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Autore: koan_abyss    29/10/2017    3 recensioni
Autunno 1981: Severus Piton ascolta la Profezia di Sibilla Cooman e la riferisce al Signore Oscuro. Resosi conto che Voldemort intende colpire i Potter, Piton cerca Silente e lo implora di nascondere Lily e la sua famiglia.
Per una serie di circostanze fortuite, i Potter scelgono lo stesso Silente come Custode Segreto. Voldemort, deciso comunque a compiere la Profezia, cerca di uccidere il piccolo Neville Paciock, ma il bambino sopravvive.
Il Signore Oscuro è sconfitto, i suoi seguaci catturati e rinchiusi.
Piton, rimasto senza padroni, senza uno scopo e senza possibilità, lascia il mondo magico per lo squallido mondo babbano, ancora una volta non dalla parte dei buoni.
Ma chiudere definitivamente i conti con il passato è impossibile: i vecchi legami non sono mai del tutto recisi...
Genere: Angst, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Lily Evans, Severus Piton | Coppie: James/Lily, Lily/Severus, Remus/Sirius
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4, II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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Capitolo 1

Dicembre 1991

“Diamoci una mossa, Martin ci aspetta,” disse Stuart Brennan mentre il gruppetto usciva dal ristorante.
Sonny Butrick accelerò il passo, diretto alla macchina, mormorando un ‘ok, Stu’.
Piton lo ignorò, fermandosi ad accendere una sigaretta con calma: “Voglio passare dal laboratorio, Sonny.”
Il ragazzo si bloccò: “Oh, certo, John.”
Brennan sbuffò: “È tutto a posto, là. I ragazzi hanno tutto sotto controllo anche senza di te. Martin vuole parlare di contabilità.” L’uomo diede una strizzata alla donna che aveva al fianco. “Profitti,” chiarì, con un sorrisetto. Lei ridacchiò.
Piton non si curò di rispondergli. Si incamminò e l’altra donna del gruppo gli si affiancò prendendolo sottobraccio in un gesto di possesso che lui accettò con noncuranza.
Piton sapeva che insieme, lui con i capelli lunghi e vestito completamente di nero, dalle scarpe alla cravatta al cappotto di sartoria, lei bellissima nella sua pelliccia chiara, bionda e appariscente, erano di molto sopra le righe; diversi dal resto dei passanti che affollavano il centro approfittando della pausa pranzo per lo shopping natalizio. Né l’altra coppia era più sobria: tacchi alti, completo vistoso. Tutto gridava al mondo quello che erano, secondo lui.
Delinquenti, criminali. Non che fosse un problema, anzi era un effetto voluto.
“Il nostro ambiente ha le sue regole,” gli aveva detto Martin Eggar una volta. “Alcune riguardano l’apparenza. Ristoranti costosi, belle macchine, ragazze disponibili con indosso bei gioielli. È una manifestazione di potere. È importante che sia così,” aveva concluso, come spiegando una cosa fondamentale a un bambino curioso.
La bionda accanto a Piton –Rarity- gli era stata presentata dallo stesso Martin, poco tempo prima. Era una delle tante ragazze che affollavano il loro ambiente, che finivano a tenere compagnia a uomini come loro mentre parlavano di affari in locali alla moda e a farsi scopare in begli appartamenti sul fiume.
Anche Sonny, che era corso ad aprire la macchina, sembrava esattamente quello che era: una via di mezzo tra un lacchè e una guardia del corpo. Come Rarity, e altrettanto misteriosamente, sembrava prediligere Piton, rispetto a Brennan.
Il ragazzo aveva trovato un soprannome per Piton, e adesso in molti lo chiamavano John Constantine. Il mago che ride.
“Ma John non ride mai,” gli aveva fatto notare qualcuno.
“Be’, ride per prenderti per il culo, no? Come si dice…con scherno, ecco!” aveva ribattuto Sonny. “E poi, John è un mago, no?” aveva aggiunto a voce più bassa.
Piton era sempre stato più che attento a non usare la bacchetta davanti ai babbani, ma attorno a lui accadevano sovente cose strane: oggetti che sembravano volargli in mano, luci che si comportavano in maniera bizzarra quando lui era di cattivo umore, quella perenne sensazione che potesse leggere il pensiero…
Piton aveva lasciato che si diffondesse la voce che era un appassionato di occultismo. Era incredibile cosa i babbani finivano per accettare per normale, se si forniva loro uno straccio di giustificazione, anche tirata per i capelli.
Viveva tra i babbani da quasi dieci anni, ormai, e non finivano di stupirlo. Né di disgustarlo, sovente. Ma non si poteva dire di meglio del mondo magico.
Buffo. Aveva passato quasi tutta la vita odiando le sue origine babbane, facendo di tutto per allontanarsi da Cokeworth, dal proprio nome e dal sangue sporco che gli aveva donato.
Si era unito al Signore Oscuro e ai suoi Mangiamorte, finalmente parte di qualcosa, finalmente uguale a tutti gli effetti agli altri Serpeverde. Tutto ciò che avrebbe potuto allontanarlo dalla decisione di prendere il Marchio Nero, l’amicizia di Lily, la speranza che lei un giorno lo amasse, un giorno, era storia passata da tempo.
Finché non aveva ascoltato quella dannata profezia.
L’aveva ripetuta al Signore Oscuro, ma aveva realizzato subito dopo che poteva essere interpretata in modo da indicare i Potter e loro figlio. Il figlio di Lily.
Aveva pensato di implorare il Signore Oscuro di risparmiare Lily, ma qualcosa l’aveva fermato: Lui voleva che Piton spiasse Silente? Così avrebbe avuto una buona scusa per incontrare il vecchio Preside, e avvertirlo del pericolo che minacciava Lily.
Ma il signore Oscuro non aveva attaccato i Potter: loro erano appena stati messi al sicuro con un Incanto Fidelius, che il signore Oscuro colpì i Paciock, che Silente non era ancora riuscito a mettere al sicuro.
Il resto era storia: il piccolo Neville, i cui genitori erano morti per proteggerlo, era sopravvissuto all’Anatema che Uccide. La maledizione rimbalzò su di lui uccidendo Voldemort.
O almeno, questo era quanto la maggior parte della comunità magica credeva. Per Silente, le cose erano più complesse.
“Sono certo che ritornerà, Severus, e cercherà ancora il ragazzo. Dovremo essere pronti.”
A Piton non era piaciuto, quel ‘dovremo’.
Il vecchio mago aveva cercato di legarlo a lui, dapprima facendo leva sul senso di colpa che avrebbe dovuto provare verso i Paciock: “Che le tue preoccupazioni siano andate per prima cosa alla tua vecchia amica ti fa onore, Severus. Ma se tu fossi stato meno selettivo, nella tua compassione, forse avremmo potuto salvare due vite.”
Ma Piton non provava alcun senso di colpa, verso i Paciock. Se avesse potuto, avrebbe protetto solo Lily (ma Lily era ormai Lily Potter e i Potter erano una soluzione inscindibile). Piton immaginava che fosse proprio lei a sentirsi in colpa, per essere sfuggita al Signore Oscuro, mentre i Paciock venivano torturati e uccisi davanti al piccolo Neville.
Ma a lui personalmente sembrava che le cose fossero andate nel miglior modo possibile: Lily era viva e il bambino dei Paciock aveva sconfitto il più grande mago oscuro della storia recente, impresa che nessun altro poteva sperare di uguagliare. Nonostante il disprezzo che riservava a lui, Piton era convinto che Silente fosse della stessa opinione.
Il vecchio aveva provato altro per convincerlo.
“Nonostante il tuo atto di coraggio, agli occhi del Ministero sei comunque un Mangiamorte. Potrei intercedere per te, ma ci sarebbero più probabilità di successo se accettassi di restare sotto la mia supervisione. Ho un certo peso, nel Wizengamot, per tua fortuna, e amo dare seconde possibilità.”
Piton, allora ventunenne, era rimasto sconvolto dalla minaccia implicita: mettersi al servizio di Silente, o finire ad Azkaban. Lui non sarebbe riuscito ad evitare la condanna, come i Malfoy, ad esempio. Non aveva una famiglia alle spalle, né ricchezze, né altri mezzi per fare ammenda. Il vecchio Preside lo sapeva bene.
“Che cosa…che cosa dovrei fare?” aveva chiesto, agghiacciato.
“Lavora per me. Ricordo che hai un particolare talento per le pozioni e a me seve un professore. Forse addirittura un nuovo Direttore di Serpeverde, Lumacorno ha espresso il desiderio di ritirarsi. Vieni ad Hogwarts, Severus, e veglia con me sul giovane Paciock. Glielo devi.”
Piton ricordava perfettamente cosa aveva provato: era convinto di fare la cosa giusta, ed ecco che il suo gesto diventava un cappio al suo collo! Non doveva niente a Paciock, Lily era al sicuro e l’idea che lui insegnasse ad Hogwarts era semplicemente ridicola.
Chi lo avrebbe rispettato? C’erano ancora studenti che lo conoscevano, che lo ricordavano come la perenne vittime di Potter e soci, che avevano assistito alla sua quotidiana umiliazione. E Potter, Black e Lupin gravitavano ancora attorno a Silente, li avrebbe dovuti sopportare ancora (Minus era morto, appena dopo i Paciock. Nessuno sapeva di preciso cos’era successo, ma si pensava che qualche Mangiamorte particolarmente fanatico avesse voluto vendicarsi della sconfitta del suo padrone, colpendo un amico dei Paciock e dei Potter, ancora irrintracciabili). Piton era terrorizzato al pensiero di quello che gli avrebbero fatto i Malandrini.
E un Direttore di Serpeverde mezzosangue! Le famiglie Serpeverde non lo avrebbero accettato, nonostante il nuovo clima di tolleranza e pentimento.
Aveva rigettato l’offerta di Silente, oltraggiato e spaventato, convinto che sarebbe finito ad Azkaban. Ma alla fine, Silente aveva comunque garantito per lui. Che lo avesse fatto per intercessione di Lily, o perché sperava che Piton cambiasse idea per gratitudine, lui si era ritrovato libero. E se non aveva accettato sotto la minaccia della prigione, non vedeva proprio cosa avrebbe dovuto convincerlo a farlo ora.

Be’, qualcosa c’era. Piton ci aveva messo mesi ad accorgersene, ma aveva infine capito che nel mondo magico non c’era più posto per lui, se mai c’era stato.
Povero, sgradevole, forse un assassino: era diventato un emarginato al pari di Remus Lupin; la sua maledizione non era un morso, ma i contorni di un tatuaggio sbiadito e l’ancora più grave stigmate di aver rifiutato l’ala protettiva di Silente. Era forse il più brillante pozionista della sua generazione e non poteva trovare lavoro. Tutta l’ambizione che gli avevano instillato non gli sarebbe servita a niente.
Era stato allora che Piton aveva preso una decisione importante.
Per tutta la vita aveva disprezzato il proprio sangue babbano. Non si era mai sentito a suo agio nel mondo comune, lo aveva sempre rifiutato. Dei babbani, in fin dei conti, non sapeva nulla. Al di fuori di suo padre, gli unici che avesse frequentato era stati i genitori di Lily e sua sorella, prima che loro morissero e lei si sposasse. Ora gli sembrava di capire la rabbia e l’odio di suo padre e di Petunia per quel mondo di cui non potevano essere parte. Non lo volevano? Lo avrebbero perso.
Aveva cercato suo padre e, per quanto l’idea lo ripugnasse, aveva chiesto il suo aiuto. Doveva capire il mondo babbano, se voleva una possibilità di sopravvivere. Suo padre aveva accettato.
Con lo stesso disprezzo che il figlio aveva riservato a lui da quando aveva imparato a parlare, lo aveva aiutato a passare per babbano.
“Ma non ne farai mai davvero parte. Sei diverso, lo sarai sempre,” gli diceva talvolta Tobias Piton.
Nel frattempo, Piton aveva studiato. Chimica, Fisica, Matematica erano tutte materie che comprendeva senza difficoltà; quando qualche lacuna lo bloccava, ricorreva alla sua solida preparazione alchemica.
Appena si era sentito pronto, Piton si era trasferito a Londra, e aveva trovato lavoro in un piccolo laboratorio chimico. Non gli ci era voluto molto per passare dal lavare le provette alle analisi e poi al sintetizzare i composti più diversi, principalmente di uso farmaceutico.
Che al laboratorio si oltrepassassero gli stretti confini della legalità non era propriamente un segreto, tra i dipendenti.
Uno dei suoi colleghi, un ragazzo poco più vecchio di lui, già stempiato e con l’alito cattivo, raccontava che spacciava cristalli di metamfetamina e pasticche di ecstasy nei locali e alle feste, per arrotondare il loro misero stipendio.
“Ho un po’ di campioni del turno dopo mezzanotte,” diceva, alludendo a quello che veniva preparato in segreto oltre l’orario di lavoro del laboratorio. “Geoffery me ne ha lasciato un po’! Prendi qualcosa anche tu, e può darsi che tu abbia fortuna, stasera, John.”
Piton usava già dei documenti falsi, all’epoca. Non voleva essere rintracciato troppo facilmente: per il Ministero, Seveurs Piton viveva ancora a Cokeworth con suo padre.
“Non dovresti fare nomi. Da dove vengo io, avere la lingua troppo lunga significa rischiare di non usarla più,” aveva ribattuto lui, senza preoccuparsi di celare il disgusto.
Ma l’idea che qualcosa si muovesse dietro le quinte così vicino a lui l’aveva incuriosito.
Piton non era mai stato bravo a non ficcare il naso, specie se poteva ricavare qualche vantaggio da quello che avrebbe scoperto. E in questo caso, benché ci fosse pericolo, non è che lo aspettasse un Lupo Mannaro, alla fine del tunnel.
Aveva teso le orecchie, indagato con discrezione, impiegato un po’ di Legilimanzia. Aveva scoperto che Malcom Geoffrey si occupava delle attività del laboratorio ‘dopo la mezzanotte’.
Piton aveva spiato quelli del turno di notte, osservato un paio di consegne di merce. Tutto faceva capo a un certo Martin Eggar, che non si muoveva mai senza il suo gorilla.
Una sera, per l’ennesima volta in vita sua, Piton era stato sorpreso a spiare qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Ma quella sera era esattamente quello che voleva succedesse.
“È uno dei tuoi, Geoffrey?” chiese il guardaspalle, spingendo Piton nella stanzetta in cui Eggar e Geoffrey parlavano.
“Cosa? No…è uno dei dipendenti,” aveva risposto l’uomo, fissando allarmato ora Piton ora Eggar.
“Noi stiamo parlando di affari, ragazzo,” aveva detto Eggar. “Dubito che tu voglia entrarci.”
“E ficcanasare è sbagliato, non te l’ha insegnato mammina?” fece il guardaspalle, alto come Piton, nero, muscoloso, con un sorriso divertito. “Ma immagino che per te sia difficile, con quel naso.”
Piton aveva sorriso a sua volta, poi si era rivolto a Eggar: “Per come conducete i vostri affari ora, no, non mi interessa entrarci. Le cose cambierebbero se vi decideste ad usare un chimico degno di questo nome.”
Per poco non aveva detto pozionista.
“E chi cazzo sei tu per dirlo?” si imporporò Geoffrey.
‘Un idiota senza sangue freddo,’ aveva stabilito Piton, e aveva continuato a parlare con Eggar: “Potrei produrre merda migliore di quella che vendete ad occhi chiusi. Anzi, potrei produrre merda migliore di quella che usi tu.”
“Oh, abbiamo un saputello arrogante,” aveva risposto Eggar, alzandosi. “Ci piacciono i saputelli arroganti, Samuel?”
“No,” rispose il gorilla, e colpì Piton con forza inaudita sulle reni.
Piton crollò in avanti e l’uomo lo sorresse senza sforzo, come se fosse stato un uno straccio. Si ricompose digrignando i denti ma tenendo a freno la rabbia. Non era niente, rispetto a quello che aveva sopportato tutta la vita (Era stato picchiato, umiliato, torturato per aver deluso il Signore Oscuro, in un’occasione. E tuttavia era il viso di Lily che gli era balenato davanti agli occhi, chiuso, definitivo, già lontano. Scacciò in fretta il pensiero). E poi, aveva sempre la sua bacchetta magica, in una manica della felpa.
“Sai perché non ci piacciono gli arroganti?” aveva ripreso Eggar. “Sono tutte chiacchiere. È raro che l’arroganza si sposi con l’intelligenza, o il talento.”
“Posso offrire una dimostrazione anche subito,” aveva ribattuto Piton, con un sorriso tagliente.
“Ora tu esci di qui e sparisci per sempre, se vuoi continuare a mangiare senza sbrodolarti e a pulirti il culo da solo!” aveva strillato Geoffrey.
Eggar era parso irritato quanto Piton da quello sfoggio di mancanza di controllo.
“Perché no?” aveva sussurrato.
Sotto lo sguardo sconvolto di Geoffrey e quello sempre divertito di Samuel, Piton aveva cucinato cristalli di metanfetamina, con le mani che un po’ tremavano per l’eccitazione, nervoso come non gli era mai capitato agli esami di Pozioni. Ma anche se non era riuscito a dare il massimo, il risultato era di molto superiore a qualunque partita il suo collega gli avesse mostrato.
Eggar aveva esaminato i cristalli con cura: “Geoffrey, trova un banco da lavoro al ragazzo nel turno dopo mezzanotte.”
“Cosa? Martin, sei impazzito?”
“Non si tiene uno che sa cucinare a lavare provette, Malcom. Vieni, facciamo due passi, chiariamo un paio di cose,” aveva poi ordinato a Piton.
Lui l’aveva seguito all’aperto, nell’area di carico. La guardia del corpo, Samuel, li seguiva in silenzio.
“Come ti chiami?”
“John Price.”
“Bene, John. Ti sto offrendo un lavoro, con un piccolo periodo di prova. Dopo vedremo se sarai in grado di giocare con i grandi.”
“Dovrei lavorare qui? Con Geoffrey? Forse vuoi prendere in considerazione l’idea di fare qualche cambiamento,” aveva detto Piton, aggrottando le sopracciglia. “Temo che ora come ora tu abbia un problema di fuga di notizie. Dovresti…”
Eggar, più basso di una ventina di centimetri, lo aveva sbattuto contro il muro umido del magazzino: “Con chi cazzo credi di parlare? Pensi di poter venire a darmi ordini appena strisciato fuori da qualche college prestigioso, su al nord? Di potermi dire come condurre i miei affari perché parli come un libro stampato e sai tradurre il latino, finocchio? Se uscito da quel tuo bel collegio maschile sei finito in questo buco di merda, forse non hai tante ragioni di darti delle arie, eh?”
Piton, le labbra che si arricciavano in un sorriso di scherno all’idea che un babbano pensasse di spaventarlo, aveva replicato: “Il mio era un collegio misto. Il tuo no, Martin?” Aveva sospirato: “Dev’essere stata dura…”
Samuel aveva riso e dopo un attimo anche Eggar.
“Non sai quanto, cazzo. Ma non provare a darmi a intendere che tu eri pieno di figa, John, perché so che non è così.”
Così aveva cominciato a lavorare per Eggar. Era una situazione familiare, qualcuno più in alto lo teneva d’occhio, decidendo come impiegarlo. Ma questa volta Piton non intendeva farsi legare o controllare troppo facilmente.”

Pochi mesi dopo, sapendo che il suo lavoro era apprezzato, aveva detto a Eggar che voleva un proprio laboratorio.
Il criminale lo aveva fissato, non troppo sorpreso: “Ecco il problema con gli arroganti, Samuel. Vogliono essere viziati. Qual è il tuo problema, John?”
“Sono ambizioso.”
“Arrogante, presuntuoso bastardo, io non affido un laboratorio a un ragazzetto di vent’anni che non ha mai visto la strada, che non ha nessuna idea di come funziona il mondo.”
Piton non aveva ribattuto, perché in effetti del mondo babbano continuava ad aver sperimentato ben poco.
“Forse non sarebbe male per il ragazzo, farsi un po’ di strada,” aveva suggerito Samuel. “Forse lo renderebbe meno arrogante.”
Eggar ci aveva riflettuto: “Potresti anche avere ragione. Lavorare a stretto contatto con gli ultimi potrebbe smuovere la sua compassione…”
“Sei diventato completamente idiota?” aveva risposto Piton con ira. “Vuoi che spacci? Che un tossico qualunque mi accoltelli in un vicolo? Sono esattamente dove ti servo, invisibile e non collegabile direttamente a te. Gli spacciatori devono farsi conoscere, essere rintracciabili, e tutti sanno sempre per chi lavorano!”
“Vedi? Non sa nulla, ma afferra al volo,” aveva detto Eggar a Samuel, che annuiva compito.
“Allora?” aveva strillato Piton.
“Allora chiudi la bocca, John. Hai l’aria di uno che l’ha capito, quando è il caso di parlare e quando no. Sì, gli spacciatori devono essere visibili per alcuni e invisibili per altri. Tutti sanno per chi lavorano e ti assicuro che il fatto che si sappia che lavori per me non mi disturba.”
Piton si era irrigidito: “È un marchio…”
“Sì! Non so cos’hai combinato, John, che ti ha spinto a usare documenti falsi –sì, ho controllato- ma ti hanno insegnato bene,” aveva risposto Eggar. “Ora, riguardo gli accoltellamenti…ovviamente non voglio che ti accada nulla. Voglio che tu faccia un po’ di esperienza, non che mi faccia guadagnare…”
“Gli si potrebbe mettere accanto qualcuno più svelto e non proprio digiuno di guai,” aveva suggerito di nuovo Samuel.
Così, Piton si era ritrovato a spacciare, con Sonny Butrick che gli guardava le spalle. Non che lui fosse disposto a far dipendere la propria protezione dall’abilità di un babbano qualunque. Usava incantesimi protettivi e talismani, e tutta una serie di piccole magie che poteva eseguire senza bacchetta e che non attiravano l’attenzione del Ministero. Era stato allora che Sonny si era fatto l’idea che Piton fosse un mago.
“Sai, da quando sto con te, John, mi sento fortunato…quando quel tizio ha dato di matto e ha tirato fuori il coltello…” Il ragazzo aveva scosso la testa. “E poi è inciampato come un coglione! Se non è fortuna questa!”
“È pericoloso sentirsi fortunati,” gli aveva risposto Piton con un sorriso sardonico, accendendo una sigaretta.
“E sembra sempre che tu sappia tutto! Che tu sappia in anticipo quello che farà la gente…”
“Quello si chiama usare il cervello, valutare la situazione. Non so se ne sei in grado.”
Sonny ridacchiava, indifferente ad ogni insulto.
Spacciare in strada a contatto con il peggio dei loro clienti non aveva sviluppato la compassione di Piton. Anzi, lui era convinto che avesse prosciugato ogni residua traccia di indulgenza verso le debolezze altrui, un sentimento che era certo di aver esaurito ben prima di prendere il Marchio Nero. Tuttavia gli aveva concesso di sfruttare e allenare le sue doti di Legilimante molto più di quanto avesse mai fatto prima.
Nel giro di un anno aveva acquisito una conoscenza del mercato che sarebbe stato stupido non sfruttare a livello più alto, e Martin Eggar non era uno stupido. A poco a poco, Piotn aveva risalito l’organigramma aziendale, come lo definiva Eggar, in onore ai suoi studi economici, mentre il loro giro si ingrandiva, gli affari si facevano più complessi, i rischi più grandi.
Piton aveva avuto il suo laboratorio e un gruppetto di idioti da istruire (a volte quasi rimpiangeva di non essere diventato professore di Pozioni: per quanto gli studenti fossero incapaci, almeno il rischio di far saltare tutto in aria non era quotidiano).
Si era ritrovato catapultato in una vita di lusso, apparenza e violenza, molto più in fretta di quanto si sarebbe aspettato. Non aveva ancora capito se ci stava bene, o no.
Rallentò e si liberò dalla presa di Rarity per buttare la sigaretta in un tombino prima di salire in auto.
“Severus?”
Piton si girò, dando le spalle alla macchina, e a pochi metri da lui vide Lily, con due marmocchi al seguito.

“Sei…sei proprio tu?” continuò Lily, incredula.
Piton la raggiunse e rimase fermo davanti a lei, senza sapere cosa dire.
“Lily…”
Liliy aveva il viso più rotondo, più dolce forse, ma poteva essere solo la sua espressione sorpresa. Indossava un vecchio cappotto blu e cappello e sciarpa color panna. I suoi capelli, più corti di come Piton li ricordava, illuminavano la strada.
“Non sapevo abitassi a Londra, credevo che fossi tornato a Cokeworth,” gli disse lei. “In effetti,” aggiunse con imbarazzo, “non ho più saputo niente di te.”
“Credevo abitaste ancora a Godric’s Hollow. Che foste rimasti in Scozia,” le disse Piton, invece di rispondere.
“Oh, ci passiamo quasi tutto l’anno!” rise Lily. “Quando tu hai rifiutato, Silente ha offerto a me la cattedra di Pozioni.”
“Perfetto,” sorrise Piton.
“E James, da quando non gioca più da professionista, insegna volo e segue le squadre della scuola,” continuò Lily, sorridendo nervosamente.
Piton fu certo di aver fatto una smorfia.
“I vostri figli,” considerò, costringendosi a guardare i bambini.
“Che sciocca! Certo, Harry ha undici anni, ha iniziato a frequentare Hogwarts quest’anno…”
Piton sentì la smorfia cementarglisi sul viso: il piccolo Harry era talmente rassomigliante al padre che lui provò il desiderio di fare un passo indietro. Ma aveva gli occhi di Lily.
Chissà in quanti glielo avevano ripetuto, da quando il bambino era nato. Riportò lo sguardo su Lily e fu felice di vedervi un’espressione di divertita esasperazione, come se avesse formulato il suo stesso pensiero. Non disse nulla e studiò la bambina.
“Lei è Rose. Ha nove anni,” disse la madre con dolcezza.
Piton si accosciò per essere all’altezza del visino della bambina. Capelli rossi, lentiggini, occhi vivaci anche se castani e non verdi. E il sorriso, esitante e sicuro allo stesso tempo, la posa con cui teneva la mano della madre, il modo in cui inclinava la testa…Somigliava incredibilmente a Lily alla stessa età. E quello non poteva averglielo detto nessuno, perché lui era l’unico dei suoi amici che l’avesse vista a nove anni, a parte Petunia.
“Sei bella quanto tua madre alla tua età,” sussurrò, rialzandosi.  
Rose sorrise con trionfo, ora, ma Harry lo guardò sospettoso.
“Severus e io ci conosciamo da quando eravamo bambini,” gli spiegò la madre, senza mitigare il suo cipiglio.
“State andando a Diagon Alley?” chiese Piton, cercando inconsciamente il suo pacchetto di sigarette.
“Volevo che visitassero la Londra babbana,” gli raccontò Lily. “Sai, tutto sommato è riduttivo che conoscano solo Hogwarts, Hogsmeade e Diagon Alley, oltre a casa. James e io –fece una piccola pausa quando Piton infilò una sigaretta tra le labbra- stavamo pensando di prendere un appartamento vicino a Londra…” Rimase in silenzio, fissando Piton con attenzione. “Sai, non mi sarei mai aspettata di vederti…qui. Con indosso abiti babbani. E da quando fumi?”
“Fumare fa male!” lo redarguì Rose, con lo stesso piglio di Lily quando lo sgridava da bambina.
Piton stava per ridere, ma sentì i passi di Rarity avvicinarsi. La bionda sorrise a tutti e lo prese di nuovo sottobraccio.
Lily rispose al sorriso incerta, di sicuro un po’ sorpresa.
“Scusate se vi interrompo,” fece Rarity. “ma dovremmo andare, se vuoi passare dal laboratorio, John.”
Lily aggrottò la fronte.
“John? Non usi il tuo nome?” chiese, prima di riflettere.
Piton non distolse lo sguardo da lei: “Arrivo.”
Ma Rarity aveva ottime orecchie.
“Non usi il tuo nome? John non è il tuo vero nome?” chiese, scostandosi un po’ da lui, come se il fatto che uno spacciatore avesse mentito su una sciocchezza del genere fosse importante. Come se il fatto che scopassero da un paio di mesi comportasse un rapporto di fiducia, tra loro.
“Perché?” le domandò Piton, con il suo sorriso più sprezzante, soffiando fumo azzurro. “Non vorrai farmi credere che Rarity sia il tuo vero nome?”
Rarity ritrasse le lunghe unghie colorate dal suo braccio e rimase in silenzio.
“Aspettami in macchina,” le ordinò Piton dandole un’occhiata di sfuggita.
Lei si allontanò ubbidiente.
“Non intendevo creare problemi…” iniziò Lily, ma Piton sorrise di nuovo: “Nessun problema.”
Ma Lily stava ancora guardando Rarity, la gonna corta sotto la pelliccia, poi il suo sguardo avrebbe proseguito fino a vedere Brennan e la sua zoccola che lo aspettavano fuori dalla macchina, e Sonny al volante, tutto voltato per seguire la scena, e avrebbe visto loro e lui, e avrebbe capito quello che solo cinque minuti prima a Piton non importava di gridare al mondo. Ed eccola di nuovo, quell’espressione chiusa, contrariata, mentre giudicava le persone che frequentava e lui stesso.
Piton rimase in attesa della stoccata, una smorfia sardonica sulla faccia. I bambini mormoravano tra loro.
“La tua amica ha parlato di un laboratorio. Che lavoro fai?” lo interrogò Lily.
“Il chimico,” rispose Piton, con assoluta serietà.
Lei lo esaminò di nuovo da capo a piedi e il cercapersone di Piton scelse quel momento per suonare.
Il numero di Simon. Guai al laboratorio. Imprecò tra i denti mentre Lily stringeva le labbra.
“Temo di dover proprio andare,” le disse.
“Certo. Abbi cura di te,” replicò Lily, fredda.
Piton diede un’ultima occhiata ai bambini (soprattutto alla splendida, piccola Rose) e alla madre. Poi si girò e finalmente salì in auto.
“Una vecchia fiamma?” domandò Brennan con un ghigno volgare.
“…già,” esalò Piton.

I bambini si alzarono per andare a giocare e reclamarono ‘zio Sirius’ perché andasse con loro.
“Sono felice che Harry sia di buon umore. Con Neville, Ron ed Hermione a scuola…Tu lo sai cosa stanno combinando, tra parentesi?” le chiese James.
Lily scosse la testa, scambiando un sorriso con Remus: se i suoi amici non fossero stati altrove, anche James avrebbe preferito passare il Natale al castello. Ma Harry e Rose erano praticamente nati lì dentro, avevano bisogno di passare del tempo in altri posti.
Remus la aiutò a sparecchiare, mentre James guardava i figli e il suo migliore amico rincorrersi e fare un baccano d’inferno. Lily sapeva che pensava a quanto i ragazzi si sarebbero divertiti con Peter se fosse stato lì con loro, e avvertì a sua volta una punta di tristezza.
Remus provvide a distrarla: “Com’è andata la gita a Londra?”
“Oh, bene,” rispose lei meccanicamente. Poi, lentamente, aggiunse: “Ho visto Severus Piton.”
Avvertì, più che sentirlo, James che si irrigidiva, seduto al tavolo.
“Davvero?” chiese Remus, interessato.
Lei annuì: “Davvero. All’inizio non ero sicura, perché era vestito da babbano. Vestito bene, molto credibile, in effetti.”
Severus era sempre stato un disastro, con gli abiti babbani. Sua madre non ne capiva nulla e crescendo lui aveva sviluppato una tale repulsione per i vestiti comuni, che Lily aveva smesso di chiedergli di uscire nel mondo babbano. Il loro universo si era rimpicciolito alla sola Diagon Alley, se e quando avevano abbastanza Polvere Magica per il viaggio via camino.
“Che faceva?”
“Usciva da un ristorante, credo, con altre persone. Era a braccetto con una bella donna bionda,” rispose Lily.
Si era sentita così a disagio per quella ragazza. Non avrebbe dovuto permettersi di giudicarla per il suo aspetto.
“Mocciosus con una bella donna?” fece James con tono esageratamente incredulo.
“Non cominciare, James,” lo frenò sua moglie.
Remus ridacchiò: “Devi ammettere che è inaspettato, Lily. Severus con una ragazza babbana…”
“Uhm,” fece Lily. Quando parlò di nuovo, si rivolgeva soprattutto a se stessa: “Sono contenta di averlo visto. Che abbia conosciuto i bambini. I ragazzi, Rose soprattutto, non la finivano più di chiedere di lui.”
Pensava a Severus molto spesso, lei. Pensava costantemente a lui, dopo la nascita di Rose. Era merito suo se erano vivi, se Rose era nata. Era un caso, secondo Silente, che Voldemort avesse cercato i Paciock e non loro (come era un caso che loro avessero finito per scegliere Silente come Custode Segreto invece di Sirius o Peter, come avevano deciso all’inizio). Quindi, ai suoi occhi, Severus li aveva salvato tutti e lei gli sarebbe stata grata per sempre.
James pensò a quell’untuoso, arrogante idiota vicino alla sua preziosa bambina e avvertì un malessere quasi fisico.
“Però non hai l’aria molto contenta…” notò Remus.
Sirius strillò qualcosa dal soggiorno e i bambini risero forte.
“È solo che…” Lily gesticolò, senza trovare un modo per esprimere quello che aveva provato. “È solo che mi è sembrato…un criminale,” si arrese.
“Un criminale?” le fece eco Remus.
Lily sbuffò: “Mi ha dato quest’impressione. Vestiti costosi, cercapersone…credo che uno degli altri uomini avesse una pistola.”
“Magari hai frainteso,” le disse Remus, gentile.
Lily gli prese la mano, sorridendo.
“Mocciosus un criminale, perché no. Sarebbe da lui. Un mafioso. Scommetto che è un pedofilo, quell’unto…”
“James, piantala!”
“Dico solo che ha sempre avuto la faccia da maniaco,” fece James, alzando le mani.
“Detto da te, Ramoso. Hai stalkerato questa donna per anni,” intervenne Remus.
Lily si voltò, adirata. Ora James e Sirius, quando fossero saliti sul tetto a parlare come facevano spesso, avrebbero preso in giro Severus, ripetendo idiozie e calunnie sull’uomo che aveva salvato i suoi figli. Non era neanche certa di quello che aveva visto. Avrebbe fatto meglio a tenerselo per sé. Però…però Severus aveva la stessa espressione di quando lei cercava di fargli capire che razza di persone erano gli amici che si era scelto. Un misto di paura e sfida, e collera, perché lei si permetteva di giudicarlo. E non poteva neppure parlare con lui, cercare di capire: non aveva neanche capito se abitava davvero a Londra; e non avrebbe osato mandargli un gufo, dopo essersi fatta sfuggire davanti a quella donna che lei lo conosceva con un altro nome, questo lo avrebbe sicuramente messo in una posizione scomoda. E a pensarci bene: perché Severus non usava il suo nome?
Poteva sempre cercarla lui, se ci teneva. Sapeva che insegnava a Hogwarts. Forse l’avrebbe fatto, anche se non era successo nei dieci anni precedenti.
In ogni caso, si disse infastidita, non era come se nella sua vita ci fosse posto per Severus Piton.

Note:
Questa storia è nata in un momento particolare in cui dovevo prendere una decisione importante, quindi è stata scritta in buona parte di getto per sfogare un po' d'ansia. Ciò significa che non è curata come l'altra mia storia, Echoing Green, Poison Tree', ma ci sono comunque affezionata.
L'idea che avevo avuto era una AU in cui Piton abbandona per sempre il mondo babbano, e noi lo seguiamo nella sua ascesa a signore della droga...Mi sono resa conto abbastanza in fretta che non avevo nè le conoscenze nè l'interesse a scrivere una cosa del genere, sono proprio argomenti che non mi attirano, quindi tutto prenderà una piega un po' diversa (anche se nella mia mente continuo a chiamare questa storia 'Breaking Bad'!XD). Forse l'idea che Piton rifiuti di aiutare Silente sapendo che questo potrebbe portarlo dritto ad Azkaban è un po' fuori dal personaggio, poco Serpeverde, ma ho voluto immaginare un momento di avventato orgoglio. E poi se no la storia non andava avanti!
Grazie a chiunque sia arrivato fino a qui!

   
 
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