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Autore: balakov    07/01/2009    4 recensioni
Questo racconto suddiviso in 3 capitoli, narra le vicende e la vita quotidiana di un investigatore di provincia, immerso tra piccoli casi che non fanno cronaca, questioni di cuore ed un giallo dai mille risvolti imprevedibili. Una storia allegra, che vuole ricordarci di tenere sempre le dovute distanze dall'apparenza, per indagare un po' più a fondo il reale nella sua essenza autentica.
Genere: Commedia, Parodia, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ringraziamenti:
- a Beab per la recensione al Cap. I e per avermi inserito fra i suoi autori preferiti;
- a Caterozza per la recensione al Cap. I;
- a Fujiima per la recensione al Cap. I e per aver inserito la storia tra i preferiti;
- a Luisina per aver inserito la storia tra i preferiti.


Cap. II


Comunque anche Alberto Gervasoni ha avuto a che fare, una volta, con un efferato delitto di cronaca nera. Un caso che ebbe risonanza a livello nazionale, più o meno.
Una notte di maggio, fu ritrovato il corpo senza vita di un uomo sul greto del fiumiciattolo che ci lambisce: il cadavere era tutto nudo, e portava i segni di violenze subite. I polsi e le caviglie imbrattati di sangue, lividi ovunque, ed un enorme squarcio sul ventre da cui si scorgevano tutte le interiora del poveruomo. Uno scenario raccapricciante.
Il corpo, che non sembrava in alcun modo che si fosse cercato di occultare, era stato ritrovato da Nello, l’ubriacone di Poggibonsi. Durante una sua dinoccolata passeggiata notturna, alla disperata quanto placida ricerca dell’uscio di casa, il buon vecchio Nello vagava con il vino che gli scorreva nelle vene. Quando, nel suo peregrinare a zig-zag, giunse sul greto del fiumiciattolo, inciampò sul cadavere e, rotolando, cadde nelle fredde acque. Ci mancò poco che i morti diventassero due! Nello non sapeva neppure nuotare, e poi, anche se fosse stato capace, che stile avrebbe adottato con tutto quel vino che gli stordiva il cervello?
La mattina seguente tutti gli abitanti di Poggibonsi si recarono sul luogo del ritrovamento. La polizia non fece neppure nulla perché la folla fosse smobilitata: del resto ci si conosce tutti da queste parti, e pure il capo della polizia locale è un caro amico. Immaginate voi, vista la terrificante scena che si presentava davanti agli occhi atterriti di tutti, quanti furono coloro che vomitarono per il disgusto… Io, vista anche la calca, non riuscivo a vedere il cadavere (e non avevo neppure il coraggio), e mi facevo descrivere minuziosamente da mia madre lo stato in cui era stato ridotto.
Ovviamente non poteva mancare Alberto Gervasoni: non fu però il primo ad arrivare, abituato com’è ad alzarsi tardi la mattina.
Il tale ucciso non era del posto, ed apparentemente nessuno lo conosceva. Dunque fu naturale ipotizzare che l’assassino o aveva portato lì il poveretto per ucciderlo lontano da occhi indiscreti, oppure vi aveva trasportato il cadavere dopo averlo ucciso da un’altra parte. Ma forse era più giusto parlare al plurale, e cioè di assassini: infatti il morto era personaggio assai robusto, e perciò non facile da “trattare” individualmente; ed inoltre lo stato in cui fu ritrovato lasciava facilmente immaginare che si fosse trattato di un rituale da messa nera, e si sa che questi rituali vengono compiuti da più o meno corposi gruppi, e non da singole persone.
Alberto Gervasoni scrutava lo scenario delittuoso come se nulla fosse: neanche un sopracciglio inarcato gli fece mutare la sua imperturbabile sembianza tipica di colui che la sa lunga. I suoi pensieri erano imperscrutabili, ed il suo volto impassibile. Ma conoscendolo bene, sapevo con una certezza pressoché assoluta che invece nella sua testa stava già mettendo su una ricostruzione possibile degli eventi.
Ovviamente il caso spettava alla polizia, e qui non siamo in uno di quei film in cui il protagonista ficcanaso malgrado tutto si avventura a suo (gratuito) rischio e pericolo nel mistero. Difatti Alberto Gervasoni non era uno avvezzo a lavorare gratis (se così si può dire…), ma i misteri li svelava solo dietro remunerazione (anche se il più delle volte, si trattava di una remunerazione “pro forma”). Così, nonostante che il caso stuzzicasse non poco la sua fantasia, restò inattivo. Questo stato delle cose durò però appena tre giorni: il quarto giorno successivo al ritrovamento del cadavere, suonò il suo campanello di casa.
Era una donna bellissima: bionda, alta, elegante, sinuosa e… ricca. Appena il nostro detective le aprì la porta di casa, lei si intrufolò nell’appartamentino di Alberto Gervasoni senza tanti complimenti e senza proferire parola alcuna. Continuando a celare il motivo della sua misteriosa visita, camminava a passo di femme fatale andando di stanza in stanza, e ben osservando il mobilio e l’arredamento della casa. Passava attenta l’indice sui mobili in legno, per vedere quanta polvere era depositata su di essi. Ma non trovava niente, vista la perizia maniacale che ci metteva Alberto Gervasoni nel mantenere in ordine il proprio appartamentino.
“E bravo il nostro detective” proferì di spalle ad un certo punto la milady.
Poi, voltandosi e guardando in faccia Alberto Gervasoni, aggiunse: “Se lei è altrettanto bravo a risolvere casi quanto a tenere in ordine casa, beh… è assunto”
Devo ammetterlo: quando la milady fissò negli occhi Alberto Gervasoni, per la prima volta vidi nitidamente nelle pupille di quest’ultimo una luce che non ho veduto più in seguito.
Dopo queste prime parole della milady, la conversazione divenne tale, e seduti davanti ad un tè si svelarono i ruoli. Lei era la vedova del morto che era stato rinvenuto quattro giorni prima: questo era (stato) un pezzo grosso, un imprenditore che aveva messo da parte un patrimonio da far impallidire la maggior parte degli esseri umani che costellano questo mondo. Ora lei, unica erede, inevitabilmente era tra i possibili indiziati della polizia. Non tanto perché scorresse tra lei ed il defunto marito qualche attrito, ma più che altro per il fatto che l’omicidio era stato così assurdo e misterioso che la polizia brancolava nel più totale buio, e quando non si sa che pesci prendere si parte dal sondare le piste più banali, che però offrono sempre moventi attendibili. E quel patrimonio fatto di un numero sterminato di zeri era senz’altro un movente appetibile. Comunque la stessa polizia non ci credeva poi tanto in questa pista, ed anche e soprattutto dopo le prime indagini sembrò più che altro una forzatura continuare a batterla. Però andava fatto.
Lei era rimasta turbata da tutto ciò: dalle domande incalzanti della polizia, dall’intrusione dei mass media nella sua sfera privata. E chiedeva solo giustizia: per sé e per il suo povero marito. Voleva assolutamente che fosse scoperto l’assassino.
Di solito gli uomini ricchi hanno sempre una lunghissima lista di nemici: è un caso di diretta proporzionalità, che difficilmente può essere contraddetto. Eppure il morto, nonostante il conto in banca, era una persona ammirata e benvoluta da tutti. Almeno apparentemente. Era un uomo che faceva beneficenza, e che sembrava si fosse fatto da solo senza mai tirare colpi bassi a qualcuno, o mettere il bastone tra le ruote a qualcun altro. Insomma i suoi soldi erano stati sudati, e non erano sporchi né di sangue né di imbrogli.
Ad Alberto Gervasoni il tutto sembrò non poco strano, e sin da subito pensò che il caso sarebbe stato a dir poco arduo da risolvere. Sta di fatto che però la sua mente solo in minima parte era impegnata dalle fagocitanti congetture volte a dirimere il fumoso mistero, mentre per il resto era volta a pensare a tutt’altro: e sì, Alberto Gervasoni si era innamorato. Era cotto di quella milady.
E chi non lo sarebbe stato?
Alberto Gervasoni era sempre stato un cuore solitario, barricato nella sua torre d’avorio a combattere i fantasmi dell’ignoto ed i misteri più imperscrutabili. Per quanto ne so io, non ha mai avuto una love story. E per love story non va intesa solo la classica storia d’amore da film americano strappalacrime, ma anche qualsiasi altra forma più o meno marcata di scambio di sentimenti fra due persone. Insomma, per farla breve, Alberto Gervasoni con molta probabilità non si era mai innamorato in tutta la sua vita. E mai parlava di donne.
Ora il problema era questo: Alberto Gervasoni mi aveva sempre spiegato che per risolvere un caso bisogna essere il più possibile liberi da vincoli di ogni genere, avere la mente sgombra da qualsiasi gravame e soprattutto non frapporre mai i propri sentimenti alla fredda e razionale verità. Inoltre aggiungeva sempre che, o queste condizioni venivano rispettate, oppure lui un caso non l’avrebbe mai potuto assumere. La definiva “deontologia professionale” tutta questa lunga e vorticosa congettura.
Adesso, senza dubbio, questo teorema non poteva essere in alcun modo rispettato, e di rigore Alberto Gervasoni avrebbe dovuto rassegnare le proprie dimissioni e lasciare il caso. Però, abbandonare le indagini sarebbe anche equivalso ad abbandonare la milady, forse per sempre. E questo il suo cuore non l’avrebbe potuto mai accettare.
Si era, insomma, proprio di fronte ad un bivio: cosa avrebbe dovuto fare Alberto Gervasoni?
In quei giorni, dire che appariva ai miei occhi pensieroso e preoccupato è a dir poco un eufemismo. Ed alla fine si giunse, con fatica di tutti, alla conclusione più irrazionale ma al contempo più logica: assecondare il cuore facendo un piccolo torto alla mente.
Mai e poi mai Alberto Gervasoni avrebbe però ammesso questa sua “sgarrata”, questa sua deviazione rispetto ai suoi granitici principi professionali: e così, ad ogni apprezzamento che gli veniva fatto sulla sua cliente (sotto il profilo estetico, si intende…), lui storceva ogni volta il naso, glissando sul punto, quasi a voler dimostrare in maniera inconfutabile la propria freddezza e l’assoluta mancanza d’interesse che nutriva verso la milady.
Tutte cose false, che però erano necessarie a mantenere integro il suo onore e la sua reputazione di detective.

  
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