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Autore: Shomer    24/06/2014    5 recensioni
«Forse dovresti cambiare modo di vedere le cose e domandarti se sono più importanti le persone che odi o quelle che ami. Io faccio così. Il tuo amico che ti chiama ogni tre giorni, con cui stai al telefono ore senza parlare praticamente di nulla... penso che valga la pena tornare almeno per lui.»
«Freddie se la cava alla grande anche senza di me.»
Non era vero. Ultimamente la sua voce era molto più incrinata e triste. Forse da quando Janis aveva cominciato la sua nuova e patetica esistenza, lui si era ritrovato da solo. Senza nessuno con cui uscire la sera, con cui parlare durante le pause dal lavoro.
Forse ormai non andava neanche più alla nostra collinetta per bere una birra. Forse non ci andava più nessuno.

Gli avvenimenti narrati si collocano otto mesi dopo "Ragazzo Sorriso e Lenticchia: la triste storia di un vicolo cieco".
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte Seconda

 

Qui un poco piove e un poco il sole,
aspettiamo ogni giorno che questa estate finisca,
che ogni incertezza svanisca.
E tu? Io non ricordo più che voce hai. Che cosa fai?
io non credo davvero che quel tempo ritorni,
ma ricordo quei giorni.
Ti ricordi quei giorni? - Francesco Guccini

 

Paesello, meno cinque giorni alla partenza

Casa mia era esattamente come la ricordavo. I mobili eleganti erano tutti al posto giusto, così come le foto di quando ero piccola e i soprammobili orrendi che mia madre amava tanto.
Ero seduta al tavolo della cucina mentre fissavo un punto imprecisato del muro. Gioele, che aveva ritirato fuori tutte le sue qualità da cafone, si stava preparando da solo il caffè borbottando imprecazioni che non riuscivo a capire.
Vedere Janis con suo figlio era stato come ricevere una coltellata sulla schiena. Ero stata una stupida a pensare che avrei potuto comportarmi normalmente. Ormai era evidente che non ce l'avrei mai fatta.
«Ti sei comportata da perfetta imbecille, prima» disse Gioele, dandomi qualche colpetto sul viso in modo da attirare la mia attenzione.
«Lasciami in pace» sbottai, allontanando la sua mano.
«Perché non vai d'accordo con tuo cugino?» mi chiese.
Io strinsi gli occhi e le labbra, sentendo che stavo cominciando ad innervosirmi. Gioele aveva quel potere particolare che nessun altro possedeva: riusciva a farmi impazzire. Quando mi arrabbiavo con lui, provavo sul serio l'impulso di prendergli il collo e stringerlo con tutte le forze che avevo.
«Allora?» continuò «Ha picchiato un tuo ex ragazzo? Ha fatto la spia con i tuoi genitori? Sembra un tipo tutto d'un pezzo, uno di quelli che pedina le cuginette per assicurarsi che escano solo con ragazzi di buona famiglia...»
Mi lanciai in una risata sprezzante, scuotendo la testa. «Sei fuori strada» dissi.
Lui si appoggiò al ripiano della cucina e si toccò il mento con una mano, in una posa pensierosa. «E allora cosa può averti fatto?» domandò tra sé e sé, guardando in alto «Da piccola ti sgridava perché prendevi voti bassi a scuola? Oppure...»
«Gioele» lo fermai «Guarda che ha venticinque anni. Quando ero piccola io, era piccolo pure lui.»
Il mio coinquilino sgranò gli occhi. «Però!» esclamò «Ne dimostra almeno trenta.»
Io risi tristemente. «È sempre sembrato più grande. Erano le espressioni che... non importa» dissi, alzando lo sguardo su di lui per la prima volta da quando era entrato in casa «Una volta non era così.»
«È lui la persona che non vuoi vedere?»
Il suo volto si era fatto improvvisamente serio e mi guardava come se volesse trapassarmi. Io stringevo spasmodicamente i pugni, cercando di allontanare sempre di più il momento in cui avrei cominciato a sfogarmi su di lui.
«Sì. Adesso basta, però» dissi lentamente.
Il suo sguardo si rabbuiò. «Beh, sicuramente non è questo il modo di comportarti» sbottò, alzando la voce «Se ti metti a fare la vittima e a piagnucolare in questo modo patetico non risolverai mai la situazione, anzi! Starai depressa come una stupida per tutta la vita!»
Mi alzai lentamente, incenerendolo con lo sguardo. «Ma che diavolo ne vuoi sapere tu?» esplosi «Te ne stai qui a pretendere di farmi da maestro di vita quando neanche mi conosci! Perché non torni a fare l'idiota come al solito, eh? Ti preferivo quando giravi per casa senza maglietta ignorando qualsiasi senso della decenza o del pudore! Eri molto meno fastidioso!»
Lui aveva un'espressione sconvolta e del tutto impreparata a quello sfogo. «Ah sì?» esclamò, scostandosi dal ripiano della cucina e venendomi in contro «Scusami tanto se mi sono permesso di suggerirti un modo per farti stare meno male! Davvero, sono proprio una persona terribile! Ma guarda tu cosa mi tocca sentire...»
Io mi passai le mani tra i capelli, sentendo che stavo diventando tutta rossa. «Che cosa vorresti, di preciso? Che ti ringraziassi per questi consigli ridicoli? Pensi che se ci fosse stato un modo per risolvere la situazione non l'avrei trovato da sola, senza bisogno dell'aiuto di uno come te?»
«Uno come me?» ripeté lui, incredulo.
«Uno come te» confermai, soddisfatta.
Mi lanciò un'occhiata sprezzante, prese le chiavi della macchina dal tavolo e mi voltò le spalle. Mi lasciò in cucina da sola con il caffè che schizzava fuori dalla macchinetta.
Proprio quando mi resi conto di essere stata orribile e ingiusta, sentii il rombo della sua macchina.

 

 

Paesello, meno quattro giorni alla partenza

 

Dopo che Gioele era andato via, mi ero sentita come un verme strisciante. Non si era meritato quelle parole, e io dovevo smetterla di scaricare i miei nervi su di lui. Un paio di volte fui tentata di cercare il suo numero sull'elenco telefonico per chiedergli scusa, ma non trovai mai il coraggio. Sicuramente non voleva sentirmi né vedermi e aveva tutte le ragioni del mondo.
Per quanto lui mi avesse infastidito durante tutta la nostra convivenza, non mi aveva mai insultata in modo cattivo come avevo fatto io. Mi aveva presa in giro, mi aveva stuzzicata, ma quella che si arrabbiava ero sempre io. Lui non era così, si limitava a ridere a dirmi cose che mi facevano innervosire ancora di più come “sei più carina quando ti arrabbi” o “brava, mettiti a strillare, così almeno la smetto di scambiarti per un cadavere” o ancora “è tornata la nervosetta. Dove eri sparita per tutto questo tempo?”.
Giurai a me stessa che una volta tornata in città mi sarei scusata. Alla fine, non mi aveva detto niente di sbagliato. Anzi, aveva solo cercato di aiutarmi e l'aveva fatto nonostante tutti i nostri trascorsi non proprio idilliaci.
Qualche ora dopo la sua partenza, ero andata in officina da Freddie. Mi aveva detto che Janis l'aveva già informato del mio arrivo insieme ad un tipo sconosciuto. Mi fece qualche domanda iperprotettiva su Gioele, con tanto di sguardo torvo e braccia incrociate, ma poi parlammo del più e del meno.
Mi accorsi che era vero, che era più triste. Si sentiva solo. Non mi parlò di mio cugino, ma mi bastò uno un suo sguardo a farmi capire che neanche lui se la passava tanto bene.
Pensai che prima o poi si sarebbe abituato a Gaia. E che comunque c'era il bambino ad unirli e che bene o male sarebbero riusciti ad andare d'accordo per lui. Era un bambino davvero bellissimo.
Passai tutto il giorno insieme a Freddie, che staccò prima dal lavoro e mi accompagnò a salutare Rob, anche lui felice di vedermi. Stemmo tutti insieme per un po' e poi tornai a casa a salutare i miei genitori.
Passai una notte tormentata. Sognai il viaggio in macchina con Gioele e le lunghe camminate che facevo con Janis, i panini di Rob e i capelli verdi di Febri.
Sicuramente lui si sarebbe arrabbiato esattamente come il mio coinquilino e mi avrebbe detto che ero una rammollita senza speranza o qualcosa del genere.
Mi svegliai tardi, quella mattina, e non appena scesi le scale sentii bussare alla porta. Andai ad aprire sbadigliando e, con un sussulto, dall'altra parte dell'uscio vidi Janis.
Rimasi ferma a fissarlo per un periodo infinito. I capelli, che ormai non gli arrivavano alla spalla, ma fin sotto l'orecchio, erano scompigliati e lievemente mossi. Forse era il fatto che li teneva sempre legati stretti stretti a renderli così lisci.
Fece un sorrisetto triste. «Ti ho svegliata?» domandò.
«No» risposi. Era vestito di tutto punto e sembrava fosse in piedi già da molte ore. Lanciai un'occhiata all'orologio ed erano le dieci. Un anno prima non avrebbe mai messo il piede fuori dal letto prima delle undici. Le tre del pomeriggio, nei giorni in cui non lavorava.
Lo guardai negli occhi e notai che era in attesa. Con un piccolo sussulto mi spostai dalla porta e lo feci entrare.
«Vuoi il caffè?» gli dissi, sentendomi imbarazzata e a disagio come non mai.
«L'ho già preso» rispose, seguendomi in cucina.
Si sedette su una sedia mentre armeggiavo con la macchinetta con una lentezza che io stessa avrei giudicato esasperante, e quando la posai finalmente sul fuoco e mi voltai a guardarlo, mi accorsi che sorrideva.
La situazione mi ricordava terribilmente quella in cui io, un anno prima, ero andata a casa sua senza preavviso per dirgli che avevo cambiato idea. L'aria tesa e i momenti di silenzio poco familiare. Avrei voluto dirgli di andarsene.
«Mi dispiace per ieri» disse poi, mentre il suo sorriso moriva «Mi hai colto di sorpresa, e poi ero di fretta... stavo andando dai miei per... insomma...»
«Per lasciargli il bambino» completai, atona.
«Già» rispose imbarazzato «Fabrizio.»
«Lo so.»
Ci guardammo negli occhi a lungo. In quello sguardo c'erano tutte le cose che non avremmo mai più potuto dirci, tutti i tempi andati e ormai persi e tutte le nostre sconfitte.
Janis era diventato un succube, arreso e rassegnato. Io invece continuavo ad andare avanti senza il coraggio di reagire.
Durò qualche attimo. Proprio mentre sentivo che non ce l'avrei più fatta a sostenerlo, lui si riscosse e io gli voltai le spalle, spegnendo il fornello del caffè e versandomene una tazzina. Rimasi un po' con lo sguardo fisso sul liquido nero, cercando a tutti i costi di non piangere, e quando fui convinta che il pericolo fosse scampato, mi girai.
«Non ti avevo mai vista così, sai?» mi disse. Mi accorsi che anche lui aveva gli occhi un po' lucidi.
«In che senso?» chiesi, tenendo stretta la tazzina con tutte e due le mani.
«Irritata. Con il tuo coinquilino» disse, abbozzando un sorriso. Gli occhi non gli si piegavano più. «Ieri, quando stavate litigando, le vostre urla si sentivano fino a casa dei miei.»
“Casa dei miei”. Era strano sentirlo parlare così. Mi chiesi se mi ci sarei mai abituata.
«Te l'avevo detto, che non andiamo d'accordo.»
«Sì, lo so. Ma è il tuo modo di arrabbiarti con lui che è strano. Tu non ti innervosisci con le persone. Sei paziente, pacata... e non ti arrabbi. Al massimo sei triste e abbattuta per qualcosa che è successo, ti disperi, ma non ti arrabbi.»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Da nessuna parte» si affrettò a rispondere «Però ti preferisco così... meno passiva.»
Non so perché, ma quel commento mi diede fastidio. «Io ti preferivo con i capelli» mi lasciai sfuggire, pentendomene subito dopo.
Lui ebbe un lieve sussulto, punto sul vivo. Pensai che le sue guance si fossero colorate un po', mentre mi rispondeva. «Me li hanno fatti tagliare mesi fa per...» fece una pausa, in confusione «E poi ancora per il battesimo... li sto facendo ricrescere, però.»
Guardai fuori dalla finestra, fingendo di trovare particolarmente interessante il paesaggio. Il silenzio che nacque era decisamente troppo pesante affinché qualcuno di noi potesse sostenerlo. Per questo motivo, Janis si alzò, borbottò qualcosa riguardo la sua pausa lavorativa che stava finendo e se ne andò.

 

 

Paesello, meno tre giorni alla partenza

 

Dopo aver pianto per un tempo decisamente lungo, mi ero sentita subito meglio. Era come se il peso che portavo sulle spalle si fosse alleggerito, dopo aver parlato con Janis. Nel pomeriggio avevo anche avuto il coraggio di andare a salutare i miei zii, pur sapendo che in casa loro c'era il bambino, e avevo giocato un po' con lui. Fabrizio.
Sapevo, fin dal primo momento, che l'avrebbero chiamato così. Quando mia madre mi aveva telefonato per dirmi che era nato e mi aveva informata del nome che Janis e Gaia avevano scelto per lui, non ero rimasta sorpresa. Non avrei mai potuto immaginare qualcosa di diverso. Era naturale.
Il mattino seguente, poi, ero andata a trovare Febri e gli avevo portato dei fiori. Avevo chiacchierato un po' con lui, raccontandogli delle ultime cose che erano successe, e gli avevo detto anche di Gioele.
Ormai non mi svegliavo più, di notte, pensando che la sua morte fosse solo un incubo atroce. Avevo imparato ad accettare la cosa e me ne ero fatta una ragione, anche se faceva male esattamente come all'inizio.
Tutto il tempo in cui non studiavo e non aiutavo al ristorante, lo passavo in compagnia di Freddie, che minuto dopo minuto allargava il suo sorriso facendolo ritornare quello di un anno prima, quando le cose stavano iniziando a precipitare, ma eravamo abbastanza ingenui da credere che quello che vedevamo fosse uno spiraglio di luce.
Lui lavorava ancora all'officina e mi confessò che stava mettendo i soldi da parte per comprarsela. Ci avrebbe impiegato molti anni, comunque, considerando lo stipendio che gli davano.
Diceva di aver smesso di bere, ma che ogni tanto andava ancora alla nostra collinetta e fantasticava riguardo ad un futuro che nella sua mente era uguale al passato che non sarebbe tornato mai più.
Gli dissi che ogni tanto ci fantasticavo su anche io e mi abbracciò forte, facendomi piangere per la seconda volta da quando ero tornata in città.
«Giuro che non farò mai più così» dissi, mentre le mie lacrime gli bagnavano la maglietta «Non ti lascerò mai più per così tanto tempo.»
Lo sentii ridacchiare sulla mia spalla. «Magari potrei iniziare a venire io, a trovarti, se per te non è un problema.»
Lo strinsi un po' più forte. «Come potrebbe essere un problema?» biascicai «Puoi venire quando vuoi. Puoi anche trasferirti a casa mia.»
«Da quello che ho sentito in giro, al tuo coinquilino non piacerebbe.»
Aggrottai le sopracciglia, certa che quella cosa ridicola l'avesse sentita da Janis, e decisi di ignorare quel commento, felice di essere tra le braccia di Freddie dopo tutto quel tempo. «Tu vieni quando vuoi» ripetei «Ma comunque tornerò qui anche io, stavolta per davvero.»
Con il cuore ancora più leggero, andai a casa. Adesso c'era solo una cosa che dovevo fare, e andava fatta in fretta.
Mi precipitai in salotto, presi l'elenco telefonico e cercai il numero di Gioele. Per fortuna, nel suo paese c'era solo una famiglia con quel cognome. Composi il numero sul ricevitore, sperando che mi rispondesse lui. Odiavo quando mi rispondevano genitori, fratelli o altri membri della famiglia.
Sentii squillare un paio di volte e poi rispose.
«Pronto?» disse la sua voce.
«Gioele?» chiesi «Sono Mara.»
Silenzio. Pensai che dovesse essere ancora molto arrabbiato e che mi avrebbe chiuso il telefono in faccia.
Non avrei potuto biasimarlo.
«Che c'è?» domandò «Ti manco già? Non riesci a stare lontana da uno come me
Il suo tono era risentito e infastidito. Non avrei mai immaginato di poterlo vedere – o sentire, in questo caso – arrabbiato. Pensavo che lui fosse uno di quelli che non si arrabbiano, che si fanno scivolare le cose addosso come fossero olio, che prendono tutto a ridere. Una persona leggera.
«Mi dispiace» mormorai, rigirandomi il filo del telefono tra le dita «Non avrei dovuto parlarti in quel modo.»
«No, non avresti dovuto.»
Non dissi niente, ascoltando il rumore lieve del suo respiro che si infrangeva contro la cornetta.
«Stai bene?» mi chiese, dopo un po'.
«Sì. Tu?»
«Tutto bene.»
«Ok...» cominciai, esitante «Allora ci vediamo a casa tra un paio di giorni.»
«Non devi dirmi nient'altro?» la sua voce stava ricominciando a prendere il tono che mi era più familiare.
«Ti ho già detto che mi dispiace...» mormorai, incerta.
«È tutto ok» disse poi, velocemente «Ci vediamo a casa.»
E riattaccò.

 

 

 

Paesello, meno due giorni alla partenza

 

Fui molto fortunata. Passai la mattina di Pasqua nella più completa ansia, consapevole che da lì a poche ore mi sarebbe toccato il pranzo di famiglia che, come ogni anno, facevamo a casa di Janis.
Non ebbi il coraggio di chiedere a mia madre se mio cugino e Gaia ci sarebbero stati, perché non volevo che, in caso di risposta affermativa, mi potesse chiedere come mai il mio volto si fosse dipinto d'orrore.
Forse ero pronta per scambiare due parole inutili con mio cugino e forse lo ero anche per giocare con suo figlio mentre nessuno poteva vedermi, ma partecipare ad un pranzo di famiglia con lui e sua moglie? No, decisamente non lo ero.
Per un attimo pensai di darmi malata, ma poi mi ricordai le parole di Gioele e decisi che, in ogni caso, sarei entrata in casa dei miei zii a testa alta. Se li avessi visti lì, seduti vicini a tavola, avrei salutato come se niente fosse e avrei passato il resto del pranzo a cercare di non scoppiare il lacrime e di non disperarmi. Forse i miei genitori si sarebbero chiesti come mai non rivolgevo la parola ai novelli sposini, ma era un rischio che potevo correre. Mi dissi che dovevo cercare di passare quelle ore il più composta possibile, che poi avrei avuto un sacco di tempo per piangere.
Quando entrai in casa e non li vidi, tirai un sospiro di sollievo. In compenso, però, c'era mia cugina Eva. Non la vedevo dall'estate precedente e l'ultima volta che ci avevo parlato era stata quella in cui aveva visto me e Janis baciarci. Le volte successive, mi aveva solamente guardata con una disgustata aria di sufficienza.
Quel giorno, invece, mi lanciava occhiate trionfanti dall'altra parte del tavolo. Come se io fossi una nullità che aveva provato a trascinare suo fratello in un qualche baratro oscuro e aveva fallito.
Guardavo il cibo nel piatto e cercavo in ogni modo di non dar peso alle sue occhiate e alle cose che diceva. Parlava di quanto fosse felice che Janis avesse trovato finalmente una brava ragazza e si fosse “sistemato”, ma non riuscii a stare in silenzio quando parlò della sua macchina.
«A proposito» disse, passandosi il fazzoletto sulla bocca «Devo dire a Janis che ho trovato qualcuno interessato a comprare la sua macchina per ristrutturarla.»
Mi cadde la forchetta nel piatto e alzai lo sguardo su di lei. «In che senso?» biascicai, confusa «Janis non darebbe mai via quell'apriscatole.»
Lei assottigliò gli occhi e sorrise, viscida. «Sai, Mara, si deve crescere, prima o poi» disse, altezzosa «Di certo non può portare in giro Fabrizio con quel rottame.»
Io strinsi le labbra, punta sul vivo. «Conoscendo Janis, preferirebbe tenerla per tutta la vita chiusa nel garage piuttosto che venderla!» esclamai «Chi gli ha messo in testa una cosa simile?»
Mio padre, accanto a me, mi posò una mano sul braccio. «Che ti importa, Mara?» mi domandò «È solo una macchina.»
Io abbassai lo sguardo e strinsi i pugni sotto il tavolo. «Non è solo una macchina» mormorai.
Sentii la risata leggera di Eva e potrei giurare che in quel momento mi abbia guardata ancora più trionfante. «Non so che significato dai tu a quel catorcio arrugginito, Mara» mi disse, con un tono che nascondeva molti sottintesi «Ma ti assicuro che per lui è solo una macchina.»
Sentivo cinque paia di occhi puntati su di me e decisi di non rispondere e lasciar cadere la conversazione.
L'apriscatole di Janis non era solo una macchina. Era un ricettacolo di ricordi. Si riusciva a percepire l'essenza di Febri nell'abitacolo, c'erano ancora le cassette che aveva dimenticato lì, un suo accendino nel cruscotto e alcune sue matite colorate.
Era la macchina che usavamo per andare in giro, senza meta, fino al mattino. Era quella che ci portava su in collina per guardare tutte le luci che illuminavano il paese. Era il simbolo di quello che eravamo stati, di quello che avevamo vissuto, ma soprattutto era il simbolo dell'indipendenza di Janis, che l'aveva comprata con le sue sole forze.
Non poteva davvero volersi staccare da tutto quello. Non poteva voler dimenticare.

 

 

«Janis vuole vendere la macchina» dissi a Freddie, quella stessa sera, mentre eravamo da Rob a mangiare un panino. «Lo sapevi?»
Lui si stuzzicò una ciocca di capelli biondi con le dita e chiuse gli occhi. «Lo sapevo» sospirò.
«Perché?» esclamai, sbattendo le mani sul tavolo «Non può farlo!»
Il mio amico si fece scivolare lungo la panca di legno e incrociò le mani al petto. Notai che stava guardando fuori dalla finestra, nel punto esatto in cui mio cugino era solito parcheggiare quell'apriscatole.
«Ha l'affitto da pagare» rispose semplicemente, anche se con una punta di rammarico «E i pannolini da comprare... e una moglie esigente.»
Io scossi la testa, incredula. «Non può...» ripetei confusamente «Che cosa gli stanno facendo? Prima i capelli, poi questo... non sono cose che vengono da lui, Freddie, non capisci?»
«Lo capisco, Lenticchia» disse, continuando a non guardarmi «Gli mettono continue pressioni. Fai questo, fai quello, dovresti essere così, questa cosa non va più bene... si sente in gabbia. Gaia è una pazza, ultimamente. E lui ha solo me con cui parlare.»
Appoggiai i gomiti sul tavolo e mi ressi la testa con le mani. «Sta perdendo sé stesso» mormorai «Non è che l'ombra di ciò che era prima.»
«Non ha neanche il coraggio di guardarti in faccia» continuò «Mi ha detto che è stato da te, qualche giorno fa.»
«Già» risposi, cupa «Mi ha detto... ha detto...»
«Cosa ha detto?»
«Lascia stare» scossi la testa «Non si può fare niente?»
«No» si strinse nelle spalle, col dolore nel profondo degli occhi «Non si può fare niente.»
Io mi passai una mano tra i capelli, incredula e amareggiata. «Quindi finisce così?»
Gli angoli della sua bocca erano piegati verso il basso e i suoi occhi, un tempo così dolci, adesso erano stretti in un'espressione sofferente. «Penso proprio di sì» sospirò «Stavolta per davvero.»
Ma io non potevo permetterlo. Stavo imparando a convivere con quella mia nuova esistenza fatta sostanzialmente di nulla, avevo capito di aver fatto troppi errori a cui ormai non avrei potuto rimediare e speravo che, in futuro, sarei stata capace di non farmi più scivolare le cose importanti tra le dita. Potevo accettare il mio malessere, che era dipeso solo e soltanto da me stessa, con la speranza che prima o poi se ne sarebbe andato.
Potevo restare il silenzio mentre vedevo Janis che diventava tutto quello che aveva sempre odiato, potevo far finta di niente di fronte al suo sorriso triste e ai suoi occhi che si accendevano solo quando vicino a lui c'era suo figlio, potevo far finta che fosse una cosa normale. Che alla fine lo facevano tutti.
Ma non potevo permettergli di cancellare tutto ciò che era stato.
Per questo mi feci dire l'indirizzo della sua nuova casa da Freddie e, quella stessa sera, lasciai un biglietto nella sua cassetta della posta.
Non venderla”, scrissi.

 

 

Paesello, meno un giorno alla partenza

 

Guardavo il soffitto chiedendomi dove mai avessi trovato il coraggio per lasciare quel biglietto a mio cugino. Non sapevo né se avrebbe capito, né se si sarebbe reso conto che ero stata io a scriverlo.
Magari se ne sarebbe accorto e avrebbe pensato che fossi una stupida. Era possibile che, durante tutto quel tempo, lui fosse cambiato talmente tanto da non considerare più importanti le cose che un tempo ci avevano uniti. Non lo sapevo.
Io non mi sarei mai volontariamente liberata di qualcosa che poteva ricordarmi lui, Febri, Freddie e anche Marco e Gaia. Ci avevo provato per lungo tempo, ma mi ero resa conto che non ce l'avrei mai fatta e che in fondo era una cosa che non volevo.
Non avrei mai tolto la loro foto dal comodino. Non avrei mai buttato quella cassetta che nell'etichetta portava la scrittura disordinata di Janis.
E speravo che, nonostante tutto, neanche lui volesse cancellarci.
Prima ancora che potessi rendermene conto, mi ritrovai con la cornetta del telefono in mano a digitare un numero che fino a qualche giorno prima non conoscevo.
«Chi parla?»
«Gioele?» dissi, esitante «Sono Mara.»
Lo sentii ridacchiare dall'altra parte. «Che vuoi?» domandò, ridendo «Non ti sarai innamorata di me, spero.»
«Non essere ridicolo» sbottai.
«Ah. Peccato» fece lui, sempre con quel tono divertito.
Rimasi in silenzio per un po', cercando di farmi tornare in mente il motivo per cui avevo deciso di chiamarlo. Non lo ricordai subito.
«Beh? Rimaniamo al telefono in silenzio?» chiese «Per me non c'è problema, ma tra un paio d'ore devo uscire.»
Sorrisi contro la cornetta e presi fiato. «Sai, forse ho trovato il modo. Ma non ho picchiato nessuno.»
«È tutto merito mio, vero?»
«Penso di sì.»
«Vuoi che venga a prenderti, domattina?»
Ci riflettei su un attimo. «Sì, se non è un problema.»
«Non è un problema.»

 

 

Ritorno a casa

 

Gioele si presentò a casa mia poco prima di pranzo, mentre fumavo l'ultima sigaretta con Freddie. Dopo aver salutato i miei genitori, il mio amico era venuto da me per l'ultimo saluto e per aiutarmi a rifare la valigia, anche se avevo portato con me talmente poche cose che il suo aiuto mi fu inutile.
Eravamo appoggiati al cancello di casa, con i bagagli per terra e Lenticchia Due che ci scodinzolava intorno. Ero più serena di quando, un anno prima, eravamo insieme in camera mia a scegliere le cose che avrei portato in città.
Janis non era venuto a salutarmi, ma non mi ero aspettata niente di diverso. Non sapevo se l'avrei voluto o no, ma sicuramente così sarebbe stato più facile. Non avrei sopportato un saluto come quello dell'anno precedente.
«Allora verrai a trovarmi, vero?» domandai a Freddie «Me l'hai promesso.»
Lui rise passandomi un braccio intorno alle spalle. «Verrò» disse «Il prima possibile.»
Appoggiai la testa sulla sua spalla e sentii il rombo di una macchina che si avvicinava. Gioele era arrivato.
Parcheggiò proprio davanti a noi e quando scese ci fece un sorriso radioso. Freddie si scostò da me e andò a presentarsi, scambiando qualche parola col mio coinquilino. Io lo salutai con un cenno e con un sorriso, prendendo la mia valigia e la borsa da terra.
«Allora la lascio in buone mani?» domandò Freddie.
Gioele mi strappò i bagagli di mano con poca grazia, ignorò la mia smorfia e li caricò sul sedile posteriore. «Non preoccuparti» disse «Bado io a lei.»
Aggrottai un sopracciglio. «Ah sì? E come?» domandai, scettica «Finendomi puntualmente il latte? O lasciando aperta la porta del bagno quando ti fai la doccia?»
Freddie scoppiò a ridere e il mio coinquilino scrollò le spalle. «Soffro di claustrofobia» si giustificò.
«Certo, come no» borbottai.
Feci salire Lenticchia Due sul sedile posteriore e andai ad abbracciare Freddie, promettendogli ancora che sarei tornata presto e ricordandogli che sarebbe dovuto venire a trovarmi. Lui si frugò nelle tasche e mi mise in mano un biglietto. «Leggilo dopo» disse.
Io e Gioele salimmo in macchina e, con una botta di clacson e altri saluti urlati dal finestrino, partimmo.
Vidi casa mia e quella che una volta era di Janis allontanarsi sempre di più con una stretta al cuore, ma adesso sapevo che le avrei riviste presto e che l'avrei affrontato con uno spirito un po' diverso.
«Ora vuoi dirmi che cosa ti era successo di così catastrofico da impedirti di tornare a casa?» domandò Gioele, mentre sorrideva come un bambino.
«Sei troppo curioso» dissi.
Lui rise e si mise gli occhiali da sole. «Magari puoi raccontarmelo stasera» azzardò «Davanti ad una birra... in un locale carino...»
Lo guardai imbambolata e con gli occhi sgranati per un lungo periodo e poi scoppiai a ridere senza riuscire a controllarmi.
«Beh?» fece lui, fingendosi offeso «Che ho detto di strano?»
Smisi di ridere e mi voltai verso di lui, ancora divertita e con le sopracciglia alzate. «Offri tu» dissi.
Borbottò qualcosa su quanto fossi viziata e difficile e scosse la testa, anche se stava sorridendo.
Io srotolai il bigliettino che mi aveva dato Freddie e, quando vidi la calligrafia disordinata di Janis, permisi ad una sola lacrima di cadere.

Se è quello che vuoi, non la venderò.”








 

 

Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi da indietro quelle stagioni di vetro e sabbia,
chi mi riprende la rabbia, il gesto, donne e canzoni, gli amici persi, i libri mangiati,
la gioia piana degli appetiti, l'arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?
Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa e c'è il sospetto che sia triviale
l'affanno e l'ansimo dopo una corsa, l'ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita,
il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa che chiami vita.
Lettera – Francesco Guccini

 

 











Stavolta è finita per davvero. Spero di non avervi deluso troppo :)
Ringrazio infinitamente ale93, che ha commentato e che mi sostiene sempre.... e benedico il giorno in cui ci siamo conosciute! XD
Poi ringrazio tutti quelli che hanno messo mi piace e che hanno messo la storia tra i preferiti, ricordate e seguite. Grazie infinite!
E infine lascio i miei contatti:

http://ask.fm/ShomerJL
https://www.facebook.com/shomer.efp


Un abbraccio

   
 
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