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Autore: Nidham    19/04/2013    3 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il panico mi serra la gola, rischiando di sopraffarmi.

Le terribili immagini dell'incubo, la preoccupazione di trovarmi in un luogo sconosciuto, l'inconscia consapevolezza, ancora non razionalizzata, che debba essermi successo un incidente di qualche tipo, tutto perde importanza davanti a questa domanda: “Chi sono io?”. Devo pur avere un nome, magari orribile o stravagante, ma che sia mio.

Mi guardo rapidamente e ossessivamente intorno, in cerca di qualcosa che possa sembrarmi familiare, ma scorgo solo forme asettiche, impersonali, a malapena visibili nella penombra che mi circonda e che, adesso, appare anche più minacciosa. Mi do della stupida. E' ovvio che non possa riconoscere niente in quella che ben si presenta come una sala appartenente a qualche tipo di struttura medica.

Forse dovrei concentrarmi di più sul motivo per cui possa essere finita in un posto del genere, ma non riesco a cancellare il terrore provocato dall'assurda mancanza di una nozione tanto banale e scontata quanto un nome.

Sono stufa di avere paura e trasalire momento dopo momento, ma il mio istinto stesso si ribella alla ragione e grida furiosamente in cerca di aiuto, con un bisogno viscerale di riconquistare la propria identità.

Sicuramente appartengo al genere femminile e questo, almeno, è un primo punto fermo; ma posso dirlo solo perché, mentre cercavo di capire cosa diavolo mi stesse succedendo, ho notato la forma morbida del seno sotto le lenzuola. Con orrore crescente devo accettare l'angosciante verità di non sapere neppure quale sia il mio aspetto. Sono alta e slanciata? Bassa e grassa? Alta e grassa? Brutta, bella? Non posso assolutamente rispondermi. L'unica cosa che so, ora come ora, è di non potermi in alcun modo definire una maggiorata.

Non devo essere troppo vecchia; le mani, affusolate, mi sono sembrate morbide e lisce, troppo per appartenere a qualcuno entrato nella mezz'età. D'altra parte, al giorno d'oggi, esistono creme miracolose per ingannare il tempo.

Scuoto la testa, crucciando lo sguardo, incerta se entusiasmarmi per quello che, palesemente, è un primo, timido ricordo. So che siamo nel 2012, che è novembre e che esistono creme di bellezza. Non è molto, ma forse sta ad indicare come, con calma, stia riprendendo il controllo della mia mente.

Dovrebbe essere sabato, ma non posso darlo per scontato, visto che potrei aver perso conoscenza per un po'.

All'improvviso, un muro invalicabile di fiamme e fumo svetta con un crepitio furioso intorno a me, ma sparisce appena serro gli occhi, cercando di non ricominciare a gridare.

Deglutisco e vengo distratta dal desiderio elementare di un bicchiere d'acqua.

Lascio perdere la conta dei giorni della settimana e mi rendo conto, almeno, di ricordare che ne esistono sette, così come dodici sono i mesi dell'anno e quattro le stagioni.

Esistono il cielo e la terra, il giorno e la notte. La terra gira intorno al sole e fa parte di un sistema composto da altri sette pianeti. I continenti sono cinque. La capitale della Francia è Parigi e la Francia si trova in Europa.

Perché, tra tutte le città del mondo, ho pensato a Parigi?

Prima di perdere del tutto il controllo, cerco disperatamente di trovare, dentro di me, un frammento che possa appartenere al mio passato, visto che il presente mi appare incomprensibile.

Non ho nome, né cittadinanza, ma almeno dovrei avere una famiglia.

Ignorando il mal di testa, che rischia di farmi svenire, mi sforzo con tutta me stessa di riportare alla mente un dettaglio, una voce, un particolare anche insignificante di questa fondamentale istituzione della società umana.

Che senso ha ricordare che la famiglia è un insieme di persone affiliate da legami legali o di consanguineità, se, laddove dovrebbero trovarsi i volti di mio padre e mia madre, scorgo solo un inquietante pozzo di vuota tenebra?

Improvvisamente mi sento stanca, svuotata. Non so più cosa fare o come farlo.

Che senso ha svegliarsi da un incubo per cadere in uno peggiore?

Sono sola. Anzi, sono peggio che sola, perché non ho più nemmeno me stessa. Ho solo brandelli di nozioni inutili, su banalità quotidiane.

“Deve rimanere calma, signorina De Raven.”

Il basso sussurro dello sconosciuto non rompe il silenzio che mi circonda, ma infrange i miei pensieri.

Trattengo un brivido involontario. Non sono affatto sola.

L'uomo si è fatto più vicino o io mi sono abituata all'oscurità, perché adesso riesco a distinguere i suoi occhi, freddi, immoti, di un verde intenso, ma sgradevole.

Indossa un camice perfettamente stirato e senza macchie, probabilmente da infermiere, ma non riesco a trovarlo rassicurante, anzi, adesso che questo sconosciuto è vicino a me, l'idea di essere sola mi sembra stranamente auspicabile.

Si muove senza produrre alcun rumore, nonostante abbia un corpo tutt'altro che sottile, e i suoi gesti appaiano decisi, forti, per nulla delicati, mentre sistema alcune fialette dal contenuto irriconoscibile su un basso tavolinetto di plastica, vicino al letto. Mi sforzo di acuire l'udito, ma non avverto provenire da lui neanche il flebile soffio di un respiro; il suo silenzio è inquietante quanto la sua voce.

Per qualche attimo concentro tutta la mia attenzione sullo sconosciuto, anche perché, per quanto possa istintivamente trovarlo minaccioso, fa meno male osservare tratti e comportamenti che hanno motivo di essermi estranei, piuttosto che rimuginare su ciò che dovrei sapere, ma insiste a rimanermi oscuro. Ovviamente, se voglio prevenire un altro attacco di panico, devo anche evitare di riflettere sull'ovvia considerazione di non poter dare per certo che non abbia mai visto prima questo tizio: l'autoconvinzione è un'arma potente ed io sembro piuttosto brava ad esercitarla.

Non saprei inquadrarlo in un'età definita, potrebbe avere tra i trenta e i cinquant'anni. E' molto alto e ha spalle ampie, con braccia abbastanza muscolose da risultare troppo fasciate, nel camice, quasi ne avesse indossato uno che non gli appartenesse. A ben guardare, questo dettaglio aggiunge un'ulteriore motivo di allarme alla mia precedente apprensione. Sarò paranoica, ma mi permetterò di riderci su quando avrò una visione più chiara della mia situazione e, soprattutto, quando potrò muovermi liberamente in una stanza che mi risulti familiare, senza un individuo grosso come un armadio, con mani da pugile e profilo da falco, che mi girelli intorno armato di siringhe e farmaci strani, indossando quello che, se non è il suo abito da lavoro, è il costume più pericoloso che possa immaginare.

Lo guardo avvicinarsi al tubicino della flebo, cercando, assurdamente, di ritirarmi nell'angolo più lontano del letto e, nello stesso tempo, di turbarlo con quella che spero essere un'espressione minacciosa.

“Cosa mi è successo? Dove sono?” la voce mi esce a fatica dalla gola irritata e suona sgradevole persino alle mie orecchie. Con una punta di vanità, mi trovo a desiderare che sia solo un problema temporaneo, come se fosse una minuzia del genere, in questo momento, a dovermi far preoccupare.

“Che posto è questo?” adesso il tono è più deciso e più confortante. Odio apparire lagnosa o debole. E odio sentirmi impotente e sperduta; in pratica odio ogni sensazione che sto provando dal mio risveglio.

“Siete in una camera privata del Rothschild, signorina. Non dovete preoccuparvi.”

Sono veramente in ospedale, dunque. E quest'uomo, con ogni probabilità, è un vero infermiere. Dovrei sentirmi rassicurata, per quanto possibile, eppure, mentre si china per iniettare un liquido rosato nel flacone, continuo a pensare di non doverglielo permettere.

“Cosa mi è successo? Cos'è quella roba che mi sta somministrando?” gli afferro il braccio, con un movimento goffo, dovuto alla maledetta cinghia che ancora mi trattiene alle sbarre del letto. Stringo con forza la stoffa che sono riuscita ad afferrare, ben sapendo che non potrei davvero trattenerlo, se volesse liberarsi di me.

Questo minimo sforzo basta ad acuire il mal di testa fin quasi a farmi svenire, ma rifiuto ostinatamente di sdraiarmi e rimanere a guardare.

Sono piuttosto fiera della mia testardaggine, ma, concretamente, la mia ribellione viene del tutto ignorata e si rivela un inutile spreco di energie, perché, se pure quell'uomo infernale non scosta la mia mano con durezza, neanche sembra intenzionato a interrompere il suo operato o a mostrare un briciolo di comprensione.

“Cosa mi sta iniettando?” ripeto con voce troppo stridula per apparire risoluta.

“Soltanto un antidolorifico. Avete bisogno di riposare, signorina De Raven” una spiegazione neutra, fornita con voce tanto piatta da apparire falsa su quel volto granitico e totalmente imperscrutabile.

Non voglio che ripeta ancora quel nome. Non voglio sentirlo uscire da quelle labbra sottili, che si incurvano impercettibilmente in un sorriso sardonico, mentre lo pronunciano.

Non voglio che sia quest'uomo a darmi un'identità e acquisire potere su di me. Ma, soprattutto, in questo momento, non voglio essere sedata e perdere di nuovo coscienza. Così, visto che le buone maniere non sembrano sortire effetto, raccolgo tutta la mia determinazione e mi allungo verso la sua mano, infilando con decisione i denti nella sua pelle pallida e disgustosamente fredda.

Considerando più che pertinenti le osservazioni di una mia graditissima recensitrice (^_^), sto cercando di ricompattare e sfoltire un po' i capitoli di questa interminabile storia. Sul ricompattarli sto procedendo senza troppi problemi, ma per quanto riguarda lo sfoltirli... beh... non prometto niente! Sper che il risultato sia soddisfacente ^_^
  
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