Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: TangerGin    16/01/2014    5 recensioni
I suoi occhi sono del colore dell'asfalto mentre piove e chissà quante volte cadranno le sue ginocchia su quell'asfalto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Capitolo 1
Radioattivo


 
Sai, sono passati anche quei tre anni ma io lo ricordo ancora il giorno dopo.
Mi ero messa a sedere in fondo all’aula, nonostante fossi arrivata in orario, nonostante ci fossero Portia ed Andrew che mi facevano cenno di scendere da loro, in prima fila. E “Devo andare via prima”, mi scusavo, ma mentivo, e nel frattempo avevo un occhio per loro e l’altro fisso sulla porta.

 
A domattina, avevi scritto, a mezzanotte e diciassette.

C’è che quel giorno non mangiai per ventiquattr’ore, e la fame nemmeno la sentivo.
Se fossi stata diversa, me ne sarei quasi preoccupata, ma continuavo a ripensare a quello schermo del pc, e a quel messaggio nella chat e mi meravigliavo – ed in fondo ancora lo faccio – ed un po’ arrossivo, nel ripensare a quelle due ore.
“Non ci sono tante Vera che frequentano Archelogia” mi avevi risposto quando, come sempre sulla difensiva, ti avevo chiesto come avessi fatto a trovare il mio contatto.
Pensavo di averci visto male, quando vidi quella notifica. Che poi Facebook mi ha sempre messo paura, con quel bianco e blu, asettico: sembra un ospedale, e te l’ho detto quando mi hai scritto quel primo “Hey” seguito da uno smile.
Forse non avrei mai dovuto accettare quella richiesta, non per paura, ma per semplice voglia di osare. Avrei dovuto farti penare almeno un po’, almeno fin quando forse ne sarei stata in grado. Ma non sono mai stata forte né coraggiosa, e ora lo sappiamo entrambi, ed osare è un verbo che non mi è mai appartenuto.
Non so affrontare le emozioni, anche quando sono positive, anche quando hanno le tue curve e le tue intonazioni, lo sai. Lo sai che nella mia testa tutto si mescola in una rete confusa di ansia e tutti i colori diventano toni neutri e grigi, e per questo mi sentivo male e lo stomaco si chiudeva, quando leggevo quelle letterine nere che vibravano sullo schermo del pc.
Ti ho risposto subito, perché a farti attendere sentivo solo più sudore e tachicardia, e poi nemmeno me ne accorsi ma passarono due ore e tu mi dicevi sai vengo dal Galles e io allora capivo il perché del tuo accento assurdo; e mi raccontavi del trasloco a San Diego, di Mila che ti lascia e resti da solo; mi raccontavi della dubstep e io ti raccontavo dell’indie rock, mi raccontavi del tuo cinema demenziale, ma poi alla fine amavi anche i Fratelli Coen. Poi c’erano le tue frasi sconnesse che mi facevano aggrottare le sopracciglia e mi trovavo in difficoltà, perché ancora non riuscivo a decifrarle, e “Scusa, spesso non penso quando scrivo” mi dicevi, e poi ci aggiungevi come al solito uno smile, e tutti quei due punti seguiti da parentesi erano come proiettili. Boom, dritti nel mio cervello.
E poi lo ricordo che quando spensi il pc era già mezzanotte inoltrata e la mattina dopo c’era lezione, ma comunque sorridevo e preferivo non farlo. E ricordo che infilai come sempre le cuffie, prima di dormire, e il random fece parire Winter Winds, e scoppiai a ridere, ad alta voce. Perché "My head told my heart ‘let love grow’", cantava Marcus ed io mi concentravo solo su quella frase, ignorando volutamente il "but my heart told my head ‘this time no, this time no’" che segue. Forse perché il mio cuore, al tempo, non aveva più voce in capitolo, e io mi concentravo solo su ciò che diceva la testa. Perché io ci avevo provato, a dare ascolto al cuore, ed era finita male, con denti scheggiati, matite rotte e graffi sulla pelle. Se solo avessi ascoltato meglio le parole delle canzoni con le quali mi cullavo nel sonno, magari mi sarei resa conto che la testa non è affatto affidabile, tanto quanto non lo è il cuore.
 

Poi dopo due ore la lezione era finita, il mio quaderno era pieno di scarabocchi lasciati dalla penna nervosa, ed i miei sospiri erano pesanti. E continuavo a non avere fame, ma non mi piaceva mica come sensazione.
E poi la ricordo la serie infinita di offese che iniziai a ripetermi in testa, un po’ a me stessa, un po’ a te, un po’ al mondo intero e non me ne rendevo conto di star camminando fin troppo veloce per quei corridoi, con gli occhi bassi piantati sulle Oxford nere, e quando uscii era marzo ed è la California e non doveva far freddo, eppure c’era un vento che non mi aspettavo, e allora mi strinsi nel maglione scuro, e poi alzai gli occhi e c’era l’asfalto.
Asfalto strizzato in palpebre che sembravano dorate, è quello che ho visto, e la fame in quel momento nemmeno mi ricordavo come funzionasse, mi bastava solo il tuo asfalto.
“Indovina un po’? Ho ignorato la sveglia” e avevi le mani sotterrate nella stoffa dei jeans che sarebbero dovuti starti stretti, ma sei sempre stato troppo magro. Troppo effimero.
Scrollai le spalle, e “Non ti sei perso molto” e sapevo di mentire perché in realtà nemmeno io avevo idea di cosa mi fossi persa, in quelle due ore passate a cercarti dietro alla porta dell’aula.
Sì, me lo ricordo che ti accompagnai a pranzare, nonostante io non avessi fame e non ero riuscita nemmeno a finire quel sandwich che tu mi avevi costretta a comprare, perché lo stomaco era sempre serrato e perché forse ero troppo persa nell’osservare la tua bocca quando parlavi, le tue mani che si muovevano strane quando gesticolavi, ed il tuo naso che si arricciava e ancora dovevo capire se era disgusto o approvazione, quel ricciolo.
Tuttavia mi bastò quel pomeriggio assieme a te per imparare che i tuoi sorrisi seguono una precisa routine: prima negli occhi ti inizia uno sfarfallio (ed io sospiro), poi si socchiudono (ed il mio polmone destro smette di pompare aria), quindi le tue labbra si schiudono (ed il mio polmone sinistro smette di pompare aria) e poi, ad operazione conclusa, due fossette restano là, labili, fugaci, volubili cicatrici di quel sorriso che mi intasa gli alveoli e mi ottura l’anima, ogni volta.
Ogni santa volta.
Mi bastò quel pomeriggio assieme a te, seduti su quella panchina, mentre inspiravamo fumo e catrame, per capire che stavo rischiando davvero grosso, con te. Perché non ti conoscevo ancora, eppure lo sapevo già che quando mangi alterni bocconi piccoli a morsi da gigante, e bevi sempre un sacco d’acqua. Sapevo già che quando cammini sembra sempre che tu stia per perderti da un momento all’altro, e sapevo già che le tue ossa sono fini e le tue orecchie sono strane e che hai un viso che sembri un bambino capriccioso.
 
 
Poi, finalmente, la sera mangiai, ma non ne avevo voglia. Ero da Amanda, e c’era anche Parker e mi fissavano entrambe con smorfie soddisfatte, mentre addentavano quel pollo fritto che invece io mi limitavo a smangiucchiare e basta.
“Dovevamo vederci alle cinque e mezza, e sei arrivata alle otto” ribadì Parker, mentre sorseggiava della birra dalla bottiglia perché a versarla nel bicchiere perde tutto il suo aroma. Io le rubai la bottiglia di mano, mentre con l’altra mi dedicavo al pc che come sempre era adagiato accanto al mio piatto.
E “Cosa vuoi che ti risponda?” biascicai, con la bocca impastata dalla frittura e dalle bollicine frizzanti e quelle due sbuffavano come sempre, ma a me piaceva vederle sbuffare e stare sull’attenti.
“Che ne dici di dirci dove sei stata tutto il pomeriggio? E soprattutto con chi?” ribattè Amanda, anche se la risposta la conosceva già, la conoscevamo già tutte e tre.
“Con Silas” e bastò il tuo nome per far squittire le mie amiche che avranno avuto anche vent’anni, ed eravamo appena uscite dal liceo, ma sembravano essere tornate quattordicenni, come quando c’era George che passava per il corridoio la mattina e noi lo aspettavamo appollaiate sul bordo della finestra, per poi sfinirci di sospiri quando voltava l’angolo.
C’è che poi io non ce la fecevo più, ed iniziai a raccontare e mi rendevo conto di quanto concitate fossero le mie parole, e mi rendevo anche conto di quante volte arrotolavo la ciocca di capelli tra le mie dita, ma ero emozionata, ed ero nervosa, ed avevo ansia ma forse è un’ansia bella, mi disse Parker. Ma io mica ci credevo molto, all’ansia bella, ma mi lasciai convincere, ché poi era da quando ti avevo salutato sul tuo portone – ricordi? – che non facevo altro che ripensare alle tue smorfie, alla cadenza strana delle tue parole e alle tue esse che sibilavano e si infiltravano ovunque e sotto sotto non vedevo l’ora di parlarne con quelle due.
E poi la ricordo Amanda e “Quand’è che ce lo presenti?” esclamò, mentre intingeva quell’ultimo dito di pollo nella salsa barbecue ed io non sapevo rispondere. Perché avevo anche passato tutto il pomeriggio con te, ma le nostre erano parole vaghe, erano frasi lasciate a marinare tra l’ossigeno e l’idrogeno.
Non ci sono mai state promesse, tra di noi. Ed io, dopo nemmeno un giorno, l’avevo capito che da te non potevo aspettarmi promesse. Perché brillavi troppo, e alla fine ti scottavi anche da solo, e se mi avessi mai promesso qualcosa alla fine avresti deluso prima te stesso. Solo che tu questo non l’hai mai imparato e poi hai preferito le illusioni.
Quindi io non sapevo rispondere ad Amanda, perché non avevo mica il coraggio di chiederti di uscire, non avevo nemmeno il coraggio di presentarti ai miei amici, e forse me ne vergognavo pure. Quindi mi strinsi nelle spalle e alzai gli occhi al cielo e “Non appena mi chiederà di uscire, forse” risposi ad Amy, innescando così il coro di dai ma fatti avanti è ovvio che gli piaci cosa hai da perdere e blablablabla.
Se ci ripenso, avevo davvero tanto da perdere, e probabilmente è ciò che è successo.
Ma lì per lì non avevo il coraggio e un po’ mi andava bene così: era più facile nascondersi dietro alla paura e alle giustificazioni.
 
 
Le tue mani si confondevano quando ti rollavi le sigarette, ed il tabacco finiva sempre sul tavolino tondo del caffè dietro alla biblioteca. Mi raccontavi di Cardiff, del mare di Cardiff, di tua sorella Rose, degli Animal Collective.
Erano le tue frasi spezzate e mai finite che iniziarono a dettare le mie giornate senza che io me ne rendessi conto. Erano i tuoi “a domani” mai mantenuti ed i miei squilli senza risposta. Il problema è che avrei dovuto dirtelo, avrei dovuto offendermi, ma poi vedevo le tue labbra e le tue sigarette e mi sentivo quasi in dovere di tacere.
 
Quando poi mi hai chiesto di uscire, quella sera, stava piovendo, ricordi?, ed io stavo già per indossare il pigiama.
Avevamo incontrato Parker, al solito pub, ed era assieme a Spike e chissà perché avevamo deciso di bere quella caraffa di Long Island in quattro e forse non era stata mica una grande idea, ma erano le tue dita che mi sfioravano la schiena a scandire le regole del gioco. Ad ogni tocco corrispondeva un sorriso, ad ogni sorriso un battito, e più la vodka, il gin, il rum e la tequila scendevano giù, più i battiti, i sorrisi ed i tocchi diventvano frequenti.
Poi c'è Parker che scompare, e probabilmente lo ha fatto anche apposta, ma io nemmeno me n'ero resa conto, ormai non mi interessava molto. Esistevano solo i tuoi occhiali perché la sera ci vedo peggio e “Andiamo a casa” e poi mi hai preso la mano, te lo ricordi? Ero a sedere sul marciapiede, con le ginocchia unite contro il freddo ma il mento alzato perché non potevo, proprio non ci riuscivo a non guardarti mentre parlavi, o mentre bevevi, o mentre stavi zitto.
Quando poi ero salita sul portapacchi della tua bicicletta, ed ogni buca della strada si schiantava contro la mia spina dorsale, io vedevo solo le tue spalle che si contraevano ad ogni frenata, ed i tuoi capelli immobili, perché non c’era vento ma non faceva nemmeno caldo. E mi piacevano davvero tanto le tue spalle.
 
Succede che poi alla fine ci siamo incontrati, su quella linea che divide la mattina dalla notte che tu chiami altrove, e stavi sogghignando ed eri vicino un palmo di naso, e quella è stata la prima volta in cui ho scoperto il tuo neo sul sopracciglio destro ed è mai possibile che mi piacesse da morire anche quello? Che poi era davvero buio, ed il buio fa paura, ed in effetti ne avevo e bracollavo e traballavo ma tu nemmeno te ne rendevi conto. Dei miei brividi, e delle mie storte non ti sei mai curato, ma so che non l’hai fatto con cattiveria. Non ce n’è mai stata nelle tue azioni, adesso lo so.
Non te ne rendevi conto, e quando mi biascicavi quella serie di lettere nell’orecchio, che suonavano tanto come un “non ti credevo possibile, ma sei qua” io pensavo che fosse il mio cuore a parlare e non la tua bocca, e forse ho sentito male, pensavo, e forse me la sto sognando quella curva di labbra contro l’angolo della mia bocca rossa e viola per l’alcool.
Ma i tuoi baci non sono mai stati dei sogni, erano fumo e radioattività.

 
 
 

~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 
 
Ho capito che questi angoli autrice mi mettono in soggezione. Soprattutto in questo caso, con questa original.
Quindi insomma, a voi la parola. 
Però grazie per seguire 'sta storia, non vi immaginate neanche quanto sia importante. O forse sì, ormai ve lo siete immaginato anche da sole, non siete mica stupide.
Un po' vi adoro♥
Gin~
banner © xxl

 
 




 
 
   
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: TangerGin