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Autore: Heronstark    22/01/2014    5 recensioni
Una ragazza spezzata e un ragazzo con mani di seta. Un amore contro la ragione,
"Un'intensa fitta alla testa mi riscosse e dovetti richiudere gli occhi. Il dolore aumentava, sembrava eterno. Una lama rovente che si rigirava nel mio cervello, mille aghi sulle pelle.
La luce del sole era più calda, più rovente.
E iniziai a bruciare."
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi, con questo nuovo capitolo!
Spero vi piacca, e, vi prego, vi prego, lasciate una recensione.

 

Keep it
 

 

Non bruciavo più, e fuori il cielo era blu notte. Nessuna luce mi riscaldava il viso e avevo dolori in tutto il corpo. Un flebo partiva dal mio braccio sinistro per scomparire dentro ad un sacchetto di liquido.

Una macchina di fianco a me continuava a fare bip,bip,bip. Sembrava non volersi fermare.

Perché dopotutto, il mio cuore non s'era fermato. Ero viva.

Cercai di girare la testa, e mi accorsi di avere un collarino, come quelli dei cani, per intenderci.

Mugolando per il dolore, me lo slacciai, gettandolo sul pavimento di moquette dell'ospedale. Cercai di tirarmi su a sedere, riuscendo a muovermi solo di un paio di centimetri. Le lenzuola del letto erano sottili come cartapesta, mentre la coperta posata sopra era pesante e calda, azzurro cielo.

Una leggera pioggerellina picchiava sul vetro. Ebbi un brivido, ricordando l'incidente. Chiusi gli occhi, stringendo il lenzuolo con tutta la mia forza.

Ricordavo tutto, fino allo schianto. Poi era solo una macchia confusa. Schegge di verde e nero e oro, e una parola.

Scusami.”

“Scusami.” Mormorai. Mi sembrava famigliare quella parola, come una canzone ascoltata per migliaia di volte.

Un'infermiera entrò nella mia stanza, con una cartelletta alla mano. Storse il naso appena vide che mi ero tolta il collarino, ma non disse nulla.

Loro non mi possono controllare, pensai. Sono anch'io Divergente.

Non prendetemi per matta, ma io adoro leggere, e non voglio che i libri restino libri. Voglio che i libri siano miei, entrino nella mia vita, voglio che facciano parte di essa.

Mi sentivo un po' Tris, in quel momento, ma il mio coraggio scemò appena l'infermiera iniziò a farmi il terzo grado.

“Ricordi come ti chiami?” Mi chiese.

Rimasi leggermente sbigottita. “Certo che sì.”

Lei mi guardò, alzando un sopracciglio, in attesa.

Sbuffai. “Daenerys Targaryen.”

Lei mi guardò abbastanza perplessa.

“Dove sono i miei draghi?!” Esclamai, ridendo.

Non so come feci a ridere in quel momento, non sapendo come stavano i miei amici. Forse era la tensione accumulata dopo l'incidente, forse era un modo per sfogarmi.

L'infermiera si era visibilmente spazientita. “Hai un leggero trauma cranico, e potresti aver perso la memoria. Niente di duraturo, in caso, ritornerà fra qualche ora. Ora, ti ricordi il tuo nome?”

“Lis, Lis Adams.”

Quando ti ritrovi con una madre cento per cento russa e un padre cento per cento americano, scopri che il russo e l'inglese, in fatto di nomi, non collaborano.

Specialmente, perché potresti ritrovarti con un nome tipo Yelisabeta Adams. Perlomeno il diminutivo era carino.

Mi fece un altro paio di domande e, dopo aver constato che non avessi perso nessuna nozione fondamentale della mia esistenza, vece entrare mio padre.

Papà non era il papà che molti di voi hanno, con un abito elegante e che magari lavora in banca. Papà è un operaio che adora la sue figlie (me e mia sorella), con una zazzera di capelli mori e con un sorriso sempre pronto sulle labbra. Papà si accontent di cose semplici.

E, in quel momento, papà era molto arrabbiato.

“Cosa ti è saltato in mente?!” Disse, cercando di restare calmo. L'infermiera scosse la testa e uscì, pensando che stavo abbastanza bene da affrontare una discussione famigliare. “Potevi morire, Dio mio!” Mi venne incontro e mi abbracciò forte, stringendomi a sé. Ahi.

Mi doleva tutta il corpo, lividi qui, lividi là. Tatiana era dietro papà, alta, sebbene avesse solo otto anni, e anche molto intelligente.

Nelle breve discussione che ci scambiammo, scoprì che avevo dormito per circa 18 ore, avevo un lieve trauma cranico e vari ematomi in tutto il corpo, per vi dell'impatto sull'asfalto. I miei amici stavano bene, sebbene Ken si sia rotto un braccio.

Non sapevo come sentirmi, a quella notizia...sollevata? Non erano poi veri amici, quelli. Era che, per una sera, non volevo rimanere in casa a fare l'asociale. Volevo uscire, divertirmi, svagarmi. I veri amici mi aspettavano a scuola, James e Cass, con i loro sorrisi e con le loro pacche sulle spalle.

 

La mattina seguente.

 

“Al diavolo!” Dissi, togliendomi dei fili dal corpo. Evidentemente dovevano misurarmi il battito cardiaco, perché appena li tolsi la macchina lì a fianco cominciò a emettere un biiiiip ininterrotto. Avevo chiesto un caffè, ad un'infermiera che sembrava più gentile di quella di ieri sera, ma erano passati quaranta minuti ed io ero ancora qui, ad aspettare. Per cui avevo deciso di fare per conto mio.

Mio padre mi aveva portato dei vestiti, che avevo indossato questa mattina.

Leggins neri, la mia dorata maglia lunga griga con scritto “I believe in Sherlock” e un paio di Vans malandate, color antracite.

Uscendo dalla mia stanza, sentendomi un po' come una fuggitiva, raggiunsi il Caffè che c'era nella hall dell'ospedale, che avevo scoperto si chiamava St. Clar.

La sfortuna volle che, dopo aver preso il mio caffè doppio con miele, inciampai nei miei stessi piedi.

Immaginatevi la scena; ero lì in piedi, con in mano il caffè, e girandomi inciampo, rovesciandone tutte il contenuto sulla maglietta di un povero sventurato che passava lì in quel momento.

I nostri sguardi si legarono.

“Scusami,” sussurrai.

 

  
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