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Autore: l y r a _    19/09/2017    3 recensioni
Il secondo anno di liceo di Tooru Oikawa è un gran macello. Lo dice Hajime Iwaizumi, il suo migliore amico da una vita, e precisa che lo sarebbe stato un po’ meno se non avessero incontrato Sakurai e subìto tutte le sue complicazioni patologiche.
Il primo anno di liceo di Megumi Sakurai è un fallimento annunciato e lei è arrogante, ambiziosa e ha scrupoli quanti gli spiccioli nel suo portafogli: nessuno. Lo dice tutta Sendai ed è tutta la verità.
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[Oikawa/OC | UshiShira | Accenni OC/Ushijima | Perpetrato reato di canon/OC ]
Genere: Generale, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Kenjiro Shirabu, Nuovo personaggio, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 5

La tregua

L’esperienza più simile che Tooru avesse mai vissuto era quella delle lenti a contatto disperse, ormai celebre fra i suoi amici: una sera le aveva tolte ed aveva conservato il contenitore nel posto che riteneva il più sicuro e semplice da ricordare; la mattina dopo però si era completamente dimenticato di quell’accortezza. Così, armato di pazienza, le aveva cercate per tutta la casa: sulla scrivania, sul comodino, nel bagno, nell’armadio, perfino nella scarpiera e nella camera del fratello, nonostante non vivesse più lì da anni. Quanto più disperatamente ne aveva bisogno, tanto più difficile gli sembrava che diventasse trovarle. Solo quando fu rincasato esausto da scuola, seccato di essere stato preso in giro ininterrottamente per via della montatura fuori moda degli occhiali che non adoperava mai, che quelle disgraziate spuntarono fuori dalla cartella che si era trascinato dietro per tutto il giorno. Insomma, non solo erano nel luogo più a portata di mano di tutti, ma anche in quello che aveva involontariamente controllato più di frequente!
Ecco, in quel secondo lunedì di luglio, Tooru si era sentito frustrato esattamente come quando aveva perso le lenti a contatto. Ricolmo delle più rosee speranze, aveva perlustrato ogni centro sportivo della città in lungo ed in largo ed in giorni ed orari diversi, nella speranza di trovare Megumi Sakurai. Iwaizumi gli aveva fatto sorgere il fastidioso dubbio che quello che stava facendo sfiorasse il limite della decenza e del rispetto della privacy, e che sarebbe bastato davvero poco perché lo si potesse definire una sorta di maniaco, ma aveva bisogno di rivederla: dopo quello che aveva ascoltato qualche settimana prima da Hiromi, aveva voglia di far luce sulla faccenda. La sua mente aveva cominciato ad attivarsi giorno e notte, delineando degli ipotetici scenari che via via diventavano sempre più simili alla trama di qualche film thriller a sfondo erotico e cominciava a sentirsi piuttosto preoccupato.
«Certo, figurati se è qui...» biascicò fra i denti mentre dagli spalti del City Gymnasium lanciava un’occhiata per sicurezza giù nel campo. La frequentava abbastanza spesso ed in quei giorni vi era passato un paio di volte per trovarci una volta la squadra cittadina di basket, un’altra i ragazzi della squadra maschile di pallavolo in pieno allenamento. Era un palazzetto così tanto gettonato che di certo – se realmente desiderava passare inosservata – Sakurai ne avrebbe scartato l’opzione a priori. Quella sera fu sorpreso di ritrovarsi nel bel mezzo di un’amichevole fra la gli studenti e le studentesse dell’università di Miyagi e quella che sembrava una squadra mista cittadina. A dire la verità non sapeva nemmeno che Sendai avesse una squadra mista al City Gymnasium, perciò doveva essere una trovata dell’ultimo momento. Le formazioni miste non lo facevano affatto impazzire, a tratti le trovava umilianti: condividere la propria metà del campo con compagni del sesso opposto non era facile come sembrava, essendo maschi e femmine abituati a gestire le azioni in maniera diversa, senza contare che le schiacciate ed i servizi delle donne erano davvero ridicoli da ricevere per un uomo abituato al vigore dei propri colleghi. Non c’era dunque da meravigliarsi se in pochi s’interessassero di quel genere di incontri, che avevano più cose in comune con le partitelle improvvisate nel parco dagli amatori che con la società che molto probabilmente teneva in piedi la squadra.
Stava per girare sui tacchi quando scorse nella metà campo occupata dalla squadra cittadina una treccia di un colore molto familiare. Con una piacevole sensazione di vuoto nello stomaco, riconobbe Sakurai in seconda linea con indosso la casacca blu numero 23, tutta intenta ad aggiustarsi le ginocchiere sui leggins scuri. Si voltò un attimo per scambiare delle indicazioni con il centrale al suo fianco, probabilmente sulla ricezione del prossimo servizio. Sembrava decisamente più distesa di quanto fosse con la squadra del suo club scolastico o almeno non dava l’impressione di essere una che si appressa soglia del patibolo.
Caspita, se era ancora più bella quando sorrideva! Perché quello era un sorriso abbozzato appena ma gentile, quello che stava rivolgendo al palleggiatore, in risposta ai cenni con gli occhi che da sottorete le faceva per segnalarle un’imminente mezza in seconda linea. Fu piuttosto invidioso dell’aurea condizione di quest’ultimo: cosa avrebbe dato per trovarsi al suo posto! La guardò arretrare oltre la linea alla sua sinistra, prendere la rincorsa, staccare prima della linea dei tre metri e colpire con uno schianto la palla egregiamente servitale; la centrale avversaria se la fece sfuggire dalle mani, il libero sembrò quasi riuscire a difenderla, ma la traiettoria risultò deviata e finì per lasciarla cadere fuori campo. Tooru si ritrovò a pensare che se quel braccio potente era capace di sfondare un muro avversario in quel modo dalla seconda linea, Sakurai sarebbe potuta essere ancora più utile se avesse giocato in un altro ruolo. Le sarebbe bastato abituarsi a schiacciare palle diverse da quelle che prediligeva, lavorare maggiormente sulla resistenza e migliorare a muro per poter giocare a destra e diventare l’inarrestabile top scorer di qualsiasi formazione.
Alla fine rimase incollato alla tribuna fino all’ultimo set della partita, che si risolse con la vittoria della squadra cittadina, sancita da un ultimo, eccellente, punto di quella che certamente era la più giovane in campo. Tooru non poté non ammirare il clima di coesione e spensieratezza che circondava i componenti della squadra da cui la ragazza era stata accolta. Erano persone di età, provenienze ed esperienze differenti, ma ognuno di loro ci teneva a supportare i propri compagni condividendo con loro dritte e critiche. L’alzatore, un ragazzo sulla trentina, scambiò con Sakurai un poderoso cinque, congratulandosi per aver utilizzato al meglio tutte le sue palle. La ragazza accennò un inusuale inchino cortese e lo ringraziò per gli ottimi palleggi. Ancora una volta considerò che sarebbe stato entusiasta di trovarsi nei suoi panni: a prescindere dalla sua incontrollabile cotta per la schiacciatrice, vedere le proprie alzate utilizzate in maniera efficace da un’ala tanto esigente in campo, doveva essere particolarmente soddisfacente. Per non parlare di poterle stare così vicino, toccarla per complimentarsi con lei o augurarle un buon servizio, condividere con lei quell’intesa speciale che solo un palleggiatore ed il proprio schiacciatore conoscevano, guardarla negli occhi per dirle “Questa è tua, vai e spacca tutto!” Si trattava di sensazioni che provava già con i suoi compagni di squadra, ma l’idea di poterlo fare con Sakurai gli mandava in tilt il cuore e lo stomaco. Perciò quando la vide recuperare il proprio borsone e avviarsi verso gli spalti non seppe trattenersi: voleva che lei lo notasse.
«Gumi-chan!» cinguettò eccitato sventolando per aria la mano in segno di saluto «Sei stata davvero eccezionale! Gran belle schiacciate!»
Le spalle della ragazza s’irrigidirono, prima che questa si voltasse di scatto verso di lui. Tooru scorse una scintilla di terrore balenarle negli occhi marroni. Se aveva paura che lui la stesse pedinando si stava preoccupando del nulla: in fin dei conti lo aveva pur sempre messo al tappeto con uno spintone.
«Come mi hai trovata?» gridò in sua direzione «Chi ti ha detto che ero qui?»
«Non è il caso di agitarsi, Gumi-chan, è stato un caso!» mentì, mettendosi sulla difensiva.
La ragazza però non fu affatto convinta dalla sua risposta, e si arrampicò rapida sulla gradinata per arpionargli bruscamente il braccio destro con una mano. Tooru non sapeva se il cuore gli galoppasse in petto tanto forte per la paura di buscarle di nuovo o per il semplice contatto fisico con Sakurai. Così vicino e con l’abbondante luce prodotta dai fari che illuminavano il palazzetto, sarebbe riuscito a contare con accuratezza le lentiggini che le costellavano il viso e che aveva scorto così nitide solamente in qualche foto sul suo profilo «Chi ti ha detto che ero qui?» ripeté minacciosa.
«Nessuno! Ti giuro nessuno!» si affrettò a risponderle nascondendo la faccia dietro le braccia per ripararlo da eventuali colpi. Considerò dunque che sarebbe stato rischioso provare a raccontarle una bugia e ammise la verità. «Ho saputo che avevi lasciato la squadra ed ho pensato che non avresti mai potuto lasciar perdere la pallavolo. Volevo rivederti e così ti ho cercata in tutte le palestre di Sendai, sperando di ritrovarti. Oggi, finalmente, ti ho trovata qui!»
«Ed io dovrei credere a queste balle?»
«È la verità!» le assicurò. Sakurai, seppur ancora guardinga, lasciò andare il suo braccio.
«E perché avresti voluto così tanto rivedermi da cercare in tutta Sendai? Hai qualcosa di mio che devi restituirmi o vuoi semplicemente confessare di aver deliberatamente fatto il guardone nel mio spogliatoio?» domandò sospettosa.
Tooru sperò che stesse scherzando, perché gli appariva palese il motivo per cui lo stesse facendo. Certo, non glielo aveva mai detto ad alta voce, ma chiunque lo avrebbe capito. Quindi o lo stava prendendo in giro o era meno sveglia di quanto si aspettasse. Forse Iwa-chan aveva ragione: girarci intorno senza essere chiari non si sarebbe mai rivelato abbastanza utile e non sapeva per di più quando avrebbe nuovamente avuto l’occasione di essere a tu per tu con Sakurai. Constatò di trovarsi in una situazione del tutto nuova, o almeno nuovo era il ruolo che questa volta ricopriva nella conversazione con una ragazza. In un coraggioso slancio d’onestà, confessò:
«Perché mi piaci, no?»
Seguì un imbarazzante intervallo di silenzio teso, in cui si accorse di sentire un gran caldo sul viso, nonostante le mani – invece – stessero sudando freddo. Si fece forza e con la coda dell’occhio sbirciò la faccia della ragazza, che lo fissava con gli occhi ridotti a due fessure fiammeggianti e le braccia incrociate davanti al petto.
«Guarda che non ci casco. Lo sanno tutti che sei un farfallone.»
«Sono sincero, sincero! Tu mi piaci!»
«Ah, certo… e sapresti dirmi perché ti piaccio?»
Tooru trovava che ci fosse così tanto da dire per fornire una risposta esaustiva a quella domanda, che l’elenco avrebbe superato le cento pagine. Non riusciva a stabilire una classifica per sintetizzare i motivi per cui si sentiva attratto da Sakurai, quindi provò ad enumerarne alcuni in ordine sparso, mentre la faccia gli andava a fuoco. Si chiese se le ragazze che gli si dichiaravano provassero le stesse sensazioni, ma fortunatamente al sicuro dal terrore di buscarsi un pugno in un occhio in caso di un riscontro negativo.
«Ti piace la pallavolo e sei molto brava, poi hai carattere e una personalità molto marcati, senza contare che sei una ragazza molto bella, ma credo che tu questo lo sappia già: sei bella anche quando vieni fuori dal campo tutta sfatta. Adoro molto come sorridi quando fai punto, e quando ti sistemi la treccia fra una fase e l’altra. Mi piace il modo in cui parli, e anche la tua voce, e poi…»
«Bene…» lo interruppe lei di punto in bianco. Tooru intravide con piacere un po’ di rosa colorarle le guance «Tu in ogni caso non piaci a me, quindi sparisci.»
«Non puoi provare ad uscire con me, almeno una volta? Poi decidi!» le suggerì instancabile.
«Sarebbe comunque inutile: io amo solo il mio Waka-nii, quindi non hai speranze.» tagliò corto.
Eccola, la verità che aveva voluto ignorare fino a quel momento. Eppure l’aveva vista con i suoi stessi occhi, il malaugurato giorno in cui la sua strada aveva incrociato quella della ragazza in quello stesso palazzetto dello sport. Ushijima era stato così amorevole con Sakurai, tanto da sembrare fuori dal suo stesso personaggio: accarezzarle la schiena, prestargli la giacca della propria tuta, accettare tutte le moine che la presunta “solo amica” gli rivolgeva erano tutti segnali molto chiari. Così come l’invadente tendenza della ragazza ad appiccicarglisi addosso, scaricando su di lui tutti i capricci e i sintomi della sindrome dell’abbandono, avrebbero dovuto scoraggiare Tooru nel suo intento. Anzi, a pensarci bene, una persona sana di mente si sarebbe dovuta tirare indietro già quando la ragazza con cui stava cercando di attaccar bottone lo aveva incontrovertibilmente respinto, mettendolo pure in imbarazzo davanti a tutti. Ma invece che demoralizzarlo, quel brusco rifiuto non faceva altro che accrescere il suo desiderio e si vergognava di sé stesso anche solo per provare un simile sentimento. Forse non si era innamorato subito di Megumi Sakurai, quando l’aveva vista schiantare la palla nei primi tre metri del campo avversario, o quando aveva scoperto che avevano in comune più di quanto chiunque potesse immaginare. Forse, per quel breve lasso di tempo, era solo stato affascinato dal suo aspetto fisico e dalla sua straordinaria presenza in campo e soltanto poco più tardi era inciampato nella rete che qualche dispettoso dio dell’amore doveva avergli teso. Perché nel momento in cui Sakurai gli aveva rifilato il suo secco no, lo teneva già irreversibilmente in pugno. Iwa-chan e gli altri lo avrebbero canzonato dandogli del masochista ma forse, da un certo punto di vista, lo era davvero. Anche dinanzi al secondo rifiuto e alla certezza che lei fosse persa del suo più acerrimo rivale, per giunta, non riusciva ad arretrare. Al contrario, si sentiva ardere il petto ancora maggiormente, bruciava dalla voglia di serrare la distanza fra le loro labbra e ascoltarla ammettere, subito dopo un bacio impetuoso ma perfetto in ogni dettaglio: “Sei meglio tu di Waka-nii.”
Forse questo avrebbe dovuto dirle: «Mi piaci perché mi sfuggi, ed in amore vince chi fugge. Mi piaci perché amarti è una sfida, perché tu vedi solo un altro, ed io posso essere molto meglio di lui. Lascia che te lo dimostri.»
Ed invece disse solamente: «Hai dei gusti davvero di merda.»
«Ti ammazzo, brutto figlio di…» cominciò lei pronta a prenderlo nuovamente per la collottola.
«Non c’è bisogno di mettere in mezzo mia madre!» protestò lui con voce acuta. Il cuore gli martellava di nuovo all’impazzata: era seccante che potesse sperare nel contatto fisico solo provocandola e rischiando di prenderle di santa ragione.
«Allora ritira quello che hai detto, stronzo!»
«D’accordo, d’accordo … hai buon gusto, va bene? Il tuo Ushiwaka-nii è alto, bello, forte, eccetera eccetera, proprio come dici tu.»
Sakurai lo lasciò andare e lui si risistemò la maglietta sgualcita. «Allora da quand’è che state insieme?»
La schiacciatrice divenne quasi porpora per la vergogna. Abbassò gli occhi verso i lacci delle proprie scarpe da ginnastica rosa shocking e ammise: «No, non stiamo insieme.»
Era dunque questo il secondo lato di Megumi Sakurai che imparava a conoscere: alla fine dei conti, veniva fuori che anche lei era una ragazza di sedici anni che quando arrossiva diventava tremendamente carina. Alta quasi un metro e ottanta, graziata da madre natura con un’ammirevole quantità di muscoli, ma comunque riusciva di tanto in tanto a risultare adorabile. Forse sarebbe riuscito a bearsi un altro po’ di questa sua nuova facciata se avesse continuato a girare il coltello nella piaga.
«E tu ti attacchi a lui come una cozza per fargli capire che ti piace?»
«Io non mi attacco a Waka-nii come una cozza!»
«Ah no?» la rimbeccò lui fingendo di togliersi una giacca immaginaria e porgerla all’aria accanto a sé. «Hai freddo?» recitò imitando la voce baritonale di Ushiwaka e poi mimando il gesto di stringersi la giacca sulle spalle come aveva fatto lei in quell’occasione. Ciliegina sulla torta, completò la performance da Oscar fingendo di lanciarsi fra le braccia di un Ushiwaka inesistente riproducendo perfettamente la stessa faccina da cane bastonato che Sakurai aveva esibito.
«Mi hai spiata, Oikawa? Sono cose personali!» protestò praticamente paonazza.
«Personali un cavolo! Stavi cercando di amoreggiare con lui in un corridoio pieno di gente!»
«Am- amoreggiare?» sillabò la ragazza sempre più a disagio «Ma cosa dici, razza di cretino?»
«Che ti imbarazzi a fare? Sono forse davanti ad una deliziosa e timida verginella?» commentò lui con un sorriso sghembo.
«Non sono una verginel…»
«Ah-ah!» la fermò lui, scuotendo l’indice davanti al suo naso con fare sentenzioso, sempre più divertito. Ci stava prendendo la mano e cominciava ad essere più facile gestirla e toccarla sui punti deboli, anche se doveva stare attento a non superare il limite, se non voleva tornare a casa con un occhio nero. «Attenta a quello che scegli di dire, Gumi-chan. Qualcuno potrebbe giudicarti in entrambi i casi.»
Sakurai nascose le mani dietro la schiena e si voltò dall’altro lato. «Comunque sono fatti miei, questi.» concluse con voce vibrante di vergogna «Non vedo perché dovrei raccontarli a te.»
«Dunque lo sei davvero, una verginella inesperta!»
Come prevedibile la schiacciatrice lo agguantò nuovamente con cipiglio minaccioso.
«Guarda che rischi di brutto!» strillò, con la voce più alta di un’ottava rispetto al solito «Non mi faccio problemi a gonfiarti quel bel faccino! Spero che le tue ammiratrici lo abbiano assicurato!»
«Sei davvero acida, Gumi-chan! Perché non ti fai dare due colpi dal tuo Ushiwaka-nii? Sono matematicamente certo che dopo saresti molto meno isterica!»
«Ed io sono matematicamente certa che oggi tu non tornerai a casa intero!»
«Che c’è? Basta che ti dichiari ed il gioco è fatto!»
«Be’ si dà il caso che non sia così semplice e che io mi sia già dichiarata!»
Un risvolto sorprendente ed interessante insieme: innanzitutto ne veniva fuori che Sakurai era il tipo di ragazza che si dichiara all’uomo che ama, mentre Tooru non ci avrebbe scommesso nemmeno un centesimo; inoltre Ushiwaka l’aveva rifiutata, e anche qui, il palleggiatore non era in grado di spiegarsi perché.
«Ti ha rifiutata? Questa è proprio bella!»
«Non so nemmeno perché ti stia raccontando queste cose, sono fatti personali!» si lamentò strattonandolo come una bambola.
«E tu non ti sei ancora arresa? Siamo uguali, vedi?»
«Io non sono uguale a te, cretino! I miei sentimenti per Waka-nii sono puri e sinceri!»
«Cosa ti fa pensare che i miei per te non lo siano?» la rimbeccò lui offeso.
«Tu sei un uccello di passo[1]! Vuoi solo una ragazza in più nel tuo letto!»
«Gumi-chan, sei crudele! E poi “puri e sinceri” … a chi vuoi darla a bere? Si vede chiaramente che muori dalla voglia di saltargli addosso e farti fare da lui qualsiasi cosa!»
A questo punto Sakurai era tanto rossa che quasi temeva che implodesse da un momento all’altro. Ma era anche così carina che avrebbe potuto starla a contemplare per il resto della propria vita.
«E anche se fosse? Oltre l’attrazione fisica c’è il sentimento!» biascicò imbarazzata.
«E vi siete baciati, qualche volta?»
«No!» sbottò lei «Basta con queste domande!»
Si ripromise di stuzzicarla solamente un’altra volta e poi di lasciar perdere, prima che perdesse effettivamente la pazienza e lo prendesse a calci nel sedere. La parte più sorprendente e divertente insieme era che, nonostante tutte le proteste, Sakurai continuasse a soddisfare le sue curiosità.
«Quindi non hai mai baciato nessuno?»
Si aspettava che il colorito grazioso di Sakurai durasse ancora per un po’ e che lei gli urlasse in faccia l’ennesimo e ultimo diniego goffo, ma invece la ragazza a quella domanda sbiancò completamente, le pupille si rimpicciolirono nelle iridi color cioccolato e ritornò spaventata come lo era stata quando lui si era fatto notare. Lasciò la presa sulla camicia e si affondò nervosa le unghie nelle nocche. «Sì.» mormorò, con la colpevolezza dipinta sul volto. Ma perché avrebbe dovuto sentirsi colpevole per aver baciato qualcuno? Non ebbe nemmeno il tempo di chiederglielo che lei era già ridiscesa per le scale degli spalti, senza nemmeno degnarsi di salutarlo.
Avrebbe dovuto arrendersi, sul serio, ma non ne era affatto in grado. Voleva scusarsi se aveva toccato involontariamente un tasto troppo dolente e voleva scoprire perché fosse così dolente. Voleva parlarle ancora così da vicino, ascoltare ancora il tono della sua voce quando, per l’imbarazzo, si faceva più femminile, chiederle perché giocasse così bene da quando aveva lasciato il club. Ma quando sarebbe riuscito a rivederla nuovamente era una vera incognita.
A meno che …
Dio, i ragazzi lo avrebbero ucciso.
~
Megumi si chiedeva cosa avesse fatto di tanto malvagio da meritarsi un trattamento simile. Ad essere sincera, sapeva benissimo di non essersi sempre comportata in maniera pedissequamente corretta, ma riteneva che la punizione che l’era toccata in sorte non fosse commisurata alla colpa. Il lavoro e la nuova squadra le offrivano, per qualche ora, sollievo dall’invadenza di Hattori, peccato però che nulla potessero invece contro quella di Tooru Oikawa. Perciò, quando Anzai gliel’aveva presentato come un nuovo palleggiatore della squadra, invitandola ad essere gentile con lui e a dissipare tutti i suoi dubbi, Megumi avrebbe voluto mettersi a piangere e pestare i piedi per terra. Era certa che Anzai si fosse mosso con i più nobili propositi, probabilmente sperando che fra di loro s’instaurasse – complice anche l’età – un’amicizia vantaggiosa per il lavoro di squadra, ma la ragazza avrebbe preferito stringere amicizia con la signora delle pulizie piuttosto che avere fra i piedi la nuova e seccante recluta. Innanzitutto, era da due giorni che s’interrogava sull’effettiva autenticità della spiazzante dichiarazione che le aveva rifilato il mercoledì precedente, la notte prima l’aveva addirittura sognato che la inseguiva mentre lei correva con Wakatoshi il suo consueto circuito pomeridiano. Inutile precisare che quell’incubo l’aveva messa di pessimo umore per tutta la mattinata ed aveva perfino disertato l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive. Poi c’era la questione della sua lingua instancabile: parlava di continuo e faceva continuamente domande a cui lei avrebbe volentieri evitato di rispondere, ma Oikawa era munito di qualche superpotere subdolo che gli permetteva di strapparle sempre una risposta.
Megumi voleva solo essere lasciata in pace, chiedeva tanto?
«Non mi trovo per niente bene con te, è meglio se lasciamo perdere.» sospirò esausta dopo essersi lasciata cadere sul parquet consunto della palestra. Oikawa si sedette a gambe incrociate accanto a lei. La ragazza si distese sul pavimento e lo scrutò furtivamente dal basso, tuttavia non abbastanza da non farsi notare.
«Perché mi guardi così?» le domandò l’altro corrugando le sopracciglia.
«Perché ti si legge in faccia il disappunto. Io ti avevo avvisato che non avresti ottenuto niente venendo qui, pare che te ne sia finalmente accorto.»
Oikawa sbuffò. «Non è per quello che ho il broncio, è che tu ti arrendi troppo presto!»
«Perché perseverare in cose che non mi riescono? È solo uno spreco di energie…»
«Niente è uno spreco di energie!»
Megumi non condivideva affatto. Per tutta l’ultima ora non avevano fatto altro che provare un’infinita serie di combinazioni di ogni tipo. Il repertorio di Oikawa, come spesso le aveva decantato Wakatoshi era davvero molto ampio: aveva tentato ogni singolo tipo di alzata, ma lei era stata in grado di colpirne di striscio a malapena un paio. Ogni volta il nuovo palleggiatore non si lamentava di nulla, anzi, sorprendentemente si scusava per aver sbagliato e le serviva una nuova palla, senza mai scoraggiarsi. Forse avevano reiterato quel circolo vizioso per una cinquantina di volte senza successo e glielo fece notare senza troppi complimenti.
«Vedi? È per questo che sbagli Gumi-chan. Tu non prendi seriamente gli allenamenti, non devi dare il massimo solamente in partita: se una cosa non ti riesce, non devi mollare finché invece non ce la fai!» la rimproverò. Megumi non aveva alcuna voglia di farsi fare la predica perfino da uno che aveva conosciuto solo perché l’aveva sbirciata nello spogliatoio, perciò replicò:
«Kawabata-san non si è mai lamentato, ed io non mi sono mai lamentata di lui, credo che sarebbe meglio se continuassimo a lavorare insieme come era fino a ieri.»
«Perché Kawabata-san è fin troppo gentile e ti fa sempre lo stesso palleggio, i virtuosismi se li concede solo con gli altri schiacciatori. Se schiacci sempre le stesse palle non aggiungi niente alla squadra, anzi diventi solo prevedibile.»
«Sei qui da nemmeno un giorno e già ti senti in dovere di farmi la lezioncina?»
«Perché te la prendi tanto? Ti sto solo dando dei consigli. Dispiace che un braccio forte come il tuo venga sprecato a causa della prevedibilità. Pensa che flagello per gli avversari saresti se fossi in grado di mettere a terra con quella stessa energia qualsiasi tipo di palla!»
«Tu vaneggi, stai parlando di chimere.» tagliò corto infastidita.
«No, sto parlando di te, perciò credo che sia possibile.»
«Si vede proprio che mi conosci appena» commentò con amarezza Megumi roteando gli occhi al cielo «Io queste cose che dici tu proprio non so farle. Ad esempio, faccio schifo con le veloci.»
«Sempre perché perdi la pazienza e non ti eserciti abbastanza.»
«Non è questione di pazienza, è questione di essere portati o meno per qualcosa!» ribatté.
«Fammi indovinare, Gumi-chan. Scommetto che sei quel genere di persona che se non riesce subito a superare il livello di un videogioco, si scoraggia e lo molla per intero.»
«Ovvio che sì, lo rivenderei e me ne comprerei un altro.»
«E così via all’infinito…»
«Oppure mi procurerei il salvataggio di qualcuno che ha superato quel livello.»
«In breve prenderesti una scorciatoia.» considerò Oikawa «Ma Gumi-chan, nello sport non possono esistere le scorciatoie. O superi il livello, o in ogni caso dovrai rassegnarti al game over
Forse Tooru Oikawa poteva leggere nella mente delle persone, come il protagonista di quell’americanata sui vampiri che la sua sorellina l’aveva costretta qualche anno prima a vedere con lei[2]. Megumi si sentì particolarmente toccata dalle sue parole, come se le stesse facendo una frecciatina ben mirata, e si rimise rapidamente in piedi.
«Se pensi questo di me, non vedo perché tu debba continuare ad ostinarti.» annunciò innervosita «Qui abbiamo finito, io me ne vado.»
Anche Oikawa scattò in piedi e fece in tempo ad afferrarla per il gomito. Sembrava dispiaciuto che lei l’avesse presa in quel modo. Megumi era stata troppo impetuosa, in fin dei conti lui non poteva assolutamente sapere nulla delle sue disavventure.
«Gumi-chan, non avevo alcuna intenzione di offenderti! Era solo un consiglio, senza obblighi!»
Megumi si lasciò sfuggire un sospiro. «Lo avevo capito, Oikawa. Grazie lo stesso.»
«Posso farmi perdonare?» propose speranzoso.
«No.» replicò duramente l’altra «Ora lasciami andare, si fa tardi.»
«Ti riaccompagno all’Accademia, una ragazza non dovrebbe andare via da sola…»
C’era un particolare di quell’invito indesiderato che a Megumi non quadrava affatto. Lei e Oikawa avevano – da quando si erano conosciuti – conversato solo tre o quattro volte, e durante nessuna di queste la schiacciatrice aveva accennato di alloggiare nei dormitori dell’Accademia.
«Chi te l’ha detto che sto ai dormitori?»
Oikawa si morse un labbro, conscio di averla fatta grossa.
«La tua amica Hiromi.» ammise riluttante.
«Fantastico, e cos’altro ti ha detto? Che giocavo qui? È stata lei?»
«No, lei mi ha detto solo che ti allenavi da qualche altra parte. Sono stato io a trovarti.»
«A quanto pare io con lei parlo a vanvera, tanto non mi ascolta.» si lamentò a mezza voce.
«In sua difesa, me l’ha detto che non volevi che nessuno sapesse nulla…»
«Ah, te l’ha detto. Molto utile, devo dire. Ci vediamo, cretino.»
«Gumi-chan, lasciati accompagnare!»
«No. So benissimo tornare a casa da sola.»
~
C’era da qualche sera un lampione fulminato lungo l’ultimo tratto di strada che conduceva all’Accademia: l’assenza della sua luce rendeva difficile mettere un passo dopo l’altro, perciò Megumi dovette affidarsi alla memoria. Continuava a meditare sui suggerimenti utopici di Oikawa, sulla possibilità di adeguarsi ad ogni tipo di palla e sfruttarla al massimo in ogni caso. Megumi disponeva di un ottimo controllo dopo aver staccato in salto, si era abituata a calcolare l’angolo perfetto per colpire il punto cieco dietro gli avversari o il pertugio nel muro, ma per fare quello aveva bisogno di un’alzata piuttosto duttile, perciò era impossibile fare la stessa cosa con tempistiche diverse. Stava giusto pensando questo quando, proprio al limite della zona d’ombra definita dal lampione guasto, ad un solo passo dalla luce, qualcuno la trattenne tirandole i capelli. Per un attimo, s’interrogò su chi fosse, prima di rendersi conto che Oikawa aveva avuto il merito di farle dimenticare per qualche ora l’angosciosa questione che ormai la tormentava da mesi. Hattori le sussurrò nell’orecchio:
«Dov’è che sei stata fino a così tardi?»
Megumi reagì con inaspettata lucidità.
«Perché non lo chiede ad Hiromi? Mi pare che ormai lei sia diventata la sua confidente più fidata.» ringhiò levandoselo di dosso e affrettandosi ad entrare nel cono di luce del lampione successivo.
«Sei gelosa, Sakurai? Non devi esserlo, per me esisti solo tu. Lo sai, no?»
«Non ho alcun motivo di essere gelosa!» protestò disgustata «Voglio solo che smetta di ficcare il naso nella mia vita e di farlo mettendo in mezzo terze persone! Mi lasci in pace!»
«La tua vita, la tua carriera sportiva, tutto di te … è mio
«Lei è malato… da denuncia...»
Hattori la raggiunse e le strinse dolorosamente il polso destro, ben conscio di quanto questo le fosse utile per le proprie prestazioni sportive. «Se solo ti permetti, ragazzina» sibilò ad un soffio dalle sue labbra, così vicino che poteva percepire la familiare puzza di tabacco «Io ti rovino. A chi credi che crederebbero? Ad una mocciosa in cerca di successo facile o ad un rispettabile adulto con anni di esperienza?»
«Ho i suoi messaggi, sono una prova più che sufficiente!»
«E tu credi che io abbia usato un numero realmente esistente?»
Fu un brutto boccone da mandare giù. Per tutto quel tempo Megumi aveva conservato con cura ogni singolo messaggio ricevuto dal proprio ex-allenatore, considerandoli la più preziosa delle armi a sua disposizione per combatterlo, dal momento che invece le telefonate che riceveva erano tutte anonime. Ora scopriva che non valevano nulla. La prontezza di riflessi che aveva manifestato poco prima svanì in un sol colpo. Le pizzicavano gli occhi e la gola e riprese nuovamente a sentirsi in un tunnel senza via d’uscita. Approfittando del suo momento di confusione, l’uomo la tirò vicino a sé e le impedì di allontanarsi nuovamente.
«Mi manchi, Sakurai. Perché non vuoi capirlo?» sussurrò mellifluo.
«Si allontani da me!» urlò spaventata. Si era illusa che sarebbe bastato smettere con il club e non farsi vedere più in giro per sfuggire alla propria condanna, ma si rendeva ora conto che non gli sarebbe potuta scappare per sempre, prima o poi Hattori avrebbe ottenuto da lei quello che aveva sempre bramato, che lei fosse d’accordo o meno era una questione che non lo tangeva. Sarebbe accaduto lì, in qualche vicolo poco illuminato, così d’improvviso? E dopo, cosa sarebbe successo dopo? Per qualche motivo non riusciva a figurarselo, come se la sua vita si fermasse a quel momento. Al terrore sopraggiunse anche la nausea nell’istante in cui le mani ruvide di Hattori scivolarono sotto la sua maglietta, schiuse le labbra per gridare ancora una volta ma la richiesta d’aiuto rimase impigliata fra la gola e la lingua.
Questa volta, però, fu il caso a salvarla. Hattori si scostò bruscamente e le intimò di non fiatare. Megumi comprese il perché di quel repentino e salvifico cambio di programma quando scorse il professor Ayase affrettarsi verso di loro.
«Buon Dio, Isao… ti abbiamo cercato ovunque!» esordì rivolgendosi ad Hattori. Poi squadrò la ragazza con curiosità. Megumi sperò che cogliesse sul suo viso i segni del disperato grido d’aiuto che era stata sul punto di lanciare, ma l’allenatore fu più rapido a fornire la sua personale versione dei fatti.
«Ho incontrato la nostra Sakurai qui sulla strada, ho pensato di approfittare per chiederle ancora una volta di tornare al club, ma come al solito non vuole saperne. Un vero peccato.»
Il responsabile del club si raddrizzò sul naso i minuscoli occhialini cerchiati di metallo e la scrutò con maggior dovizia. «Già Sakurai, perché non torni? Mi sembri abbastanza adulta per smetterla con questi capricci…»
«Non è come sembra, professore…» tentò di spiegare attingendo a tutta la propria riserva di coraggio, ma ancora una volta Hattori intervenne con maggior solerzia: finse di cingerle amichevolmente la vita con un braccio ma ne approfittò per pizzicarle forte un fianco. Le sembrò quasi di sentirlo ripetere: “Se solo ti permetti, ragazzina, io ti rovino.”
«Sakurai, da quando hai smesso col club mi sembri aver perso tutta la serietà.» continuò dunque il professore con fare critico «Rincasare così tardi non è affatto prudente. Mi auguro che il tuo rendimento scolastico non ne risenta. Faresti bene a riprendere le attività e pensare alla tua carriera.»
«È quello che le ho detto anche io, professore: salvaguardare la sua futura carriera è la cosa più importante di tutte. Ma lei… niente, fa sempre di testa sua. Si rovinerà, in questo modo.»
A Megumi non sfuggì la subdola minaccia celata fra le righe, ma non poté far altro che fingere di ascoltare e annuire.
«Adesso torna in Accademia, Sakurai… la mensa sta per chiudere. Vuoi andare a letto senza cena?»
Cenare era l’ultima delle sue priorità, ma colse al volo l’occasione per congedare i due con un inchino frettoloso e correre via più veloce che poteva. Il cuore le martellava tanto forte in petto da farle male, respirare era diventato quasi impossibile, aveva freddo anche se luglio era alle soglie.
Per la prima volta sentì la necessità di affrontare l’argomento con qualcuno e spontaneamente il suo pensiero corse a Scoiattolo, che avrebbe di certo trovato nella loro stanza, da poco tornata dalla cena. Era stata lei il giorno prima ad offrirsi come ascoltatrice, di certo non si sarebbe tirata indietro. Trafficò qualche istante con le chiavi, che le scivolavano fra le dita tremanti e sudate, ma quando aprì la porta della camera, la trovò vuota. Sulla scrivania di Scoiattolo c’era un bigliettino riempito dalla sua grafia sgraziata.
“Sto partendo per il ritiro con il club, ci vediamo domenica sera.
(Visto che non mi lasci parlare, ti avrei inviato un messaggio, ma non ho il tuo numero.)”

 
Avrebbe voluto esserci, al ritiro. Provava invidia e rimorso, voleva essere lì con loro e non sola e abbandonata da tutti. Per di più, per una volta che aveva preso coraggio e si era decisa ad aprirsi con qualcuno, quel qualcuno spariva. Era probabile – considerò – che qualche essere superiore la stesse punendo per aver maltrattato la povera Hiromi. Avrebbe potuto chiamare Wakatoshi, ma avrebbe compromesso tutto il lavoro svolto finora per far sì che l’amico non si facesse di lei una pessima idea.
Cercò di calmarsi e riflettere con maggiore lucidità e dedusse che il ritiro doveva essere il motivo per cui Hattori era nei paraggi della scuola ad un orario tanto inusuale e per cui il professore lo stava cercando: se stavano partendo quella sera, fino a domenica poteva dirsi libera di lui e muoversi tranquillamente. Il problema si sarebbe presentato da lunedì in poi: se l’allenatore aveva intuito che vi erano dei giorni in cui ritornava tanto tardi, di certo avrebbe preso l’abitudine di appostarsi sulla sua strada. Sarebbe stato utile tornare a casa per le vacanze estive, ma lei aveva bisogno di lavorare e di recuperare l’insufficienza in fisica. Martedì, giovedì e sabato non ponevano nessun problema: smontava dal lavoro alle sei, la domenica era libera. Era importante che cercasse una soluzione per le sole sere in cui rimaneva fuori per l’allenamento.
Tentennò per ore prima di prendere in considerazione l’unica opzione valida. Era perfino folle considerare Oikawa un’opzione, ma non v’era dubbio che fra lui ed Hattori il più sopportabile fosse il primo. Era un tipo superficiale, ma non aveva l’aria di essere un cattivo ragazzo e ascoltare la sua parlantina vivace era un’attività talmente monopolizzante da distoglierla da qualsiasi altro pensiero. Se Hattori li avesse visti insieme, si fosse fatto idee strane su di loro ed avesse deciso di rivalersi su di lui, a Megumi non sarebbe importato affatto: non si crucciava affatto della sua incolumità, al contrario di quanto faceva con Wakatoshi.
L’unico ostacolo per la riuscita del suo nuovo piano, a questo punto, era di certo il proprio orgoglio. Non aveva alcuna voglia di abbassarsi a domandare ad Oikawa di accompagnarla a casa ogni sera dopo aver rifiutato la sua proposta spontanea e continuò a rimuginare per tutto il weekend su come introdurre la questione senza sembrare una disperata che chiede l’elemosina. Alle volte – lontana dall’influenza di Hattori – questi pensieri si mescolavano alle speculazioni sui suggerimenti che il palleggiatore le aveva dato l’ultima volta che si erano visti, generando uno stato di trance generale da cui a stento Secchione-kun, che si era miracolosamente proposto di aiutarla con il recupero di fisica, riusciva a risvegliarla.
Spesso sprechiamo troppo tempo a arrovellarci su problemi che alla fine si risolvono da soli.
«Posso accompagnarti stasera, Gumi-chan
La domanda arrivò inaspettata alla fine dell’intensa sessione di allenamento, insieme al palleggio perfettamente eseguito che le mise la palla proprio sulla mano destra, alla distanza dalla rete che più preferiva. Nella foga di esultare che la sorte fosse stata per una volta benevola con lei, la spedì in diagonale oltre la linea di fondo campo. Oikawa le rivolse uno sguardo contrariato.
«Non voglio essere pretenzioso, ma dovresti calibrare un po’ la forza. Questa volta il palleggio era buono.»
«È colpa tua che mi hai distratta con questa storia di accompagnarmi a casa!» si giustificò ricacciando indietro dei ciuffi sfuggiti alla treccia, poi colse la palla al balzo «Visto che insisti tanto da essere fastidioso, per una volta te lo concedo.»
Oikawa lasciò cadere a terra il pallone che aveva appena estratto dal cesto e sbatté le palpebre incredulo un paio di volte, poi distese le labbra in un sorriso pago – era un bel ragazzo, considerò dopotutto – e sollevò i pugni al cielo in segno di esultanza, lasciandola di stucco e anche piuttosto divertita.
«Non hai vinto l’oro alle Olimpiadi, Oikawa. Solo un viaggio di andata e ritorno sulla linea per Wakano.» precisò senza riuscire a non ridere.
Oikawa la fissò attento per qualche istante prima di avvicinarsi a lei con fare cauto. Megumi era perplessa ma doveva ammettere che l’intera situazione, per quanto servisse a coprire qualcosa di ben più grave, aveva qualcosa di comico. La voce gracchiante del Presidente Anzai annunciò intanto la fine dell’allenamento.
«Dammi un pizzicotto, andiamo.» la esortò il nuovo compagno di squadra.
«Cosa?»
«Mi hai anche sorriso, dunque potrei star sognando: è tutto troppo perfetto. Dammi un pizzicotto.»
«Mi stai dicendo che non sorrido mai? Come dovrei prenderla?» protestò indispettita.
«Voglio dire che a me non sorridi mai. Mi dai il pizzicotto, sì o no?»
Megumi scosse il capo rassegnata. «Dove dovrei dartelo, scusa?» si arrese, quindi si corresse goffamente quando si accorse dell’espressione divertita di Oikawa «Non intendo toccarti in nessun… ecco… posto intimo. Non volevo dire suggerire quello.»
Oikawa assottigliò gli occhi con malizia. «Gumi-chan, vuoi toccarmi il sedere? E pensare che l’ultima volta ti avevo lasciata ancora innocente e illibata! Che sporcacciona!»
Ma quale pizzicotto? Tirò al palleggiatore uno schiaffo sulla nuca così fulmineo che non ebbe nemmeno il tempo di vederlo e gli strappò un grido particolarmente acuto.
«Sei manesca, manesca! Mi rimarrà il segno!»
«Ora sai di essere perfettamente vigile, contento?»
Oikawa parve accettare il risvolto positivo della sberla. Massaggiandosi la nuca dolente, mentre rientravano alla volta degli spogliatoi, le pose la domanda che avrebbe dovuto farle sin dall’inizio:
«Piuttosto, che strada fai da qui per Wakano, Gumi-chan
«Da qui prendo la linea Namboku, scendo a Kita-Sendai e da lì c’è una mezz’oretta d’autobus fino a Wakano[3]
L’altro si mordicchiò il labbro inferiore, impensierito: probabilmente non si era mai posto il problema di calcolare quale fosse l’effettiva distanza fra il City Gymnasium e l’Accademia Shiratorizawa, quando si era spontaneamente offerto di riaccompagnarla.
«Impieghi un’ora per arrivare fin qui?» considerò sorpreso «Devi tenere molto a questa squadra!»
«Lavoro part-time nel negozio di articoli sportivi a due isolati da qui, perciò mi trovo già da queste parti.» spiegò facendo spallucce quando si fermarono dinanzi ai rispettivi ingressi «Dunque ritiri l’invito?»
«Assolutamente no!» si sbrigò a rispondere Oikawa «Avremo il tempo per scambiare qualche chiacchiera. Corro a fare la doccia e sono pronto, non andare assolutamente via senza di me!»
~
Spiegare a sua madre come mai sarebbe rientrato un’ora più tardi non era stato particolarmente ostico: gli era bastato menzionare che c’era una ragazza da accompagnare e la signora Oikawa se n’era subito fatta una ragione (oltre a tempestarlo di raccomandazioni imbarazzanti). Invece di fermarsi a Kita-Sendai come di consueto, avrebbe dovuto fare un pezzo di strada avanti ed indietro in più, ma per trascorrere un po’ di tempo in più con Gumi-chan, avrebbe fatto questo ed altro.
Per la fretta, mentre infilava i pantaloni fece riversare metà del contenuto del suo borsone sul pavimento e si ritrovò perfino a preoccuparsi del perché l’asciugacapelli non funzionasse, prima di accorgersi che non aveva inserito la spina nella presa. Quasi gli scivolò la boccetta del profumo che suo fratello gli aveva regalato a Natale, e per un pelo non dimenticò il cellulare in carica su una panca.
Sakurai lo aspettava sulle scale che conducevano all’uscita, con l’aria annoiata di una che è già pronta da un pezzo. Gli faceva uno strano effetto vederla con i capelli sciolti, visto che fino ad allora – se si eccettuava il loro primo burrascoso incontro, in cui erano ancora bagnati – l’aveva sempre vista con la sua caratteristica treccia sportiva. Si sentiva nervoso come una ragazzina al primo appuntamento. O forse era veramente una specie di primo appuntamento.
Per i primi dieci minuti di viaggio in metropolitana, con suo dispiacere, non parlarono affatto: la ragazza sembrava persa nei suoi pensieri, che dovevano essere piuttosto burrascosi. Aveva un sacco di cose da chiederle, in primo luogo voleva chiarire la questione di Hattori, ma non sapeva nemmeno da dove iniziare per non sembrare maleducato. Così tentò di rompere il ghiaccio con un argomento leggero.
«Allora, Gumi-chan, dimmi qualcosa di te.»
Sakurai si ridestò dal suo stato di apparente trance e gli rivolse uno sguardo disorientato.
«Dai, una cosa qualsiasi… tipo, non so, qual è la cosa che preferisci mangiare?» suggerì propositivo.
«Il gelato mochi, al cioccolato.»
Tooru non si aspettava che avrebbe veramente risposto ad una domanda così stupida. Forse era realmente il suo giorno fortunato.
«E chi lo immaginava? A primo acchito sembri una sportiva tutta devota alla forma fisica, nessuno direbbe mai che hai un debole per i dolci.»
«Il mio debole per il gelato mochi è il mio segreto, ora ne sei a parte. Fanne buon uso e non rivelarlo a nessuno!» scherzò lei sollevando l’indice con aria solenne.
«Vuol dire che quando finalmente riuscirai a schiacciarmi una veloce come si deve, ti offro un gelato mochi al cioccolato, conosco una pasticceria in centro che fa i gelati mochi migliori della prefettura.»
«Che palleggiatore devoto! Devo ammettere che Waka-nii aveva ragione su di te.»
«E cosa dice il tuo Waka-nii su di me?» domandò, sinceramente incuriosito dalla menzione del suo rivale.
«Al momento non dice più niente, non parliamo più.» sospirò amareggiata.
«Avete litigato?»
«No, è stata una mia decisione. Per lui è meglio così.»
Le porte del treno si aprirono a Nagamachi, consentendo ad un gran numero di nuovi passeggeri di salire. Tooru scoprì di essere molto più vicino a lei di quanto avesse mai sperato e mai, in vita sua, aveva ringraziato tanto la calca della metropolitana. C’era una sorta di ombra negli occhi scuri della ragazza, che sottraeva loro tutta la luce vivace che vi aveva visto brillare quando erano in campo. Le parole preoccupate di Hiromi riecheggiavano insistentemente nella sua mente. Forse era ora di introdurre l’argomento, a poco a poco.
«Mi chiedevo, Gumi-chan, se va tutto bene.»
Sakurai scosse il capo con poca energia. «Niente va bene, Oikawa.» ammise senza perdere troppo tempo a rimuginarci «Sto combinando un casino dopo l’altro. Quando sembra che qualcosa si sia risolto, scopro che invece è peggiorato inesorabilmente.»
«C’entra il tuo club? Il motivo per cui lo hai lasciato?»
«Non voglio parlarne.» annunciò tesa, ma c’era da aspettarselo. Già che avesse per qualche istante lasciato aperto un piccolo varco nella sua corazza impassibile era un risultato non da poco: Hiromi aveva detto che la sua compagna di stanza non parlava con nessuno, eppure per qualche minuto era stata sincera e perfino serena. Non se la sentì di insistere o di chiamare in causa Hattori, preferì fingere che la sua risposta vaga fosse stata sufficiente.
Trascorsero il tragitto in autobus fino a Wakano ad ipotizzare quali potessero essere i nuovi gironi dell’imminente stagione di V. Premium League maschile, e su quante possibilità avesse la squadra di Sendai di accedervi l’anno successivo vincendo un campionato di promozione. Era piacevole poter trattare un simile argomento con una ragazza, senza temere di poterla annoiare con un monologo di cui non le interessava nulla. Sakurai invece era partecipe, faceva osservazioni interessanti, auspicava l’ingaggio di atleti emergenti ma talentuosi che aveva avuto modo di osservare nei tornei precedenti. Quando parlava di pallavolo, l’ombra scura nel suo sguardo si riduceva ad un sottile velo di preoccupazione, quasi invisibile se messo a confronto con il luccichio entusiasta dei suoi occhi. Ogni minuto in più che passava con lei, era sempre più sicuro di non volersi arrendere.
«Non posso avvicinarmi troppo alla tua scuola, Gumi-chan. Potrei prendere fuoco spontaneamente.» scherzò mentre la scortava lungo l’ultimo tratto di strada a piedi, piuttosto esiguo ma reso insicuro da un lampione spento nelle vicinanze dell’Accademia.
«Non essere ridicolo!» L’altra gli diede un colpo leggero sulla spalla, per una volta senza l’intenzione di fargli realmente male. Era un bel passo in avanti, rispetto anche solo ad un’ora prima. «Se accompagni una ragazza, devi arrivare fino alla porta di casa sua. Nel mio caso, quella del dormitorio.»
«Non mi va di entrare… E poi se dovesse vedermi qualcuno saremmo entrambi nei guai.»
«Ma se non c’è anima viva? Sono tutti a cena.» insistette Sakurai. Era curioso che avesse cambiato idea così tanto radicalmente da desiderare che la scortasse fino alla porta del dormitorio. Insomma, la volta precedente non aveva voluto in alcun modo accettare la sua proposta e, quel giorno, era sembrata inizialmente molto prudente, mentre ora aveva l’impressione che lo stesse quasi pregando di rimanere più tempo insieme a lei. Non voleva illudersi, ma poteva significare qualcosa.
«Se non c’è anima viva, perché ti guardi sempre intorno?» obiettò sospettoso.
«Non mi sto guardando sempre intorno.»
«Ma se lo hai appena fatto!»
Sakurai finse di non aver sentito. «Grazie per avermi accompagnato fino a qui, Oikawa. Spero che adesso ti sia tolto lo sfizio di farmi compagnia.»
«È stato l’appuntamento meno convenzionale che io abbia mai avuto.» commentò.
«Non era un appuntamento, infatti.»
«Per me lo è stato, e mi sono divertito. Hai parlato con me per più di dieci minuti e non mi hai picchiato per un’ora intera. Un record!»
«Se vuoi ti pesto adesso!» propose con un ghigno.
«Preferisco evitare, grazie. E poi ti ho promesso un gekato mochi, faresti bene a mantenermi in salute.»
Sakurai sembrò soddisfatta «Allora ci vediamo mercoledì, carichi per la partita!»
«Mostreremo ai montati dell’università chi comanda!» dichiarò entusiasta.
«Buonanotte, e grazie ancora.»
Era felice, ma allo stesso tempo deluso. Mentre percorreva in fretta il cortile dell’Accademia, chiedendosi se la ragazza avrebbe permesso che quella piccola tregua fra di loro diventasse una consuetudine, ebbe la fastidiosa sensazione di sentirsi osservato. Accelerò ulteriormente il passo, e si voltò a guardarsi alle spalle solo quando fu ritornato alla fermata dell’autobus.
Poteva essere stata una sua suggestione, ma non gli era sfuggita la sagoma corpulenta che era sbucata dall’angolo della strada proprio quando lui era salito sul mezzo.
 
[1] Non è un modo di dire che si usa molto spesso, perciò riporto parte della definizione. Uccello di passo: persona di natura inquieta, incapace di star ferma a lungo nello stesso luogo, oppure sentimentalmente incostante, che predilige rapporti amorosi intensi ma di breve durata.
[2] Megumi si sta riferendo proprio a “Twilight”. Himeka Sakurai è una ragazzina a cui piacciono le cose che vanno di moda.
[3]Wakano” è il quartiere in cui, secondo la serie originale, si trova l’Accademia Shiratorizawa. È una località di finzione, tuttavia la scuola è ispirata alla Tohoku International School di Sendai, realmente esistente e situata in periferia. Per comodità, in questa storia ho collocato Wakano e l’Accademia proprio nel luogo in cui si trova l’International School. Le linee nominate da Sakurai, dunque, sono realmente esistenti.

NOTE FINALI

 

Nuovamente sotto esame, riemergo dalle ceneri della mia vergogna. Non so più come scusarmi per i continui ritardi, ma agosto - fra ferie, connessioni fantasma, computer rotti e nuovi esami - è passato in un batter d'occhio, e così anche settembre. Questo capitolo è stato molto faticoso da scrivere e sono stata costretta a spezzare l'idea originale per poter pubblicare il prima possibile. Succede tutto... e niente, ma è il preludio della tragedia. Ancora una volta è un testo che ha alti e bassi, ci sono alcune scene che sento di poter scrivere meglio di così, altre che ho riletto dopo settimane e mi hanno fatto chiedere se l'abbia scritte io o la mia "gemella talentuosa". Lo lascio a voi, per farmi perdonare dell'attesa. Ringrazio tutti voi che ancora mi seguite nonostante tutti i miei ritardi, siete incredibili. Io mi sarei mandata a quel paese da sola non so da quanto tempo!
Come al solito, in caso di sviste/errori/disastri fatemi un fischio ed io accorrerò il prima possibile. Siate buoni :( anche se non lo merito perché sono una ritardataria schifosa.

Alla prossima e buona lettura!

   
 
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