── La
Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──
“We know we
shouldn't do it but we do it anyway”
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“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
November 9
MONDAY
Quando Mark si svegliò era ancora sulla poltrona.
Aveva perso la sensibilità ad una gamba e il dolore al braccio destro si era
fatto insopportabile. Appena provò ad alzarsi sentì una terribile fitta alla
testa e ricadde sulla poltrona con un tonfo. Proprio in quel momento arrivò Lù a dargli il buongiorno, pulendogli per bene il viso e le
mani con la sua lingua ruvida (una cosa disgustosa, che aveva sempre detestato,
ma era talmente stanco da non avere nemmeno la forza di protestare). Alla fine
si dovette alzare e raggiunse la cucina strisciando i piedi sul pavimento,
seguito da Lù che probabilmente doveva ancora
mangiare. Mise la caffettiera sul fuoco e riempii una vecchia ciotola in
alluminio di croccantini. Solo dopo si accorse che sul tavolo c’erano un
thermos pieno di caffè e un bigliettino.
Buongiorno!
Vi ho preparato
del caffè, spero vi piaccia
(ma certo che vi piace, io sono
bravissimo J).
Mi sento un po’
stordito, ma devo andare ad
aprire il bar.
Scusatemi.
Gregor
Mark lasciò il foglietto bianco
sulla tavola e si versò una tazza di caffè. Un attimo dopo notò che Frank non
era più accasciato con la fronte contro il tavolo e non poté fare a meno di
domandarsi dove fosse finito.
Lanciò un’occhiata al divanoletto e vide
che Heinrich stava ancora dormendo. Successivamente
andò a dare un’occhiata in camera da letto per assicurarsi che Peter ed Edward
stessero bene: il primo era in bagno per colpa della nausea, l’altro teneva il
cuscino sopra la faccia e si lamentava della luce che entrava dalla finestra.
Mark chiuse le tende e tornò in cucina per fare colazione. Mentre si versava
un’altra tazza di caffè, ancora mezzo addormentato e con i sintomi
post-sbornia, Lù gli portò il giornale. Lo sfogliò
distrattamente, ignorando i segni dei denti dell’animale e i residui di saliva
che erano rimasti attaccati alle pagine, mangiucchiando un paio di biscotti tra
una notizia e l’altra. La nausea era talmente forte che pregò di non vomitarli
tutti.
«Buongiorno.»
La voce assonnata di Frank lo destò dai
suoi pensieri. Piegò il giornale e lo spostò verso il centro del tavolo.
«Come ti senti?»
«Mah, solo un po’ di mal di testa.»
Mark si aspettava un “E tu?”, ma Frank non
aggiunse altro, servendosi del caffè come se fosse a casa sua.
«Dove hai dormito?»
«Nella vasca da bagno.»
«… Ah.»
Peter li raggiunse poco dopo, con il volto
pallido e le labbra serrate in una
smorfia disgustata. Era evidente che non si sentisse bene, dopotutto non
era mai riuscito a reggere l’alcool e, nonostante fosse il primo ad accorgersene,
si ostinava sempre a berne in grandi quantità.
«Eccomi» annunciò con voce funebre,
riuscendo a stento a sedersi sulla sedia. «Credo di non sentirmi molto bere.»
«Bere? »
«Bene.
Volevo dire bene.»
Appoggiò il capo sulla superficie in legno
del tavolo e chiuse gli occhi, proprio nella posizione in cui Frank si era
addormentato la notte precedente. Mark
diede una tazza di caffè al moro e insistette affinché la bevesse tutta.
«Lasciami stare, per favore» mugugnò Peter.
«Dobbiamo andare a lavoro» protestò Mark,
poi si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento e si avviò in camera da
letto barcollando. Il dolore alla testa era lancinante, come se le pareti del
suo cranio si stessero stringendo verso l’interno. Davvero poteva andare a
lavoro in quelle condizioni?
Quando Edward si svegliò salutò
tutti con discrezione, poi tornò a casa sua per farsi una doccia e cambiarsi;
successivamente avrebbe fatto colazione e sarebbe andato ad aprire la libreria,
scusandosi per il ritardo col nipote Andrew che lo aiutava durante la settimana
in cambio di un modesto stipendio.
Heinrich, che non
doveva lavorare, rimase a poltrire placidamente sullo scomodo divanoletto,
rotolandosi di tanto in tanto tra le lenzuola per cambiare posizione. Mark non
osava svegliarlo, ma una parte di lui avrebbe voluto cacciarlo e rispedirlo
alla sua dimora.
Frank, che non voleva lasciare Lù da solo, decise di portarselo e passare a casa sua per
prendere Mozart, il suo altezzoso cocker spaniel inglese; li avrebbe portati
entrambi al parco e dopo un paio d’ore avrebbe fatto ritorno nella sua
abitazione. Mark e Peter, invece, si sbrigarono per arrivare in orario a
Scotland Yard. O almeno è quello che cercarono di fare.
Quando Mark fu pronto avvisò Peter, ancora
accasciato sulla sedia; la faccia pallida e l’aria assonnata non l’avevano
abbandonato. Lo intimò di alzarsi, trascinandolo in bagno dove si diede una
ripulita. I vestiti che indossava puzzavano di vomito e di birra, quindi gliene
prestò dei suoi.
«Mark, questi vestiti sono enormi!»
«Non ho altro,» protestò l’omaccione con
aria infastidita «accontentati.»
Quando Mark lo vide si rese conto che
effettivamente quegli abiti lo rendevano ridicolo ed era necessario fare un
salto a casa sua per renderlo presentabile.
«Ma perderemo troppo tempo!»
«Vuoi davvero uscire conciato così?»
«No.»
«Allora andiamo.» Aprì la porta di casa,
aspettando che Peter uscisse per poi richiuderla e andare a mettere in moto
l’auto. «Merda, ho dimenticato le chiavi del garage!» esclamò, frugandosi nelle
tasche.
«Ecco, lo sapevo.»
«Sta’ zitto! Vado a prenderle. Tu aspetta
qui.»
«Chi si muove...»
Rientrò in casa lasciando la porta aperta;
andò in cucina e guardò dappertutto: sui banconi, negli stipetti, sul tavolo… Le chiavi non c’erano. Passò in rassegna anche la
camera da letto, ma senza risultati. Allora perlustrò il soggiorno – sotto il
divano, dietro la televisione, sotto il tavolino e dietro i cuscini -, ma le
chiavi non erano neanche lì. Controllò le tasche di tutti i vestiti che aveva
nell’armadio, poi diede un’occhiata in bagno e nel ripostiglio. Nulla. Erano
sparite. Stava per urlare la sua disperazione a tutto il vicinato, quando
ricevette una chiamata da Frank. Ovviamente riversò la sua rabbia su di lui,
anche se non aveva nulla a che fare con quella sciocca questione.
«Pronto.»
«Sei arrabbiato? Hai la voce incazzata.»
«No.»
«Certo, e io sono la Regina d’Inghilterra.»
«Che cazzo vuoi, Frank?!»
«Non ti scaldare! Volevo solo chiederti una
cosa.»
«Be’,
fallo in fretta.»
«Non mi va di tornare a casa tua per
lasciare Lù. È un problema se lo tengo con me e te lo
riporto stasera?»
Mark non poté fare a meno di notare che,
detto in quel modo, sembravano quasi una coppia divorziata intenta a discutere
sull’affidamento del figlio.
«No. Va benissimo. Ciao.»
«Ciao, Mar...»
Riattaccò.
Stava per mettersi alla ricerca delle
chiavi, ma Peter lo precedette.
«Le ho trovate.»
«Dov’erano?»
«… Nella tasca del pantalone che mi hai
prestato.»
Gli lanciò uno sguardo omicida, convinto
che fosse indirettamente colpa sua per non essersene accorto prima, ma l’amico
sfoderò un sorriso innocente, porgendogli le chiavi; Mark andò ad aprire il
garage, ma prima di poter entrare sentì la voce della vicina, la signora McGravy, che lo chiamava dal suo giardino.
«Mark, tesoro!»
Il poliziotto radunò tutte le forze che
avevo in corpo per sorridere.
«Salve, signora McGravy!»
«Come sta? Come si sente oggi? Sembra
stanco.»
Secondo la signora McGravy
Mark sembrava sempre stanco. E lo era per davvero.
«Benissimo, grazie, ma ora devo scappare a
lavoro, sono già in ritardo.»
«No, aspetti un attimo! Prendo le mele.
Gliene do qualcuna, le faranno bene. Ha sentito il messaggio che le ho lasciato
in segreteria? Gliel’avevo detto che gliene avrei messe un po’ da parte! Torno
subito.»
«Sì, sì, l’ho sentito…
No, no! Non si scomodi!» cercò di fermarla, ma lei era già rientrata in casa.
«Peter,» bisbigliò con tono confidenziale, aprendogli lo sportello per poi
spingerlo delicatamente dentro
l’abitacolo «salta in macchina, andiamocene prima che ritorni.»
«Mark! È da maleducati andarsene così.»
«Lo so, ma quella ci farà perdere un’ora in
chiacchiere. Dobbiamo andare.»
Peter acconsentì, suo malgrado,
mostrando ostinatamente il suo dispiacere con un sonoro sospiro indignato;
fecero una brevissima sosta a casa di Peter e subito dopo s’impegnarono in una
corsa contro il tempo per arrivare a Scotland Yard in un margine di tempo
accettabile.
Inevitabilmente ritardarono di quasi
quaranta minuti – forse cinquanta – e la prima a sgridarli per la loro
negligenza fu Kerstin, una stramba ragazzina che
aveva l’abitudine di tingersi i capelli di tonalità assurde: quel mese, ad incorniciarle
il viso e a metterle in risalto gli occhi verdi, c’era una folta chioma fucsia
tenuta ritta sulla testa come la schiena
di un porcospino. I suoi colleghi l’avrebbero vista meglio come artista che
come poliziotta, ma in quella stazione molti di loro erano fuori posto. Kerstin si lamentò per più di dieci minuti su quanto i due
fossero distratti, pigri e… E qualcos’altro che i due
non si presero la briga di ascoltare.
Mentre la ragazza continuava il suo
affascinante discorso sulla disciplina, l’ispettore Bernard Fraser spalancò la
porta del suo ufficio, richiamando la loro attenzione. Era un uomo alto, con
spalle larghe e occhi infossati, una persona solitamente tranquilla e pacata,
ma l’espressione dipinta sul suo volto in quell’istante non era delle più
rassicuranti. Kirsten, intimorita, si zittì immediatamente, tornando alla sua
postazione senza neanche salutare.
«Mark, Peter» chiamò l’ispettore,
avvicinandosi con passo svelto. «abbiamo un caso.»
«Di cosa si tratta?» s’informò Mark.
«Suicidio.»
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Fatti
curiosi non poi così curiosi:
Il
cognome originale di Bernard era Fletcher: mi piaceva
moltissimo
come suonava, ma son stato costretto a cambiarlo
perché
ho scoperto che esiste già una specie di investigatrice
omonima.
Ho deciso di chiamarlo “Fraser” perché mi ricorda la
parola
“freezer” e Bernard è… come dire…
così freddo, con le
spalle
larghe e… mi ricorda un frigorifero.
Christopher