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Autore: Piccolo Fiore del Deserto    12/09/2012    4 recensioni
Fiamme divoravano il corpo di una donna legata a un palo sulla cima di un palchetto. [...]
“Strega, assassina, figlia e moglie del demonio…” tanti epiteti le venivano scagliati, mentre sagome scure puntavano croci verso di lei intonando litanie atte a scacciare il male e a purificare, insieme al fuoco, la sua anima corrotta. Il corpo bruciava, urla strazianti uscivano dalle sue labbra, mentre deperiva come un semplice ciocco di legno. Faceva male, colpiva nel profondo, e non aveva fine. Una morte lenta, tormentosa, inquietante.
Altre figure scure s’intromisero tra i popolani, ma non avevano volti: maschere nascondevano i loro tratti, assumendo il grottesco ghigno di un lupo. Lupi, troppi lupi intorno a sé.
Tra quell’oscurità e il fumo che le saliva sino agli occhi appannandole la vista affaticata dal dolore, scorse un’altra sagoma: era un vero lupo dal manto come neve e profondi occhi cristallini che la fissavano intensamente. La donna lo scrutò per alcuni istanti e il dolore sembrò attenuarsi.
Ma chi era quella donna?
Con mio profondo sgomento repressi a stento un urlo: quella donna ero io.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I
Ricordi









Mi svegliai di soprassalto visibilmente agitata dal medesimo sogno che aveva turbato a lungo le mie notti durante l’infanzia e che, sovente, si ripresentava anche a distanza di anni.
Il mio respiro era affannato e il cuore palpitava con forza.
I volti dei miei genitori continuavano a essere vividi dinanzi a me, anche ora che tenevo gli occhi bene aperti.
Ero solo una bambina di dieci anni quando armigeri, appartenenti alla fazione cattolica, spezzarono la tranquillità della mia famiglia e con essa anche i sogni in cui tanto avevano sperato i miei amati genitori.
Dopo essere stata nascosta sotto la botola nel pavimento, due uomini robusti e armati fino ai denti avevano fatto violentemente irruzione nella nostra abitazione e rivolto macabri sorrisi ai miei genitori ancor stretti l’una all’altro, forse nel vano tentativo di proteggersi a vicenda o suscitare un minimo di pietà agli occhi dei loro sconosciuti assalitori.
Tuttavia, non c’era neanche il benché minimo barlume di pietà. Avevano altezze differenti, ma gli stessi capelli corti, ispidi e scuri. Il più basso aveva un aspetto più minaccioso, una cicatrice gli deturpava il lato destro del viso e i suoi occhi, di un verde spento, denotavano una certa mancanza d’intelligenza che, invece, s’intravedeva negli occhi scuri e vispi del secondo armigero.
Potevo vedere tutto attraverso un’unica piccola fessura del pavimento ma, fossi stata realmente consapevole di ciò che presto si sarebbe presentato ai miei occhi, avrei lasciato da parte la mia immensa curiosità.
Sentii mia madre gemere, mentre i due sembravano rimanere inizialmente immobili a osservare la coppia spaventata.
« Guarda chi abbiamo qui. Un’ignobile coppia di vermi eretici. » disse l’armigero più alto, mentre l’altro sputò a terra con disprezzo, ma, lievi movimenti del suo corpo e del suo viso tradivano la sua voglia di agire, anziché parlare.
« Noi non siamo eretici » osò sfidarli mio padre con voce, almeno all’apparenza, sicura e decisa, che turbò per un attimo il più alto dei due cattolici.
« Non ti permettere di ribattere, sporco ugonotto. » sibilò e lanciò uno sguardo eloquente al suo compagno, prima di aggiungere « Anzi, prega perché questa notte sarà l’ultima che vedrai, insieme alla tua adorabile mogliettina. » rivolse uno sguardo avido verso mia madre, mentre il compagno ghignando si fece avanti e diede un pugno allo stomaco di mio padre che si ritrovò ad accartocciarsi su se stesso lasciando andare la presa di sua moglie, che urlò disperata chinandosi sul marito e implorandoli di lasciarli stare.
Io portai le mani alla bocca, smorzando il grido che mi avrebbe sicuramente fatta scoprire.
I lamenti e l’implorazione di mia madre, tuttavia, aumentarono il senso di potere e la sete di sangue dei due armigeri e, quello che accadde in seguito fu inevitabile.

Ancora a distanza di undici anni da quel fatale evento, rammentavo lo strazio provato nel sentire le urla e i gemiti di mia madre e i tentativi inutili di mio padre nel proteggere la donna amata.
L’ultima cosa che riuscii a vedere fu l’armigero più alto scagliarsi su mia madre, cercando di spogliarla e l’altro che infliggeva colpi sempre più violenti a mio padre.
Mi sentivo inerme e avvertivo una tremenda voglia di urlare, ma non avevo dimenticato le parole dei miei genitori; così, chiusi gli occhi e iniziai a fare un gioco che mi aveva insegnato la mia mamma.
In quell’oscurità che mi avvolse, iniziai a creare un mondo tutto mio. Pian piano delle fievoli lucine illuminarono il luogo nella mia testa e tante piccole creaturine dalle forme e dai colori più diversi mi sorridevano e iniziavano a cantare. Quel canto immaginario riuscì a superare le grida sopra di me e sembrai tranquillizzarmi.

Non seppi quanto tempo rimasi in quel mio mondo immaginario, ma quando tornai alla triste realtà, avvertii un completo silenzio laddove prima c’era l’orrore.
Decisi di attendere ancora un poco per essere del tutto sicura che i due “cattivi” si fossero allontanati e poi, quando mi sentii sicura, sgusciai fuori dal mio nascondiglio.
La nostra modesta abitazione era completamente sottosopra: c’erano oggetti rotti e sparsi a terra, cassetti aperti, letti disfatti e quello dei miei genitori era macchiato di tante piccole gocce di sangue che poi si ripetevano sul pavimento fino a congiungersi in una vera e propria chiazza più ampia.
Portai una mano alle labbra avvertendo una sensazione di nausea e poi continuai ancora a osservarmi intorno. Non c’era traccia umana nella stanza, oltre a me. I due armigeri se ne erano andati, ma avevano portato via anche i corpi dei miei genitori.
Avvertii solo in quel frangente un opprimente senso di solitudine che mi avvolse come una mosca nella ragnatela.
« Maman, Papa? » domandai, ma la mia vocina si perse, smorzata dalle lacrime che iniziarono a fuoriuscire dai miei grandi occhi azzurri.
Fui pervasa dal desiderio di raggomitolarmi a terra e restare lì, ma la paura che quegli uomini crudeli potessero tornare e il ricordo delle parole dei miei genitori mi spinsero a farmi forza. Rammentai la città citata da mia madre e, senza donare un ultimo sguardo al luogo, sgusciai fuori dalla casa e iniziai a correre più veloce che le mie gambine potessero permettermi, nel tentativo di allontanarmi da quel luogo di morte e disperazione.

*


Scesi dal mio letto ormai consapevole di non riuscire più a riprendere sonno. L’alba si avvicinava; il cielo, infatti, era meno scuro e tenui bagliori rossastri s’iniziavano a intravedere verso est.
Iniziai a camminare nella stanza. Era ancora presto per lavorare, ma non potevo permettermi di rivivere ancora una volta quelle immagini che, tuttavia, non mi abbandonavano.
Era stata dura per una bambina ormai orfana allontanarsi da quella città.
Avevo cercato di non farmi vedere, di correre veloce, ma più di una volta, nell’oscurità non ancora scomparsa, mi ero scontrata con degli strani oggetti ammassati sul terreno.
In un primo momento pensai che fossero proprio dei beni appartenenti agli ugonotti, e gettati fuori dalle loro abitazioni oppure dei massi, ma quando mi ritrovai a cadervi sopra, due occhi vacui e inespressivi mi fissarono.
Mi sfuggì un grido di terrore e cercai di rialzarmi, seppur con movimenti impacciati, per allontanarmi il più possibile da quei… cadaveri.

Al solo ricordo ancora rabbrividivo.
L’odio aveva portato due religioni a scontrarsi.
A lungo le guerre si erano ripetute e ancora accadevano.
Quella notte poi i corpi di migliaia di ugonotti furono ammassati sulle strade ed ero ormai certa che tra quelli ci fossero anche i miei genitori.
Lacrime calde presero a scorrere dai miei occhi nel ricordare la bambina che ero…
…una bambina costretta ad affrontare tante cose spregevoli in una sola notte.
Non seppi dove trovai la forza di andare avanti, nonostante il mio corpicino tremasse, i miei occhi fossero gonfi di lacrime e il mio cuore palpitasse senza tregua, ma la trovai e iniziai così il mio duro cammino verso Sivelle, la città dove forse avrei ritrovato un po’ di pace.

Furono giorni insidiosi. Per una bambina non era facile affrontare da sola un viaggio così lungo. La strada era colma di pericoli: agli animali selvaggi e ai briganti si univano persone che, ispirate a quella notte e istigate dai preti, continuavano a uccidere senza pietà altri ugonotti, unicamente colpevoli di professare diversamente la loro religione.
Oltre a ciò, la fame si faceva sentire, così come la stanchezza.
Alcune notti trovai riparo semplicemente in particolari insenature sul terreno, all’aperto; in altre occasioni trovai persone di buon cuore capaci di donarmi un po’ di pane e qualcosa di caldo, oltre a un giaciglio di paglia dove riposare.
Spesso ero invitata a rimanere di più, ma dovevo proseguire.
Quando il sogno stava ormai per spegnersi, come le mie forze, finalmente un uomo, al quel avevo chiesto informazioni, disse:
« Sivelle? È proprio davanti a te, bambina. »
Sorpresa e incredula guardai dinanzi a me e scorsi la città, che mi lasciò nettamente senza parole. Ringraziai velocemente il contadino e piansi di gioia.
Ce l’avevo fatta.
Sporca, stanca, affamata e con i piedi feriti per il lungo cammino, oltrepassai le mura e, dopo aver chiesto ulteriori informazioni sulla donna alla quale rivolgermi, mi presentai all’ingresso della sua casa e proprio di fronte a Madame Le Marchand, svenni.


*



Quando riaprii gli occhi, incontrai quelli indagatori di una donna minuta e paffuta, abbigliata con un modesto abito nero con pizzo bianco sulle maniche e sul corpetto; i suoi capelli striati d’argento s’intravedevano appena da sotto una cuffietta di lino anch’essa bianca.
« Finalmente hai aperto gli occhi, bambina » mi disse con una punta di nervosismo nel tono di voce « iniziavo a pensare che avresti dormito molte altre ore ancora. »
Sbattei le palpebre, confusa; in un primo momento non rammentai affatto dove mi trovassi e chi fosse quella donna che mi fissava intensamente con quei piccoli occhi grigi.
« Suvvia bambina, ora hai riposato abbastanza! Vuoi finalmente dirmi chi sei e come mai ti ho ritrovata svenuta dinnanzi alla mia dimora? »
Rimasi in silenzio per qualche istante ancora, ma notando la sua impazienza, decisi di non farla attendere oltre.
« Siete Madame Le Marchand? »
La mia voce era roca e bassa per essermi appena ridestata.
« Esattamente! Ma non ho ancora sentito il tuo nome. Forza bambina, non farmi attendere troppo che ho molto da fare. »
Pose le mani sui fianchi, chinando il busto verso di me.
« Io… sono Desirée Chervalie. La mia mamma mi ha detto di venire qua per stare al sicuro… »
In un attimo i ricordi si fecero vividi nella mia mente e rabbrividii sotto le lenzuola.
« Chervalie. Ho sentito già questo cognome; ma qual era il nome di tua madre? » mi chiese, lasciando il posto alla curiosità.
« Evelyne de Lys » risposi in un bisbiglio, mentre i miei occhi si riempirono di lacrime al solo nominare colei che amavo e non avrei mai più rivisto.
Nell’udire quel nome Madame Le Marchand sbiancò, guardandomi con più attenzione come se volesse trovare in me tutte le affinità possibili con mia madre. Effettivamente le somigliavo molto, per i lineamenti, gli occhi grandi color del cielo e i morbidi boccoli naturali, ma l’oro splendente dei miei capelli era un dono del mio adorato padre.
« Evelyne… la figlia di Evelyne » ripeté tra sé la minuta donna, provando a immaginare dalle mie condizioni quale terribile tragedia fosse accaduta.
Io non riuscii a dire molto; il mio corpo fu scosso da singhiozzi che non riuscii a frenare.
« Oh piccola, non piangere. Qui sarai al sicuro. »
L’espressione sul viso della donna si addolcì, ma si fece anche triste. Avvicinò le sue mani alle mie e le sfiorò appena, come se fosse a disagio con i bambini.
« Evelyne era una mia carissima amica, una donna così dolce… » sospirò « non ti preoccupare bambina, potrai rimanere di certo qui. Ora però alzati, lavati un poco con l’acqua in quella bacinella e poi, quando sarai sazia, deciderò cosa potrai fare. Vedi, anche se ero legata profondamente a tua madre, non posso prendermi totalmente cura di te senza nulla in cambio. Dovrai aiutarmi a mandare avanti questo posto in qualche modo, ecco. »
Allontanò le sue mani dalle mie e cercò di lottare per trattenere le lacrime.
Come presto intuii Madame Le Marchand non amava palesare di fronte agli altri i suoi sentimenti e le sue debolezze.
« Orsù non poltrire più! Ti attendo in cucina tra poco! » così dicendo mi diede le spalle e sgusciò rapida fuori dalla stanza.


Sarei voluta rimanere ancora del tempo in quel letto così confortevole come non provavo da qualche tempo, ma mi resi ben presto conto che restare ferma mi portava a pensare e ricordare avvenimenti ancora troppo freschi e dolorosi.
Scesi quindi dal letto, rabbrividendo un minimo al contatto dei miei piedi nudi con il pavimento. Diedi uno sguardo alla stanza, comprendendo di trovarmi in un ambiente non troppo ricco, ma neanche troppo modesto: oltre al letto, c’erano altri mobili, una sedia, una cassapanca e un piccolo tavolo con sopra una candela ormai conclusa. Mi avvicinai alla bacinella e affondai le mani nell’acqua fresca per poi detergere il mio viso, cercando di eliminare al meglio ogni sporcizia, passando poi alle varie parti del corpo.
In un tavolino trovai un pettine di legno con il quale avrei potuto districare i miei boccoli ribelli e ormai colmi di nodi. Notai la presenza di uno specchio nella stanza, e per un attimo ne rimasi colpita; non era un oggetto che tutti riuscivano ad avere, soprattutto di quelle dimensioni, che poteva riflettermi in modo completo.
Mi avvicinai e scrutai la mia immagine riflessa che mi osservava stravolta. Notai i segni della stanchezza e delle tante lacrime versate sul mio viso emaciato e scavato; il pallore e persino la luminosità dei miei capelli sembrava essersi mitigata. Mi sforzai di fare un sorriso ma apparve più come una smorfia, quindi mi fermai.
Avevo perso tutto: i miei genitori, la mia casa, la mia felicità e la mia vita, e ora dovevo ripartire da zero.
Lacrime impertinenti tentarono di uscire di nuovo dagli occhi, ma ad esse risposi con la rabbia. Iniziai a districare i nodi sul capo con foga, incurante del dolore provato. Non volevo più piangere, volevo essere forte, dovevo esserlo, ma mi sentivo prosciugata di tutte le energie.
Caddi sulle ginocchia e nascosi il mio viso, ormai rigato da lacrime salate, tra le mani. Mi era impossibile smettere di piangere, era un dolore troppo grande.

Dopo qualche minuto, tuttavia, mi risollevai e tentai di farmi forza. Con una manica della camicia detersi le lacrime e poi ripresi a spazzolarmi con più attenzione e cura.
Trovai sopra alla cassapanca un abito dalla foggia estremamente semplice, di un marroncino scuro, e lo indossai.
Tornando a specchiarmi mi sembrò di vedere una serva come mio riflesso, ma non m’importava. Io dovevo vivere e affrontare tutto con forza, senza mai dimenticare chi mi aveva salvata.

*


Madame Le Marchand mi attendeva in cucina come avvisatami.
Non appena mi rivolse lo sguardo, notai che i suoi occhi erano diventati rossi, come se avesse pianto, ma subito addossò la colpa alle cipolle che in quel momento stava tagliando.
« Vieni pure avanti Desirée, non rimanere immobile su quella porta » disse e non appena ebbi mosso qualche passo aggiunse « noto che l’abito ti sta bene, forse la gonna è un po’ corta, ma si potrà aggiustare in qualche modo. »
Mi fece cenno di accomodarmi su uno sgabello accanto a lei.
« Ci ho riflettuto un poco e credo che l’unico modo in cui potrai aiutarmi è nelle faccende domestiche. Sono una mercantessa di stoffe e qualcuno deve badare a questa dimora; un’altra persona farebbe al caso mio. Dopotutto io ti darò un tetto e del cibo e tu dovrai ricambiare in qualche modo. »
Compresi che non aveva tutti i torti, anche se l’idea di essere una sguattera non mi allettava particolarmente; ma avevo visto la vita di strada e non volevo assolutamente tornarci.
« Comprendo Madame e sono disposta a esservi utile in qualsiasi mansione voi vogliate affidarmi, dopotutto vi devo tanto… la vita stessa. » risposi, remissiva.
« Bene, allora collaborerai con gli altri membri della loggia nel ruolo di sguattera, almeno fino a quando non noterò o non sorgerà in te un particolare talento che mi spinga a rivalutare la tua posizione. » mi scrutò con quel suo sguardo penetrante ed io arrossii un poco. « ricordo che tua madre era molto brava a confezionare abiti… »
Mi lanciò l’idea ed io la colsi al volo.
« Sì, spesso la osservavo cucire… e qualche nozione me l’ha insegnata, ma… non credo di esserne ancora capace. » ammisi con estrema sincerità.
« Capisco, tuttavia quando vorrai e avrai tempo dopo aver adempito tutti i tuoi compiti quotidiani, potrai provare a vedere se quello potrà essere il tuo cammino, il tuo futuro ruolo in questa loggia. »
La sentii sospirare, ma non mi diede tempo di ribattere.
« Dunque, iniziamo a cucinare! Oggi Annette non c’è, ma da domani sarà lei a farti comprendere quali saranno i tuoi compiti. »
Annuii e iniziai ad aiutarla, ma nei miei pensieri risuonavano le sue parole che fecero scaturire in me un obiettivo da raggiungere. Sarei migliorata nel ricamo e nel cucito, volevo diventare una vera ed esperta sarta così da non trascorrere il resto dei miei giorni nelle vesti di sguattera e rinunciare a tanti possibili sogni.

   
 
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