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Autore: GirlWithChakram    08/07/2016    12 recensioni
Max Caulfield, neolaureata, è riuscita ad ottenere la possibilità di lavorare per la nota rivista di arte "FRAME", creata e gestita da Mark Jefferson, suo professore ai tempi della Blackwell Academy. Trovandosi con il compito di individuare un artista emergente da portare sotto i riflettori, la giovane non ha idea che il destino metterà sul suo cammino, nel modo più inaspettato, una pittrice dal passato problematico. Cosa accadrà quando l'arte porterà a convergere le loro vite altrimenti destinate a non incrociarsi mai?
[Pricefield]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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V: Alas Remains Truth | Ahimè rimane la verità
 
La consapevolezza piombò su di me come il colpo di frusta a seguito di una brusca frenata. Fu come se, dopo un singolo secondo di perfetta beatitudine, la realtà dei fatti mi avesse colpita con una martellata in testa, facendo rimbombare ogni cosa all’interno della mia scatola cranica, scuotendomi fino ai piedi.
Con estremo dispiacere, portai le mani verso le spalle di Chloe e la allontanai.
«Non posso» dissi con voce grave, per farle intendere quanto seria fosse la questione.
La luce nei suoi occhi ebbe un fremito e poi scomparve. Di propria iniziativa, la pittrice fece qualche passo indietro con un’espressione sconvolta sul viso. «Io… Merda… Non volevo, mi dispiace… Non so cosa mi abbia preso…» balbettò, gesticolando come se quell’azione aiutasse ad enfatizzare il concetto.
Senza lasciarle modo di parlare oltre, sgattaiolai verso la porta e me ne andai. Ignorai il gruppo ancora intento a fare baldoria, dirigendomi alla svelta verso la mia unica via di fuga.
«Vai di fretta?» mi bloccò una voce, proprio quando ormai credevo di essere salva.
Strinsi con forza la mano che avevo appena poggiato sulla maniglia, poi mollai la presa e mi voltai, stampandomi un falso sorriso sulle labbra. «Sì, Rachel, ho un paio di commissioni da fare prima che sia troppo tardi» mentii, sperando che decidesse di non trattenermi oltre.
I gonfi occhi arrossati della modella corsero lungo la mia figura. Ero inquieta, come se ad un semplice sguardo lei fosse in grado di scoprire quanto era avvenuto appena qualche minuto prima, a distanza di una parete.
«Buona giornata, allora» biascicò, passandomi affianco ed aprendo la porta per me.
Senza farmelo ripetere due volte, mi fiondai lungo le scale e mi rintanai in casa.
Tentai di ignorare il più possibile la miriade di messaggi che mi arrivarono dal numero della Price, dovendomi fare molta forza per non cedere e tornare sui miei passi. Non aveva senso negare a me stessa la verità: provavo qualcosa per la punk, ma lei era già in una relazione, per quanto potesse essere complicata, in più dovevamo lavorare insieme, quindi non c’era spazio per una tresca.
Provai a mettermi d’impegno per scrivere, ma lasciai perdere dopo tre minuti, quando mi resi conto che non stavo facendo altro che aprire e chiudere alcuni selfie che Chloe si era fatta usando la mia fotocamera. Aveva fatto le facce più stupide e buffe del proprio repertorio dicendomi ogni volta che avrebbe voluto quella come apertura dell’articolo, al posto di una posa seria di presentazione come di solito era riservata agli artisti.
Nei suoi occhi quel guizzo malandrino si poteva percepire anche attraverso l’obiettivo, il che mi distraeva ulteriormente, impedendomi di muovere il progetto avanti anche di un solo centimetro.
Sconfitta, mi abbandonai sul materasso, sperando che decidesse di inglobarmi per annullare la mia miserabile condizione.
«Tutto bene, Mad Max?» sentii Warren domandarmi da oltre la soglia chiusa.
Rimasi in silenzio, incapace di mentirgli e dire che andava tutto bene.
«Posso entrare?»
«Accomodati» ribattei sprofondando ancora di più nel mio letto.
«È capitato qualcosa?» chiese entrando «Un problema al lavoro?»
«No, da FRAME va tutto bene» replicai.
«È per via dell’articolo?»
«In un certo senso…»
Lui inclinò la testa, cercando di capire cosa intendessi. «Hai litigato con Chloe?»
Aggrottai le sopracciglia, domandandomi come avesse fatto a capire che il problema ruotasse intorno alla pittrice.
«Di solito quando scendi dal 3A hai sempre una faccia contenta, ma oggi…» mi spiegò, avvicinandosi «C’è qualcosa che non va. Perché sei stata al piano di sopra, giusto?»
Annuii.
«Devono star facendo una festa, visto il rumore che sento» proseguì «Ti hanno cacciata via perché rovinavi l’atmosfera, guastafeste?»
Feci una smorfia divertita.
«Beh, sappi che noi possiamo fare un party molto migliore del loro in qualsiasi momento» affermò «Basta un tuo cenno e chiamerò mezza città per fare casino.»
«Molto gentile da parte tua, Warren» mormorai.
«Allora non hai tanta voglia di parlarne, eh?» constatò, incrociando le braccia al petto «Fa niente, io sarò di là se avrai bisogno di me.»
Lo ringraziai, ma invece di restare a crogiolarmi nella mia malinconia scelsi di seguirlo, andando a punzecchiarlo mentre si impegnava a correggere alcune stringhe di codice. Dopo una mezz’ora si arrese e decise di guardare un po’ di televisione con me.
Guardammo puntate di diverse serie tv, dibattendo sull’utilità e la credibilità dei vari personaggi, tornando i due nerd che si erano conosciuti alla Blackwell Academy sei anni prima.
Giunte le sette e mezza, il mio cellulare squillò e mi toccò l’ardua impresa di affrontare Kate. La mia amica capì subito, dal mio tono, che fosse accaduto qualcosa e non mi azzardai a negare perché sapevo che avrebbe fiutato la mia menzogna a miglia di distanza.
Quando le raccontai quanto capitato nel safe space percepii lo sforzo nella sua voce per non urlarmi nei timpani quanto fossi stata stupida a non tentare un confronto. Andò avanti quasi un’ora a ripetermi che come prima cosa l’indomani avrei dovuto parlare con Chloe per chiarire. Era talmente presa da quella storia che le passò totalmente di mente di raccontarmi della sua giornata a scuola e dei suoi marmocchi litigiosi.
Dopo che le ebbi promesso almeno una decina di volte che non avrei ignorato la situazione, ma avrei agito per trovare una soluzione, Katie disse di dover andare perché lei e i suoi amici della chiesa si sarebbero riuniti per la prova generale del loro spettacolo primaverile.
Trascorsi la serata con Warren, continuando a godermi il clima di complicità ritrovata, chiudendo ogni altra riflessione in un cassetto inaccessibile del mio cervello.
Fu solo quando andai a dormire che la Price potè tornare ad insinuarsi nello spazio tra i miei pensieri, procurandomi una notte di sonno agitato.
Sabato e domenica trascorsero tra una tazza di caffè e l’altra, mentre mi impegnavo per sistemare i pochi passaggi dell’articolo che ero riuscita a far filare.
Lunedì avvisai Jefferson che non sarei andata in ufficio per potermi concentrare meglio sul pezzo, dato che mancava una sola settimana al termine stabilito.
Dopo essermi spremuta le meningi per tutta la mattina su quel brano che si rifiutava di lasciarsi scrivere, mi presi una pausa per mangiare e riposare un po’. Dormii più di quanto avrei dovuto, risvegliandomi quando ormai era tardo pomeriggio.
Notai, appiccicato allo schermo del televisore, un bigliettino del mio coinquilino, che mi avvisava che avrebbe passato la serata fuori con un gruppo di suoi ex compagni del college dato che erano di passaggio nelle vicinanze.
L’idea di restare sola mi avvilì. Ragionai su cosa potesse distrarmi abbastanza da non farmi notare quanto fossi indietro con il lavoro e trovai la risposta in camera mia, in una vecchia scatola su cui ormai si era accumulato un sottile strato di polvere.
Soffiai, sollevando una nube di microscopici detriti che mi causò una serie di starnuti, poi aprii il coperchio.
All’interno, avvolta in un panno delicato, c’era la mia vecchia Polaroid, la prima macchina fotografica da me mai posseduta, che i miei genitori mi avevano regalato molti anni addietro. Nonostante da qualche tempo fossi passata ad un dispositivo digitale di ultima generazione per i miei rari lavori freelance, non ero riuscita a liberarmi di quel “ferro vecchio”, come lo definiva mio padre. Insieme all’apparecchio, nella scatola, c’erano molte fotografie, principalmente dei miei anni a Seattle, ma tra loro si trovava anche qualche scatto fatto ad Arcadia Bay durante la mia permanenza alla Blackwell.
Scorsi tra quell’album scomposto di ricordi, giocando a ritrovare gli elementi che all’epoca mi avevano portato a premere il pulsante dello scatto. Sorrisi tra me e me, riscoprendo tutti quei dettagli che, nel corso del tempo, erano andati sfocandosi nella mia memoria.
Ero intenta a rimirare la fotografia di un tramonto che immortalava il faro svettante sulla baia, quando udii il suono di un bussare insistente alla porta.
Mi strascinai fino all’entrata, cercando di infilare la pantofola sinistra che si ostinava a scivolare via dal mio controllo.
«Un momento!» gridai, sentendo il rumore proseguire imperterrito.
Girai le chiavi nella serratura e schiusi l’uscio. Con il pungo levato ancora in alto, pronto ad abbattersi nuovamente sul legno, Chloe abbozzò un timido sorriso.
«Ciao» mormorai.
«Ehi» replicò, portando la mano verso il basso e cacciandosela in tasca «Cominciavo a pensare che non fossi in casa.»
Sollevai lievemente le spalle. «Invece sono qui» risposi «Stavo riguardando qualche vecchia fotografia.»
«Bello…» commentò.
«Vuoi entrare a vederle?» pronunciai, prima ancora che il mio cervello potesse realizzare quel pensiero.
«Ahm… Ok» balbettò la Price, seguendomi.
Con la coda dell’occhio la vidi studiare l’ambiente, dopotutto non era mai stata nell’appartamento e probabilmente si era domandata in che stato fosse il luogo in cui vivevo.
La invitai a varcare la soglia di camera mia, accogliendola nel mio caos naturale, accentuato dagli scatti che avevo sparpagliato sul pavimento.
«Bella bestia!» esultò individuando la Polaroid e rigirandosela tra le mani «Mio padre aveva una roba simile quando ero piccola.»
Feci cenno di aver compreso ed iniziai a raccogliere le istantanee per raggrupparle in piccole pile.
Notai che la punk ne aveva individuata una e la stava fissando intensamente, quasi volesse perforarla con lo sguardo. «Bel soggetto» constatò, mostrandomi cosa l’avesse catturata tanto.
Era lo scatto del faro al tramonto.
«Somiglia molto ad uno dei miei lavori» proseguì, porgendomi la foto.
Inarcai le sopracciglia, confusa. «Non me lo hai mai mostrato.»
Chloe mutò rapidamente espressione, passando dall’essere rilassata ad essere tesa come una corda di violino. «Giusto, giusto» borbottò tra sé e sé.
«Vorresti farmelo vedere?» domandai.
Lei deglutì rumorosamente. «In realtà ero passata solo per assicurarmi che il tuo articolo fosse a buon punto…»
«Oh» sussurrai con un certo disappunto «In realtà sono proprio messa male da quel punto di vista… Magari» tentai di convincerla con tono delicato «Vedere qualche tua altra tela potrebbe darmi la spinta giusta per migliorare il pezzo.»
La pittrice tornò a sorridere, ma mi era chiaro che fosse combattuta, anche se non riuscivo a comprenderne il motivo. «Non sono convinta che…» Le sue parole si persero nell’aria.
«Se è per quello accaduto l’altro giorno, non temere» tentai di annullare l’imbarazzo «Concordiamo che non sia successo nulla.»
Lei annuì, rilassandosi. «Allora, vestiti» disse, indicando in modo vago il pigiama che avevo ancora indosso «Dobbiamo fare un viaggetto.»
La feci accomodare in salotto e mi cambiai rapidamente, cacciando in borsa anche la macchina fotografica e lo scatto che aveva originato la questione.
«Dove si va?» domandai, quando, ormai fuori dal condominio, in sella al pickup, imboccammo una strada che conduceva fuori città.
«Ti fidi di me?» mormorò con fare cospiratorio.
Sorrisi, intrigata, godendomi il paesaggio dei boschi che si incontravano appena fuori dai limiti urbani.
Ci inoltrammo lungo una via sterrata, lievemente in salita, che non riuscivo a comprendere dove conducesse.
Giunte ad uno spiazzo circondato da alcune rudimentali transenne di legno, la punk mi fece scendere, guidandomi poi su un sentiero un po’ sconnesso, che si inerpicava sull’altura di fronte a noi.
Il tappeto di erba incolta e aghi di pino sprigionava un forte sentore di natura, facendomi ricordare quelle rare volte in cui ero stata in campeggio, totalmente immersa nello splendore delle foreste dell’Oregon. Diversi scoiattoli facevano scricchiolare i rami degli alberi, lanciandosi dall’uno all’altro sopra le nostre teste. Era quasi un peccato che stessimo turbando quella quiete a cui gli esseri umani sembravano non dover prendere parte.
Così presa dall’ammirare quanto intorno a me, non mi accorsi di un sasso sporgente e lo colpii in pieno con il piede destro, inciampando.
«Attenta!» gridò Chloe, allungando la mano giusto in tempo per soccorrermi.
Afferrai l’aiuto all’ultimo istante, lasciando che le braccia della pittrice mi accogliessero, per farmi ritrovare stabilità.
Avvolta in quell’abbraccio tornai a sentire tutta le serie di emozioni che avevo tanto faticato ad allontanare. Non avevo la forza di staccarmi dal corpo della Price, perché, anche se il contatto era stato del tutto dettato dall’urgenza di non farmi schiantare, era bastato a farmi sentire al sicuro.
Con un colpo di finta tosse, l’artista mi fece staccare. «Qualche danno?»
Scossi la testa, bisbigliando: «Grazie.»
Riprendemmo l’ascesa e a poco a poco qualcosa nella mia mente si smosse, ricordandomi di aver già visto quello scenario.
«Ci siamo quasi» mi comunicò dopo una decina di minuti dall’inizio della nostra salita.
Come evocato da quelle parole, comparve alla mia vista il promontorio del faro.
Il sole, che aveva già iniziato ad avvicinarsi alla linea dell’orizzonte per tuffarsi nell’oceano, riluceva contornando le cime degli ultimi alberi e facendo brillare il bianco accecante della lighthouse.
«Wowser!» esclamai, tornando ad utilizzare un’espressione che avevo accantonato da anni ormai.
«Puoi dirlo forte» gongolò la ragazza dai capelli blu, osservando il panorama con il mio stesso trasporto «Forza, seguimi.»
Arrivammo ai piedi del faro e ci arrestammo davanti alla porta chiusa.
Aggrottai la fronte. La lighthouse era chiusa al pubblico da molti anni ormai. Un tempo il guardiano che vi abitava lasciava che i bambini potessero correre su e giù lungo la rampa di scale interna, ma da quando la struttura era stata automatizzata e l’uomo congedato, nessuno aveva potuto mettervi piede.
«Cosa ci facciamo qui?» chiesi, alzando la testa verso la ringhiera che sovrastava le nostre teste.
«Dammi un momento» disse, cacciandosi per l’ennesima volta le mani nelle tasche.
Cominciavo a meravigliarmi di cosa potesse estrarvi: una volta erano le chiavi del pickup, un’altra un pacchetto di sigarette, un’altra ancora un piccolo foglio spiegazzato con una matita. Sembravano quasi non avere fondo.
«Ecco!» esultò, portando alla luce una chiave color ottone, che si andò ad inserire con un lieve tintinnio metallico nella serratura.
«Prego» mormorò, inchinandosi galantemente per lasciarmi passare.
Varcata quella soglia non potei trattenere un verso di sorpresa.
Lo spiazzo centrale, che ricordavo essere occupato da un vecchio letto sgangherato, un fornello da campo e poco altro, era stato trasformato in un vero e proprio appartamento, con tanto di frigorifero, televisore e comodo divano in pelle. Una sezione a parte, divisa da tre pareti di legno, doveva ospitare un piccolo bagno, probabilmente con doccia. Un paio di morbidi tappeti servivano a coprire il vecchio pavimento in cemento rovinato. Ma la cosa più straordinaria era la quantità di schizzi, abbozzi e mezzi progetti abbandonati in giro; se la stanza del 3A mi era sembrata un piccolo atelier, quello era la sua versione amplificata di cento volte.
«Sei la prima persona, dopo gli addetti ai lavori, che ci mette piede» mi informò, mostrandomi lo spazio passo per passo «Quando siamo tornate ad Arcadia Bay, circa un anno fa» raccontò «Ho deciso di investire tutti i miei risparmi in questo piccolo progetto. Avevo ottenuto la concessione di rimodernare questo posto agli inizi della mia carriera artistica, il vecchio guardiano mi aveva venduto il posto per una miseria e mi ero ripromessa di metterlo in ordine per venirci a vivere. Mia madre mi ha fatto avere un po’ di soldi ricavati dalla vendita della nostra vecchia casa ed io ho deciso di tenerli lontani da Rach… Beh, per evitare che sparissero in droga e festini, così li ho investiti qui.»
La ascoltavo ammaliata, da lei, dal luminoso sorriso che le marcava il viso, dalle meraviglie artistiche che si presentavano ai miei occhi.
«Ti ricordi il quadro sulla copertina di Frame?» mi domandò.
Annuii, riportando alla mente la tela in questione.
«L’ho dipinta dalla balconata al piano di sopra» spiegò, indicando la rampa di scale che si inerpicava lungo la parete del faro «Vuoi vedere?»
La seguii come in trance, incapace di convincermi che quello non fosse solamente un sogno.
Salimmo diversi gradini ed arrivammo al secondo piano, dove era stata approntata una rustica camera da letto, popolata, però, perlopiù da cavalletti e tavolozze. Tubetti, barattoli, pennelli di ogni tipo e genere erano disseminati qua e là, dando l’impressione che fosse appena passato un uragano.
«Su di là» proseguì, indicandomi una serie di pioli di ferro che sporgevano dal muro «Si arriva al vano della lanterna vera e propria, ma non ci vado mai. Di qua, invece» continuò, prendendomi per mano «Si arriva al punto migliore.»
Mi spinse oltre la portafinestra che si spalancava verso la baia, garantendo una visuale perfetta sull’intera città.
Percorremmo quel breve camminamento un paio di volte, girando in tondo affinché io potessi cogliere i singoli dettagli da ogni angolazione possibile.
Alla fine, mi arrestai, afferrando la barriera di ferro gelido con le mani, lasciando che il mio sguardo si perdesse oltre la linea dell’orizzonte, tra le onde placide del Pacifico. La brezza salmastra e frizzante mi solleticò la testa, come se invisibili dita di vento stessero giocando con le ciocche dei miei capelli.
«È bellissimo» mormorai rapita. L’istinto di una volta tornò a premere dentro di me, portandomi a scattare una foto a quello spettacolo magnifico.
«Lo so» ribattè la Price, alle mie spalle «Ho sempre voluto condividere questo posto, la sua magia, con qualcuno…» proseguì.
Mi voltai, per tentare di capire se il suo viso lasciasse trasparire quel qualcosa che le sue parole stavano con buona probabilità insinuando.
Sembrò pentirsi immediatamente di quanto detto e si mise a balbettare frasi incomprensibili.
Notai il suo sorriso, che da genuino si era fatto nostalgico, quasi amaro. Le sue iridi azzurre, splendide come il mare che si infrangeva in volute di spuma a decine di metri sotto di noi, cercavano di comunicarmi quanto le parole stavano tacendo.
«Ti prego» la supplicai «Dimmi quello che pensi… Sono tua amica, dimostrami che ti fidi di me quanto io mi fido di te. Dopotutto ho lasciato che mi portassi fin quassù, potresti spingermi di sotto e nessuno sospetterebbe mai nulla» conclusi, ridacchiando per alleggerire l’atmosfera.
Gli angoli della bocca della pittrice si incurvarono all’insù. «Quando ti innamorerai» mormorò, mal celando una nota di disillusione «Il prescelto sarà un uomo davvero fortunato, il bastardo più fortunato di tutti.»
Spalancai gli occhi. Quel discorso non aveva senso.
Con un sospiro, Chloe si voltò, tornando verso la portafinestra.
E fu allora che mi colpì: il problema che lei aveva con me non aveva nulla a che vedere con Rachel, come pensavo. Probabilmente tra le due c’era una specie di tacito accordo che le faceva rimanere insieme più per lealtà e convenienza che non per vero amore, quindi i miei presupposti erano totalmente errati. La Price aveva continuato a scusarsi e ad agire in modo scostante perché credeva non fossi interessata a lei. In sua difesa, l’unica storia che avessi mai avuto era stata con un ragazzo e lei lo sapeva, per cui si era probabilmente convinta di non avere alcuna possibilità. Si era, quasi certamente, messa in testa che tutti i miei patetici tentativi di flirt, portati avanti con pochissima efficacia nel corso delle settimane passate, fossero frutto della propria immaginazione.
L’avevo ferita oltre l’immaginabile e la cosa assurda era che non l’avevo fatto davvero.
Illuminata da quella improvvisa rilevazione, le corsi dietro.
«Chloe, aspetta!» gridai a pieni polmoni, raggiungendola dentro la lighthouse, chiudendo la porta finestra per allontanare il freddo della sera che si stava facendo largo tra i raggi del sole morente.
La punk mi osservò con curiosità, non aspettandosi di essere inseguita in quel modo.
«Sei tu» dissi con decisione.
«Cosa?» chiese, levandosi il cappello e lanciandolo lontano per potersi passare una mano nella chioma colorata.
«Sei tu» ribadii, portandomi vicina a lei, lasciando che fossero le mie dita a districare i nodi celesti.
La pittrice continuò a studiarmi, rimanendo in silenzio.
«Sei tu il bastardo più fortunato di tutti.»
Non appena le ultime sillabe lasciarono le mie labbra, l’espressione di Chloe venne stravolta, sorprendendomi per quanto quel volto potesse apparire bello nello specchiare la felicità.
Le mie parole riempivano ancora lo spazio quando iniziammo a baciarci. Non erano più baci ispirati dall’audacia dell’alcol o dall’impulsività, erano dettati da qualcosa di più forte, di più profondo, da ciò che ci aveva legate in così breve tempo.
Ero incapace di separarmi da lei, mi sentivo calamitata con ogni parte del corpo, quasi volessi starle talmente vicino fino a fonderci in un’unica entità.
Quando la mancanza d’aria iniziò a farsi sentire, i nostri volti si allontanarono di qualche centimetro, per permetterci di respirare.
«Wowser» ripetei per la seconda volta quel giorno.
«Hella awesome» ribattè la pittrice «Possiamo riprendere?» continuò con tono languido.
Mi fiondai nuovamente sulle sue labbra, decisa a non separarmene mai più.
Senza che ne fossi pienamente cosciente, prendemmo a muoverci verso il letto che giaceva sepolto sotto fogli e dipinti. Con un colpo di coperta ai limiti dell’inumano, la Price sollevò il tutto originando un turbine d’arte che ci avvolse, per poi scemare, ricadendo ai nostri piedi come in un balletto di foglie autunnali.
Il mio polpaccio andò a sbattere contro il bordo del giaciglio, strappandomi un piccolo verso di dolore. Probabilmente non mi sarebbe rimasto neppure il livido, ma era bastato a distrarmi da Chloe.
Lei mi osservò chiedendo tacitamente se stessi bene.
Per farle intendere che nulla di grave fosse successo, la attirai con più forza verso di me, sbilanciandomi poi per cadere insieme sul materasso.
Ridacchiammo tra un bacio e l’altro.
Stava accadendo tutto in fretta, tutto con una naturalezza che non avevo mai provato, era un’esperienza quasi magica.
Le mani della punk, sempre più audaci e sicure, scivolarono lungo il bordo della mia t-shirt, afferrandolo. Con un movimento fluido, mi sfilò la maglietta ed iniziò a posare le labbra dapprima sul mio collo per poi discendere verso il petto, mentre armeggiava per farmi scivolare via i jeans.
Nel turbinio di emozioni, trovai la lucidità di pensare che non fosse corretto che fossi solamente io ad essere mezza nuda, così portai le mani verso la sua giacca e gliela levai, dedicandomi subito dopo alla canotta leggerissima. Come facesse a non morire assiderata per colpa del clima rigido dell’inverno dell’Oregon era per me un colossale mistero.
Una specie di ringhio le salì dalla gola, quando le mie dita incespicarono cercando di sbottonarle i pantaloni. Le dita affusolate smaltate di azzurro giunsero in mio soccorso e mi aiutarono a compiere l’ardua impresa.
Liberate dell’impaccio degli abiti, tornammo a concentrarci l’una sull’altra, iniziando ad esplorare i rispettivi corpi, fino ad allora celati.
Percorsi con i polpastrelli l’intricato disegno del tatuaggio sul braccio, mentre i denti della Price, simili a quelli di un assetato vampiro, affondavano nella pelle del mio collo, dando origine ad una serie di brividi.
Con fare esperto mi slacciò il reggiseno e poco dopo mi aiutò a fare lo stesso con il suo.
Ormai ero completamente in balia di lei e delle sue mani, che sembravano in grado di plasmare una nuova me, come uno scultore avrebbe trasformato un mucchio di argilla in una maestosa statua. Le farfalle blu che mi balenavano davanti agli occhi mi fecero pensare che anche io, in quel momento, stessi subendo una trasformazione, abbandonando la mia crisalide per spiegare le ali e tutto ciò era merito di Chloe.
Le sue dita e la sua lingua presero a tracciare sentieri invisibili, rune magiche di un incantesimo che avrebbe legato le nostre anime per sempre. Stava pitturando con il suo tocco un nuovo dipinto: il nostro amore e il nostro desiderio.
Respirando sempre più profondamente, incuneando le spalle nel materasso, vidi la testa celeste e rosa portarsi sempre più in basso. La pittrice soffiò con fare giocoso sul mio ombelico, mentre le sue mani afferravano l’elastico dei miei slip.
Prima di andare oltre mi pose solamente una domanda: «Credi nell’amore eterno?»
Non seppi cosa dire, per cui tacqui, lasciando che fossero i nostri reciproci gesti a parlare, ma ero certa che, se fosse esistita una risposta, l’avremmo trovata insieme.
Chloe quella notte mi aprì le porte di un mondo nuovo, mi svelò arcani segreti su me stessa che mai altrimenti avrei indagato per scoprire, mi donò se stessa e molto di più, risvegliando in me una voglia di vivere che anni di fallimenti artistici e delusioni di ogni genere avevano attenuato.
Mi destai quando la luce del mattino arrivò a solleticarmi le palpebre.
Tentai di stiracchiarmi, sentendo che i miei arti, piacevolmente intorpiditi, avevano bisogno di sgranchirsi, ma realizzai presto di essere intrappolata in una morsa senza via di scampo. Il braccio sinistro della Price mi teneva ancorata a lei, mentre la sua testa era incastrata contro la mia nuca, facendo sì che il suo respiro caldo si infrangesse contro la mia pelle nuda. Le nostre gambe erano intrecciate, per intrappolare e trattenere il calore. Fuori dalla nostra piccola bolla di pace delimitata dalla coperta attorcigliata tra di noi, il mondo era vittima del gelo dell’aurora.
Rimasi ferma per un po’, godendomi il semplice contatto tra i nostri corpi, ma poi, comprendendo che la situazione non sarebbe cambiata entro breve, iniziai ad essere impaziente.
Con movimenti minimi e il più impercettibile possibili, sgusciai fuori da quella presa, fino a che non riuscii a sedermi sul bordo del letto, rabbrividendo per il forte sbalzo termico.
Mi voltai ed ammirai il corpo nudo della punk che riposava tranquilla lì accanto. La sua pelle di alabastro, punteggiata di piccoli nei rotondi, arricchita dall’inchiostro dei tatuaggi, ornata dalle ciocche blu che fluttuavano per via dei suoi respiri, era perfetta in ogni sua parte, dalla più esposta alla più segreta.
Con un sorriso, realizzai di avere finalmente sotto gli occhi la più bella opera d’arte al mondo.
Attenta a non fare rumore, mi alzai e mi rivestii, recuperando i miei vari indumenti, sparsi intorno, finiti a mescolarsi con i quadri abbandonati poco lontano.
Trovai il dipinto di cui mi aveva parlato il giorno precedente, quello del faro al tramonto. Era una tela all’apparenza finita, dato che portava già la firma, apposta in basso a sinistra in colore azzurro. Al centro dell’opera c’era l’aura brillante che il sole al tramonto proiettava intorno a sé, facendo risaltare le cime dei pini e tingendo di sfumature aranciate la lighthouse. Lo ritenni un lavoro splendido, degno di aprire l’articolo per FRAME.
«Ho cominciato a dipingerlo la sera che ti ho conosciuta.»
Mi girai, vedendo Chloe sveglia, puntellata sul gomito destro, in procinto di alzarsi.
«Dopo che sei andata via, ho aspettato che Rachel rientrasse e le ho detto di volermi schiarire le idee, così sono venuta qui, ho preso una tela bianca e ho iniziato ad imbrattarla di colore.»
La pittrice si levò in piedi, mi posò un bacio sulla bocca per poi recuperare a propria volta gli abiti, stirando i propri lunghi arti come avrebbe fatto una gatta dopo una lunga dormita.
«Mi pare sia venuto piuttosto bene» concluse, cercando nella tasca dei jeans una sigaretta da accendersi.
«Più che bene» concordai «Pensavo di usarlo come quadro di apertura.»
Lei levò lo sguardo, sogghignò, poi scosse il capo. «No, ho in mente un altro dipinto che meriterebbe quel posto.»
«Quale?» chiesi.
L’artista si picchiettò una tempia con un dito e sorrise. «È qua dentro e dopo colazione gli faremo vedere la luce.»
Scendemmo al piano inferiore e mi sorpresi di scoprire che il frigorifero, oltre, naturalmente, una scorta a vita di birra, conteneva effettivamente cibo commestibile.
«Non saranno buoni quanto quelli che facevano i miei genitori» disse, iniziando a versare in una padella un impasto beige, pronto da cuocere sul fornetto a gas «Ma almeno sono commestibili.»
Dopo qualche minuto, mi trovai ad osservare, perfettamente impilati in un piatto di carta, sei deliziosi pancake, accompagnati da due bicchieri di latte.
Chloe senza tante storie versò sopra le frittelle mezzo litro di sciroppo d’acero, poi mi porse una forchetta per favorire. Facemmo colazione in quel modo, mangiando dallo stesso piatto, combattendoci con le posate fino all’ultima briciola. Fu un momento divertente, giocoso e sereno, tutto ciò che mi sembrava fosse mancato nella mia vita fino a quel punto.
Spendemmo ancora un po’ di tempo al piano terra ed io ne approfittai per usare il bagno, rinfrescarmi ed indagare ancora su qualche altro disegno abbandonato a se stesso, poi giunse il momento di tornare di sopra.
Risalii le scale, incalzata da Chloe che mi pizzicava i fianchi.
Tornate nelle vicinanze del letto, mi sembrò di vivere un déjà vu, trovandomi nuovamente con la schiena contro il materasso, mentre le labbra della Price, sempre più avide, andavano mappando ogni centimetro libero del mio corpo.
Ad un tratto, senza preavviso, levò la testa. «Adesso basta giocare» annunciò in tono serio, lasciandomi più che confusa «Prima il dovere, poi il piacere.»
Mi sollevai leggermente per osservarla prendere un cavalletto e una tela bianca.
«Cosa stai facendo?» le domandai.
«Non è ovvio?» ribattè con un sorriso «Devo lavorare.»
Inclinai il capo, nel tentativo di capire.
«Voglio farti un ritratto» spiegò, rigirandosi tra le dita diverse matite per decidere quale utilizzare per tracciare le prime linee guida.
Arrossii ed afferrai un lembo di coperta per seppellirmici. «No e poi no» mugugnai da dietro la stoffa «Non voglio.»
Il mio morbido scudo mi venne strappato di dosso poco dopo.
«Andiamo, Max, sarà una cosa rapida, te lo prometto» giurò, portandosi la mano destra al petto «Giusto il tempo di approntare il disegno preparatorio, poi sarai libera.»
Borbottai il mio dissenso, ma fui costretta a cedere quando i suoi occhi azzurri presero a fissarmi con insistenza, scrutandomi l’anima, disintegrando le mie difese.
Mi abbandonai sul materasso con un sospiro. «Come vuoi che mi metta?»
«Mettiti la coperta a mo’ di drappo» mi ordinò «E sdraiati su un fianco… Quello sinistro direi… E guarda verso di me.»
Feci quando mi veniva richiesto.
«Perfetto» commentò, spostando ripetutamente lo sguardo da me alla tela e viceversa.
Era talmente assorta nel suo compito da apparire come una persona totalmente differente, un corpo animato da pura ispirazione artistica. Quella di fronte a me era Beth Price.
Non resistetti al desiderio di immortalare quell’istante, così, sperando che il mio gesto non mandasse a monte il suo lavoro di preparazione, mi allungai oltre il bordo del letto, raggiungendo con la punta delle dita la tracolla della mia borsa. Attirai a me la sacca, facendola strisciare sul pavimento chiazzato dei più vari colori, probabilmente condannandola a morte, e ne estrassi la Polaroid, pronta a mettere a fuoco Chloe per rubarle una foto.
Ero sul punto di realizzare lo scatto, quando giunse alle mie orecchie un imperativo perentorio: «Non ti muovere di un solo millimetro.»
Avevo l’apparecchio ormai in posizione davanti al viso, già vicino all’occhio per inquadrare la figura della pittrice.
«Verrà ancora meglio di come me l’ero immaginato» gongolò, andando avanti a muovere la mano sinistra, armata di matita, come fosse impazzita «Sarà il più bel dipinto dei miei ultimi anni.»
Dopo qualche minuto, essendosi assicurata che tutto fosse pronto per dare vita al quadro effettivo, la Price mi ridonò la libertà, concedendomi finalmente di scattare la fotografia.
«Sei bellissima quando lavori» mormorai «Sei così presa da ciò che fai che quasi mi fai dimenticare chi tu sia in realtà.»
La ragazza dai capelli blu mi sorrise, divertita. «E chi sarei in realtà?»
«Una punk tatuata dal pessimo carattere, con un ottimo gusto in fatto di donne.»
Scoppiammo a ridere entrambe.
«Sull’ultima parte non posso proprio darti torto» concordò, togliendomi dalle mani la Polaroid, appoggiandola per terra «Grazie per ieri sera, è stato il miglior compleanno della mia vita e tu il miglior regalo.»
Mi allontanai dalle sue labbra che erano già pronte a tornare a riprendere quanto interrotto per la stesura del disegno. «Compleanno?» chiesi perplessa.
«Sì, ieri era il mio compleanno» replicò, come si trattasse di un nonnulla «Non è un fatto poi così straordinario, è solo una convenzione sociale… Cosa ti cambia sapere che sono idealmente più vecchia di un anno?»
«Ma ieri era il tuo compleanno» ribadii «E non me lo hai detto!? Ti avrei offerto la cena, o almeno comprato un dolcetto per festeggiare! Ora mi sento una persona orribile… Non mi è neppure passato per la testa…» Andai avanti a blaterare frasi senza senso mentre cercavo di mettere insieme qualche indizio che mi fosse sfuggito, per esempio un avviso dai social network o un appunto sul calendario e fu allora che mi ricordai di un’altra cosa: era martedì, un giorno di lavoro.
«Oh, merda» imprecai «Dov’è il mio cellulare?»
Afferrai nuovamente la borsa e trovai il telefonino, che naturalmente aveva la batteria morta. Quando ero uscita la sera prima non avevo previsto ciò che sarebbe successo e non avevo portato con me il caricabatterie, in più non avevo avvisato nessuno dei miei piani. Per quanto ne sapevano i miei amici potevo essere stata rapita.
«Posso usare il tuo?» domandai a Chloe, sventolando l’inutile aggeggio.
«Certo, non c’è problema» rispose, tirando fuori uno smartphone dalla tasca dei pantaloni.
Per prima cosa mi sforzai di ricordare il numero di Jefferson, per avvisarlo che mi sarei presa un’altra giornata libera. Anche se avrei avuto, materialmente, il tempo di tornare a casa per cambiarmi e poi uscire per arrivare in ufficio in orario, avevo pur sempre una scadenza in pericoloso avvicinamento e avrei dovuto concentrarmi sull’articolo. Visto che la Price era riuscita a garantirmi una certa flessibilità con i doveri di ufficio, tanto valeva approfittarne.
«Beth?» gracchiò scocciata la voce dall’altra parte dell’apparecchio «Che cazzo vuoi?»
«Mr. Jefferson» dissi «Sono Maxine Caulfield, sto usando il cellulare di Beth Price.»
Il tono dell’uomo cambiò immediatamente, diventando più gentile. «Max! A cosa devo l’onore?»
«Avrei bisogno di chiederle un’altra giornata di permesso» mormorai, sperando di suonare convincente «Sto lavorando al pezzo con la signorina Price e visto che il termine per consegnare il tutto è tra meno di una settimana…»
«Ho capito, va bene» mi interruppe senza tante storie «Non ti preoccupare, buon lavoro» chiuse, senza darmi tempo di aggiungere altro.
«Allora, Jeffer-son-of-a-bitch ti ha lasciato a guinzaglio sciolto anche per oggi?» chiese la pittrice, facendo ciondolare un pennello tra l’indice e il pollice.
Annuii, poi mi affrettai a digitare il recapito di Warren.
«Pronto?»
«Warren, sono Max» risposi, riconoscendo la voce del mio coinquilino.
«Mad Max! Dovei sei? Di chi è il cellulare? Stai tornando a casa?» iniziò a tempestarmi di domande, mettendomi in agitazione.
«Calmati, ti prego» dissi, pur sapendo che sarebbe stato poco efficace «Dammi il tempo di spiegare.»
«Dimmi dove sei, vengo a prenderti» sovrastò la mia voce.
«Non ce n’è bisogno» lo rassicurai «Lascia che ti spieghi…»
«Oh!» esclamò come fosse stato colpito di punto in bianco da una rivelazione «Sei a casa di qualcuno? Ci hai passato la notte?»
Non pensavo fosse il caso di fornirgli tutti i dettagli di quanto accaduto, ma si meritava comunque una risposta. «Sì, Warren, sono fuori da ieri sera in compagnia di un’amica, il telefonino è suo.»
«Ah, capisco» borbottò un po’ incerto «Allora quando torni?»
«Ancora non lo so» replicai «Ma prometto di rientrare per cena.»
Lui sospirò nella cornetta. «Non fare stupidate, mi raccomando. Ti aspetto e se per le sette non sei qui chiamo il 911, sappilo.»
«Certo, mamma» lo schernii «Grazie per guardarmi sempre le spalle» mormorai dopo «Ti voglio bene.»
«Anche io, Max» ribattè «Ora torna pure dalla tua amica, io ho da lavorare.»
Non commentai le sue parole e lo salutai. Digitai rapidamente un nuovo numero.
«Se mi esaurisci il credito dovrai muovere quel bel sederino per andare a comprarmi una ricarica» mi ammonì la Price, che nel frattempo aveva spalmato sulla tavolozza diversi colori per cominciare il quadro.
Le feci la linguaccia e aspettai che dall’altra parte qualcuno mi rispondesse.
«Chi è?» domandò una voce apprensiva.
«Ehi, Katie» salutai «Sono Max.»
«Max? Di chi è questo numero? Perché ieri eri irraggiungibile? Non lo sai che sono a scuola? Ho dovuto lasciare da soli i bambini e adesso si staranno facendo la guerra!»
Non era proprio la reazione che mi sarei aspettata, ma dopotutto non aveva tutti i torti, era pur sempre un giorno scolastico e lei doveva guadagnarsi da vivere.
«Scusa, non ci ho minimamente pensato» tentai di giustificarmi «Nelle ultime ore ho avuto la testa completamente tra le nuvole.»
«L’ho notato… Si direbbe quasi che tu sia stata troppo presa da qualcosa, o da qualcuno, per prestare attenzione al resto del mondo» rispose.
«Ti racconterò tutto, promesso» sussurrai.
«Non sarà necessario, ho già capito tutto» disse in tono disteso «Sono molto contenta per voi.»
Deglutii, colpita da quanto quella giovane donna fosse in grado di leggermi come un libro aperto.
«Sarà meglio che torni dai bimbi, prima che Jennifer ed Allison si mettano nuovamente le mani addosso» proseguì «A più tardi, Max.»
«Va bene, a più tardi, Katie.»
Riagganciai e mi rilassai, abbandonandomi nuovamente sul materasso.
«Finito?» domandò l’artista.
«Sì» confermai «Grazie» aggiunsi, porgendole il telefono.
Lei mi fece cenno di lasciarlo per terra, poi, con la mano sinistra, portò il pennello che stringeva tra le dita vicino al mio viso e mi pitturò la punta del naso. «Direi che come colore per la tua carnagione ci sono andata piuttosto vicina» contemplò, poi intinse nuovamente lo strumento nel colore, mescolando diverse tinture e tornando ancora una volta dipingere la mia faccia invece della tela. «Così va persino meglio» gongolò.
«Chloe…» brontolai, tentando di ripulirmi «Ma ti sembra il caso?»
«Dai, Max, è divertente» ridacchiò «Almeno per me.»
«Ah, sì?»
Non le diedi tempo di comprendere quanto stava accadendo. Mi lanciai verso la tavolozza e dopo aver intinto il palmo nel colore, le accarezzai la guancia, lasciando al mio passaggio un alone arcobaleno.
«Oh, Caulfield, così ti metterai nei guai…» soffiò, concedendomi un sorriso malandrino.
Iniziò una guerra senza quartiere a colpi di ditate e pennellate. In breve la stanza fu invasa di colori e i nostri vestiti impregnati delle più svariate tinture. Ci rincorrevamo come due bambine, ridendo, sporcandoci a vicenda, facendo attenzione ad evitare di rovinare i dipinti sparsi in giro.
Dopo un quarto d’ora speso a giocare, implorai una tregua.
«Mammoletta» mi prese in giro la Price, benché fosse chiaro che anche lei non sarebbe stata in grado di andare avanti a lungo.
«Dobbiamo assolutamente darci una lavata» constatai, passandomi una mano tra i capelli, impiastricciati di colori ad olio.
«Giù c’è un box doccia, nel bagno.»
«Sì, l’ho notato» replicai.
«Credi che riusciremmo a starci in due?» domandò.
Mi avvicinai per tirarle uno scappellotto. «Sei terribile» commentai, iniziando a dirigermi verso il piano inferiore «Dato che sono tua ospite mi concederai l’onore di lavarmi per prima.»
«Certamente» concordò, affrettandosi ad aggiungere: «Non mi opporrei mai al tuo volere, mi piacciono le ragazze autoritarie.»
«Scema» sbuffai, proseguendo nella discesa.
«Gli asciugamani li trovi nell’armadietto sotto il lavandino!» mi gridò la padrona di casa «E non toccare la mia spugna!»
Mi avviai verso il bagno e mi lavai abbastanza in fretta, raschiandomi fino alle ossa con la fantomatica spugna da cui dovevo tenere lontane le mani. Quando giudicai di aver nuovamente assunto un aspetto presentabile, meno simile ad un dipinto ambulante, sgusciai fuori dal box e mi avvolsi in un telo bianco. Mi rimirai nello specchio rotondo situato sopra il lavabo e notai il sorriso che non sarei riuscita a cancellarmi neppure a forza, non dopo la notte e la mattina passate. Quello significava essere felici.
Uscii nella sala centrale, trovandola vuota.
«Chloe?» urlai, per farmi sentire «Ho finito, è il tuo turno!»
«Arrivo!»
Iniziai a passeggiare su e giù lungo il piccolo spazio, iniziando a pensare a come avrei potuto impiegare il mio tempo. Il meglio sarebbe stato mettere mano all’articolo, finchè avevo fresche in testa le nuove tele da aggiungere.
«Hai un computer qui da qualche parte?» chiesi, sentendo i passi della punk lungo le scale.
«Oh, sì, sul fondo della scatola vicino al fornello» mi spiegò, parlando fuori dal mio campo visivo «C’è il mio vecchio portatile. Sarà un po’ datato, ma dovrebbe funzionare ancora e ti va pure bene che ho fatto installare la rete wi-fi proprio poco fa.»
In effetti era una gran fortuna per me. Avevo l’ossessiva mania di salvare i miei lavori, alla fine di ogni stesura, inviandomi una copia via mail, così da averli a mano in qualsiasi momento. Accedendo alla mia casella di posta elettronica avrei ripreso il pezzo da dove lo avevo lasciato l’ultima volta.
«Tutto chiaro?» volle avere conferma la pittrice, parandosi di fronte a me.
«Sì…» risposi, lasciando che qualsiasi seguito mi morisse in gola.
«Oh, andiamo, come se non avessi già visto tutto quello che c’era da vedere» mi punzecchiò divertita.
Osservai il suo stupendo corpo nudo ancheggiare con grazia in direzione del bagno, lasciandomi completamente inebetita. Mi ci volle qualche minuto per riconnettere tutti i neuroni ed approntare il mio piano di lavoro.
Attaccai il pc alla presa, lasciai che la batteria si riprendesse un po’, lo accesi e mi diedi da fare per recuperare il file. Quando lo ebbi per le mani, mi misi a cambiare l’introduzione, per abbozzare qualche riferimento al mio simil-ritratto che aveva appena iniziato a prendere forma, poi passai ad inserire il dipinto del promontorio al tramonto, portando avanti il contrasto tra quell’opera e quella che aveva presentato Beth Price al mondo tre anni prima.
Non mi accorsi di Chloe quando uscì dalla doccia e venne a lasciare che le sue ciocche colorate gocciolassero sulla tastiera consumata.
«Come va?» bisbigliò al mio orecchio sinistro, poggiando parte del proprio peso sulla mia spalla. Sentii le punte umide dei capelli sfiorarmi la guancia, solleticandomi, mentre un delicato aroma di cannella, l’essenza dello shampoo, iniziava ad aleggiare intorno a noi.
«Mi stai distraendo» tentai di dissuaderla dal gioco di seduzione che stava palesemente tentando di mettere in piedi «Sono già molto indietro e così non mi aiuti, anzi. Dovresti metterti d’impegno anche tu per finire quel quadro» proseguii, facendo riferimento alla copertina che aveva deciso.
«Oh, quello» disse con noncuranza, allontanandosi da me «È finito.»
Mi voltai dallo schermo per poterla osservare in viso, convinta di notare la sua espressione compiaciuta nel vedere che avevo creduto a quella sua bugia colossale, ma rimasi molto contrariata nello scoprire che, apparentemente, mi stava dicendo la verità.
«Di già?» mormorai stupita.
«Certo!» esultò «Vuoi vederlo?»
Non potei resistere alla curiosità e ci lanciammo in una gara a chi fosse riuscita ad arrivare per prima alla stanza da letto.
Grazie alla mia scattante agilità e i miei balzi da lepre lungo i gradini, vinsi.
Mi precipitai davanti al cavalletto ad osservare l’opera ancora intenta ad asciugarsi.
Sgranai gli occhi.
Era stupenda.
La protagonista della scena era la Polaroid, che riluceva di un nero profondo, ipnotico. Nel vetro dell’obiettivo, così piccolo quasi da non farci caso, si vedeva riflesso un rettangolo bianco, dietro cui una punta di blu indicava la testa dell’artista immortalata dallo scatto dell’apparecchio dipinto. Dietro la macchina fotografica c’era una figura umana. Le mani erano l’unica parte dettagliata, precise dalle piccole rughe delle nocche, al colore bluastro delle vene che si intuivano passare sotto la pelle diafana. Il resto della persona era lasciato piuttosto indefinito. Il volto era per buona parte nascosto dalla Polaroid, ma una cascata di capelli castani, stesi con lunghe e sinuose pennellate, faceva da contorno, permettendomi di rispecchiarmi. Parte del busto, che era rappresentato coperto con una specie di drappo color avorio per mascherare il seno, era morbidamente ritratto sul materasso, dando l’impressione che la donna catturata nella tela fosse sul punto di abbandonarsi completamente al candore delle coltri in cui era avvolta.
Non potevo credere che quel capolavoro fosse ispirato a me.
«Ho provato a riprodurre la tua bellezza, ma, in mia difesa, era un’impresa difficile» commentò la Price «E poi volevo dare spazio a quella bellissima macchina fotografica, è davvero un gioiellino.»
«Come lo intitolerai?»
Lei mi sorrise, passandomi un braccio attorno alla vita. «“Arte a confronto”.»
«Mi piace» concordai.
«Perfetto» sogghignò, rinsaldando la presa sui miei fianchi «Adesso che ti ho dimostrato di aver fatto i compiti, posso avere il mio premio?»
Le sue labbra iniziarono a posare una scia di baci delicati prima sulle mie scapole per poi risalire lungo il collo, fino alla mandibola.
«Sei davvero incredibile» sussurrai, con la sua bocca ad un soffio dalla mia.
«Ho intenzione di mostrarti che posso essere stra-incredibile» ribattè con un sorriso malizioso.
Smettendo di portare avanti quella blanda resistenza, mi lasciai trascinare ancora una volta sul letto.
Rimanemmo al faro fino alle cinque del pomeriggio, ora in cui ricevetti, sul cellulare di Chloe, una chiamata di Kate, che mi costrinse, controvoglia, a riportare l’attenzione su tutto il resto del mondo, che aveva continuato a girare fuori dalla lighthouse. Chiacchierai per una mezz’ora con la mia amica, subendomi una lunga serie di “te lo avevo detto” più che meritati.
Finita la telefonata, un po’ rattristata dall’idea di lasciare quel magnifico nido solitario, convinsi la pittrice a riportarmi ai Pan Estates.
Dopo un viaggio passato a canticchiare al ritmo delle diverse canzoni trasmesse alla radio, giunse il momento di congedarmi dalla punk. Salimmo insieme le scale fino al secondo piano, poi, davanti alla porta del 2A, lei mi sorrise ancora una volta, mi strinse leggermente la mano e mi lasciò lì, scomparendo su per la rampa silenziosa come un’ombra.
Aprii la porta e non feci in tempo a mettere un piede oltre l’uscio che mi ritrovai Warren parato davanti, con la sua migliore faccia da “poliziotto cattivo”. In realtà, somigliava più ad un bambino a cui il fratellino avesse rotto il giocattolo preferito e fosse pronto ad accusarlo di fronte ai genitori; insomma, più che intimidatorio sembrava solamente seccato.
«Lui chi è?» domandò in tono grave.
«Lui chi?» replicai, facendo finta di niente.
«Max» mi richiamò severo «Guarda come sei conciata! Chi ti ha ridotta così?»
Abbassai lo sguardo, realizzando solo allora di avere gli abiti intrisi di ogni tintura possibile. Ero stata talmente presa dalla pittrice e i suoi giochetti da non fare minimamente caso allo stato pietoso del mio outfit.
«Ehm…» farfugliai, cercando di rimediare una scusa. «È un progetto artistico» improvvisai.
«Certo, come no» ribattè «Voglio la verità, non la storiella della serie: “sono stata da un’amica”.»
«Sicuro di volere tutta la verità?»
Lui annuì.
«Ho passato la notte con Chloe» fu la mia risposta lapidaria.
Il ragazzo soppesò le mie parole. «Con “passato la notte”…» mormorò, quasi intimorito dal proprio stesso ragionamento «Intendi che avete letto giornaletti e vi siete messe lo smalto a vicenda?»
Scossi la testa e lo vidi prima sbiancare, poi arrossire violentemente.
«Quindi, “passato la notte” vuol proprio dire quello che penso?»
Fu il mio turno di arrossire.
«Beh, ecco, insomma, sì, cioè» iniziò a balbettare, gesticolando come un matto «Non che io abbia qualcosa da ridire… Cioè, io sono a favore di tutto e di tutti e cose così…» continuò ingarbugliandosi in un discorso senza via d’uscita «E sono molto contento per te, per voi… Anche se io non sapevo che tu, insomma, non lo sospettavo proprio.»
Gli feci segno di tagliare lì, prima di rischiare di dire una frase di troppo.
Ritrovando un briciolo di controllo, Graham poi aggiunse: «Non spiega comunque la pittura sui vestiti.»
«Abbiamo fatto una specie di lotta con i colori» gli dissi «Tu che hai combinato?» rigirai completamente la conversazione.
Il mio coinquilino mi raccontò della serata trascorsa principalmente tra qualche bicchiere e una serie di battute tra vecchi amici, un raduno come un altro.
Archiviando definitivamente l’argomento “passare la notte”, tornammo ognuno al proprio lavoro, solo dopo che, però, ebbi messo in ammollo i miei malconci abiti.
Rimaneggiai l’articolo fino all’ora di cena e poi anche dopo, arrivando alla mezzanotte con le palpebre pesanti e una innegabile necessità di sonno.
Spensi il computer, dopo aver salvato il file ed essermelo inviato per sicurezza, feci una rapida sosta in bagno e finalmente mi sdraiai a letto.
Decine di flash mi invasero la mente, facendomi piantare le unghie nei palmi delle mani al pensiero di Chloe che dormiva a qualche metro sopra di me, insieme ad un’altra donna. Naturalmente, dentro di me sapevo di non poter accampare alcun diritto sulla pittrice e meno che meno potevo pretendere in qualche modo che lei lasciasse Rachel per stare con me, ma l’idea di essere io quella ad addormentarsi con la Price ogni notte era troppo allettante per non essere considerata.
Mi costrinsi a prendere sonno, nonostante il mio cervello continuasse a funzionare a pieno regime. Dovevo riposare perché avevo di fronte a me una settimana impegnativa.
Le mattinate seguenti le trascorsi in ufficio, passando poi i pomeriggi al faro, divisa tra il lavoro sull’articolo e la nuova intesa trovata con Chloe, ogni scusa per lei era buona per sfiorarmi, punzecchiarmi, distrarmi da tutto ciò che non fosse la sua persona.
Nonostante le continue e pressanti interruzioni, riuscii a concludere il pezzo sabato mattina, trovandomi così in perfetto orario per consegnarlo lunedì.
«Finito, finito?» volle conferma la Price, appollaiandosi sulla mia spalla, sbirciando il foglio digitale.
«Finito, finito» le assicurai, voltandomi verso di lei per lasciarle un bacio sulle labbra «Da adesso devi impedirmi di rimetterci le mani o non smetterò mai di apportare modifiche.»
«So come tenerti impegnata con altro…» mormorò, solleticandomi la schiena con le dita affusolate.
Seguendo il suo suggerimento, lasciai trascorrere la fine della mattinata senza più pensare al lavoro. Ci alzammo dal letto per pranzare e poi trascorremmo il pomeriggio a farci le coccole sul divano, guardando la televisione, come una coppia qualsiasi.
Ero convinta che nulla sarebbe venuto a turbare la nostra quiete, ma mi sbagliavo.
Il telefono di Chloe iniziò a trillare come impazzito. In un primo momento lei decise di ignorarlo, preferendo di gran lunga continuare a districare invisibili nodi tra i miei capelli, passando con insistenza le mani tra le ciocche castane, ma alla terza chiamata, esasperata, si vide costretta a rispondere.
«Rachel?» domandò nell’apparecchio, dopo aver letto il numero sullo schermo.
«Ehi!» udii gridare dall’altra parte. Il tono era talmente alto da permettermi di sentire tutto nonostante il cellulare non fosse in vivavoce.
«Cosa sta succedendo? C’è un rumore assordante» borbottò la pittrice, mettendosi a sedere ed assumendo un’espressione contrariata «Dove sei?»
«C’è una festa bellissima» rispose la voce un po’ distorta della modella «Vieni anche tu! Frank ha portato un sacco di roba buona e Mark…»
Nel sentire nominare Jefferson, l’artista impallidì, poi strinse i denti con un ringhio, chiudendo la conversazione.
«Devo andare» sentenziò, alzandosi di scatto ed afferrando la giacca abbandonata poco lontano.
«Vengo con te» stabilii, decisa a seguirla.
«Non credo sia una buona idea» commentò mentre si infilava le scarpe «Potrebbe essere uno spettacolo poco piacevole.»
Le afferrai il polso e la costrinsi a fissarmi negli occhi. «Non posso lasciarti affrontare questa situazione da sola, potresti di nuovo perdere la testa e fargli del male sul serio, questa volta. Lui rimane pur sempre il mio capo, mi serve vivo se voglio lo stipendio.»
La Price mi fissò scettica, soppesando le mie parole.
«Ti prego, Chloe» mormorai «Concedimi di starti vicino.»
L’espressione fredda che aveva assunto un attimo prima, venne spazzata via da un timido sorriso. «Ti odio, è impossibile negarti qualcosa.»
In fretta iniziammo a scendere dal promontorio, dirigendoci al pickup che era, come al solito, parcheggiato al fondo del sentiero che portava al faro. Balzammo sul mezzo e l’autista si lanciò a tutta velocità lungo il nastro d’asfalto.
«Dove stai andando?» domandai, notando come avesse mancato di svoltare in direzione del complesso dei Pan Estates.
«Lo vedrai presto.»
Zigzagando tra il traffico del sabato sera, giungemmo alla base di un palazzo fin troppo noto. Le decine di metri di vetro ed acciaio ci sovrastavano come un minaccioso mostro pronto a sfoderare un letale attacco con lucidi artigli affilati.
«Sono a casa di Jefferson» affermò convinta, spegnendo il motore del veicolo «Non avrebbe mai portato quello stronzo al nostro appartamento, per cui devono essere nel suo fottuto attico.»
La seguii senza proferire parola, mentre si dirigeva decisa verso l’androne. Sembrava un angelo vendicativo sceso da un qualche piano celeste per abbattere la propria furia. La schiena ritta e le braccia tese lungo i fianchi, con i pugni chiusi, ispiravano forza, mentre l’incedere misurato, ma risoluto, trasmettevano una profonda determinazione. Non avevo idea di cosa avrebbe potuto combinare una volta raggiunta la propria meta.
Salimmo sull’ascensore, passando davanti allo svogliato portiere che neppure si curò di noi, pensando che fossimo altri invitati per quel party esclusivo.
La pittrice premette il tasto che conduceva al quindicesimo piano.
L’ascesa mi parve lunga ed estenuante, forse per via del piede sinistro della ragazza che tamburellava infaticabile come per tenere il ritmo di una marcia di guerra che solo lei poteva sentire.
Uscimmo dall’ascensore ritrovandoci su un piccolo pianerottolo deserto. Sulla parete di fronte a noi si trovava una porta blindata, con un estroso sistema di sicurezza approntato vicino.
«Hai intenzione di bussare?» chiesi, nonostante avessi paura dell’eventuale risposta.
«Certo che no» replicò glaciale.
Per un istante pensai che avesse intenzione di abbattere l’uscio con la forza, poi notai che stava selezionando una delle chiavi dal nutrito mazzo che portava sempre in tasca.
«Sono certa che non avrà cambiato la serratura» mi spiegò «Sarebbe stato troppo lungo distribuire le nuove chiavi alle sue amichette.»
Uno scatto metallico mi illuse che la questione fosse chiusa.
«Ora bisogna inserire il codice sul tastierino» disse, sporgendosi verso il piccolo strumento incassato poco lontano.
«Non avevo idea che Jefferson disponesse di tutte queste misure di sicurezza» osservai ad alta voce.
«Ma gli servono a ben poco se rimangono le stesse per anni» sbuffò la pittrice, digitando quattro cifre «Egocentrico fino all’ultima fibra.»
Intravidi il numero 0411 e capii che si trattava di una data: l’undici aprile, il compleanno del mio ex-professore.
La porta emise un nuovo rumore, questa volta più simile ad un segnale elettronico.
Chloe spinse l’uscio e varcò la soglia, mentre io la seguivo come un’ombra.
La musica ad alto volume fece rimbombare talmente forte il mio cervello che temetti per un momento di aver perso la capacità di ragionare. Le luci psichedeliche che si incrociavano tra loro ricordavano l’ambiente di una discoteca, la cui aria festosa veniva però smorzata dalle decorazioni del locale: decine e decine di fotografie in bianco e nero di giovani donne, per la maggior parte in pose angoscianti.
Un brivido mi corse lungo la schiena, lasciandomi un senso sordo di inquietudine. Molti lavori di Mark erano stati ritenuti dalla critica un po’ troppo spinti, ma nessuno di quelli si avvicinava a quanto si presentava ai miei occhi. L’intermittenza dell’illuminazione deformava i visi delle modelle, facendole apparire, a tratti, come maschere urlanti di terrore.
Deglutii rumorosamente, desiderando ardentemente di voltarmi per poi correre via, senza curarmi più di altro.
La mano della Price trovò la mia, come se avesse intuito il mio titubare.
«Fai ancora in tempo ad andartene» dovette urlare, per farsi sentire.
Scossi la testa. Sarei rimasta, per lei.
Passammo oltre quello che identificai come ingresso, svoltando in direzione di quello che sembrava un salotto.
Individuai un paio di volti noti nel piccolo gruppo che si stava divertendo, ballando in maniera scomposta. Frank, lo spacciatore che più volte avevo incontrato nel 3A, stava un po’ sulle sue, muovendosi a malapena, passando di tanto in tanto qualcosa, pasticche immaginai, agli altri presenti, tra cui c’era la mia vecchia compagna di classe, Victoria. La Chase si agitava come un’indemoniata, lasciandosi palpare da un paio di tizi ed emettendo squittii talmente acuti da sovrastare il frastuono della musica.
«Non sono qui» constatai, ma le mie parole vennero pronunciate invano, la Price era troppo concentrata sulla propria missione per prestarmi attenzione.
Venni trascinata in un corridoio, ancora una volta ornato da scatti tutt’altro che rassicuranti, sembravano addirittura più inquietanti di quelli presenti all’entrata.
«Per di qua» disse la mia guida. Il suono pulsante dei bassi era meno invadente in quella parte dell’appartamento, permettendoci di mantenere un tono moderato.
«Qui» sentenziò, fermandosi di fronte ad una porta chiusa.
Inspirai a fondo, preparandomi per qualsiasi cosa avremmo incontrato là dentro.
«Toc, toc» ringhiò, calciando l’uscio, spalancandolo.
L’enorme finestra sulla parete di fondo, da cui provenivano le luci della baia, era l’unico elemento su cui potessi concentrarmi, tutto il resto era troppo assurdo per essere reale.
Rachel era legata mani e piedi, sdraiata sull’enorme letto che occupava il lato destro della camera. Nathan Prescott, visibilmente ubriaco ed esaltato da qualche sostanza ben più potente dell’alcol, le si strusciava addosso con fare animalesco, era uno spettacolo raccapricciante.
Jefferson si muoveva come un fantasma, passando da un lato all’altro del materasso senza fare il minimo rumore, segnalando la propria presenza solamente tramite gli abbaglianti flash della propria macchina fotografica. La luce bianca brillava a distanza di pochi secondi ogni volta, dandomi l’impressione di guardare una serie di macabre diapositive.
Non appena riuscii a riconnettere qualche neurone, afferrai Chloe per un braccio, per paura che si scagliasse sul trio per sfogare la propria rabbia. Sentii i muscoli guizzare sotto il mio tocco e temetti di non essere in grado di trattenerla, se fosse stato necessario.
«Guarda guarda chi ha deciso di venire a giocare con noi» esordì Mark, puntando l’obiettivo nella nostra direzione, iniziando a scattare per immortalarci.
«Sei venuta» rantolò Rachel «Vieni a sballarti con noi, Chloe.»
Lei rimase immobile e silenziosa. Non capivo cosa le stesse passando per la mente, sembrava come svuotata.
La modella fece un cenno al ragazzo sdraiato con lei, che la sciolse come se stesse eseguendo un tacito ordine.
La biondina si alzò, barcollando nella nostra direzione.
«Andiamo, forza» biascicò, afferrando il bordo della giacca della pittrice «Ti prometto che ti divertirai, hai solo bisogno di una spinta.»
Jefferson le allungò una bustina contenente qualche piccolo oggetto tondeggiante e poi Rach prese a sventolare quel trofeo davanti al naso della Price.
«Ne bastano un paio per farti sentire un leone» le assicurò «Se vuoi possiamo darne qualcuna anche alla tua amica e divertirci tutti insieme» proseguì, posando lo sguardo su di me.
La sola idea mi causò una repulsione tanto forte da far nascere un conato di vomito alla bocca del mio stomaco.
«Forza, Maxine» mi invitò il direttore di FRAME, abbagliandomi con l’ennesimo flash «Aiutaci a convincere Beth, sappiamo che tu vuoi far festa insieme a noi.»
Il sorriso dell’uomo, che spesso avevo reputato affascinante, mi parve un perverso scorcio di quanto di più oscuro possibile si potesse celare nell’anima di un essere umano.
Nathan avanzò, afferrando Rachel per la vita, attirandola a sé. Mark si avvicinò ai due, baciando la guancia della modella e passando una mano tra i capelli del giovane Prescott, mentre con l’altra scattava un selfie.
«Molta brigata, vita beata» disse il ragazzo, con tono maligno.
Gli altri due sembrarono condividere quel pensiero, sporgendosi verso di noi. Pareva che stessero cercando di assorbirci in quella follia, come se volessero risucchiarci in una spirale senza possibilità di uscita. Sapevo che, se avessi accettato quell’offerta, avrei potuto non vedere l’alba del giorno seguente.
«Non aspettarti di trovarmi, quando o se tornerai a casa» annunciò Chloe con freddezza, rivolta alla propria ragazza «Avevamo un patto: ho sopportato le tue continue scappatelle, le tue dipendenze, le tue pessime compagnie, ma ero stata chiara su un punto in particolare.»
Sbattei le palpebre, infastidita ancora una volta dal lampo della macchina fotografica.
«Niente Mark Jefferson, mai più» continuò «Mi hai tradita una volta di troppo, Rach. È finita, anzi, sarebbe dovuta finire tempo fa» concluse amaramente.
«No, Chloe, andiamo» tentò di farle cambiare idea «Non puoi parlare sul serio… Prendi qualcuna di queste e andrà tutto bene.»
«No.»
Il trio assunse simultaneamente un’espressione di disappunto.
«Andiamo, Max, non c’è più niente da vedere» riprese la punk, dandomi una lieve gomitata, per farmi indietreggiare.
Annuii meccanicamente, facendo a fatica un passo indietro. Avevo paura di voltarmi, non volevo dare le spalle a quei tre.
«Forza, ti proteggo io» sussurrò la pittrice, circondandomi la vita con un braccio.
Quel gesto mi infuse un po’ di coraggio e mi sbloccò, mettendo in moto i piedi che fino a quel momento mi erano sembrati di piombo.
«Peccato, vi perderete tutto il divertimento» disse Jefferson, prima di scoppiare in una lugubre risata.
Quel suono mi gelò fin nelle ossa, ma la presa della Price rimase salda, invitandomi a proseguire.
Avanzai fino alla porta d’ingresso, mi fermai per un secondo davanti all’uscio chiuso, poi lo aprii, per riguadagnare la libertà, abbandonando quel luogo di orrore.
Come se avessi appena terminato una gara di apnea, inspirai a fondo, fino a che non sentii i polmoni premere contro le costole per via dell’espansione forzata. Dietro di me potevo percepire Chloe, tesa quanto me. La musica da discoteca e le luci filtravano ancora attraverso la soglia, ricordandoci che eravamo ancora troppo vicine per poter allontanare le nostre inquietudini.
Facendoci forza a vicenda, raggiungemmo l’ascensore e dopo qualche minuto ci ritrovammo fuori dal palazzo.
L’aria continuava ad essere frizzante, fredda per via del moderato vento che faceva ondeggiare le cime degli alberi dei boschi circostanti, originando un musicale fruscio che per me, in quel momento, era sinonimo di libertà. Il profumo salmastro, portato dalla brezza che spirava da ovest, sostituì l’odore di fumo e di chiuso che persisteva nelle mie narici.
«Tutto bene?» mi domandò la punk, cercando i miei occhi, persi nel vuoto.
«Dovrei essere io a farti questa domanda» ribattei piano, dopotutto avevamo trovato la sua ragazza ad un festino, alla mercé di un giovane riccastro dai modi perversi e di un uomo che mai avrei sospettato nascondesse un simile lato oscuro.
«Hai una faccia più che sconvolta, Max» replicò accarezzandomi il viso «Non ti aspettavi una cosa del genere, vero?»
Ero destabilizzata. Mi sarei aspettata che scoppiasse in un accesso d’ira, che iniziasse ad insultare Rachel, che spaccasse ogni cosa che le capitasse a tiro, ma invece era sorprendentemente tranquilla, sembrava solamente preoccuparsi per me.
«Non sono sicura che ciò che ho visto sia accaduto veramente» mi decisi a rispondere «Era così… Assurdo.»
La Price sospirò malinconicamente. «Purtroppo era tutto vero, te lo posso assicurare.»
La fissai intensamente, per capire come potesse mantenere i nervi saldi in quel frangente, dopo che l’avevo vista perdere le staffe per molto, molto meno.
Intuendo i miei pensieri, Chloe sollevò leggermente le spalle, per poi riabbassarle con un profondo respiro. «Era solo questione di tempo prima che accadesse, anzi sono sorpresa che non sia capitato prima» confessò «Sapevo che aveva ripreso i contatti con Jefferson e la cosa qualche mese fa mi avrebbe mandata su tutte le furie…»
Si interruppe, concedendomi un timido, sincero e disteso sorriso.
«Ma ora non mi importa più. Che quei due, o tre, facciano pure tutto ciò che vogliono, non mi interessa. Tutto ciò che conta al momento sei tu» continuò «Ed io non volevo che tu dovessi assistere a quella… Cosa» concluse.
I miei occhi si riempirono di lacrime, che fecero tremolare tutto quanto contenuto nel mio campo visivo.
«Stai piangendo?» chiese allarmata.
«No…» mentii, passandomi il dorso della mano sugli occhi.
Lei naturalmente indovinò immediatamente la menzogna, ma non le diede peso. Mi cinse con le braccia, stringendomi a sé. Avvicinò la mia testa al proprio petto, permettendomi di sentire il cuore che batteva calmo, come se nulla di male fosse accaduto.
«Andrà tutto bene, non devi preoccuparti per me, ciò che hai visto è un capitolo chiuso della mia vecchia vita» mi rassicurò «D’ora in poi non voglio vederti piangere per causa mia, ok?»
Non riuscii a risponderle per via della gola chiusa da un nodo di nervosismo.
«Devo passare ai Pan Estates» disse dopo una manciata di minuti, durante i quali avevo soffocato qualche singhiozzo contro la stoffa della sua maglia per scaricare tutta la tensione accumulata «Voglio prendere le mie cose prima che Rach torni a casa.»
«E dove andrai a stare?»
«Al faro» ribattè, come se si trattasse della soluzione più ovvia «Là ho tutto ciò di cui potrei avere bisogno, senza parlare del fatto che nessuno, a parte te, sa dell’esistenza di quel mio rifugio.»
Salimmo sul pickup e in un quarto d’ora ci trovammo a fare su e giù per le scale, trasportando palle di vestiti ingarbugliati e pile di tele. Warren, che venne disturbato dal mio ruzzolare per mezza rampa dopo essere inciampata in un paio di calzini, si offrì di darci una mano e ci aiutò a caricare la macchina con tutti gli averi dell’artista.
«Vuoi che rimanga con te per questa notte?» domandai a Chloe quando il trasloco last minute fu concluso.
Lei sorrise, poi lanciò un’occhiata obliqua al mio coinquilino che, paralizzato al mio fianco, era diventato rosso e stava balbettando qualcosa riguardo il doversene andare.
«No, tranquilla, mi sistemerò da sola con calma, ma tu sei la benvenuta se vuoi passare domattina per colazione» rispose.
«Certo» mormorai «Allora a domani.»
«Buonanotte, Max» si congedò, prima di baciarmi teneramente «E buonanotte anche a te Warren.»
Il ragazzo, inebetito, sventolò la mano in segno di saluto, ancora perso nei propri pensieri che preferii non sondare.
«Forza, a nanna» gli dissi, trascinandolo per una manica fino alla porta del 2A.
Trascorsi una notte tranquilla, nonostante gli eventi piuttosto turbolenti della sera passata. Il solo sapere che la Price era al sicuro nella sua lighthouse era sufficiente a garantirmi un sonno imperturbabile.
La mattina seguente mi alzai di buon’ora e, al volante dell’auto di Graham, passai al Two Whales per acquistare una bella dose di pancakes, annegati nello sciroppo, come piacevano alla punk, poi mi diressi al faro.
Bussai alla grande porta di metallo, aspettando una risposta.
«Ehilà!» sentii gridare da sopra di me.
Alzai la testa e vidi la giovane pittrice sporgersi dalla ringhiera.
«Raperonzolo, butta giù la tua treccia!» urlai, ridacchiando.
«Oh, mio principe!» replicò, fingendo di sciogliere la chioma per farmi salire «Affrettati, prima che la mia perfida matrigna faccia ritorno.»
«Non temere, mia diletta» continuai l’improvvisata scenetta «Ti libererò dalla sua opprimente schiavitù! Porto con me l’invincibile arma più incantata di tutto il reame» proseguii, mostrandole il sacchetto del diner «Frittelle avvelenate, ben più efficaci di una volgare mela.»
Ridemmo entrambe.
«Mio eroe!» esclamò, prima di scomparire all’interno del faro, per sbucare poco dopo dall’altro lato della porta «Entra, valente guerriero.»
Eseguii l’ordine e feci per dirigermi verso il tavolo, ma notai che l’operazione sarebbe risultata tutt’altro che semplice. Se già prima lo spazio era sovrappopolato per via delle opere d’arte abbandonate in giro, con l’arrivo di quelle provenienti dall’appartamento, era a dir poco straordinario che ci fosse modo di muoversi senza calpestare un dipinto.
«C’è un po’ di disordine» ammise, grattandosi la nuca «Ma ieri sera non avevo molta voglia di mettermi a sistemare.»
«Bene» affermai «Così avremmo qualcosa da fare, dopo mangiato.»
«Oh, Max» sbuffò, allungando a dismisura la “a” del mio nome per sottolineare il tono polemico «Dobbiamo proprio? Io avevo tutt’altro in mente» sussurrò ad un soffio dal mio orecchio.
«Cosa dirà Madre Gothel vedendo tutto questo caos?» la redarguii sghignazzando «Una brava principessa prima si occupa di sistemare, poi si concede gli svaghi.»
Mi fece la linguaccia, poi mi strappò dalle mani il sacchetto con la colazione, balzando tra gli ostacoli con una facilità sorprendente, atterrando, alla fine, in prossimità del tavolo senza aver intaccato un solo quadro.
Tentai di imitarla, ma mi resi presto conto che l’impresa fosse molto più ardua di quanto non lo avesse fatto sembrare. Mi mossi in punta di piedi, compiendo oculate rotazioni e piccoli balzelli per impedire alla mia goffaggine di combinare qualche disastro.
«Più in fretta o non ci saranno pancakes per te, mio principe» mi prese in giro, sventolandosi davanti al volto una forchettata di cibo grondante di sciroppo.
«Arrivo, arrivo» borbottai, macinando gli ultimi metri che ci separavano.
«Ti manca poco» mi stuzzicò, avvicinandomi alle labbra il prelibato boccone, quando ormai ero ad un passo dall’irraggiungibile tavola.
Mi preparai ad assaporare quella leccornia tanto faticosamente guadagnata, ma il mio pericolante equilibrio cedette, ostacolato da un pennello che finì sotto la suola della mia scarpa, facendomi scivolare all’indietro e sbattere il fondoschiena contro una cornice.
«Ouch» mi lamentai, rialzandomi e massaggiando la zona colpita.
Fulminai con lo sguardo Chloe che, dopo un primo attimo di sorpresa, aveva iniziato a ridere sguaiatamente della mia disavventura.
«Non è così che si dovrebbe comportare una principessa» le feci notare.
«E non è così che si dovrebbe comportare un principe» mi fece il verso.
Andammo avanti a punzecchiarci per un po’, mangiando le frittelle e poi cominciando a riordinare così da formare dei passaggi di modo che ci si potesse almeno muovere in discreta sicurezza. La televisione accesa ci teneva compagnia, dandoci ogni tanto qualche spunto per conversare o per tornare a stuzzicarci.
Dopo un pasto frugale e un'altra ora di riordino, concessi alla punk lo svago che tanto aveva bramato.
Mi sentivo spensierata, come se l’improvvisata a casa di Jefferson non fosse mai avvenuta, come se non avessi mai visto quelle scene che avrebbero lasciato basito chiunque. Eravamo solamente Chloe ed io, al sicuro nel nostro luogo segreto, finalmente libere di stare insieme senza la presenza di Rachel ad aleggiare tra di noi.
«Sai, stavo pensando…» mormorò l’artista ad un tratto, rigirandosi tra le coperte, permettendomi di posare la testa sul suo petto.
«Beh, questa sì che è una novità» bisbigliai «Tu che pensi, una vera rivoluzione.»
Aggrottando le sopracciglia con fare fintamente minaccioso e gonfiando le guance come un pesce palla, la Price mi soffiò in faccia tutto il proprio disappunto, scarmigliandomi i capelli già di per sé in disordine.
«Va bene, scusa» dissi, facendo scivolare una mano sulla sua bianchissima pancia, arrivando poi al fianco per abbracciarla e stringermi più a lei «Stavi dicendo?»
«Che stavo riflettendo» riprese «Su tutto quello che è capitato nell’ultimo paio di mesi… Se un anno fa qualcuno mi avesse detto che, tornando ad Arcadia Bay, avrei finito per riprendere a fare la pittrice, lasciare Rach e trovare la ragazza più straordinaria del mondo, gli avrei riso in faccia e probabilmente lo avrei pure insultato pesantemente.»
Rimasi in silenzio, curiosa di sapere se avesse qualcosa da aggiungere.
«E invece sono qui» riprese, stiracchiandosi leggermente «Ad un passo dal fare il grande ritorno nel mondo dell’arte, fresca fresca di rottura, avvinghiata ad una splendida donna… Insomma, meglio di così non potevo sperare.»
«Puoi sempre augurarti di vincere alla lotteria» commentai «Così potremmo comprarci un’isola e vivere per sempre felici e contente in un castello delle fiabe costruito apposta per noi.»
Le unghie smaltate di blu iniziarono a grattarmi piano la base del collo, delineando il contorno delle mie vertebre. «Ti piacerebbe una cosa del genere?» mi domandò.
«Perché no? Mi attira l’idea di stare in panciolle tutto il giorno, sorseggiando cocktail da una noce di cocco.»
Non gradendo la mia ironia, Chloe si puntellò sul gomito, costringendomi a cambiare posizione, trovandomi a confrontarmi con i suoi profondi occhi blu. «Io parlo sul serio.»
«Riguardo vincere la lotteria e comprare un’intera isola?» chiesi.
«Riguardo noi due, felici, insieme, per sempre.»
Sbattei le palpebre più volte, prendendo tempo. Non avevo ancora pienamente realizzato che, visti gli eventi della notte passata, si apriva per noi la possibilità di vivere davvero come coppia, pianificando insieme un futuro.
«Capisco che tu non sia pronta» sospirò, tornando a sdraiarsi «Non voglio metterti fretta in alcun modo, era pura curiosità…»
Il tono vagamente ferito della sua voce era più che palese.
«Chloe» mormorai «Non voglio che tu ti faccia un’idea sbagliata… Non mi sono mai trovata in una situazione come questa» le spiegai «Non ho mai dovuto fare progetti includendo qualcun altro all’infuori di me. Quando stavo con Thomas dovevo ancora finire il college, quello era il mio piano, poi ho sempre solo dovuto pensare a me stessa e poi… Beh, sei arrivata tu e hai sconvolto tutto quanto: mi hai fatto ottenere un ingaggio di prestigio, mi hai fatto ritrovare la passione per la fotografia e mi hai aperto gli occhi su tante cose…»
Sarei andata avanti a parlare, ma le morbide labbra della pittrice arrivarono ad interrompere il filo dei miei pensieri.
«Ti amo, Max.»
Rimasi di pietra. Non credevo possibile che così poche parole fossero in grado di avere un così potente effetto. Ogni fibra del mio corpo vibrò all’udire quelle sillabe, il mio cuore ebbe un guizzo tale nel mio petto da farmi credere di star avendo un infarto. Non me ne ero resa conto fino a che non era stata pronunciata, ma avevo atteso quella frase per tutta la vita.
«Ti amo anche io, Chloe.»
Le iridi celesti si assottigliarono, invase per una frazione di secondo dalla pupilla dilatata, poi tornarono ad espandersi, come un impetuoso fiume in piena. Il sorriso che trionfò sul viso della Price fu il più bello che avessi mai visto, il più genuino e splendente di tutti.
«Avevi paura che non ricambiassi, eh?» la punzecchiai.
Decisa a portare avanti un tipo di dialogo non fatto di parole, l’artista riprese a baciarmi, bloccando sul nascere ogni mio blando tentativo di tornare a parlare, voleva dimostrare coi fatti quanto aveva appena dichiarato dal profondo del proprio cuore ed io, naturalmente, volevo fare lo stesso.
La sera arrivò senza che ce ne rendessimo conto e presto calò la notte, avvolgendo il faro in una tenebra spettrale, che sembrava stonare con il nostro umore tutt’altro che cupo.
Cenammo con della pizza surgelata, riempiendoci reciprocamente di attenzioni, coccolandoci e scambiandoci frasi smielate ai limiti del ridicolo.
Guardando in televisione diverse puntate di telefilm polizieschi, arrivammo ad essere sveglie quando ormai la mezzanotte era passata da molto.
«Forse sarebbe ora di andare a letto» constatai, indicandole come ormai fossero quasi le tre del mattino.
«Ma se siamo state a letto tutto il giorno!» ridacchiò «Di’ la verità: non puoi averne abbastanza di me» sogghignò, facendomi l’occhiolino.
Scossi la testa, rassegnata. «Io vado a dormire, non ho la forza per contrastare queste battute di bassa lega…»
«Uno a zero per Price!» esultò «Ma non temere, avrai un bel premio di consolazione» continuò, poggiandomi un bacio sulla fronte.
Avrei voluto contestare, stabilendo delle regole per rendere ufficiale la competizione, ma un imprevisto arrivò a bussare alla porta.
Il rumore del metallo della porta scosso dall’insistente pugno di qualcuno rimbombò tra le pareti della lighthouse.
Istintivamente, cercai lo sguardo della mia compagna, che era calamitato verso l’uscio. Neppure lei aveva idea di chi si potesse trattare.
Con un balzo felino, dopo aver assunto la solita espressione da punk intrattabile, la giovane andò ad aprire.
«Chi cazzo è?» ringhiò.
«Apri, sono Frank.»
Corrugai la fronte. L’uomo non aveva motivo di trovarsi lì,
«Come hai fatto a trovarmi?» chiese, tenendo chiusa la porta.
«Aprimi e te lo dirò.»
La pittrice, incerta sul da farsi, picchiettò sulla maniglia più e più volte, fino a che non mi avvicinai a lei, sovrapponendo la mia mano alla sua, facendo sì che l’uscio si schiudesse.
Pompidou si infilò, scodinzolando, tra le nostre gambe, andando ad annusare tutto intorno.
Lo spacciatore fece per entrare, ma il braccio tatuato di Chloe lo inchiodò sul posto, impedendogli di avanzare oltre.
«Sputa il rospo, Bowers, o ti sbatto la porta su quel brutto muso che ti ritrovi» lo minacciò «Come facevi a sapere dove trovarmi?»
Frank si grattò la barba incolta. «So di questo posto da quando lo hai comprato dal vecchio ubriacone, gli ho estorto l’informazione con un paio di birre. Il primo dovere di un bravo uomo d’affari è sapere dove hanno invischiate le mani i propri migliori clienti.»
«Ho smesso di usare la tua roba, da tempo» replicò acida.
«Questo non mi ha fatto dimenticare del tuo bel nascondiglio» ribattè, indicando con la mano lo spazio alle nostre spalle.
«Perché sei qui?» deviò il discorso la ragazza.
«Rachel.»
A sentire quel nome, tutti i ricordi della sera precedente, che avevo ingenuamente relegato in un angolo oscuro del mio cervello, tornarono prepotenti a far sentire la propria presenza.
«Le ho detto chiaro e tondo che tra noi è finita, non c’è altro da aggiungere» decretò Chloe, riducendo gli occhi a fessure.
«Vuole vederti un’ultima volta, per parlare» disse l’uomo «Un’ora, non chiede di più.»
«No» fu la risposta secca.
«Immaginava che avresti reagito così» borbottò Bowers «Ma mi ha detto di ricordarti di tutto ciò che avete affrontato insieme, dice che lo devi al “tuo angelo”.»
La Price chiuse le mani a pugno, conficcandosi le unghie talmente forte nei palmi da far sbiancare le nocche.
«Forse dovresti andare» mi intromisi, poggiandole una mano sulla spalla «Per chiudere definitivamente…»
«Pensi che sia una buona idea?» mi domandò. Era visibilmente spaesata, aveva bisogno che la aiutassi a prendere quella decisione.
«Sì, ma non voglio che tu ti senta forzata, quindi la scelta finale resta a te.»
Lei riflettè per qualche momento, poi sospirò. «Va bene, poi taglieremo i ponti, per sempre.»
Frank annuì. «Ti aspetta a casa.»
«Quella non è più casa mia» commentò la pittrice.
«Sì, come ti pare» bofonchiò lui «Quanto ti serve per essere pronta?»
L’artista si scrutò rapidamente, poi scomparve per vestirsi con qualcosa di più della semplice t-shirt che stava indossando. In quel lasso di tempo io rimasi immobile, in silenzio, spostando ripetutamente gli occhi dall’inatteso ospite al suo compare canino e viceversa.
«Possiamo andare» annunciò Chloe, ricomparendo dopo qualche minuto.
«Bene, il mio camper è parcheggiato nello spiazzo, ti aspetto là» rispose l’uomo, voltandosi e richiamando l’amico a quattro zampe con un fischio.
«Sarò di ritorno il prima possibile» mi promise la ragazza «Giusto il tempo di darle di nuovo il benservito, poi saremo solo tu ed io.»
Mi posò un bacio sulla guancia, poi scomparve nell’oscurità del bosco che circondava la lighthouse, lasciandomi sola.
Chiusi la porta, che emise un cigolio sinistro. All’improvviso quel tanto accogliente nido parve tramutarsi in una pericolosa trappola, pronta a chiudersi su di me come un tenaglia.
«Va tutto bene» dissi per tranquillizzarmi «Non è la fine del mondo restare sola in un vecchio faro…»
Il rumore distante di un motore apparve all’improvviso e, rapidamente com’era apparso, scomparve.
«Tornerà presto, lo so» affermai «Un paio d’ore al massimo. Sarà qui prima dell’alba… Nel caso ritardasse, si ricorderà certamente di avvisarmi…»
Per distarmi, andai al piano di sopra, mi rivestii e feci qualche giro della balconata, godendo dell’aria fredda della notte. La mezza luna che brillava sospesa nel cielo scuro era impassibile, lontana dai miei drammi e turbamenti. La invidiavo.
Quando realizzai che avrei potuto prendere una polmonite, rientrai, mettendomi a guardare un altro po’ di televisione, nella speranza che il tempo scorresse più velocemente. A prendere sonno non ci pensavo neppure lontanamente.
Girai più e più volte tutti i canali, senza trovare alcunché di interessante.
L’ansia iniziò a vincere sui miei nervi ormai non più saldi. Se volevo riacquistare del tutto la mia stabilità emotiva, avevo bisogno di Chloe.
La attesi per tutto il resto della notte, tracciando solchi nel pavimento a furia di ripercorrere sempre gli stessi passi, ficcando convulsamente la mano in tasca sperando che il telefono squillasse, accarezzando la guancia su cui aveva posato quel bacio che ogni secondo di più mi sembrava d’addio.
Quando la luce del mattino iniziò a schiarire il cielo, ricacciando l’oscurità oltre la linea dell’orizzonte, capii, non mi rimaneva che la verità: Chloe non sarebbe tornata.
I miei tentativi di contattarla si rivelarono vani, aumentando ancor di più la tensione che mi contorceva lo stomaco.
Il tempo continuò a scorrere senza che io potessi fare alcunché.
Ero sul punto di perdere le speranze quando un bussare concitato spezzò la quiete in cui era piombato l’ambiente intorno a me.
Mi scagliai verso la porta, spalancandola senza riflettere.
La figura di Frank si stagliò di fronte a me.
«Che cosa è successo!?» strillai, sgranando gli occhi.
I suoi abiti che, sebbene spiegazzati e non freschi di bucato, erano stati in buone condizioni fino a qualche ora prima, erano macchiati, puzzolenti, come se si fosse immerso in un bidone dell’immondizia. Il suo volto, già di per sé poco colorito e piuttosto scavato, portava i segni di un forte trauma: era bianco, talmente pallido da apparire cadaverico, le rughe si erano fatte marcate, le occhiaie erano nere.
«Che cosa è successo!?» domandai ancora una volta, rischiando di perdere il controllo pur di ottenere l’informazione che volevo.
Lui balbettò poche parole: «Chloe… Rach… Overdose…»
Crollai sulle ginocchia, prendendomi il viso tra le mani. Non poteva essere vero.
«Dobbiamo andare» disse, afferrandomi il braccio.
Mi divincolai, impedendogli di rimettermi in piedi. «No, non è vero. Stai mentendo.»
«Ascoltami, ragazzina» sussurrò «Vieni con me, devi farlo.»
«No!» gridai «Dimmi che è tutta una bugia!»
Lui scosse la testa. «Ti sto dicendo la verità.»
«Non può essere morta…» mormorai, sentendo le lacrime iniziare a sgorgare copiose.
«Infatti è viva.»
Il tempo si fermò. In una frazione di secondo ogni momento passato con la pittrice mi si parò davanti agli occhi.
«Come!?»
«Non mi hai dato modo di spiegare» tentò di difendersi l’uomo «Ti racconterò in macchina. Adesso dobbiamo andare.»
Era tutto troppo assurdo, ma non avevo altra scelta. Recuperai la borsa come in trance e lo seguii fino al camper, che era parcheggiato accanto al malconcio pickup.
Bowers iniziò a parlarmi una volta alla guida del mezzo.
Capii solo a tratti la storia e rimisi insieme i pezzi solo in seguito. Essenzialmente, lui aveva accompagnato Chloe da Rachel, aveva aspettato da solo per un po’, ma vedendo che la Price non tornava, si era avventurato all’interno del 3A, trovando una scena a dir poco agghiacciante. La modella e la pittrice giacevano entrambe per terra.
«Rach aveva la siringa ancora piantata nel braccio» mi raccontò «Ho cercato di soccorrerla, ma… Non c’era più niente da fare. E allora mi sono concentrato su Chloe. Aveva anche lei una siringa mezza piena nel braccio e della schiuma alla bocca, ma i suoi occhi… Erano aperti, mi sembravano reattivi. L’ho stesa sulla schiena e ho provato a rianimarla. Non appena ho iniziato le compressioni ho sentito qualcosa muoversi, poi le ho soffiato aria nei polmoni, nella speranza che tornasse a respirare. Ha dato un colpo di tosse e si è messa a vomitare. L’ho aiutata a svuotarsi e poi ho immediatamente chiamato il 911. L’ambulanza è arrivata dopo pochi minuti e io l’ho seguita fino in ospedale. I medici mi hanno spiegato che hanno dovuto farle una lavanda gastrica d’urgenza per rimuovere tutti i residui dei sonniferi ingeriti e le hanno attaccato qualche flebo per farle smaltire gli effetti della droga iniettata… Poi mi hanno spiegato che, con la mia manovra di rianimazione, le ho incrinato due costole, però questo problema dovrebbe risolversi senza alcun bisogno di un intervento…»
Il resto del discorso finì perso nella fitta nebbia che stava avvolgendo il mio cervello.
Arrivammo in ospedale e poi fino alla camera della Price senza che sapessi spiegarmi cosa fosse accaduto. Frank mi fece accomodare accanto al letto e rimase al mio fianco fino a che non smisi di piangere e tremare.
Col passare delle ore, dopo che una delle infermiere mi ebbe dato una tazza di tè e un calmante, cominciai a mettere in moto qualche neurone: era lunedì, sarei dovuta essere da FRAME per consegnare l’articolo; dovevo chiamare Warren e far avere mie notizie a Katie; avrei dovuto cercare di contattare Joyce Price per farle sapere quanto accaduto alla figlia… Avevo una lunga lista di doveri, ma tutto ciò su cui riuscivo a concentrarmi era il corpo inerme che giaceva lì vicino.
La pittrice respirava piano, aiutata da una mascherina che serviva a compensare la minor quantità di ossigeno immagazzinata dai polmoni per via delle ossa danneggiate. L’effetto dell’anestesia sarebbe dovuto terminare verso sera, facendole riacquistare conoscenza.
Il giorno trascorse senza che io potessi agire in alcun modo, ero come paralizzata, stavo valutando la dinamica dei fatti: era stata Rachel ad impasticcare Chloe per poi tentare di iniettarle una dose letale o la pittrice se lo era fatto da sé? Poteva davvero aver deciso di abbandonarmi in quel modo? Aveva provato a scegliere la via più facile, rompendo la promessa di tornare, che mi aveva fatto?
Decisi che era inutile pormi tante domande, per cui, quando ormai il pomeriggio era inoltrato, iniziai a parlarle, per fare chiarezza tra i miei pensieri.
«Lascerò Jefferson e la sua rivista» dissi «Non posso collaborare con un soggetto del genere… Gli consegnerò il pezzo, come d’accordo, ma non firmerò il contratto da editor. Troverò un altro lavoro, qualcosa che non abbia a che vedere con il tuo passato… Potremmo andarcene da qui, sai? Magari andare a trovare tua madre in Maine sarebbe un buon punto di partenza, oppure potremmo andare a Seattle, o nel Montana dalla mia amica Kate, che non vede l’ora di conoscerti…»
Le accarezzai il dorso della mano sinistra, abbandonata inerte sulle coperte ruvide della clinica, risalendo fino all’incavo del gomito, dove i dottori avevano applicato un piccolo cerotto. Repressi un singhiozzo, sapendo che quello era il punto in cui l’ago l’aveva bucata.
Dovevo distrarmi, non pensare al pericolo che aveva corso.
Mi misi a blaterare sui nostri possibili progetti, costruendo astrusi e fragili castelli di carte.
Mi bloccai solo quando sentii qualcosa stringermi il dito indice della mano destra, che tenevo appoggiata sul lettino.
«Sei sveglia» mormorai con voce tremante.
Gli occhi celesti, semiaperti, mi fissarono, invitandomi a parlare ancora.
Ogni dubbio, ogni sospetto ed incertezza si dileguò, svanendo senza lasciare traccia. Non mi importava di come fossero andate le cose, me lo avrebbe spiegato un giorno, e per quanto concerneva il futuro avevamo tempo, l’unica cosa importante era che lei fosse viva e che io fossi al suo fianco.
Mi venne in mente la domanda che mi aveva fatto la prima notte passata al faro e lasciai la mente a briglia sciolta, permettendo ad una profonda realizzazione di prendere forma.
«Qualche tempo fa mi hai chiesto se credessi nell’amore eterno… Per me l’amore è qualcosa di astratto, indefinibile… Dipende da noi, dalle nostre sensazioni ed esperienze, un po’ come l’arte. In quest’ultimo periodo ho capito una cosa: se noi non esistiamo, lo stesso vale per l’amore e l’arte, e se noi cambiamo, ci evolviamo, lo stesso fanno loro. L’amore potrà non essere eterno, ma ci rende immortali, come l’arte permette all’autore di vivere nei secoli, resuscitandolo ogni qual volta qualcuno viene mosso ammirando il suo lavoro. Oltre le difficoltà, i drammi e persino la morte, il nostro amore resisterà. Questa è l’unica certezza che ho, l’unica verità di cui ho bisogno.»
Le dita della Price si strinsero ancora una volta intorno alle mie e lei sorrise debolmente da dietro la mascherina. Sentii le lacrime tornare a sgorgare ancora una volta e mi chinai per lasciarle un lieve bacio sul dorso della mano.
Quando risollevai il capo, nelle sue iridi blu vidi riflettersi il più bel tramonto che la natura avesse mai dipinto sulla tela del mondo, ma non mi voltai verso la finestra per osservarlo, perché era guardarlo attraverso quei pozzi azzurri, gli occhi della mia Chloe, a renderlo magico e speciale. Tutta la mia vita, riflessa in lei, sarebbe stata arte nella sua forma più pura.

NdA: ed eccoci alla fine, signore e signori, un capitolo lungo, lo so, ma non volevo dividerlo in più parti e spero abbiate apprezzato questa scelta. Vi siete accorti del mio piccolo tocco artistico? Se non ci avete fatto caso ve lo faccio notare io: gli acronimi dei titoli di ogni capitolo (in poche parole le lettere iniziali delle parole) formano tutti la parola ART, era uno sfizio che volevo togliermi e l'ho fatto. Che altro aggiungere? Se la storia vi è piaciuta, vi invito a lasciarmi una recensione per farmelo sapere, ma moralmente mi è sufficiente sapere che abbiate apprezzato leggerla. Thanksgiving time: un milione di grazie a wislava che si è sottoposta per l'ennesima volta all'immane fatica di leggere, correggere ed aiutare a crescere l'intero racconto;  un altro milione di grazie a Camyglee e Hydro_Warner per le loro recensioni, voglio ribadire loro che le ho molto apprezzate; e per finire un milione di grazie a te che stai leggendo, per avermi accompagnata in questo viaggio. Come avevo già accennato nelle note del primo capitolo, sto tutt'ora lavorando ad un'altra storia di "Life is Strange", naturalmente sempre Pricefield, studiata per essere un seguito plausibile del gioco, in grado di dare risposta a tutte (o quasi) le domande che il videogame ha lasciato in sospeso. Non so ancora dirvi quando sarà pronta, perchè si prospetta lunga, ma potrei decidere di iniziare a pubblicare come work in progress, insomma è tutto in "forse", potrebbe comparire domani come tra un mese, chi lo sa... In ogni caso esplorare questo fandom è stato molto emozionante e spero lo sia stato per voi quanto per me. Mi auguo di ritrovarvi in futuro, qui o altrove, fino ad allora buona lettura a tutti, è stato un piacere scrivere per voi.
GirlWithChakram
   
 
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