lima Santos de Oliveira è perfettamente conscio che a lui tutto questo non accadrà mai; tuttavia è ossessionato dal trovare una formula con cui presentarsi. La formula. Quella figa. Hai visto mai…
 
A Paraisopolis tutti sanno che la prima impressione è quella che conta, e se Adriano vorrà farsi nuovi amici al Santuario – ed evitare che lo prendano in giro per la stazza – gli converrà giocare d’anticipo. Sembrare solido. Affidabile. L’amico sincero, la roccia su cui far girare tutto il gruppo. Quello fico. Sotto sotto, magari. Ecco perché ha scelto un nome importante – altisonante!, direbbe Zuleika incipriandosi il naso – come la stella più luminosa della sua costellazione. Un nome d’impatto. Un nome figo. Non scontato come Regulus, Spica o Antares.
 
Oddio, per quanto Antares…
 
No. Antares fa bullo di quart’ordine. E tu non sei un bullo di quart’ordine, vero?
 
No, è costretto ad ammettere al se stesso che lo fissa dall’altra parte dello specchio. Adriano si chiede se riuscirà mai ad essere spigliato quanto vorrebbe, o se, piuttosto, non s’impiccerà. Se non si metterà a balbettare.
Oh, Athena, ti prego! Tutto, ma balbettare, no!
Perché Adriano sa che oltre alla figuraccia rimedierebbe anche un tormento costante da parte di quel marmocchio strafottente coi capelli ricci. Che lo prenderebbe in giro a vita semmai dovesse capitare che.
«No», dice – si ordina – staccando le mani dalla porcellana un po’ sbeccata del lavandino. «No», ripete, piano piano, dandosi fiducia. «No.»
Apre il rubinetto dell’acqua fredda e si sciacqua il viso. Deve stare tranquillo. Calmo. E non succederà nulla. Andrà tutto bene, si ripete, prima che uno starnuto interrompa i suoi pensieri. Si sta raffreddando? Possibile?
 
Secondo starnuto.
Possibile sì. E forse lui sa che possa essere il colpevole. La sua chioma folta e lucida. Nonna Adriana non gli ha mai tagliato i capelli, giusto una spuntatina prima di partire, e abituato com’è alla vita in spiaggia e ai bagni nell’Oceano, Adriano odia l’asciugacapelli. È una perdita di tempo. L’unica premura che ha nei confronti dei suoi capelli è quella di usare l’olio che Zuleika gli ha inviato nell’ultimo pacco. «Per scongiurare le doppie punte», ha scritto nel suo brasiliano incerto – come se a lui importasse qualcosa delle doppie punte – «e per tenere i capelli lisci. E non farli esplodere come una palla di sterpi». Peccato che Zuleika non sappia che il sole di Atene non è come quello di Rio. E che il Santuario non ha la vista sul mare, ma è circondato dalle montagne. E che quindi una passata con l’asciugacapelli è doverosa. Pur se ad Adriano viene l’orticaria al solo pensiero.
 
Un altro starnuto.
Questa proprio non ci voleva, perché uno può anche trovare la frase giusta col tono giusto ed avere un’autostima da far impallidire Narciso, ma parlare col naso chiuso lederebbe anche alla voce di un dio. Con rispetto parlando, pensa – aggiunge – subito dopo. Ché gli dei greci sono perm… suscet… sensibili a certi argomenti. E morire fulminato per uno stupido pensiero tracotante che ti attraversa per purissimo caso la mente, non gli va. Affatto.
 
E va bene. La prossima volta userò l’asciugacapelli, promette a se stesso spegnendo la luce ed uscendo dal bagno. È tardi. Gli altri sono già nei loro letti, e lui spera che nessuno l’abbia sentito. Specialmente Cancro e Pesci. Ché se lo Scorpione è una zanzara fastidiosa che ti ronza attorno, quei due possono essere più… pericolosi.
Nella camerata regna il silenzio, rotto dal respiro regolare dei suoi compagni, placidamente addormentati.
Un altro starnuto.
Adriano si siede sul letto e rimedia un fazzoletto. Si soffia il naso e scivola sotto le lenzuola fresche di bucato, crollando stanco morto sul cuscino, che accoglie la sua testa, ed i suoi capelli, in un abbraccio inglobante e protettivo. Adriano tira su col naso un’ultima volta e crolla addormentato.
 
 
Ci sono giorni in cui i suoi duecentocinquanta e passa anni non gli pesano.
Giorni in cui sa di potercela fare. Di poter resistere. Manca poco, oramai. Una manciata di lustri, e la loro Dea li guiderà contro Ade. Ancora una volta. E tutto deve essere pronto quando arriverà quel momento. Sion non sa per quanto ancora calpesterà questa terra polverosa; ogni giorno in più è un giorno guadagnato per la causa di Athena e l’addestramento dei suoi Santi. Sono come piccoli, teneri germogli da difendere dalle gelate dell’inverno, e lui prega gli dei che gli concedano il lusso di vederli diventare adulti. Uomini. Solo questo pensiero basta a riempire il suo vecchio cuore di nuovo vigore, ed in quei giorni lui si sente il più fortunato ed il più benedetto tra i mortali.
E poi ci sono quei giorni. Pieni di domande e dubbi. Giorni in cui si chiede se questa generazione non abbia ottenuto le proprie armature troppo presto. Sì, c’è sempre il precedente di Regulus da tenere a mente, ma Regulus era un’eccezione. E aveva dodici anni, non sette. E per quanto lui, Yato e Tenma sapessero far venire i capelli bianchi al Sommo Sage, Sion è sicuro che il suo predecessore non si sia mai trovato a domandarsi se, per caso, la strategia di Ade stavolta non sia quella di boicottare le schiere di Athena dall’interno, come sta pensando lui adesso. Perché questo è uno di quei giorni, e nonostante lui si sia alzato con i migliori sentimenti possibili, questo non è bastato. E adesso, davanti a lui, c’è uno dei Santi d’Oro – il Toro – che piagnucola come una bambina a cui il fratello dispettoso abbia decapitato la bambola preferita.
 
Il Sommo Sion, il vosto stupefatto nascosto dalla maschera blu cobalto, rivolge lo sguardo ad Aiolos.
Aiolos che se ne sta ritto, accanto ad Aldebaran, senza sapere come muoversi.
Perché anche per Aiolos ci sono giorni e giorni.
Giorni in cui il suo ruolo non gli pesa. Giorni in cui si sente responsabile. Di suo fratello Aiolia, certo, che deve crescere nel migliore dei modi possibili e diventare uno tra i più forti guerrieri di Athena, se non il più forte; ma si sente responsabile anche dei suoi compagni più giovani. Il Sommo Sion ha chiesto a lui e a Saga di aiutarlo a formare la casta più alta dei guerrieri di Athena, e il suo cuore si è riempito di gratitudine.
E poi ci sono quei giorni. Quelli in cui scopre, con orrore, che le migliori intenzioni possibili non bastano, e in cui lui si chiede se, per caso, non fosse gratitudine ma hybris  quel sentimento che gli gonfia il petto quando, tra sé e sé, ripensa al compito che gli ha assegnato il Sacerdote.
Perché in tal caso si spiegherebbero tante cose, pensa Aiolos, osservando la scena surreale che si trova davanti.
Quando stamattina ha aperto gli occhi ha sentito che sarebbe stata una di quelle giornate in cui avrebbe fatto meglio a marcare visita e a restarsene a letto. L’ha capito da quel pizzicore alla nuca e dal naso chiuso. E l’urlo ha confermato le sue sensazioni. Sì, sarebbe stato uno di quei giorni, e Aiolos si chiede se anche il prossimo sarà così. O forse anche peggio.
 
C’è un cuscino ancorato saldamente alla testa di Aldebaran del Toro. Che ripete al Sacerdote tutta la storia. Daccapo. Aiolos è la terza volta che la sente.
Qualcuno in vena di scherzi gli ha versato della colla sul cuscino, abbondando con le dosi. Perché il mastice – quello denso, viscoso e aggrappante che usano i calzolai giù a Rodrio – è colato sui lunghi capelli del Toro, è passato oltre il cotone leggero della federa ed ha creato un blocco unico con le piume dell’imbottitura. Piume piccole, di gallina, che pesano come un blocco di pietra.
Aldebaran non sa chi possa essere stato, no. Perché lui non ha nemici. Non ha mai litigato con nessuno, e questo Aiolos può testimoniarlo. Ieri sera si è coricato stanco e raffreddato ed è crollato addormentato quasi subito.
No, non ha visto nessuno aggirarsi attorno al suo letto, perché quando lui è stanco non lo svegliano nemmeno le cannonate. E questo Aiolos lo sa. Solo che qualcuno deve pur essere stato a giocare col mastice, ma chi possa essere il colpevole questo né Aiolos né Aldebaran sanno dirlo.
 
Il Toro tira sul col naso, la testa che pende a sinistra, cercando un appoggio sulla spalla. Con lo sguardo chiede che i grandi facciano qualcosa. Che lo liberino da quel macigno e da quella situazione imbarazzante. Oh, nessuno ha riso vedendolo alzarsi con quell’affare sulla testa, no. Ma rideranno. Alle sue spalle. Ed il suo orgoglio ne uscirà ancora più massacrato dei muscoli del suo collo.
 
Il Sagittario sospira. Sospira anche il Sommo Sion. Che si alza. Raggiunge in tre passi il Toro e gli pone una mano sulla spalla libera, cercando di rimettergli in equilibrio il collo.
Adriano tira su col naso. Non fa altro da dieci minuti a questa parte.
«Io non so cosa fare», dice Anna, una delle donne che si occupano dei bambini. «Ho provato con l’acqua calda, con la benzina, con l’olio, ma niente. I suoi capelli sono incollati al cuscino, Sacerdote…»
Il Sommo Sion alza l’altra mano, come a dire «Va bene, ho capito, non è colpa tua», e la donna tace.
«Adesso sistemiamo tutto, d’accordo?»
 
 
È tutta colpa sua, pensa grattandosi la testa. Rasata di fresco. Come quella di un pulcino. Deve essere stato lui a fare la spia a quel precisino di Aiolos, che ha riferito tutto al Sacerdote – quando mai? – che ha deciso di punirli. Tutti. E poco importi che anche Camus abbia la chioma ridotta ad un centimetro come gli altri compagni. La farina del diavolo va tutta in crusca, diceva sua nonna. Sì, è stato lui. È stato Camus. È sempre colpa di Camus.
Aphrodite e Death Mask non lo guardano più in faccia. Se devono condividere la stessa stanza, fanno in modo di trovarsi il più lontano possibile da lui. E se lo incrociano per strada, cambiano percorso. Si dice in giro che il bellissimo Santo dei Pesci abbia protestato e pianto fino a rovinarsi gli occhi mentre i suoi capelli cadevano sul pavimento di marmo candido.
Piangeva come una femminuccia, dicono le malelingue, ma lui sa che, invece, Aphrodite piangeva di rabbia. Per quel torto subito. Per la morte della Giustizia. Ed è per questo che Milo ha un motivo in più, semmai ve ne fosse bisogno, per detestare con tutto il cuore Camus dell’Acquario. Ma tutti i nodi verranno al pettine, si dice lo Scorpione, meditando sulla vendetta. E poco importa che Aphrodite non lo guardi più nemmeno in faccia. Milo lo vendicherà. Per una questione più alta dell’amicizia che lo lega a Pesci e Cancro. E non c’entra nulla l’appartenenza allo stesso Elemento. La questione riguarda la Giustizia. Il gioco s’è fatto serio. E quando il gioco si fa serio, bisogna armarsi di sana pazienza. Ed aspettare. Preparare una trappola in cui, a tempo debito, la preda cadrà.
Aristoteles glielo riepteva sempre. Mai avere fretta. E la vendetta è un piatto che si gusta freddo, giusto?
Giusto.
 
Per questo aspetterà, prima di dare all’Acquario la lezione che merita. Fosse per lui, avrebbe dato retta a quel fuoco iroso che gli incendia il petto e avrebbe ridotto Camus ad una polvere di atomi disgregati tra loro. Ma Camus si aspetta una sua mossa, e se l’aspetta adesso. Quando il ferro è ancora caldo. Se s’è fatto rasare i capelli senza protestare è solo per una questione di strategia. Vuol passare come vittima. Deve far parte del complotto, quale che sia, che la testolina caotica dello Scorpione non riesce a mettere a fuoco, persa com’è dietro a propositi di vendetta sempre più truci, truculenti e sanguinolenti.
Ecco perché adesso lui righerà dritto. E poi la mannaia – la ghigliottina, per restare in tema – calerà sul collo dell’Acquario. Quando meno se l’aspetterà.
 
Ed è mentre Milo è ancora immerso in questi pensieri così edificanti che la mano di Camus appare nel suo campo visivo.
Che diamine…
Alza lo sguardo, uno sguardo carico di odio e livore, ed incrocia quello serafico del compagno.
«Non hai sentito?»
«No.» Sentito, cosa? «Parlavi con me?»
«Sì.» Camus sospira. Non lo ha fatto apertamente, ma Milo sa che l’ha fatto. Nel suo cuore. Che sarà bianco rosso e blu, ci scommette la testa. «Ci hanno convocato nelle stanze del Sacerdote.»
Un processo?, pensa Milo. Con Camus nei panni dell’accusa, è pronto a scommetterci.
«Perché?», chiede.
Camus si stringe nelle spalle. Sembra sincero. Quanto sei bravo a fingere, mangiarane. Ma con me non attacca. «Non lo so», dice l’Acquario. «Il sacerdote ha mandato a chiamare entrambi.»
«Sì, ma perché io e te?», insiste lo Scorpione. «Tu sai perché ci ha chiamato assieme. Non è vero?»
«No», ed il tono di Camus si fa di ghiaccio. «Non lo so. Non ne ho la minima idea. Se ci tieni così tanto a scoprirlo, l’unica è andare dritto di filato dal Sacerdote e sentire dalla sua bocca perché ci ha chiamato. Non pensi? O forse hai la coscienza sporca, ché tentenni così?»
Milo si alza.
Calmo. Calmissimo. Un sorriso atarassico dipinto sulle sua labbra.
«Io? No, perché mai?», risponde all’Acquario, ma non alla sua provocazione. Anche se è così difficile tenere le mani lontane dal collo di quel galletto strafottente. Sta andando incontro al suo processo, adesso ne è sicuro; ma lui non fuggirà. Non darà a Camus la soddisfazione di vederlo piangere, implorare, supplicare. Sopporterà il castigo che il Sacerdote gli imporrà – qualunque esso sia – come un martire. Col sorriso sulle labbra. Tanto te le metto tutte in conto, Camus. Tutte. Dalla prima all’ultima. «Anzi, vogliamo andare? Non vorrai far aspettare il Sacerdote…»





Se non si fosse capito, a me piacciono i proverbi. E la congiunzione quando, ma questa è un'altra questione.

El aura fai son vir è un proverbio occitano traducibile in francese con Le vent fait son tour e in italiano con Il vento fa il suo giro. Il significato è "Tutto, prima o poi, torna indietro". Quindi è un esortazione a pensare, prima di agire. O prima di aprire bocca e darle fiato.

Confesso che sono stata combattutissima se chiamare questo cpaitolo così, oppure scomodare il nostrano La farina del diavolo va tutta in crusca, il cui significato è lo stesso. Solo che mentre l'espressione italiana presuppone che la punizione arrivi subito, o quasi, il proverbio occitano allude al fatto che il vento può tornare indietro anche dopo anni a chiederti conto delle tue azioni.

Ho poi scoperto che i francesi non hanno - o non avrebbero - un espressione assimilabile alla nostra coda di paglia. Strano, vero?

Regulus è il Santo del Leone apparso in Lost Canvas, figlio di Ilias e nipote di Sisifo. In pratica, un figlio d'arte.
Yato è il Santo dell'Unicorno - antesignano di Jabu ed allievo di quel matto scocciato di Kardia - mentre Tenma è il pegaso della precedente generazione.
Kurumada dica quello che vuole, per me fa fede il passato ideato dalla Teshirogi. Si metta il cuore in pace.

Zuleika è colui che cresce Aldebaran a Paraisopolis, una favela di San Paolo, e Adriana è la nonna di Aldebaran. Sì, avete letto bene. Zuleika è un lui, che raccimola ogni soldino possibile per trovare il corpo che ha sempre sognato, ma con una carica di femminilità che farebbe impallidire Eva.

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Capitolo 5
*** Quando il dito indica la luna ***


Quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito
(proverbio cinese)

 
I monti Lu in estate sono uno spettacolo che rinfranca il cuore e lo sguardo. Verdissimi, carichi di erba lussureggiante, spiccano contro un cielo azzurro come a volersi ricongiungere con le nuvole che, a sera, scendono a lambire i picchi come soffice bambagia. O come una coperta rimboccata da una madre amorevole.
La cascata scroscia a piena potenza, nonostante i fiumi abbiano una portata minore, adesso che luglio spande tutto il suo calore nell’aria. Il vecchio Doko è sempre lì, seduto ad osservare quell’acqua rombare a valle, in un salto di cento e passa metri. Un cappello di paglia intrecciata lo protegge dal sole. Una coperta gli è scivolata dalle spalle. Una pietra piatta gli fa da sedile, le gambe incrociate e le palpebre serrate. Sembra quasi stia dormendo. O faccia parte del paesaggio, come una piccola statua votiva lasciata dai pellegrini accanto alla cascata. In onore del Dio Dragone.
Sion dell’Ariete si avvicina a passi lenti. Non vuole svegliare Doko di soprassalto, e non vuole introdursi nel suo territorio come se fosse casa sua. Ne approfitta per sporgersi oltre il dirupo. È un bel volo. L’acqua crea una nuvola di schizzi e vapor acqueo che rende impossibile vedere il fondo della cascata e l’acqua limpida del fiume. E così lì sotto riposa l’Armatura del Drago, pensa Sion. Sovrappensiero. L’aria umida sale ad accarezzargli i capelli ed il lembo della veste.
«Attento a non sporgerti troppo. Non è un salto adatto ad una persona anziana come te», gracchia una voce, come di foglie secche calpestate.
«Vedo che ti sei rinsecchito, ma non ti è passata la voglia di scherzare, vecchio mio…»
Una risata secca, come di unghie che graffiano sulla lavagna, arriva in risposta.
«Non sei cambiato di una virgola, Sion.»
Neppure tu, Doko, vorrebe ribattere, ma non può. Lui ha conservato la stessa fisicità di un tempo. Certo, nelle notti umide le sue ossa gridano dal dolore e certe mattine ha bisogno della gru per alzarsi dal letto, ma Doko… Doko si è curvato su se stesso. Prosciugato, come se qualcosa l’avesse risucchiato dall’interno. E Sion sa di cosa si tratta. Misopethamenos. Il sangue della divina Athena – il sangue di Sasha – che scorre nelle sue vene. Deglutisce, a fatica, e ribatte: «Invecchiando non si migliora. Si matura, amico mio».
Doko annuisce.
Afferra il bastone nodoso che si trova ai suoi piedi e vi si puntella sopra. Si solleva, con movimenti lenti, da tartaruga, e scende dal suo sedile.
«Vieni», gli dice, tornando verso casa. «Si conversa meglio davanti ad un buon tè.»
 
Era da tanto che non sentiva Doko ridere così.
Era da tanto che non sentiva Doko ridere, con quel modo così suo di coinvolgere chi ha intorno, anche se chi gli sta intorno non ha alcuna voglia di ridere. E anche Sion, il vecchio Sion dell’Ariete ci casca. E ride. Anche se la situazione richiederebbe un approccio più serio. Ma l’allegria di Doko è così contagiosa che niente, non ce la fa a schiarirsi la voce con due colpi di tosse.
«Quanto mi ricordano quei due», dice Doko, asciugandosi una lacrima.
«Hai detto bene. Sono le loro copie, fatte e finite», commenta Sion. «Tutti loro, intendo...»
Lo sguardo di Doko si fa più attento. E serio. «Capisco», dice. «Doveva succedere, alla fine. Non trovi anche tu?»
E Sion si dice che sì, doveva succedere. E doveva succedere per lei. Per Sasha. Perché i suoi compagni – i loro compagni – li avrebbero raggiunti. E avrebbero combattuto ancora una volta per lei. Tutti assieme.
Il vecchio Ariete si schiarisce la voce con due colpi di tosse, e annuisce. «Sì. Doveva succedere.» E grazie ad Athena è successo.
«Su, non prendertela», gli dice Doko. «Tieni presente che sono ancora piccoli…»
«Sono Santi di Athena, non monelli di strada! Devono collaborare, non…»
«Non rammenti quanto sapesse essere dispettoso Kardia? O quanto sapesse essere indisponente Manigoldo?», gli domanda Doko, lo sguardo perso ad osservare il vapore che si alza dalle tazze di tè verde.
E Sion ricorda la propria gioventù, quando non capiva che gusto ci trovasse Kardia a punzecchiare quel santo di Dégel, e perché mai Manigoldo dovesse usare tanta strafottenza nei confronti del vecchio Sage. Vecchio Sage che sapeva rimetterlo in riga a suon di pugni, se necessario, rammenta il vecchio Ariete prendendo la propria tazza. È ancora calda. E profumata.
«Tu sei stato un maestro, differenza mia», e gli occhi di Doko si velano di tristezza. Sion sa di stargli propinando un boccone amaro con sopra appena un velo di zucchero; ma spera che sia sufficiente a convincere Doko a ricordare il passato. E a suggerirgli un modo per aiutare quei due a capirsi. Perché forse non sarà stato Milo a cospargere di colla il cuscino di Aldebaran, ma quando Acquario e Scorpione si incontrano, c’è odore di piombo, nell’aria. E se lui non interverrà subito, Ade non troverà nessuno a sbarrargli il cammino verso Athena…
«È stato molto tempo fa. Troppo», dice Doko, la voce velata di una tristezza agrodolce. «Ogni allievo è un universo a sé.»
«Me ne rendo conto», ribatte Sion. Che non si è certo teletrasportato in Cina per sentirsi dire cose che sapeva già.
«Ma c’è qualcosa che lega tutti quanti, allievi e non.»
«E cosa?»
Doko sorride. In quel modo così franco e aperto da risultare quasi pericoloso.
«Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito…»
 
 
Quando il Grande sacerdote di Athena ti manda a chiamare, non è bene farlo attendere. Mai. Perché se il Sant’Uomo chiede di te c’è sempre un motivo. Quale che sia, non importa. Lo scoprirai una volta arrivato, ed è la curiosità di sapere perché il Sacerdote li abbia chiamati – li abbia chiamati assieme – che mette le ali ai piedi di Camus e di Milo. Ciascuno per ragioni diverse, ma la domanda di fondo che accomuna le loro menti – senza che neppure lo sospettino – è la medesima: «Perché c’è anche lui?».
Trovano Aiolos nelle stanze del Sacerdote. Ritto come uno stoccafisso, avvolto nella sua scintillante armatura, le lunghe ali drappeggiate alle sue spalle che sfiorano il velluto rosso ai piedi del trono. Sembra un angelo. Un angelo vendicatore, dall’espressione seria che sfoggia il Santo della Nona Casa. Lancia loro appena uno sguardo, di sfuggita, mentre avanzano e si inginocchiano ai piedi del trono. Ma quando Camus e Milo abbassano il capo per ascoltare le parole del Sacerdote, entrambi sentono lo sguardo di Aiolos passarli da parte a parte. Come un pugnale ben piantato nella schiena.
Il Sommo Sion trattiene a stento un sorriso. Non indossa la maschera, oggi. Fa troppo caldo. E quell’affare sta diventando sempre più pesante, per lui.
«Scorpione. Acquario. Vi ringrazio per esservi presentati con tanta celerità.»
«Dovere, Santità.»
«Ho bisogno di affidarvi una missione», inizia a dire il Sacerdote, seduto sullo scranno. «Come saprete, Saga dei Gemelli sta monitorando i movimenti di Poseidone nelle vicinanze di Capo Sounion.»
«Poseidone?», azzarda Milo. Perplesso. Ma come? Il nostro nemico giurato non era Ade?, sembrano dire i suoi occhi azzurri.
«Poseidone si contendette l’Attica con Athena», mormora quasi Camus, accanto a lui. «Athena lo rinchiuse in un’anfora, secoli fa. E potrebbe…»
«Precisamente», interviene Sion. «Saga sta osservando eventuali movimenti di Poseidone. Un suo risveglio è sempre possibile, pur se poco probabile. E non vorremmo trovarci ad affrontare due nemici in contemporanea.»
Ok. Quindi?, gli chiedono gli occhi di entrambi. Aiolos tace. Non muove un muscolo. Sembra quasi una Cariatide che ha lasciato l’Eretteo per andare a farsi una passeggiata.
«Ho bisogno che voi portiate una missiva a Saga e torniate al Santuario con il resoconto dei suoi appostamenti», dice Sion alzandosi.
«Dobbiamo fare i portalettere?», domanda Milo. Scandalizzato quasi.
«Vorrei che tu non la vedessi in questi termini, Scorpione, ma se ti fa piacere, sì.»
«Santità», e Milo si alza in un clang sotto gli occhi esterrefatti di Camus e lo sguardo severo di Aiolos. Il Sagittario fa per posargli una mano sulla spalla e metterlo in ginocchio a forza, ma il Sacerdote lo ferma con un gesto. «Santità… è proprio necessario
«Sì, Milo», ma nemmeno questo sembra vincere le rimostranze del ragazzino che ha davanti. Cocciuto di un greco cocciuto, pensa Sion. Poi si schiarisce la voce e prosegue: «Il luogo dove si trova Saga  e la sua stessa missione devono rimanere nel segreto più assoluto. Posso parlarne a voi solo, che fate parte della cerchia più alta dei Santi di Athena.»
«Comprendo, Santità. Ma allora, perché non inviare Aiolos?»
«Perché Aiolos ha un altro compito, Camus.»
«D’accordo», protesta Milo. «Ma perché dobbiamo andarci in due?»
«Perché è una missione rischiosa, Scorpione.» Silenzio. Sion può proseguire. «Ho bisogno che vi guardiate le spalle a vicenda. E che almeno uno di voi torni indietro con le informazioni raccolte da Saga.»
Milo e Camus lo fissano ammutoliti. C’è davvero il rischio di lasciarci la pelle?, pensano entrambi, nello stesso momento, anche se non l’ammetteranno mai. Ed il silenzio che ricevono dal Sacerdote è una risposta più che eloquente.
Sion colma la distanza tra sé e i due giovanissimi Santi e porge loro una pergamena, chiusa dalla ceralacca. Sul rosso cremisi spicca la civetta di Athena. «Questa missiva deve arrivare intatta a Saga. Intatta. Partirete immediatamente per Capo Sounion. Porterete questa missiva a Saga e tornerete al Santuario con il suo rapporto.» Silenzio. «È tutto chiaro?»
«Sì, Santità», rispondono all’unisono.
 
«Di qua.»
«No. Di qua.»
«Ti dico di no.»
«E io ti dico di sì!», insiste Milo. «Chi è il greco, tra i due?»
«La domanda dovrebbe essere chi ha il senso dell’orientamento», ribatte tranquillo l’Acquario.
«Io ho il senso dell’orientamento!», protesta lo Scorpione, rosso in viso.
«Dov’è l’Est?»
«A destra.»
«A destra» Camus trattiene un sospiro. «E dov’è la destra?»
«Da quella parte», risponde Milo. Indicando un punto alla sua sinistra.
«Cominciamo bene…»
 
Il sole al tramonto tinge di arancio acceso le colonne candide del Santuario, che si sta preparando per la sera. Le voci si abbassano, le luci si accendono, i ritmi rallentano. Giusto per il tempo della cena, giusto il tempo che il sole sparisca oltre i colli, ed il cielo si tinga di viola, indaco, blu. E le stelle fendano il buio della notte con il loro assoluto splendore.
Aiolos dovrebbe recarsi alla Nona Casa, perché sta per sorgere Venere. E Aiolia lo attende per la consueta lezione d’astronomia. Forse si unirà anche Shura a loro, e forse lo stanno già aspettando, con un bicchiere d’aranciata tra le mani; eppure i piedi del Sagittario sono fermi sugli scalini che collegano Tredicesima e Dodicesima Casa. E sta osservando da troppo tempo il cielo perché il Sommo Sion non se ne accorga e non decida di raggiungerlo.
«Ti vedo pensieroso, Aiolos…»
Aiolos serra la mandibola. Freme, quasi. Ma non accenna a parlare.
«Ti prego. Confidati pure con me. Cosa rende il tuo animo così inquieto?»
«Santità… Posso essere sincero?»
«Certamente, ragazzo.»
Aiolos prende fiato. Come quando si deve sputare un rospo indigesto. «Non credo sia stata una buona idea mandarli entrambi da Saga.»
«Perché? Temi forse Saga?»
«No, Santità», risponde il Sagittario. Male, pensa Sion. Dovresti, invece. Perché c’è qualcosa nell’animo di Saga che lo lascia inquieto. Un’ombra scura. E se davvero Doko ha ragione, se davvero i suoi ex compagni si sono reincarnati in quest’epoca per servire ancora Athena – per servire ancora Sasha – c’è la remota possibilità che possa saltare fuori un altro Gemelli. Come Aspros. E Defteros, pensa Sion.
«E allora cosa temi, Aiolos?»
«Quei due», gli confida il Sagittario. «Temo che possano finire per ammazzarsi a vicenda, Santità.»
Sion si stringe nelle spalle. «Aiolos, questa missione non esiste. Saga mi ha già inviato il suo rapporto la settimana scorsa.»
«Ma allora… allora perché?»
Sion fissa la luna che li osserva curiosa, coi suoi occhi d’argento. « Perché quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito.»
«Santità…»
«Stai tranquillo, Aiolos.Se così sarà, confido che Athena ci invierà un altro Scorpione ed un altro Acquario.» Sion si lascia andare ad una risata sommessa. «Vai pure. Aiolia ti starà aspettando.»
Sarà, pensa il Sagittario annuendo e scendendo i primi gradini. Sì, Aiolia lo starà aspettando. E chiederà a Shura di unirsi a loro, passando per la Decima Casa. Sarà. Ma ho lo stesso un brutto presentimento...
 
 


Sion dell’Ariete condivide con Mu, il suo discepolo, gli stessi poteri: telepatia, telecinesi e teletrasporto. E siccome non può alzare il telefono e farsi una chiacchierata col suo ex collega Doko per rinverdire i vecchi fasti, lo va a trovare. Così lo sveglia anche dalla catalessi in cui cade ogni due per tre, e che la Bilancia ha la faccia tosta di chiamare “meditazione”.

Doko della Bilancia ha ricevuto in dono il Misopethamenos, il sangue divino di Athena (Sasha), ragion per cui il suo cuore compie centomila battiti l’anno, invece che al giorno. Il suo compito è quello di vigilare che il sigillo su Ade non si spezzi prima del tempo, e se volete sapere chi, come e cosa, sfogliatevi Lost Canvas, ché vi fa solo bene. L’allievo di Doko era Tenma di Pegasus. Che sì, ha ficcato il nasino in questo capitolo, ma sarebbe stato strano se non fosse successo.

Nella mia capoccia bacata, i Santi di Lost Canvas e quelli della serie classica hanno le stesse fattezze per un motivo semplice: hanno deciso di reincarnarsi per continuare a proteggere Sasha/Athena. Pure se Saori sta a Sasha come la Strega Bacheca sta a Biancaneve.
 
Aspros e Defteros sono i Gemelli di Lost Canvas. Perché vi pare a voi che un Gemelli non abbia un gemello? Essù…

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Capitolo 6
*** Quando le cose vanno male ***


Colui che è capace di sorridere quando tutto va male,
è perché già ha pensato a chi dare la colpa.
(Confucio)

 
 
 
«Il Sacerdote ha detto di partire immediatamente.» 
Milo glielo ricorda, mentre tornano indietro. Camus ha tutta l'aria di chi vuole cincischiare, perdere tempo, procrastinare l'inevitabile. Lui se l'aspettava. Lui ha capito che sotto quell'aria angelica si nasconde una canaglia da manuale; ma non una canaglia simpatica, tutt'altro: uno stronzo fatto e finito, pronto ad accoltellarti alla schiena quando meno te l'aspetti.

«La mia idea è quella di non dare nell’occhio. Non voglio che il nemico si accorga di noi.»
«Immediatamente significa subito
«Significa subito anche in francese. Ma la fretta è cattiva consigliera. E due ragazzini che viaggiano da soli, di notte, attirano gli sguardi dei curiosi. E non ho nessuna intenzione di rompermi l’osso del collo scendendo a trovare Saga alla luce della luna.»
«Dirai questo, al Sacerdote? O che hai paura del buio?»

Camus entra nel dormitorio a grandi falcate.
«Dobbiamo prima raggiungere Atene. Anche se partissimo adesso, a quest’ora non troveremmo più pullman che vadano a Capo Sounion.»
«Pullman?!», gli chiede, con lo stesso tono con cui esclamerebbe: «Tu sei pazzo!».
«Alla strategia penso io», E quand’è che saresti stato eletto capo?, pensa Milo. «Tu  parlerai con Saga.»
«E quand’è che saresti stato eletto capo?!»
Non è riuscito ad impedirsi un tono scandalizzato, nervoso, furioso. Un tono che non promette niente di buono. Anzi.

Camus si stringe nelle spalle. «È la scelta più logica. Il mio greco non è così fluente come il tuo.»
«Eggrazie
«Dovrai aprire bene le orecchie, perché dubito che Gemini ci affiderà qualcosa di scritto.»
«Dici?»
«Dico. Se il Sacerdote ci invia in coppia», e a quella parola Camus ha un brivido involontario, brivido che non sfugge all’altro, «è perché è sicuro che il nemico stia tenendo d’occhio Saga. E Saga lo saprà, quindi figurati se potrebbe mai affidarci qualcosa di scritto. Qualcosa che possa cadere nelle mani sbagliate!»
«Bah. Per me è tutta una balla», soffia fuori Milo, con la stessa noncuranza con cui si sbilancerebbe sul tempo di domani. Soleggiato? Nuvoloso? Chi lo sa?
«Possibile. Probabile. Sicuro, anzi. Ma non ne abbiamo la certezza. E siamo in missione. E ogni missione…»
«… è un ordine di Athena. Lo so, lo so.»
«Bene. Allora vuoi preparare il tuo zaino? Partiremo prima che albeggi, così da essere ad Atene per salire sul primo pullman.»
«Ho un’idea migliore», dice Milo, una luce sfavillante nello sguardo azzurro mare. «Partiamo adesso…»
«Adesso? Ma hai sentito una sola parola di quello che ho detto?!»
«… e pernottiamo ad Atene.»
«E dove?», gli chiede Camus.
«Lascia fare a me, stratega…»


Alla base dell’Acropoli, appena oltre la cancellata marrone, c’è una stradina che si infila tra le case ed i vicoli di Plaka. Tre gradini oltre i cancelli si trova il Kallistê, subito sulla sinistra – sulla destra se si prende la stradina venendo dal centro della città. Non ci si può sbagliare: c’è un pergolato che si affaccia sui budelli di Plaka, i tavoli coperti da tovaglie a quadretti e un grosso gatto grigio che dorme sulle cassette di plastica, o tra i limoni.

Il cancelletto basso avrebbe bisogno di una bella verniciata, ma a zio Kostas non va a genio l’idea di mettersi a scartavetrare la vecchia copertura verde scuro, passare l’antiruggine e poi la vernice nuova. Bianca, magari, come sua madre –nonna Melpomenê – chiede da un po’.
«Troppo lavoro», dice, sedendosi a leggere il giornale accanto alla cassa; né è propenso a pagare qualcuno che faccia quel lavoraccio al posto suo. «Costerebbe troppo», aggiunge, liquidando così la questione. «Magari, appena Milo è libero, mi faccio aiutare da lui», ma Milo si vede sempre di meno, laggiù, e Kostas ancora non sa che quell’innocuo appena Milo è libero si realizzerà, sì, ma dopo quasi vent’anni, e per intercessione di una gonnella. Ma questo è il futuro, e adesso non ci interessa. Ci interessa parlare di stasera, e stasera Kostas sta fumando una sigaretta sventolandosi con il giornale, un bel bicchiere di vino bianco ghiacciato davanti a sé ed il libro della contabilità aperto per inganno sul tavolo. E quasi non crede ai suoi occhi quando vede il figlio di sua sorella affacciarsi oltre la cancellata e scavalcarla con un gesto fluido, nemmeno fosse una staccionata.

Kostas balza in piedi, la sigaretta che rimane nel posacenere sul tavolo e la sedia che si rovescia sul pavimento.
«Milo!», esclama – trilla – andandogli incontro. Suo nipote sarà anche grande, sarà anche un Santo d’Oro – buona grazia di suo padre, che il Diavolo se lo porti! – ma è pur sempre il figlio di sua sorella. Ed un abbraccio stavolta non glielo toglie nessuno. Kostas spalanca le braccia e afferra quel ragazzino dai capelli ricci con un gesto fluido, portandoselo al petto.
«Disgraziato! Ti pare questa l’ora di rientrare?!», gli dice, scompigliandogli i capelli. «Mamma! Mamma!»
«Shhh!! Sono in missione», protesta Milo, cercando di divincolarsi dalle braccia forti dello zio con non troppa convinzione.
«Eh?», domanda Kostas guardandolo negli occhi. Come assomigli a tua madre, pensa.
«Sono in missione. Con un francese!», sibila Milo. Scandalizzato, quasi. «Possiamo pernottare qui?»
«Certo che sì! La tua stanza è sempre…»
«Shh!», bisbiglia il prode Scorpione. «Sono in missione. Non posso far sapere che voi siete la mia famiglia. Per proteggervi, lo sai!»
«E?» Perché Kostas è sicuro che sia qualcos’altro, sotto. Qualcosa di grande quanto tutto il Partenone, se non di più.

«E quel tizio mi sta profondamente antipatico. Non voglio farlo sentire a suo agio, qui!»
Sì, certo. Come no? «Quindi, cosa dobbiamo dire?»
«Tu avvisa la nonna e lascia parlare me.»
«D’accordo, piccola canaglia», dice Kostas, lasciandolo andare. «Avete cenato? Nonna ha fatto la moussakà…»
«Perfetto! Ho una fame da lupi!»
«Vai a chiamare il tuo… collega. Vi apparecchio qui fuori!», e Milo schizza via come se avesse un petardo sotto ai piedi. Kostas sorride, le mani sui fianchi, osservando la testa riccioluta di suo nipote sparire oltre il porticato. Raccoglie la bottiglia, il libro della contabilità e spegne la sigaretta nel posacenere.

«Kostas? Si può sapere cos’era quella confusione?», chiede la voce di carta secca di nonna Melpomenê.
«È tornato tuo nipote, mamma», le dice entrando. «Siamo ufficialmente in missione per conto di Athena.»
«Chi?»
«Tu, io, Milo ed un suo amico. Io scaldo un po’ di moussakà per due lupi affamati, tu prepareresti il letto?»


 
L’autobus parte dalla stazione alle sette e mezzo in punto, e nell’aria c’è quella sensazione, quel pizzicorino che frigge lungo il collo e la schiena per avvertire – per promettere – che farà molto, molto caldo.

Milo si è seduto dal lato del finestrino, una maglietta a righe ed i jeans sfrangiati al ginocchio. Il vetro è sporco e pieno di ditate, ma il panorama sarà mille volte più interessante della faccia di Camus. Camus che non ha fiatato quando il compagno si è infilato tra i sedili, senza chiedere dove preferisse sistemarsi. Si è seduto – calmo, placido, tranquillo – ha mostrato i biglietti al controllore ed ha ficcato il naso in un libro. Qualcosa di francese, qualcosa di assolutamente noioso e serio, qualcosa cui Milo è ben contento di affidarlo. E di sorridere, osservando il suo riflesso sul vetro opaco.

Viaggiano leggeri. Niente armature. Vestiti pratici, sandali ai piedi e uno zainetto in cui stipare due panini, due bibite, un libro per ingannare l’attesa e la missiva del Sacerdote per Saga dei Gemelli.

La strategia l’ha pianificata – l’ha decisa – Camus.
«Daremo meno nell’occhio, così», ha detto la sera prima con quel suo accento ballerino e quel vezzo tutto suo di ammazzare i dittonghi.
«Due ragazzini che viaggiano da soli non danno nell’occhio?»
«Siamo bambini. Nessuno presta attenzione ai bambini», ha replicato Camus. «Diremo che andiamo a trovare tuo padre. Staremo due ore su un autobus. Che c’è di strano?»

Milo si è stretto nelle spalle e si è adeguato. Milo è stato ben felice di adeguarsi. L’Acquario si crede uno stratega – anche se la sua pianificazione assomiglia più ad un suicidio? Benissimo. Il giovane Scorpione gli fornirà un altro punto di vista sulla questione. Un nuovo orizzonte, ben più ampio e profondo; una definizione più calzante di cosa s’intende per strategia. O almeno, di come la intende lui.

A Milo quella strategia convince poco. Se il Sacerdote li ha mandati insieme in missione è perché stavolta c’è la possibilità concreta di lasciarci le penne, almeno, così ha affermato il Sommo Sion. In cuor suo Milo spera che sia Camus a non fare ritorno, così da togliersi dai piedi quella rogna di un francese con una patata extralarge al posto delle adenoidi. Ma soprattutto, spera di essere lui, Milo dello Scorpione, a risolvere la situazione – e la missione – tornando al Santuario come un eroe, un salvatore della patria o tutte e due le cose assieme. Magari anche coi ringraziamenti di Saga.

Ok. Adesso stai esagerando.

«I seguaci di Poseidone si aspettano di vedere arrivare due Santi di Athena, non due ragazzini in gita», ha aggiunto l’Acquario riempiendo il proprio zaino. «Li coglieremo di sorpresa», gli ha detto – gli ha assicurato – con quell’espressione serafica che lo manda in bestia. «E potremo tornare al Santuario senza che nessuno se ne accorga.»

E se le cose non andassero così? E se, mettiamo il caso, gli sgherri di Poseidone si accorgessero di noi?, ha pensato Milo fissandolo a braccia conserte. Ma è rimasto in silenzio. A rimuginare. A pensare che se la missione fallirà, sarà tutta colpa di Camus. Lui ha pianificato la strategia, giusto? Al Sacerdote dirà la verità. «Santità, non ha voluto darmi ascolto!», e questa volta il Sommo Sion vedrà di che pasta è fatto questo tanto osannato Santo dell’Acquario. Dovrà vederlo. E farà pace con Aphrodite. Vendicherà l’ingiustizia che il Santo dei Pesci sta patendo a causa di questo stronzetto di un francese. Stavolta non scappi da nessuna parte, pensa Milo osservando il mare di automobili che puntano verso sud.

Capo Sounion si trova a meno di settanta chilometri da Atene. Il luogo ideale per una gita fuori porta di un giorno. Per visitare i resti del tempio di Poseidone o per regalarsi un tuffo nelle acque dell’Egeo. Senza sapere – senza neppure sospettare – che l’accesso ad Atlantide sia poco distante. E che un Santo di Athena monitori la situazione, nascosto in una caletta inaccessibile, di quelle che i turisti salutano appena con la mano, sfilandoci davanti. Ignari di tutto e di tutti, così come lo è Camus, seduto placido e tranquillo accanto al suo predatore…

«Che hai tanto da sorridere?»
«Mi godevo il paesaggio», ribatte Milo senza staccare gli occhi dal proprio riflesso. Maledetto di un francese! Forse ha davvero sviluppato doti telepatiche, e non l’ha detto a nessuno. Perché farlo? Chi ignora è in posizione di svantaggio, giusto? E questo non fa che…
«Goditelo in silenzio, per favore. Sto leggendo.»
Milo stringe la mascella, ma non ribatte. Non vuole dargli soddisfazione. Non vuole fargli sentire che l’astio che nutre nei suoi confronti si fa più profondo e cupo man mano che i minuti – che i secondi – passano. E che l’orologio al suo polso sbuccia il tempo con una lentezza esasperante. Ma l’attesa del piacere non è essa stessa il piacere, come ha detto qualcuno, tanto tempo fa?  Sì che lo è. E Milo ha deciso di godersela tutta. Attimo per attimo. Come una caramella che si scioglie sulla punta della lingua.

Questa missione sarà un fallimento. Io lo so. Ma sarà tutta colpa tua, mangialumache dei miei stivali. Tua, non mia. Io non so distinguere la destra dalla sinistra, no? Stavolta le sconti tutte, femminuccia…
Camus legge, Milo sorride al proprio riflesso, l’autobus avanza a velocità snervante in mezzo al mare di lamiera diretto all’imbocco della 91, la Litoranea. Sono le otto meno cinque.
 

Due ore e una mezza dozzina di fermate dopo, due ragazzini con lo zaino in spalla scendono in un piazzale assediato da autobus, pullman, motociclette e automobili. Fa caldo. Il vento che spira dal mare porta loro il sapore della salsedine e della nafta delle barche al largo. La fila per la biglietteria ha già raggiunto una lunghezza allucinante.

Milo sospira. Se si chiede ad un ateniese come raggiungere Capo Sounion, questi sbatterà le palpebre perplesso e ribatterà che sono solo quattro colonne in croce, una tappa quasi obbligata delle gite scolastiche o una trappola per turisti. Gli ateniesi scendono prima, a Glyfada, per godersi le spiagge attrezzate ed il mare, mentre i turisti proseguono, desiderosi di ascoltare sulla pelle il respiro della storia, il profumo del mito e di scoprire l’autografo che Lord Byron ha lasciato alla base di una colonna, prima di scendere a bagnarsi i piedi in mare o di pranzare in uno dei tanti ristorantini che punteggiano la costa più in basso.

«Ok. Adesso che si fa? Visitiamo il Tempio?»
Camus si dirige all’ombra di un cartellone e studia la mappa sul retro.
«Dobbiamo dirigerci dall’altra parte. Alle rovine del tempio di Athena Sounia», dice, le mani su entrambi gli spallacci dello zainetto e il naso all’insù.
«Ti faccio notare che quel sito è chiuso», ribatte Milo, i pugni sprofondati nelle tasche dei jeans e i sandali di cuoio impolverati. «Vedi? C’è anche scritto. Chiuso», aggiunge, indicando la scritta con un cenno del mento.

«So leggere», replica Camus.
«Davvero?»
«Abbiamo due strade. O ci accodiamo alla gente in fila per la biglietteria e poi ci dileguiamo, rischiando di venire scoperti, oppure…»
«Oppure, cosa?»
«Oppure sgattaioliamo oltre le transenne e ci caliamo lungo la scogliera.»

Milo si sporge e getta uno sguardo oltre al parapetto. «Tu sei pazzo! L’hai visto quant’è ripido?!»
Camus si stringe nelle spalle. «La strada dell'eccesso porta al palazzo della saggezza.»
«E questa dove l’avresti sentita?»
«William Blake», risponde Camus infilandosi un cappello da pescatore in testa.
«Chi?»
«Lascia perdere. Allora, andiamo o ti ci vuole un invito scritto?»
Smoccolando insulti sempre più creativi, Milo stringe pugni e denti e si avvia verso le rovine del tempio di Athena Sounia, pestando il terreno coi piedi come se volesse ucciderlo. Passo dopo passo.

 
 


Aggiornamento a sorpresa! Non tanto per S. Valentino, quanto perché il 7 è stato il compleanno di Camus e perché il 22 di Febbraio la chiesa ortodossa ricorda S. Milo. Due piccioni con una fava, insomma.

Le note sono davvero risicate, stavolta.
Le poche informazioni che ho su Capo Sounion le ho ricavate spulciando la rete, ché non ho mai avuto l'occasione di farci un salto. Magari, in futuro, chissà?
Capo Sounion si trova a circa settanta chilometri a sud di Atene, e vi sorgono i resti di un tempio che Pericle fece erigere in onore di Poseidone, l'altro protettore della città. In realtà, vi sono lì accanto anche i resti di un tempio dedicato ad Athena, Athena Sounia, ma il sito è accessibile solo da pochi anni. Se vi interessa, pare che da qui Egeo si sia buttato in mare vedendo che la nave che rientrava da Creta aveva delle vele nere, e non bianche. Credendo suo figlio Teseo morto (figlio che aveva ritrovato giusto cinque minuti prima di spedirlo a Cnosso, ricordiamolo!), si gettò in mare in preda alla più nera disperazione.
Il sito archeologico è collegato con un servizio di pullman che costeggia la statale 91, la Litoranea, ed effettua diverse fermate lungo la costa.

Non ho resistito ed ho fatto entrare in scena Kostas, Melpomenê ed il Kallistê. Chi fosse curioso e volessere conoscere questo luogo e i suoi abitanti può affacciarsi qui, qui, qui, e qui.

La moussakà è un delizioso sformato di melanzane, formaggio, pomodoro e carne tritata. Assomiglia alle melanzane alla parmigiana, almeno nella visione delle melanzane alla parmigiana che aveva mia nonna.
Sapete com'è che si dice, no? Una faccia, una razza.
Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Quiconce ***



Ingannare chi inganna è un piacere doppio.
(Jean de La Fontaine, Favole, 1668/79)

 
 
 


Ad ogni angolo di strada il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia. L’ha scritto Albert Camus, tanto tempo prima. Milo non conosce questo Albert Camus, ma è pronto a scommettere che deve essere un tizio antipatico tanto quanto il Camus che conosce lui; quello che ha guadagnato le vestigia dell’Acquario e che l’ha convinto – non sa nemmeno lui come – a seguire quella strada assurda. La via più breve per finire schiantato sulle rocce, altro che consegnare la missiva a Saga!
«Manca ancora molto?», gli chiede arrampicandosi sull’ennesimo sperone a picco sul mare.
«Non saprei…»
Non saprei?! «Come, prego?»
Camus produce un suono a metà tra lo sbuffo spazientito ed il sospiro. «Saga è in una caletta poco distante. Una caletta da cui si domina l’accesso ad Atlantide E che non può essere visitata dai turisti.»
«Quindi?»
Camus gli sventola sotto al naso una mappa. Ci sono una mezza dozzina di X che flagellano il litorale di Capo Sounion.
«Non capisco», dice Milo.
«Ho segnato le insenature. Quelle in cui è possibile che si trovi Saga, intendo.»
«Quindi stiamo andando a casaccio?»
Milo sorride, ma è uno scintillio pericoloso quello che gli attraversa gli occhi, simile, molto simile al sorriso che Rémy mette su quando qualcuno fa qualcosa di molto, molto stupido.
«No», replica Camus restando calmissimo e distaccato, «stiamo procedendo con metodo.»
«Con metodo», ripete Milo. Come un bravo pappagallino ammaestrato che ha imparato a ripetere il suo nome – Polly o Loreto che sia. «E quale sarebbe, questo metodo, di grazia?»
«Per esclusione.»
Se gli sguardi potessero uccidere, Etienne adesso sarebbe polvere. Atomizzato in un battito di ciglia, forse anche meno. Milo si volta, le mani nelle tasche e la schiena appoggiata ad uno scoglio. Il sole batte sulle loro teste con tutto il furore che solo Luglio sa regalare. Lo sciabordio delle onde, una cinquantina di metri più sotto, è un richiamo cui si fa fatica a resistere e se non fosse per la brezza che soffia da Levante, starebbero sudando ancor di più. Lo Scorpione tace. Come se a lui, tutto quel caldo non desse poi così fastidio. Anzi…
«Hai un’idea migliore?», gli domanda Camus. Attaccare, questa è la soluzione. Sferrare il primo colpo e costringerlo a rispondere.
Ma Milo lo spiazza. Si stacca dallo scoglio e viene verso di lui, le mani in tasca e l’espressione atarassica da far dubitare a Camus che sia davvero il suo compagno, quello. Devono averlo rapito gli alieni e lui non deve essersene accorto.
«Visto che conosci la strada...»
«Io non conosco la strada, io…»
«…perché non vai avanti tu?»
Etienne lo fissa, chiedendosi dove sia la fregatura. Vuole spintonarmi di sotto e farmi sfracellare contro le rocce, pensa il francese, guardando di sottecchi il compagno. Ma poi si dice che sta iniziando a pensare come Milo. Male. Coi piedi. Lasciandosi prendere dall’impulsività, senza seguire la logica. Sono compagni, giusto? Giusto. Camus fissa il blu acceso degli occhi di Milo. Non lo attaccherà. Non sarebbe corretto. Non sarebbe leale. A lui piace il gioco pulito. Faccia a faccia. E gli piace da matti guardare negli occhi il proprio avversario nel momento decisivo, quello in cui cala Antares. Non è forse la pappardella che Milo ha raccontato sino allo sfinimento – altrui – dal momento in cui sono arrivati al Santuario.
Sì, che lo è, si dice Camus, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Va bene», e oltrepassa Milo, cartina alla mano, gli occhi dello Scorpione puntati sulla schiena che gli regalano un senso di fastidio e disagio e pericolo lungo tutto il percorso.



Uno come Saga di Gemini non passa inosservato nemmeno ricoperto di fango. C’è una potenza intrinseca nello sguardo fermo e deciso ad ammirare l’orizzonte, un physique du rôle che te lo fa inscrivere all’istante nell’empireo delle persone speciali, quelle che spiccano tra la folla come un papavero rosso in mezzo all’erba verde. Il mento saldo, le spalle larghe, tra i capelli la stessa aria che accarezza le chiome degli angeli vendicatori, quelli che il Signore Onnipotente inviava sulla Terra per amministrare – «per imporre», avrebbe detto Rémy – la Sua Giustizia. Gli manca solo la Spada Fiammeggiante al fianco, pensa Etienne, restando un passo indietro; ma se quel che si racconta sulla forza di Saga di Gemini corrisponde anche solo per un decimo alla verità, le sue mani grandi sono ben più pericolose di una qualsiasi spada dalla lama in fiamme, per quanto benedetta essa sia.
Deglutisce.
Adesso che sono arrivati, mentre il sole del primo pomeriggio indugia ancora alto nel cielo, Etienne non è più così certo che sia stata una buona idea lasciare a Milo l’onere e l’onore di parlare con Saga, ma che altro poteva fare? Lo Scorpione è madrelingua e lui no. E solo un madrelingua può cogliere quelle particolari sfumature, quelle particolari intonazioni che lui derubricherebbe ad inflessioni dialettali o cali di voce. Deve fidarsi di Milo, sperando che il cervello dello Scorpione registri tutte le parole di Saga e non si incammini per sentieri tutti suoi, rincorrendo quei pensieri che lo attraversano con la stessa luminosità di uno sciame di stelle cadenti che solca il cielo di Agosto.
Etienne sorride. Etienne si sforza di sorridere all’indirizzo di Saga, che fissa il mare Egeo come a volerlo sfidare, con la stessa espressione di chi pensa I miei occhi sono più blu di te. E Camus non si stupirebbe affatto se Saga mettesse a tacere l’incessante sciabordio delle onde con un solo, singolo sguardo.
 
Milo si fa avanti. Baldanzoso. Sta aspettando questo momento da quando si sono accordati sulla strategia – da quando Etienne gliel’ha promesso – e avanza verso Gemini intenzionato a fare bella figura e a mostrare all’Acquario come si tratta con uno dei grandi. Da pari a pari, da collega a collega, anche se attorno a Saga di Gemini aleggia un senso di latente pericolo. È qualcuno con cui non è saggio scherzare, qualcuno con cui occorre misurare le parole e ponderarle molto bene. E poi tacere. Come se si avesse a che fare con l’angelo vendicatore di cui sopra.
Stiamo facendo una pazzia, si dice Camus, prima di ricordarsi che Milo ha tirato il freno così tante volte durante il viaggio che è un miracolo che non si sia strozzato con le proprie mani. Forse Milo non è la persona più adatta per fare da ambasciatore. Sicuramente non lo è. Ma oramai il dado è tratto. E se proprio Milo dovesse far saltare la mosca al naso di Saga, beh, allora Camus spera – prega – che Athena sia così magnanima da inviare loro un altro Scorpione. Uno meno isterico. Uno meno impulsivo. Uno meno rancoroso. Non è chiedere troppo, no?
 
«Salve!», trilla Milo. Saga si volta in quell’istante, come se si fosse accorto solo adesso della loro presenza, e quel bastardo dello Scorpione inizia a parlare a briglia sciolta, fitto fitto, attaccando le parole le une alle altre, senza prendere fiato nel mezzo. Lo sta facendo apposta, si dice Etienne, che ha l’ordine di ascoltare cosa si dice in quella caletta. Come testimone. Stringe la mascella. Saga scocca uno sguardo perplesso prima e stralunato poi a quel soldo di cacio cui s’è inceppato il disco, e gli dice – gli intima – «Frena!», stendendo una mano davanti a sé, come a voler frenare la marea incombente che rischia di travolgerlo e portarselo a spasso sulle onde spumose dell’Egeo.
Milo si interrompe a metà di qualcosa che le orecchie di Camus registrano come aprolaapro la? – e regala al Santo dei Gemelli un’occhiata dubbiosa. Etienne sa cosa stanno pensando entrambi. Che diamine hai detto?!, da parte di Saga; Come osi interrompermi?!, nel cervello di Milo.
«Non ho capito niente», dice il Santo dei Gemelli, le mani sui fianchi e l’espressione titubante di chi suo malgrado deve avere a che fare coi matti. «Riavvia il nastro e ricomincia daccapo. Lentamente
Etienne trattiene un sorriso, ché non sta bene ridere delle disavventure altrui – anche quando se le sono andate a cercare col lanternino, pensa.
Il viso di Milo è rosso come una fragola matura. Stringe i pugni, le braccia distese lungo il busto, e poi ripete: «Salve, Saga di Gemini.» Pausa. «Il Sommo Sion, Sacerdote di Atene» pausa più breve «ci invia per avere notizie circa ciò che tu sai.» Pausa. Definitiva.
«Ciò che io so?» Saga di Gemini sbatte le palpebre. «Sentite, mocciosi», e a quella parola Milo freme, «chi siete voi due, esattamente?».
«Camus dell’Acquario e Milo dello Scorpione.» È Etienne a parlare, ché le labbra di Milo sono incastrate tra i denti. «Siamo venuti…»
«Momento», dice Gemini, facendo un passo avanti e chinandosi verso di loro. Li scruta, da capo a piedi, come a sincerarsi che gli stiano dicendo la verità. «Le domande le faccio io. Cosa siete venuti a fare?», chiede.
«A raccogliere i dati da te raccolti nell’osservazione dei movimenti del Signore dei Cavalli.»
«Hai usato due volte il verbo raccogliere», dice Saga. «Chi è che li vorrebbe, di grazia?»
«Il Sacerdote», sbotta Milo. Poi fruga nello zaino e ne estrae una pergamena stropicciata che sventola di mala grazia sotto al suo naso. «Ecco qui, Nobile Saga», gli dice. Saga gliela strappa di mano, si volta e si siede su uno scoglio, come se quella roccia aguzza fosse il posto più comodo al mondo dove mettere le chiappe. La civetta di ceralacca salta. La pergamena fruscia tra le sue dita. Milo freme all’idea di bucherellarlo con la sua cuspide. Camus attende.
 
Gli occhi di Saga corrono sulla carta inseguendo la grafia spigolosa del Sacerdote. Le sopracciglia si incupiscono man a mano che si addentra in quelle poche righe. Rilegge la missiva una, due, tre volte. Poi abbassa il foglio e regala loro uno sguardo perplesso. Quindi si volta ed osserva il mare.
Milo e Camus si gettano l’un l’altro un’occhiata dubbiosa, ma non hanno il tempo di esprimere a parole i loro timori che Saga mormora qualcosa.
«La bassa marea è vicina», dice. E basta. Restano a guardarlo come un oracolo particolarmente criptico. Un oracolo criptico e rigido come una statua di sale. Un gigante di pietra dallo sguardo corrucciato che senza dire una sola parola si alza, in un movimento fluido. Fa loro un cenno con la mano e si avventura per un sentiero ripido ripido alle sue spalle, tra i ciuffi di scopa marina che sbucano tra gli scogli. I due si regalano l’un l’altro un’occhiata ancora più perplessa, ma lo seguono. Sono in missione e per quanto strampalato sia il comportamento di Saga, il Sacerdote ripone in lui la massima fiducia. A stare da soli si ammattisce, pensa Milo saltando da uno scoglio all’altro. Camus chiude la fila.
 

È una casupola diroccata quella che li aspetta alla fine della strada. Una porta che si apre verso l’esterno, una ragnatela di vetri all’angolo della finestra che guarda verso la parete rocciosa dalla quale sono giunti, il tetto a spiovente massacrato dalla salsedine. Saga infila la porta senza far rumore. Lo seguono. Si avvicinano furtivi, come se stessero prendendo parte ad un qualche mistero che impone il massimo riserbo ed il massimo segreto, e si affacciano all’interno. Un pavimento di assi vetuste, uno scrittoio, una sedia, un canterano, un letto addossato alla parete.
Saga sta armeggiando con della carta ed una penna biro male in arnese di cui resta solo il tubicino con l’inchiostro, mordicchiato all’estremità. Milo si guarda intorno, come se fosse deluso dall’ambiente, ma in un certo senso affascinato da quello che sta vedendo e toccando quasi con mano. Quella è la casa di un uomo – e passi che Saga abbia appena una manciata di anni più di loro – un uomo in missione. Una sorta di 007 in salsa tzatziki uscito dalle pagine di un libro di mitologia che si rifugia in un nascondiglio che odora di salsedine e di chiuso. È così che diventerò anch’io un giorno?, si chiedono gli occhi dello Scorpione, spalancati di azzurra meraviglia sulle pareti spoglie ed i piatti accatastati nell’acquaio.
Camus si guarda alle spalle. C’è fretta nei gesti di Saga. Vuole mandarli via, è chiaro e palese; resta da capire il perché. Non li vuole attorno ma non perché teme la logorrea di Milo; non solo, almeno. Ha parlato di bassa marea. Possibile che in quel momento escano dalle acque i seguaci di Poseidone, come tanti marinai affogati che non trovano pace e tornano ad infestare gli incubi dei viventi?
Etienne non sa dove si trovi con esattezza il Santuario di Poseidone. «Ad Atlantide», gli ha risposto una volta Aiolos, distrattamente, mentre armeggiava con i vestiti strappati di Aiolia. Ma Atlantide dov’è? Nel cuore dell’Atlantico, oltre lo Stretto di Gibilterra, oppure da qualche parte in quella specie di lago che è il Mediterraneo?
Vorrebbe chiederlo a Saga, forse l’unico dei presenti a saperlo, ma si rende conto che ogni momento è prezioso e che le sue parole rallenterebbero la penna a sfera che corre sul foglio con già non poche difficoltà.

«Dove ho messo la ceralacca?»
Saga digrigna i denti. Apre e chiude un paio di cassetti nello scrittoio posto sotto alla finestra, con una cacofonia di oggetti che rotolano all’interno. Si dirige a grandi passi – due – verso il canterano, spalanca i cassetti fin quasi a farli cadere sulle assi sbeccate del pavimento, vi rovista all’interno e poi ne riemerge stringendo tra le dita timbro e ceralacca rosso sangue.
«Eureka!», esclama, con un accento diverso e da quello di Aiolos, e da quello di Milo.
«Di dov’è, secondo te?», bisbiglia allo Scorpione. Il quale riemerge dai suoi sogni ad occhi aperti con un «Eh?». Scocciato ed infastidito, come al solito. Camus scuote la testa. «Niente», dice, tornando a tenere d’occhio la situazione alle sue spalle. Se proprio devono arrivare i seguaci di Poseidone, lui farà loro la cortesia di attenderli.
Saga è tornato allo scrittoio. Scalda la ceralacca con una candela, la fa colare sul nastro che chiude la pergamena e poi vi preme sopra il sigillo. Soffia sulla civetta, brucia la missiva del Sacerdote usando la candela, poi afferra il plico e lo porge a Camus.
«Portatelo al Sacerdote. Di corsa.»
«È… È così grave?», chiede Camus, sbocconcellando le parole. Milo si guarda intorno circospetto.
Saga annuisce. «Non abbiamo molto tempo», dice – sussurra – e Camus deglutisce a vuoto. «Sta per tornare. Sarebbe un vero pasticcio se vi trovasse qui.»
«Ma chi sta per tornare?», domanda Milo.
Saga sorride.
«Atlantide, tu lo sai dov’è?»
No, brillano gli occhi di Milo. «Sotto il mare», risponde la sua voce.
«Sì e no. C’è un accesso da questo punto, una sorta di canale sotterraneo da cui è possibile scendere ad Atlantide senza incappare in correnti pericolose.» I due annuiscono. «Io mi tuffo regolarmente, ma laggiù c’è fermento in questi giorni, ed è difficile per me avvicinarmi quanto prima. Non so cosa stia accadendo. Per questo ho bisogno di un informatore…»
«Informatore?», chiede Milo. Dubbioso. Il sorriso di Saga risponde alla sua domanda. «Ahh…», dice. Come se capisse solo in quel momento la reale portata di ciò che sta confidando loro Saga.
«E… il Sacerdote lo sa?», domanda Camus. Ancora dubbioso.
«Certo che sì», ribatte Saga. «Quando tutta questa storia sarà finita verrà con noi. Perderà la sua coda da pesce e…»
«Una sirena!», esclama Milo, con un trillo così acuto che l’avranno sentito fino al Santuario. «Una. Sirena!!»
«Sì, è una sirena. Una sirena che vuole vivere sulla terraferma…»
«Come nella favola?», insiste lo Scorpione.
«Come nella favola. Ma se la sirena vi trova qui, potrebbe sentirsi tradita. Sapete come sono le donne, no? E potrebbe saltare tutta l’operazione. Quindi adesso filate via per quel sentiero tra gli scogli e correte al Santuario. Consegnate quelle righe al Sacerdote e a nessun altro. Nemmeno ad Aiolos. Intesi?»
«Perché nemmeno ad Aiolos?», domanda Camus, memore di come la favola della sirena che diventa umana non sia finita poi tanto bene. Anzi.
Saga gli scocca un’occhiata capace di incenerire anche la banchisa polare. Poi sospira e dice: «Perché non voglio che questo compito gravi sulle spalle di un amico», con un tono di voce dolce e sereno ed un sorriso splendente per cui la testa di Camus va su e giù un paio di volte senza che l’Acquario se ne renda conto.
«Perfetto. Andate, ora. Dite al Sacerdote che la situazione è sotto controllo e che la prossima volta mi farò vivo io.» Pausa. «Ah, e state attenti.»
«A cosa?», chiede Milo uscendo di casa.
«Si mormora che girino strani personaggi, da queste parti. Ecate e Dioniso si stanno risvegliando, ma sono solo voci. Chiacchiere raccolte tendendo le orecchie. Voi, però, tenete gli occhi aperti. Intesi?»
«Intesi.»
«Conosci te stesso.»
«E niente in eccesso», e Scorpione ed Acquario risalgono lungo il camminamento sugli scogli piatti, tra i ciuffi di tamerici e qualche granchio che attraversa loro il cammino per poi nascondersi timoroso tra gli anfratti oscuri.
Saga resta accanto alla casa, a salutarli con la mano per molte, molte volte, fino a quando le loro teste non scompaiono oltre il crinale. Solo allora abbassa il braccio e rilassa i muscoli del viso. Si volta, la faccia a sfidare il mare che lambisce senza posa la piccola caletta dalla sabbia bianchissima e ridacchia tra sé e sé. Ci sono cascati. Hanno creduto che lui sia Saga. E questo è un bene. Il Sacerdote non ha divulgato il segreto che riguarda i Gemelli – «Ce ne sono sempre due. Per sopportare meglio un così pesante fardello», mormorava il vecchio Sion da dietro la maschera nei pigri pomeriggi d’autunno, quando solo Kanon e Saga e Aiolos lo seguivano per i camminamenti del Santuario. Sorride, una smorfia malvagia che gli inarca le labbra. Deve ancora studiare il piano nei minimi dettagli prima di proporlo a quel trombone di suo fratello; ma oggi ha avuto la conferma che nessuno dei ragazzini, al Santuario, è conscio dell’esistenza di un altro Gemelli. Kanon. O quei mocciosi non avrebbero continuato a chiamarlo Saga.
Sogghigna.
Oramai ci siamo. Tra poco suo fratello uscirà dall’acqua e dirà che no, ad Atlantide non s’è mossa una foglia. Come sempre. Eppure s’intestardisce ad immergersi ogni giorno, come se potesse cambiare qualcosa, nel frattempo. Saga, Saga, non ti capirò mai, si dice, sedendosi all'ombra ad aspettare che suo fratello – il suo gemello – riemerga dall’azzurra immensità marina.  




Davate questa storia per dispersa, vero?
Male! Eccoci qui con un altro capitoletto. Che volete farci, per me la Pasqua implica la prima passeggiata sul lungomare a riempirci i polmoni di salubre iodio in attesa dell'estate. *sospira*

Il quiconce è una rappresentazione del numero cinque. Avete presente come sono disposti i puntini del 5 sulla faccia del dado (quello a sei facce, che usate per giocare a Monopoli)? Ecco, quello è il quiconce, che è anche una precisa distanza astrologica di 150° tra due oggetti celesti (Gemelli - Scorpione, ad esempio). Siccome il quiconce era caro al mio compaesano alla lontana Pitagora, gli ho dedicato il capitolo. Il quiconce altro non era che la rappresentazione dei quattro elementi naturali (fuoco, terra, aria e acqua) con al centro l'uomo. È dunque un simbolo di vita e forza, considerato che il 5 era un numero magico per eccellenza tra i Pitagorici (rappresentava la coppia Maschile-Femminile). In questo caso, il quiconce è rappresentato da Kanon, che si mette in mezzo tra Sion, Saga, Camus e Milo. E fa un po' quel cavolo che gli pare, com'è suo costume.

La scopa marina altro non è che uno dei nomi con cui è conosciuta la tamerice (ovviamente, salmastra e arsa, sennò non sta bene!)

Sì, al Santuario hanno il vezzo di chiudere le missive riservate con un sigillo di ceralacca. A forma di civetta, ovvio.

Sion, così come Aiolos, è a conoscenza dell'esistenza di Kanon. Non rammento se Kurumada avesse detto qualcosa in proposito, né cosa avesse detto di preciso; ma siccome quell'omino lì cambia le carte in tavola con una nonchalance pazzesca, tiro dritta per la mia strada e amen.

La formula greca γνῶθι σεαυτόν (gnothi s'autòn, conosci te stesso) si ritrova incisa sulle pareti del tempio di Apollo a Delfi, ed è un'esortazione per l' uomo a riconoscere i propri limiti, evitando in tal modo di peccare di ὕβϱις (ubris, traducibile con tracotanza, anche se il ventaglio semantico di questa parola è molto, molto ampio).
La locuzione μηδὲν ἄγαν (meden aghan, nulla in eccesso), attribuita a Solone di Atene, uno dei Sette Saggi, è un'altra incisione che si trova all'interno del tempio di Apollo a Delfi, e che, come la precedente, esorta a vivere con moderazione.
Come ho avuto modo di accennare durante La Lanterna Magica (storia LXIV), nel mio headcanon queste due formule sono usate in un botta e risposta tra chi saluta qualcuno che sta per partire per una missione («Conosci te stesso»), e colui che parte («Niente in eccesso»). In questo caso, Kanon che si spaccia impudentemente per suo fratello Saga, e l'improbabile coppia formata da Milo e Camus.

Come ho avuto modo di spiegare in Misteri Eleusini, nel mio mondo esistono anche altri Santuari dedicati agli altri dei olimpici, che funzionano a prescindere dal fatto che la divinità in questione possa essere ancora addormentata - come Demetra tirata in ballo proprio in Misteri Eleusini, o Ecate o Dioniso qui nominati. O lo stesso Poseidone. - oppure non sia interessata alle beghe dell'Attica. Come Demetra, Ecate o Dioniso. Un giorno vi farò l'elenco, promesso!

In soldoni, il succo di questo capitolo potrebbe essere «Diffidate delle imitazioni!», ché una copia è solo una scialba riproduzione, per quanto ben fatta essa possa essere (e nel caso di Kanon è dura assai distinguere). E con questi due spiccioli di saggezza, vi auguro una Buona Pasqua e vi do appuntamento a prestissimo. Giuro. Croce sul cuore.

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Capitolo 8
*** Quando tramonta il sole ***



Il sole tramonta comunque.
Sia sul giorno migliore, sia sul giorno peggiore.
(Jeffery Deaver)

 
 
 


«Secondo me ci siamo persi…»
Étienne ha perso il conto di quante volte gliel’ha sentito ripetere. Ignoralo, si dice avanzando sotto il sole. Ignoralo e la smetterà.
Ma non funziona, perché Milo no, non la smette. Sia mai! Continua a ripetere quella stessa frase con cadenza regolare mentre cammina alle sue spalle strascinando i piedi e calciando tutti i ciottoli che hanno la sfortuna di incappare sul suo cammino.
Il concerto delle cicale prosegue, inarrestabile, e il sudore scorre sulle tempie, le sopracciglia, il collo. Ovunque.
Non ce la faccio più, pensa Étienne. Io lo sgozzo. Lo. Sgozzo.
Il problema è che Milo può avere ragione.
Anzi, Milo ha ragione. Sono scappati dal rifugio di Saga in fretta e furia, nemmeno dall’acqua dovesse uscire una qualche bestia dell’Apocalisse, e forse – sicuramente – hanno preso la strada sbagliata.
Étienne stringe i pugni. Avrebbero dovuto fermarsi e controllare la strada sulla cartina, ma il giovane Aquario aveva fretta di mettere quanta più strada possibile tra loro e Saga, e Milo era troppo elettrizzato al pensiero di una sirena che usciva dall’acqua per incontrare Saga, e non se l’è sentita di rischiare.
Cosa sarebbe successo se Milo fosse tornato indietro e la sirena se ne fosse accorta?
Un sacco di guai.
E ad Étienne non andava di mandare in fumo il complesso e delicato equilibrio che Saga aveva costruito con perizia e pazienza. E Milo non avrebbe tenuto la bocca chiusa, nemmeno difronte ad una crisi politica. Anzi.
«Secondo me ci siamo persi…»
Étienne sa che dovrebbero fermarsi e controllare la mappa, ma sa anche che a quel punto Milo lo tartasserebbe coi suoi trionfanti «Te l’avevo detto!», e lui non è certo di riuscire a non strozzarlo colle sue stesse mani.
Sarebbe sbagliato e il Sacerdote non la prenderebbe bene; ma sarebbe tanto liberatorio, pensa Étienne asciugandosi il sudore dalla fronte mentre il sole brilla sulle onde.
Il mare è un confidente discreto. Discreto e perennemente affamato. Tratterrebbe il cadavere il tempo necessario e al Sacerdote racconterebbe una balla.
È caduto in acqua.
S’è sfracellato sugli scogli.
L’ha rapito un mostro marino e se l’è mangiato in un sol boccone.
No, questa scusa non va bene, anche se Milo è così chiassoso che la sua voce potrebbe risvegliare il Leviatano o il Kraaken, ma persino loro risputerebbero uno come Milo, altroché!
No, meglio puntare su una tragica fatalità. Le acque dell’Egeo sono calme, ma piene di grotte e anfratti e correnti marine capricciose, e se un bambino dovesse cadervi dentro, avrebbe ben poche probabilità di salvarsi, specie se dovesse sbattere la testa su qualche roccia. Santo o non Santo di Athena.
Ci sono tanti di quegli scogli qui, e dentro di sé Étienne sa che al Sacerdote non dispiacerebbe affatto avere un po’ di quiete al Santuario.
Anzi.
«Secondo me ci siamo persi…» Pausa. «Io torno indietro.»
Tu dove vai?, pensa Étienne. E poi glielo dice.
«Tu dove vai?»
«Indietro», risponde Milo, le mani in tasca e l’espressione serafica. «Così stiamo girando a vuoto, come trottole impazzite.»
Étienne stringe i pugni. Ha ragione. Merde.
«Ci siamo persi», rincara la dose Milo. «Non peggioriamo la situazione.»
Étienne socchiude gli occhi. Cos’è quel tono di voce arrendevole e assennato? Qui gatta ci cova.
«D’accordo, fammi prendere la cartina e…», diamo un’occhiata, ma Milo lo precede e gli dice:«No.».
«No?»
«No.»
«Come sarebbe a dire no?!»
«Sarebbe a dire no», ribatte Milo. «Io torno da Saga.»
«Tu cosa?»
«Torno. Da. Saga.»
«Stai scherzando?»
«Mai stato più serio.» Pausa. «Basterà tornare indietro e chiedere informazioni a Saga. Conoscerà la strada, no?»
«Non possiamo tornare indietro», ribatte Étienne, con la consapevolezza di star parlando al muro. «Saga stava aspettando una sirena. Ricordi?»
«Oh, sì», e gli occhi di Milo si illuminano di una luce che regala un brivido gelido lungo la schiena di Étienne.
«Tu non…»
«Oh, sì», ribatte l’altro. «Oh. Sì.»
«Non fare l’imbecille! Rischieremmo di far saltare tutto il piano di Saga!!»
«Non mi vedranno.»
«E come farai a chiedere le indicazioni senza che Saga e la sirena ti vedano?!»
Milo si stringe nelle spalle. «Saga s’inventerà qualcosa», risponde. Come se quello non fosse un problema suo. «Io voglio vedere la sirena.»
Ah, è questa la verità. «Non essere ridicolo!!»
«Non rompere!», sbotta Milo. «Io. Voglio. Vedere. La. Sirena.»
«O vuoi vedere le tette della sirena?»
Milo ghigna in risposta. «Trombé.»
«Si dice touché
«È lo stesso.»
«No che non lo è!»
Milo scuote la testa, poi fa un gesto sul suo petto, come a mimare il seno di una donna. «Tu non vuoi vederle?»
Sì. «Non è questo il punto!»
«Sì che lo è!»
«No che non lo è», replica Étienne. «Abbiamo una missione, ricordi? Dobbiamo portare indietro il messaggio di Saga. Il Sacerdote aspetta il nostro ritorno.»
«E noi non possiamo tornare indietro se ci siamo persi tra questi quattro scogli. O no?»
«Sì, ma…»
«Sì, ma un cazzo! Noi ci siamo persi. Saga conosce la strada. Torniamo indietro, aspettiamo che la sirenetta tolga il disturbo e domandiamo a Saga qual è la strada corretta.» Pausa. «O hai un’idea migliore?»
«Non sappiamo quanto tempo potrebbe restare, la sirenetta. E se si fermasse a dormire con Saga?»
«Probabile», ribatte Milo. Serafico. Come se desse per scontato una liaison amorosa del Santo dei Gemelli con la sirenetta doppiogiochista. «Anzi, se fossi nei panni di Saga, anche io userei il mio fascino per portarmi a letto il nemico. Sai come si dice, no? Due piccioni con una fava…»
«Tu? Ma chi vuoi rimorchiare, tu? Al massimo puoi ambire ad una medusa, o una tracina…
«Ah, ma abbiamo un cabarettista, qui…», ribatte Milo, piccato. «Io, comunque, torno indietro. Tu fai un po’ come ti pare. Non mi riguarda.»
E così dicendo, Milo gira sui tacchi e torna da dove sono venuti, dritto alla casupola di legno. No, pensa Étienne. Non posso permetterlo.
C’è troppo in ballo. La missione, il lavoro di Saga, l’alleanza con la sirena.
Tu non vai proprio da nessuna parte.
«Aspetta un attimo», dice – grida – Étienne, e si ritrova a rincorrere Milo, trotterellandogli dietro nel caldo, nell’afa del tardo pomeriggio e nel canto ossessivo delle cicale.
Ma quand'è che tramonta il sole? Lo raggiunge alla prima curva, dietro una combriccola sgangherata di tamerici e scogli accatastati a casaccio. Non è solo. Con lui c’è una donna. Una bagnante con un bikini giallo sole di una taglia più piccolo, un pareo legato in vita e una borsa di paglia a tracolla. E uno stacco di coscia di almeno un metro.
La donna sorride, un lampo dei denti bianchissimi contro il rossetto color ciliegia, e la coda di cavallo che si muove nell’aria, con fare civettuolo.
Che ci fa qui una bagnante?, pensa Étienne avvicinandosi. Milo non si è accorto di lui. È tutto preso dal sorriso smagliante e dal decolté più che generoso della donna che gli sta sorridendo dietro un paio di occhiali da sole.
«Ma che ci fa un bel bambino come te tutto solo da queste parti?», chiede la donna.
Ha la voce strana, pensa Étienne. È bassa e roca, come quella di Maman Louise, o quella di Rémy quando ha la raucedine.
«Milo?», lo chiama, ma Milo non dà segno di averlo sentito. Ma tu guarda che stronzo!, pensa Étienne. Lo sta facendo a posta! «Milo?!»
«Oh, ma non sei solo. E tu chi sei? Un suo amichetto?»
La donna sta guardando lui, adesso. Si è sfilata gli occhiali e lo sta fissando con un paio di occhi di un verde innaturale da risultare finto e affascinante allo stesso tempo. È come sostenere lo sguardo di un rettile, pensa Étienne.
«Sì, sono un suo amico.»
«E che ci fanno due bei bambini come voi in un posto sperduto come questo?», domanda la donna, fissando lui, ma accarezzando il viso di Milo con una mano. Ha le unghie lunghe e laccate di rosso, come le porta Julie, ma c’è qualcosa di poco rassicurante, in quello smalto. Sembra sangue rappreso, pensa Étienne.
«Torniamo a casa.»
«A casa? E dov’è la vostra casa?»
«Atene.» Più o meno, pensa Étienne, ma è bene non fornire troppe informazioni agli sconosciuti. Specie a quelli troppo curiosi, ripete sempre Rémy. «Atene è un po' lontanuccia.»
«Stiamo tornando a Capo Sunio.»
«Da soli?», cinguetta la donna, sollevando il viso di Milo verso il suo, due dita sotto al mento e un sorriso luccicante come una tagliola che brilla nell’oscurità. «Potreste perdervi.»
«Ci siamo persi.» La voce di Milo è strana. Assomiglia al balbettio confuso e impastato di chi parla nel sonno. Che cazzo sta succedendo qui?, pensa Étienne avvicinandosi passo passo, mentre Milo aggiunge: «Può indicarci la strada, signorina?».
Ma non volevi chiederla a Saga?!, si dice Étienne.
La donna sorride. «Ma certo, tesorucci», risponde, dando un buffetto a Milo, ma guardando Étienne fisso negli occhi. «Vi riporto indietro io. Tra poco sarà buio, e stasera c’è la luna nuova, non si vede un tubo.»
Luna nuova, pensa Étienne. Qualcosa lo mette in allarme, ma il giovane Aquario non riesce a mettere a fuoco cosa.
«Non ce n’è bisogno, grazie», risponde.
La donna rimane impassibile. Poi sorride di nuovo, una schiera di denti bianchissimi, tutti allineati come bravi soldatini in livrea schierati davanti al re. O come un plotone d'esecuzione pronto a far fuoco. Ha i canini un po’ affilati, pensa Étienne, sbattendo le palpebre.
«Sì, invece», insiste lei. Sollecita. È normale, si dice Étienne: chiunque si preoccuperebbe se incontrasse un paio di marmocchi che se ne vanno a zonzo, soli soletti, tra scogli e tamerici attorno a Capo Sunio mentre sta per calare la sera. Il crepuscolo non esiste, a queste latitudini. Un momento è ancora giorno, e l'istante successivo è già notte.
Però lo stesso potrebbe dirsi di lei. Non è usuale prendere il sole da queste parti. Non c’è nemmeno un sentiero che scenda al mare. E dove ha preso il sole? Sugli scogli? Lontano dall’acqua?
Sarebbe come gettarsi nudi in una friggitrice, pensa Étienne.
«Non posso lasciarvi qui. Non me lo perdonerei mai. Venite. Ho la macchina proprio qui dietro e il sole sta tramontando», insiste lei, tornando in posizione eretta e prendendo Milo per la mano.
«Milo, non dobbiamo dare confidenza agli sconosciuti, ricordi?», lo chiama Étienne, ma Milo non sembra sentirlo. Non sembra percepire affatto la sua presenza.
«Ma io non sono una sconosciuta», ribatte la donna. «Io sono Pelagia. E adesso andiamo. Vieni anche tu, Étienne?»
«E tu come lo sai come mi chiamo?»
La donna adesso non sorride più. La sua mano si stringe – si serra – attorno alle dita di Milo. «Me l’ha detto lui. Prima che arrivassi.»
«No.» No, non l’ha fatto, pensa Étienne. Non ha potuto farlo. «Lui non conosce il mio nome.»
Il sorriso ricompare sulle labbra della donna, arcuandosi come una falce di luna crescente. «Che peccato. Così carino e così rompiscatole…», dice Pelagia. Étienne lo prende come un complimento. «Vorrà dire che ingoierò te, per primo.»
Lascia andare Milo, che si affloscia a terra come una bambola di stracci. A lui penserò dopo, si dice Étienne, gli occhi fissi sulla donna. Il sole morente proietta una luce aranciata su di lei e sulla sua pelle abbronzata, e sembra quasi che i suoi capelli stiano per prendere fuoco, ma è l’ombra che si allunga sul terreno a preoccupare Étienne. C’è una coda che spunta da sotto al pareo. Una coda d’asino. E le gambe sono troppo lunghe e magre per essere umane, specie quando terminano in uno zoccolo, come quello dei cavalli.
Non è umana, pensa Étienne fissando la silhouette di quelle mani scheletriche, munite di unghie lunghe e affilate che il sole proietta sul terreno. Cosa diamine è questa creatura?, si domanda, scartabellando nella memoria quale mostro li stia fronteggiando. Lo stia fronteggiando. Milo è fuori combattimento. Non può contare su di lui. Non l’avrei fatto comunque, pensa Étienne, concentrandosi sul suo nemico. Aspetto femminile. Zampe equine. Coda. Artigli affilati. Occhi di un colore impossibile. Denti aguzzi, come quelli dei predatori. O dei vampiri. Luna piena.
Cosa diamine sei, si chiede Étienne, prima di ricevere un’illuminazione e trasecolare. La luna piena. Ma certo! «Merde! Tu sei…»
«Esatto, tesoruccio…»


 




Sono una disgraziata. Lo so.
Suppongo che vi siate dimenticati di questa storia, vero?
Sui ceci e sui cocci, vi porgo le mie scuse.
Nell'ultimo mese abbiamo adottato un gattino e abbiamo dovuto spendere un po' di tempo per farlo ambientare in casa - non sapete quanto ami mordicchiare fili e filetti di ogni sorta! - così ne ho approfittato per revisionare alcune storie lasciate a decantare per troppo tempo, mentre gli facevo compagnia e mi sinceravo che non morisse fulminato in qualche modo.
Voi ci siete sempre, vero?
Vero?!
Buona lettura!

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Capitolo 9
*** Quando a tordi e quando a grilli ***



Quando si è molto tristi si amano i tramonti
(Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, 1943)


 
C’era una volta una bellissima ragazza che faceva girare la testa a tutti quando passava per la strada. Bella, solare, spigliata, con tutte le curve al posto giusto. Un vero peperino. E, da bravo peperino, amava gironzolare attorno agli uomini, ma solo a quelli belli, giovani e forti. E nell’antica Grecia – almeno stando ai film americani – di maschi prestanti e gagliardi, a malapena coperti da fazzoletti che spacciavano per pepli, ce n’era a scatafascio. Un mare pescosissimo dove gettare le reti e tirarle su stracolme di deltoidi, pettorali, tricipiti e bicipiti. C’era solo l’imbarazzo della scelta, potremmo dire; ma lei, di imbarazzo, non ne aveva mai provato. Nemmeno sapeva cosa fosse. Era nata in una notte senza luna né stelle, e da suo padre aveva imparato a ridere delle debolezze di tutti, senza curarsi dei cuori in cocci che si lasciava alle spalle.
Ma anche la nostra ragazza aveva una debolezza, oltre agli uomini: le piaceva bere il loro sangue. Sentirlo caldo contro le labbra, invaderle la bocca, rotolare sulla lingua e scenderle nella gola fino a lasciare lei inebriata e le sue vittime dissanguate.

Ma la vita chiede sempre il conto delle nostre azioni, presentandoci il saldo quando meno ce lo aspettiamo. E in una bella sera d’estate, poco dopo il tramonto del sole, mentre la luna che giocava a nascondino con le stelle, un pellegrino si fermò a dormire per strada. La notte era calda, i grilli tenevano un concerto strepitoso e quest’uomo aveva troppo vino ad appesantirgli le gambe e ad annebbiargli la vista per proseguire oltre. Oramai era tardi. Anche se fosse arrivato al villaggio più vicino, dietro le montagne, chi l’avrebbe accolto? A quale porta avrebbe bussato?
Così, raggiunto un crocicchio isolato, l’uomo si fermò, posò il suo bastone per terra e usò la propria bisaccia come guanciale. S’addormentò all’istante, le palpebre pesanti e il fresco dell’erba sulla pelle.
E fu allora che la nostra ragazza emerse dalle tenebre della notte e si avvicinò, pregustando sulle labbra il sapore del sangue di quell’uomo.
Era bello. Bello e alto e forte, con una gran massa di riccioli scuri ed una folta barba ad incorniciargli la mascella decisa. E quelle spalle… E quelle braccia… E quelle gambe… br />
Oh, si disse la fanciulla, il suo sangue sarà de-li-zio-so. E ghiotta, si avvicinò al pellegrino che, ignaro del pericolo, dormiva della grossa. Gli accarezzò i capelli, la barba e scese con le dita alla ricerca della giugulare sul collo possente. La ragazza non resistette, e si chinò su di lui.
La sua pelle era salata. Calda. Invitante. Lei sorrise. I suoi canini affondarono. La notte e i grilli trattennero il fiato. E la luce esplose dietro alle sue palpebre, il sangue le invase le labbra e un fulmine squarciò il nero della notte.
Lei si ritrasse, spaventata da quella svolta imprevista. Chi era quello sconosciuto? Chi aveva incontrato sul suo cammino? Un dio, forse?
«Sei tu un dio?», chiese a fil di voce la donna, tremando come se una folgore l’avesse centrata in pieno e lasciata stecchita sul sentiero polveroso.
L’uomo non rispose: si sollevò, massaggiandosi il collo, un’espressione truce ad offuscargli gli occhi di un azzurro intenso, e l’apostrofò dicendo: «Qualcuno, qui, ha bisogno di una lezione». La sua voce rimbombò nella notte e i cieli si aprirono. «Peccato davvero. Sei bella, davvero; ma il tuo, è il cuore di un’asina. Forse dovremmo porvi rimedio, non credi?»
E l’uomo schioccò le dita.
Una folgore squarciò il nero della notte e si schiantò su di lei. Ci fu un lampo e la vallata s’illuminò a giorno. La ragazza non vide altro che una luce bianchissima e svenne.
Quando si riebbe, il suo corpo era ancora attraversato da tante piccole scariche elettriche, ma era ancora viva. Aveva incontrato un dio ed era sopravvissuta.

Accidenti, pensò. Poteva andarmi peggio, si disse, osservandosi le mani e le braccia con la vista accora annebbiata. C’erano segni scuri, di bruciature forse, e un paio di unghie erano annerite, ma niente che un po’ di riposo ed un bagno caldo non avrebbe potuto sanare. Quello che le bruciava era di non aver riconosciuto un dio.
L’ichor non è qualcosa con cui scherzare, pensò. Avrebbe potuto ucciderla. Maledetti gli dei, e la loro mania di mischiarsi coi mortali per ammazzare l’eternità, pensò sollevandosi in piedi, ma le ginocchia le cedettero. Si puntellò contro il tronco di un faggio e abbassò lo sguardo ai suoi piedi. Le sue belle gambe non c’erano più. Al loro posto, un paio di zampe equine e malferme la sorreggevano a stento, come fosse un puledro appena nato.
No. Le mie gambe!, pensò la ragazza. Poi spostò lo sguardo sulle mani mentre il sole si avvicinava all’orizzonte e la sua vista si andava schiarendo, e scoprì delle dita magre, arcuate come una falce e dalle unghie affilate come rasoi.
«Madre!», urlò, ma nessuno accorse in suo aiuto, né la Falce, né il Biasimo, e a lei non restò altro da fare che cercare rifugio nei recessi più oscuri della terra, in attesa che calassero le tenebre e che un altro, incauto viaggiatore si attardasse nottetempo ad un crocicchio solitario…


 
A Rémy piaceva raccontare quella storia, magari in una di quelle notti cupe e lugubri che solo l’inverno sa regalare. Lui ascoltava, impassibile, seduto a gambe incrociate sul letto, il pigiama indosso e i denti lavati; ma dentro aveva una fifa blu. E se un’Empusa avesse deciso di non attendere la sua vittima ai crocicchi – chi è che oggigiorno viaggia ancora a piedi? – ma di andarsela a prendere nottetempo, nemmeno stessimo parlando di un paio di baguette?
Rémy diceva che quelle erano le Lamie, non le Empuse.
«Sono parenti, in un certo qual modo», e a volerla dire tutta, la mitologia greca assomigliava a quelle riunioni familiari piene zeppe di gente pronta a tradirti, pugnalarti e avvelenarti per poi chiederti se vuoi un’altra fetta di torta, come diceva Maman Louise; epperò, a Étienne non interessava quale grado di parentela intercorresse tra Empuse e Lamie: quello che a lui interessava era che quelle sì che esistevano, non come i fantasmi, gli spiriti e gli spettri.
«Possono esistere», lo correggeva Rémy, prima che Maman tossisse dall’altra stanza la sua disapprovazione. Non occorreva mettere strambe idee nella testa di quel bambino dall’immaginazione più che fervida, altrimenti si sarebbe alzato lui, Rémy, per consolarlo quando si sarebbe svegliato piangendo per un brutto sogno. E a Rémy non andava di rischiare. «Dovrebbero essere estinte, oramai. Dubito che ti capiterà di incontrarne mai una.»
E invece, eccola lì davanti a lui, un’Empusa in carne, ossa e zampe d’asina, più che viva e più che disposta a cavargli gli occhi, prima di banchettare con lui e col suo sangue. E con quello di Milo. Milo che se ne resta a terra, come una bambola di stracci abbandonata al suo destino.

Poi facciamo i conti, pensa Étienne senza staccare gli occhi dal nemico. Lo sta fissando con intenzioni tutt’altro che piacevoli. Gli occhi, da quel verde impossibile, sono mutati in rosso vinaccia poco allettante. I canini spiccano contro le labbra gonfie come un frutto maturo. E quelle gambe d’asina, con quell’assurdo color bronzeo, assomigliano a delle protesi.
Avrà un’andatura zoppicante?, prega Étienne. Milo è troppo vicino a lei, per i suoi gusti. Potrebbe prenderlo in ostaggio, o usarlo come scudo umano. E sembra proprio questa l'idea che sta attraversando il cervello dell’Empusa.
Legge nel pensiero?
«Ma tu guarda che bel bambino coraggioso che abbiamo qui», dice, piegando la testa da un lato. «Facciamo così. Io adesso mangio il tuo amico, tu sarai il dessert.»
«Non penso proprio.»
«Oh. Le pulci hanno la tosse, eh?»
Pelagia – sempre ammesso che sia questo il suo nome – ride di lui, le mani sui fianchi e l’espressione scettica e canzonatoria che mette su Rémy quando Antoine vomita minacce agitando per aria il suo bastone da passeggio con la testa di cavallo in avorio. Ma Pelagia non ha la stoffa di Rémy; né incute lo stesso timore, purtroppo per lei.
E anche se ha ancora parecchie pagnotte da mangiare prima di essere come Rémy, Étienne sa che buon sangue non mente. E il piccolo Aquarius solleva il mento, fissa quello sguardo color del vino e ribatte: «Scommettiamo che questa pulce ti fa il culo?».

Qualcosa nell’aria cambia, e non solo per la temperatura che precipita di colpo, come se quell’angolo assolato di Grecia fosse piombato all’improvviso nel cuore del freddo inverno siberiano. Il ghiaccio ricopre con la sua patina le rocce e le tamerici. Sembra correre, come se avesse vita propria, e puntare alle gambe della creatura che, all’ultimo momento, scarta e si salva con un salto.
«Che diamine…», borbotta Pelagia. «Si può sapere chi sei, marmocchio?»
«Camus dell’Aquario. Santo di Athena.»
Étienne lo scandisce come fosse un titolo nobiliare, le spalle diritte e la testa alta. E sembra funzionare.
Pelagia soffia, come fosse un gatto extra-large. Si accuccia sulle gambe e poi salta, raggiungendo Milo. Lo afferra per il collo e se lo porta difronte in un baleno.
Merde!!
«D’accordo, pulce. Ma non vorrai colpire anche il tuo amico, no?», gli domanda Pelagia accarezzando con un dito la gola di Milo. Perché non si sveglia? Che razza di sonno ha, quell’impiastro?! «Quindi, adesso sai che facciamo? Tu mi lasci andare e io ti lascio vivo.»
«Nemmeno per sogno.»
«Ma come? Non hai paura che il tuo amico ci vada di mezzo?»
Sì, Milo potrebbe andarci di mezzo. Anzi, quasi sicuramente dovrà occuparsi anche di lui, dopo, sempre se non finirà a fare la bella statuina a meno duecento sotto zero.
Però, a quel punto, sai che quiete ci sarebbe, al Santuario?

Ed Étienne pensa che forse al Sacerdote non dispiacerebbe affatto un po’ di calmo e tranquillo silenzio a rimbalzare sui marmi e le colonne del Santuario, invece della voce squillante di Milo. La tentazione è forte. Allettante, come le crêpe della Candelora. Ma non può lasciare Milo a Pelagia. Non si può.
È una mia responsabilità.
Prende fiato, la posizione dell’oplita si trasforma nella croce. La temperatura precipita ulteriormente. Il cosmo di Étienne si amplia. Sadalmelik è lassù, sulle loro teste, pronta a raggiungerlo e a riversare nelle sue braccia tutto l’immane potere dell’Aquario. Le caviglie di Pelagia sono sottili. Troppo, per sostenere un corpo in posizione eretta. Eccolo, il tuo punto debole, pensa, rilasciando il suo potere e concentrandolo sui piedi dell’Empusa.
Pelagia grida dal dolore, mentre il ghiaccio si propaga sulla sua carne di bronzo, correndo fino alle ginocchia ed ancorandola a terra.
«Fermo!», grida, terrorizzata, tenendo Milo per lo scollo della maglia, nemmeno fosse un gattino sonnecchiante. «Fermo, o lo getto di sotto!»
Étienne abbassa le braccia. Merde. È un bel volo. E se Milo si sarebbe sfracellato sugli scogli da sveglio, figuriamoci addormentato. Senza contare che potrebbe approfittarne per colpirci entrambi, quando mi sarò tuffato per recuperarlo, pensa.
«Mettilo giù e ti lascio andare», le propone Étienne. Pazienza. Spiegherà lui, al Sacerdote, che quello era l’unico modo per salvare Milo. Milo che è stato così scemo da farsi abbindolare da un’Empusa.
«Come vuoi, zuccherino.»
E Milo compie una parabola elegantissima descrivendo una perfetta semiellisse che termina nelle acque dell’Egeo con un plonf attutito.
«NO!»
Étienne si precipita a guardare, le mani ben strette sulle rocce che fanno da parapetto. La superficie del mare non sembra essersi accorta del tuffo di Milo. Un paio di cerchi a pelo dell’acqua e poi basta, le onde sono tornate al loro incessante lavorio di battere e levare, battere e levare.
«Milo!!», grida Étienne, le mani a coppa attorno alla bocca. Ma Milo non risponde, non risale in superficie. Solo il vento soffia sulla sua testa, scompigliandogli i capelli come una carezza gentile, come ad alleviargli la sua pena. «MILO!!»
È morto. Cazzo, è morto, si dice Étienne, lo sguardo spalancato dal terrore. E adesso, che gli racconto al Sacerdote?
«Che c’è, zuccherino?» si sente chiedere da Pelagia. «Mi hai detto tu di lasciarlo andare…»
Guarda il lato positivo. Adesso puoi massacrarla senza pietà, gli suggerisce la voce di Rémy. Così Étienne si volta. Piano, pianissimo. Solleva entrambe le braccia sopra la sua testa ed espande il suo corpo. Sadalmelik risponde e scarica su di lui una potenza ancora più devastante. E l’Empusa conosce la forza dell’Aquario mentre un’armatura di ghiaccio eterno la ricopre. Pelagia grida, urla, impreca, gli ordina di smetterla, ma Étienne non commetterà lo stesso sbaglio una seconda volta.
Così insiste, insiste fino a quando le sue braccia e le sue spalle non gridano pietà e il corpo di Pelagia non è diventato una statua di ghiaccio. E alla fine, quando è sicuro che Pelagia non possa più nuocere a chicchessia, il giovane Aquario crolla in ginocchio.
Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzocazzocazzo…
Ricapitolando: la missione è andata a puttane; il suo compagno è morto portandosi dietro la missiva di Saga per il Sacerdote; e lui è stanco come se un esercito di elefanti si fosse fatto una passeggiata su tutte e duecentosei le ossa del suo corpo. E deve ancora tornare al Santuario.
Una cosa per volta, si ordina Étienne, facendo mente locale su quali siano le sue priorità, adesso. Occorrerà recuperare il corpo di Milo. Poi lo isserà fin sulla scarpata, lo porterà da Saga e gli chiederà di aiutarlo a seppellirlo. Sirena o non sirena. E gli chiederà di riscrivere la missiva per il Sacerdote. Il suo compagno è morto, giusto? Il dio in terra potrà anche riscrivere una missiva, no?
Una cosa per volta.
Étienne si sporge oltre il bordo degli scogli. Niente. Il corpo di Milo sembra essere andato a fondo come fosse un sasso. Con un sospiro di frustrazione, rabbia e sfinimento, Étienne inizia la sua discesa verso un’acqua violacea, col cuore gonfio di tristezza e il sole sulla linea dell’orizzonte, senza accorgersi che qualcun altro ha assistito alla battaglia, tenendo celata la propria presenza dietro una fila di scogli aguzzi.
 

«Che solenne camurria», mormora Death Mask – perché è di lui che si tratta – avvicinandosi all’Empusa cristallizzata. Ieri pomeriggio è arrivata una missiva da Saga: il Santo dei Gemelli segnalava al Reverendissimo Sacerdote la presenza di un’Empusa nella zona attorno a Capo Sunio. E a chi è toccata la patata bollente? Ma a lui, ovvio. Perché il Nooooobileeee Saaagaaa, che sta ad un tiro di schioppo, non poteva certo muovere le chiappe e risolvere la questione schioccando le dita. Nossignore.
Non sia mai, pensa il Cancro osservando la scultura di ghiaccio davanti a lui. Ma perché uno coscienzioso come Saga non ha avvisato questi due del pericolo?.
«Hai capito, il piccoletto», mormora, un dito sotto il mento.
La creatura è ancora viva, ma quel tanto che basta per darle una spintarella – piccina picciò – è farla piombare nella Bocca dell’Ade, magari con uno di quei lamenti disperati che piacciono tanto a lui. Avrebbe preferito sentirla urlare ed implorare pietà, ma pazienza. Quando a tordi e quando a grilli, come diceva Tonio.
Si sporge oltre la chiostra di scogli affacciati sul precipizio. Camus sta ancora scendendo per andare a recuperare Milo, senza essersi accorto che il vero Milo è qui sopra, sano e salvo, che dorme come un angioletto nascosto dietro uno scoglio.
«Mica scema a gettare ai pesci la cena. Vero, signorinella?», commenta Death Mask riservando un sorriso sghembo alla statua di ghiaccio. È… era un predatore anche lei, a modo suo. E i predatori amano conservare le proprie prede, dopo aver faticato per catturarle; un po’ come fa lui, con i volti dei suoi avversari. E forse, forse potrebbe conservare quello di questa creatura tra gli altri trofei. Farebbe una bella coppia con la Melusina che ha sconfitto qualche tempo fa. Ma deve scegliere un angolo discreto, ché il Sacerdote avrà da ridire – come al solito – e a lui toccherebbe togliere tutto.
Va bene. Ci penserò più tardi, pensa; quei due mocciosi si sono dimostrati utili, ma deve chiudere la questione, una volta per tutte. Porto a casa la giornata senza muovere un muscolo, conclude, posando una mano sull’Empusa congelata e ritirandola quasi all’istante.
«Cazzo. Brucia!»
Soffia sui polpastrelli, scuote la mano, niente. Ha perso sensibilità.
Questa me la paghi, mangialumache dei miei stivali, pensa, stendendo un angolo del proprio mantello sul braccio dell’Empusa e stringendovi le dita della mano sinistra attorno.
«Andiamo, bellezza. Abbiamo un tavolo riservato, tu e io…», e così dicendo, il Santo del Cancro schiocca le dita e s’incammina verso la Valle dell’Ade, lasciandosi alle spalle un tramonto da urlo, un ragazzino addormentato e un altro che rischia di rompersi l’osso del collo ad ogni, singolo passo.


 




Aggiornamento regolare!
Alla fine, la creatura che hanno incontrato Milo e Camus a Capo Sunio è... era un'Empusa. Figlie di Nix e di Momo, erano ancelle del bizzarro corteo di Ecate. E avevano il vizio di abbordare incauti viaggiatori (masculi, ça va sans dire) ai crocicchi, per bere loro il sangue e occasionalmente papparseli.
Bellissime donne, rivelavano la magagna solo quando si era abbastanza vicini da accorgersene, rivelando particolari bizzarri, come una gamba di bronzo, o di sterco d'asina.
Come vedi, Avalon9, non ci sei andata troppo lontana! Secondo alcune versioni, poteva avere anche le sole zampe d'asino, oppure sfoggiare anche una coda equina. Insomma, sotto al chitone nascondevano la sorpresa!

Death Mask si trova in zona per abbattere proprio questa Empusa. Vi avevo avvisato qui, ricordate?
Prima o poi, tutti i fili arrivano al pettine. O quelli erano i nodi?

Alla prossima!!

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