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Autore: Pachiderma Anarchico    23/06/2014    1 recensioni
"Le persone che hanno sofferto sono le più pericolose, perché pur temendo il dolore conoscono la loro forza e sanno come sconfiggerlo. La loro paura è pari al loro coraggio. Non si fermeranno di fronte a niente e nessuno e sapranno ingoiare tutte le lacrime, sapranno alzarsi dopo aver toccato il fondo. Chi ha sofferto ha un cuore grande perché conosce il bene e conosce il male e ha rinchiuso in se tutto l'amore e il dolore. Sapranno sempre allungare una mano per fare una carezza e trovare una parola per confortarti, ma non sottovalutarle mai, perché sapranno ucciderti nel momento in cui tu cercherai di farlo con loro."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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Che dire, un grazie forte a tutti coloro i quali leggono questa fic. 
Potrebbero esserci degli errori, ma voi perdonerete queste piccolezze inconfronto agli scempi che ho scritto, vero?
Pachiderma Anarchico
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CAP. 8

 

 

La mente è troppo complessa per poter essere un semplice connubio di cellule celebrali. E' una sinfonia di immagini, sentori, ricordi, voci, attimi. Macchina perfetta e, come tutte le cose perfette, affatto priva di imperfezioni. Facilmente può ingannare, facilmente più essere ingannata. Da vita a cose che non ci sono, inculca paure che non esistono, ripete per giorni e giorni, ore e ore, minuti e minuti, con la devozione di preghiere, latanie che hanno il sapore di condanne, e induce a credervi. Boicottare un qualcosa di forte come la mente è facile come attuare un colpo di stato. Lo stato sembra un'entità di immenso potere, e forse lo è davvero, ma basta dare un lieve, impercettibile sussulto a una delle instabili colonne che lo sorreggono per crollare come castelli di carta. E la mente, proprio a causa del potere che esercita, non fa eccezione. 
Sarebbe incredibilmente comodo, adesso, sollevare la tazza di the e convincersi di averlo solo immaginato. Un'illusione, una visione, un'immaginazione. Tutto qua. 
Ma certe cose non si possono "solo" immaginare, su certe cose neanche un sistema tanto delicato può confondersi. I fremiti sotto pelle nè sono la prova certa. Non mi sono sbagliato. I miei occhi lo hanno visto davvero, quel bagliore di un rosa troppo vivo. Il cuore ha davvero raggiunto le tempie quando le mie pupille hanno scorto qualcosa di estraneo alla monotonia dei palazzi ma di troppo familiare al sottoscritto.
Il rosa si contrappone ai raggi d'oro del sole che penetra la finestra della cucina e si riversa sul tavolo, rivelando piccoli cristalli scintillanti nell'aria. La tazza sfiora le mie labbra e so di avere ragione, e mi piace darmi ragione, mi consola, in un certo senso, sapere che almeno ho in pugno la definizione di ciò che mi vortica attorno. Eppure questa volta forse avrei voluto sbagliarmi. Avere ragione ha un prezzo, quello della verità. Perché se è vero che la mente era perfettamente lucida, se è vero che gli occhi erano perfettamente sobri, allora la verità è che non esisteva solo un sfavillio rosa dietro quell'angolo, ma anche due occhi di ghiaccio, un paio di labbra del colore delle orchidee, il mio più grande sbaglio, probabilmente l'unico che rifarei. La stanza gira, caotica, nel mezzo di un secondo, e con lei la percezione della realtà. Un capogiro improvviso al solo pensiero che, dietro un computer, ci stava davvero qualcuno, qualcuno che respirava, parlava, camminava, piangeva, urlava, rideva.. Qualcuno come me. 
Alzo appena lo sguardo giusto per concedermi la visione dell'entrata di mia madre, seguita da quella di mio padre. Neanche si guardano più, quei due. E il mondo in cui sono immerso fino al collo ancora persiste nel convincersi che non si è rotto qualcosa di assolutamente fondamentale nella finzione di cui ci beavamo quando mi sono ucciso. O quasi, ucciso.
Spesso non riesco nemmeno a distinguere la morte da quello che sono ora, volentieri la mente non si cura di scindere il "sono" dal "quasi", e io mi ritrovo a osservare con la coda dell'occhio mia madre che, in un tailleur grigio fumo, da le spalle a mio padre, in uno dei suoi completi gessati verde smeraldo, che sembra non riuscire a rassegnarsi al muro che la donna che dice di amare ha eretto per tenerlo lontano. Mi dispiace, in un certo senso, sotto una certa luce, ma è un dispiacere privo, scialbo, grigio come la giacca di Beata Santorski perché non posso piangere altri morti. 
La piccola pasticca bianca che sollevo tra l'indice e il pollice sembra così familiare da mozzarmi il respiro. Non ricordo perché me la sto gettando in gola, tra antidepressivi, pillole per l'insonnia, sedativi e la visita a quella bellezza che è l'ospedale due volte a settimana non so neanche che ci faccio ancora qui. Per chi sto resistendo? Per cosa? E' sempre un campo di battaglia, sempre al confine fra due mondi, e, anche dopo essermi giocato tutto, la domanda insiste nell'essere comunque la stessa. Con chi schierarsi? Per chi combattere? Per la realtà, o per ciò che fingiamo che sia? Per la luce, che ci decora delle sue ombre, o per il buio, che ci rende liberi? Per la paura, con la quale ci proteggiamo dai rischi del superare quel sottile confine tra quello che siamo e quello che non dovremmo essere, o per il coraggio, capace di troppo?
Ovunque mi volti, verso qualunque direzione, non sembra esserci una via giusta da percorrere, non sembra esserci salvezza, né condanna, ma solo questo tempo sospeso nel mezzo di ciò che è giusto e ciò che è facile. 
E non sono tagliato per scegliere le cose facili.
Voglio quel rosa. Voglio quel rosa nonostante tutto, voglio quel rosa nonostante questo, lo voglio anche se una linea sull'interno  dell'avambraccio mi ricorda che non dovrei volerlo, lo voglio pure se il contratto con l'inferno l'ho stipulato grazie a lui, voglio quel rosa, voglio sentire tra le mie mani che è reale, che c'era davvero, che non è stato tutto un incubo, che qualcuno era davvero lì, accanto  a me, anche se attraverso uno schermo. 
Le nocche sbiancano, la tazza potrebbe disintegrassi tra le mie dita, c'è qualcosa che non quadra. 
Non desidero che lei da giorni, settimane, dal momento in cui ho rivisto la luce, forse anche da prima, e non ho bramato altro per giorni se non un computer, un cellulare, un tablet, un mezzo che potesse connettermi con lei. In un lampo di un secondo intravedo quel rosa, più vicino di quanto sia mai stato, deglutisco e improvvisamente non ricordo bene come si cammini e.. l'oro di questo maledetto sole non mi lascia fottutamente in pace. Ha raggiunto il dorso della mano, stretta ancora convulsamente intorno all'ormai amata tazza, e disegna strisce brillanti sulla pelle già fin troppo chiara. 
E se il rosa stesse lottando con l'oro? Per un attimo ci credo. 
Per un momento ci penso, al sole, che è così caldo..avvolgente.. Ma non è possibile. Se lo guardi ti abbagli, se ti avvicini ti bruci. Il sole va osservato da lontano, ammirato a distanza di sicurezza, la sicurezza che lui non ti darà mai.
Mentre il rosa..
Il rosa è distrutto come te. Annientato come te. Disilluso come te. Morto. Come me.
E sanguinante.
E nel frattempo il sole può ammantare la tua pelle d'oro, del suo oro, o arderti addosso fino a ucciderti. E se devo morire, preferisco farlo con le mie mani. Anzi. Con le mani di quel rosa.

 

***

 

Il sabato è troppo atteso per i miei gusti. Un giorno come un altro, ma che per i giovani significa stare svegli fino a quando ti reggi in piedi imbottendoti di alcol fino a che non ricorderai neanche il tuo nome. E l'Ocelot sembra il posto perfetto per fare entrambe le cose nel migliore dei modi, ragion per cui devo spintonare la carcassa di gente all'entrata per crearmi un varco e addentrarmi nel locale. Grande, spazioso, a metà fra un pub rustico e una discoteca ultra moderna, intricati disegni sulle pareti di felini che dovrebbero essere gattopardi e il suono della musica martellante da lato della discoteca. Per mia fortuna un'ala sperata da quella del bar considerando che quella gran testa del DJ ha fatto partire una pura e inconfondibile canzone tecno. 
Potrei andarmene seduta stante. 
E forse l'avrei anche fatto se un braccio intorno al mio non avesse diminuito nettamente le mie probabilità di fuga. 
-Davvero mi hai portato in un posto dove prediligono quella musica?-
-Eccolo qua il mio critico preferito- esordisce Sandra tenendomi saldamente attaccato a lei. -Finalmente, aggiungerei.-

Mi guida, o per meglio dire, trascina fino ad un tavolo dove riconosco qualche faccia del suo gruppo e altri che non ho mai visto in sua compagnia. Li conosco tutti, almeno di vista e forse anche di nome. Se devo essere totalmente sincero non mi interessa l'identità di tutte quelle persone, sono qui solo perché ancora non sono arrivato allo step "divento un monaco", ma direi che non mi sto allontanando moltissimo dalla possibilità. Vorrei essere dovunque ma non dinnanzi a un gruppo di una quindicina di umani che mi guardano come se fossi un.. principe o qualcosa del genere che li ha degnati occasionalmente della sua presenza. 

Ehi gente, sono un comune mortale, come tutti gli altri… okay forse con un po' di sale in zucca in più degli altri, ma non c'è bisogno di stendere il tappeto rosso al mio passaggio. 
E' questa l'impressione che davo quando la mia compagnia era ben altra? Non lo voglio il tappeto rosso, non l'ho mai voluto. 
Mi siedo sul divano circolare attorno al tavolo rispondendo a qualche saluto o cenno del viso. 
Capito fra Dawid e una rossa che deve essere la tizia che.. Ma si, è lei, colei che ha fatto parlare per due settimane mezza scuola ininterrottamente grazie a una prestazione avuta con Samuel Kowaski nei bagni. E ricordo perfettamente come l'accaduto finì dentro i canali uditivi e sulla bocca di tutti in 24 ore. Samuel, da galantuomo per niente esibizionista, aveva riferito il "lavoretto" al suo miglior fratello, o come amano definirsi, niente poco di meno che Aleksander, e, prevedibilmente, in neanche un giorno, anche gli alieni su Marte sapevano dello scottante pettegolezzo. Non capirò mai come si fa a parlare per quattordici giorni di fila di una cosa che, nel buio delle loro camere, hanno fatto tutti, compiacendosene anche.
Ma ho imparato a mie spese che se un qualcosa diventa di dominio pubblico, non importa quanto banale essa sia, risulterà improvvisamente scandalosa, terribile, volgare, succulenta, o, come direbbe la mia accompagnatrice del ballo, "che ha dell'incredibile".
Seguo a stento gli stralci di conversazioni nella baraonda intorno a me, parole che compaiono nell'aria e, velocemente come si manifestano, svaniscono nelle flebili correnti di vento che scaturiscono dall'apri-chiudi della porta. 
-Quei capelli ti stanno..-
"Uno schifo."
-Esami, gente che cos..-
"Me ne frego."
-Genitori sono usciti di senno..- 
"Non solo i tuoi".
-No..Davvero??-
"No ti sta palesemente prendendo per il culo."
-..e pensare che era una così brava ragazza..-
"Si aspirava due dosi invece di tre?"
-Vado a prendere da bere.- mi alzo con la velocità di un velociraptor in corsa.
-Ma no sciocchino- risolino -tanto viene il cameriere.-
Non so se avete presente Linda Blair, la ragazzina indemoniata dell'Esorcista, in quella caratteristica scena in cui volta la testa di lato con assassina lentezza mentre i suoi occhi emanano scintille di luciferino fuoco. Ecco, prendete quella scena, sostituite alla faccia orribilmente sfigurata della Blair una con due labbra strette in una linea di ferreo marmo e due occhi azzurri venati dalla perversa voglia di strangolare quell'immonda diciottenne sul posto. 
"Sciocchino?!"
Mi risiedo, scioccato, sconvolto, disgustato. Avverto ancora tra gli spossati neuroni celebrali quella risata, simile a un tintinnio acuto di forchette battute su bicchieri di cristallo. Sento il bisogno impellente di suicidarmi. Nel senso letterale del termine.
Le frasi diventano sempre più brevi, i gesti sempre più articolati, le risate si innalzano notevolmente di volume e si abbassano di lucidità. 
Sono appena le undici e già una buona parte degli ospiti dell'Ocelot è sul confine della sbronza. 
-Allora Dominik, come te la sei spassata nel mese in cui non ti sei fatto vedere a scuola?-
Volgo gli occhi verso la fonte di quella voce, un ragazzo con due spalle larghe quanto un armadio a tre ante e i capelli rossicci sbarazzini sul volto. Il viso è gentile, la voce disinteressata, non sembra neanche lontanamente supporre come io me la sia "spassata". Non ha idea di quanti segreti si porta dietro una domanda vestita di banalità, quanto dolore c'è dietro alla mia assenza dal luogo che ho considerato il mio inferno personale. E lo considero ancora come tale, solo che ho imparato a nuotare tra le fiamme, ad immergermici fino alla punta dei capelli, neri come le pareti di quell'inferno, giusto perché ormai mi sono bruciato così tanto che il fuoco non può far più niente. E' quello che può fare dentro che mi inquieta.
E no, Ronald Wesley, non ho intenzione di rispondere alla tua domanda.
-Dovevo prendermi una pausa..questi esami..- sospiro. Teatralmente.
-Già, dicono che saranno..-
-L'anno scorso..-
-Mio fratello ha dovuto..-
Prevedibile quanto una falena attratta dalla luce. Inserisco tra le parole una che richiama gli interessi attuali di tutti i presenti e l'attenzione è sfocata dal sottoscritto prima che il boccale della bottiglia arrivasse alle mie labbra.  
Alcune facce mi stanno ancora osservando con circospezione, come se potessi prendere una calibro 4 da un momento all'altro e puntargliela contro. Devo ammettere che ho desiderato davvero conficcarvi una pallottola in testa una volta, ma non lo avrei fatto. 
-Dopo quell'entrata.. Ti ricordi la tua entrata di un mese fa Dominik..Dom, posso chiamarti Dom?- meglio se non mi chiami affatto. -Sembravi.. sembravi uno dei Satyricon appena uscito da un video dei Suicidal Tendencies.-
Sorrido. Non posso fare altro. Sorrido regalando all'elettrizzato ragazzo che ho difronte la mia miglior espressione divertita, nel senso amaro del termine, ma sinceramente divertita. Il tizio che mi guarda come se fossi il suo idolo ha i capelli più neri dei miei, se è possibile, e un ciuffo perfettamente liscio che gli ricade dal lato destro del viso, coprendogli l'occhio. E' chiaramente una tinta quella della sua chioma, che non risalta particolarmente sulla sua pelle tendente all'ambrato, non importa quanti vestiti color dell'ebano si spalmi addosso.
Mi sento vagamente copiato. 
-E' stato tipo.. BOOM!-
Saltiamo. 
Perché' al "boom" i nostri glutei prendono il volo per una frazione di secondo in stile aerodinamico, mentre la mia espressiva e ben irritata arcata sopracciliare non sa più che altezze raggiungere per dimostrare tutto il suo disappunto.
-Bang, era più Bang quell'entrata.-
Non vi avrei conficcato una pallottola in testa, ma probabilmente al possessore delle corde vocali che hanno liberato una voce tanto..fastidiosamente sicura, le cervella gliele avrei trapassate eccome. 
Stendete quel tappeto rosso signori e signore, perché sta passando.
Le quindici persone di un secondo prima sono un ricordo guardando in faccia l'accozzaglia di anime che si è accalcata sul nostro tavolo. A colpo d'occhio gli individui saranno una trentina dei quali la metà è già ubriaca fradicia e l'altra è sul punto di diventarlo.
E la scena è fin troppo familiare, quando mi arriva una bottiglia di birra tra le mani il senso di claustrofobia la segue a ruota.
Ho presenze che mi spingono, premono sui fianchi, urtano la schiena, stese sul lungo schienale blu notte del divano o con una natica in bilico su un bracciolo. Respiri sul collo, aria accaldata, alcol che gira e tiri rubati alle sigarette nascoste sotto il tavolo.
Claustrofobia.
Non tollero la vicinanza eccessiva, specie se di dieci persone in combo, e la  porta aperta non serve ad alleggerire l'aria, densa di risate sonore e schiamazzi altisonanti. 
E' un fastidioso, irritante, indicibile dejavù che perseguita la mia incerta e mal ritrovata stabilità mentale vedere Karolina a due persone da me briosamente andata nella vodka che sorregge in mano e Magda praticamente spalmata contro la mia spalla sinistra.
Vedo con chiarezza inconfessabile due cose: la bottiglia vuota al centro del tavolo che gira ormai da diversi minuti e gli occhi bronzo scuro di chi mi è praticamente davanti. Se non ci fosse un tavolo della portata di dieci vassoi in mezzo a noi, ci staremmo guardando negli occhi. 
Ma lui non mi guarda, saetta le sue iridi come una pallina da ping pong troppo veloce da un lato all'altro, la stra-potenza sul volto e la leader ship nei movimenti. 
E mentre io affondo, lui sembra salire sempre più in alto.
Il respiro è sottile, superficiale nell'ossigeno che non vuole raggiungere i polmoni, la musica è martellante, fa tremare le pareti, una bottiglia bacia il suolo, frantumandosi in mille pezzi di vetro. 
Perché non mi guardi?
Dieci giri.
Salvami.
Venti giri.
Perché sto cadendo.
Quaranta giri. 
Il boccale è rivolto verso di me, la bottiglia sul tavolo mi sfida nella sua posizione letale, indica il mio corpo come una freccia centra il bersaglio. 
Neanche mi ero reso conto che stavano "giocando". 
Ma non stanno giocando.
E' un tiro di dadi in cui le probabilità che escano due sei sono quasi nulle.  

 

 

***

 

Non ti guardo, non ti guardo neanche quando la bottiglia, alla fine della sua folle corsa, sceglie te, non ti guardo quando ti indicano con dita e cenni del capo, non ti guardo neanche quando qualcuno deride a voce troppo alta la tua mancanza di audacia, sicuro che ti rifiuterai, sicuro che te ne starai zitto e buono con la coda tra le gambe. 
Ma quando pronunciano il tuo nome, devo farlo.
Illusi.
Credono davvero che tu non abbia il coraggio di farlo? 
Sono bravo a mentire a me stesso, ma non posso ignorare la sensazione che provo quando il turchese dei tuoi occhi che imploravano il mio aiuto un attimo fa, si solleva, tagliente, dalla bottiglia al resto del gruppo. 
E adesso sei tu a non guardarmi.
E ancora c'è qualcuno che ti reputa un codardo. 
E non riesco a decifrare le scritte impresse sulle pareti della mia mente, perché non reputi anch'io la stessa cosa. 
Da dove deriva la sensazione che il coraggio che ti marchia a fuoco negli occhi sia molto più del flebile cerino che dai a vedere?
Il verde della bottiglia di birra punta ancora la tua figura, immobile, dritta. Stai soffocando dentro, lo so, lo sento, ma sei una statua di deserto ghiacciato fuori.
Sei bravo ad indossare maschere Dominik, quasi quanto me.
L'unica cosa che non potrai mai nascondere è quel cerino in quelle iridi blu, che si sta trasformando in una fiamma. 
Piccola, ma rischiosa.
La vedo limpidamente, la punta di fuoco che guizza leggiadra nel tuo sguardo quando lasci che si incontri con il mio. 
Un innocente gioco per passare il tempo sotto l'effetto dell'alcool, è questo tutto ciò che sembra questa serata. Ma tu sai che non è così, io so che non è così,
infondo tutti sanno che non è così.
E' una pericolosa partita a scacchi senza schieramenti, solo infime alleanze, in cui chiunque può essere mangiato.
E questa potrebbe essere una mossa vincente, o l'ennesima disfatta.
I tuoi occhi decidono di solcare i miei, ma il tuo azzurro non si lega col mio bronzo. Tu non glielo permetti.
E sei arrabbiato, ecco perché quella fiammella sta diventando fiamma, e sei incazzato, così si spiegano le scintille di sfida che emana ogni millimetro del tuo viso. 
Non lo farai. Non devi dimostrare niente a nessuno. Non lo farai.
Cerca di capirmi, non posso essere mangiato, non posso perdere questa partita, non dopo tutto ciò che ho fatto per far si che il mondo credesse che sia qualcuno che non può essere sfiorato, toccato o sconfitto.
Non si tratta di essere bianchi o neri, alfieri o cavalli, pedoni o regine, torri o re, si tratta di sopravvivere, perché non lo compendi? 
Vorrei fermarlo, e forse potrei anche farlo, ma me ne sto seduto qui, impalato, ad osservare la fiamma diventare fuoco davanti a me. E la mia affermazione si tramuta in supplica prima che me ne renda conto, prima che possa imporre al mio subconscio di riportare tutto all'ordine, sto sperando, pregando che quel fuoco non sia indirizzato a me, che il tuo coraggio non si dimostrerà distruttivo come temo.
Ma a pensare male non si sbaglia mai.
Non lo fare, non lo fare, non lo fare..non lo fare..
Ma l'hai già fatto.
Imprevedibile come vento, inafferrabile come fumo, mi sfuggi dalle mani come neve al sole, non cogli il messaggio che ho tentato in tutti i modi di lanciarti, o forse non ti interessa.
La tua mano e tra i suoi capelli prima che le mie palpebre sbattano una seconda volta, la tua bocca è sulla sua prima che che le cose sfuggano al mio controllo. Quelle labbra, le tue, su quelle di Magda. Su quelle di qualcun altro
E non lo tollero.
La tiri a te con violenza, con rabbia e il tuo rancore per averti volutamente ignorato come se non ti conoscessi brucia e brucia incredibilmente bene. Mi brucia in gola, mi fischia nelle orecchie, contrae la bocca dello stomaco. Le tue labbra mi stanno facendo un dispetto, uno di quei colpi di scena che ho visto troppe e troppe volte nella mia mente, con stizza crescente. 
E la realtà supera di gran lunga l'immaginazione. 
Perché non è stizza, quella che provo con atroce intensità in questo momento, non è disappunto quello che mi offusca la vista, non è contrarietà quell'irrefrenabile voglia di alzarmi e spingere bruscamente lei lontano da te, o prendere te per i capelli e inculcarti in quella testolina mora che non puoi farmi questo. 
E' gelosia.
Mi alzo. Mi allontano. Spingo la porta del locale. Mi inoltro nella notte.
Il buio sa di fresco, le ciocche scomposte dei capelli ondeggiano al ritmo del lieve vento che permette alla mente di prostrarsi sotto il dominio e alle membra di sciogliersi dalle contrazioni in cui le ho costrette. 
L'ondata di risentimento però, sembra non voglia abbandonare il mio corpo, fatta della stessa sostanza del sangue. 
Rivedo davanti agli occhi l'attimo in cui quello sguardo più grezzo dello zaffiro è scivolato via da me e, con una repentinità imprevedibile, hai avvicinato Magda a te. E in quell'attimo so che sono stato sconfitto, mangiato sulla scacchiera della vita da una pedina comparsa dal nulla che non combatte nè per i neri nè tantomeno per i bianchi. Combatte per se stessa. Più densa dell'oscurità, selvaggia come un cavallo nero dagli occhi di cielo. 
Molto probabilmente più tardi confesserò che è stato il contatto con Magda ad avermi urtato. Perché cazzo dovrebbe essere così. Una sigaretta finisce prevedibilmente nella mia bocca. La fiamma ondeggia al vento, la tua non ha vacillato neanche per un momento. 
Tu non sai, non immagini neanche quanto mi infastidisca tutto questo, vederti sulla mia strada ogni volta che svolto un angolo e fermarmi perché semplicemente non riesco a passare oltre. 
Gli altri parlano di me, cercano di entrare nella mia testa, sono convinti di conoscermi.. E poi ci sei tu. 
Tu che sei in bilico tra la caparbia certezza che sono solo ciò che sembro, e l'ingombrante sospetto che sto recitando una parte di uno spettacolo che non mi piace più, tu, sul confine dei tuoi occhi che mi guardano come se non potessero vivere di nient'altro o mi trafiggono come se vorrebbero essere posati su qualunque cosa tranne che su di me. 
Devo coprire la punta della sigaretta con la mano per evirare che il vento la spenga e vorrei sbatterti al muro, credimi, vorrei farti male, molto male perché non puoi sconvolgere di punto in bianco i rassicuranti colori della mia esistenza imbrattandoli del tuo nero, non voglio l'oscurità, sono fatto per stare nella luce, sotto ai raggi più intensi del sole più forte, quale scellerata partita a scacchi stiamo giocando? 
Io sono il re, sono il più importante, rispettato, temuto, inspiro ossigeno ed espiro oro, ma tu sei la regina, fai quello che vuoi, quando vuoi, come vuoi, non detti ordini ma nessuno può dartene. E questo ti rende pericoloso, incontrollabile, e forse neanche lo sai fino in fondo cosa le tue labbra incatenate a labbra che non sono le mie mi abbia scatenato dentro, nelle viscere dell'orgoglio, negli abissi di qualcosa a cui mi rifiuto di associare un nome. 
-Te lo avevo detto, Aleksander.-
Spirali di fumo si dissolvono nel vento e lo stesso vento mi porta la voce infinitamente puntuale di chi, ho l'impressione, non aspettava altro.
-Lui non è come noi.-
La cosa più nauseante? Non riesco a dargli torto.
Sento una pressione sulla spalla, poi il calore sprigionato dalla mano di Asher. Un passo dietro di me.
Ci provo. -Di cosa stai..-
-Li ho visti i tuoi occhi..- profondo, lento, il coccio di appuntito vetro della sua voce che si insinua nel corpo dell'aria. -E ho visto i suoi.-
La sigaretta muore tra le mie labbra, ho ceduto a proteggere la fiamma. 
-Non puoi averlo Aleksander.- 
Alzo lo sguardo sul cielo adornato di stelle. Forse è più intelligente di quanto pensassi. No, non lo è, è perspicace, capace di osservare gli altri e trarne risultati, abile nel tirare le somme. Legge dentro, e l'ultima cosa che voglio è che qualcuno mi legga dentro. Non posso permettermelo.
Mi volto, pronto a a ricordargli che io non voglio nessuno, e che se anche lo volessi sarebbe già mio.
E nessuna delle due cose sarebbe vera. 
Ma la sua voce è pronta, il vetro tra le sue labbra che si tramuta in parole nella frescura della sera sa già cosa fare.
-Aiutami ad fargli capire chi è che comanda- il miele tra le sue palpebre non brilla neanche un po'. -Una volta per tutte-

 

  
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