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Autore: nuvolenere_dna    16/12/2017    9 recensioni
Prima classificata al contest "Au is the only way" indetto da meryl watase sul forum di Efp
Forse è per questo che ha scelto Freezer, perché le sembrava un alieno esattamente quanto lei.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Freezer, Nuovo personaggio, Vegeta, Zarbon | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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5: Hate Is Not Enough

 
Sometimes hate is not enough/A volte l’odio non è abbastanza
To turn this all to ashes/Per ridurre tutto questo in cenere
Together as one/Insieme, come una cosa sola
Against all other/Contro tutti gli altri
 
[Marilyn Manson – Running To The Edge Of the World]10
 

11 Dicembre, lunedì, ore 23:11
 
Gli occhi di Freezer si spalancano bruscamente, in un rimbombo di porpora che riempie di brividi la sua schiena, adagiata in un letto di ospedale qualunque, debolmente illuminato dal neon bluastro del corridoio.
Il suo corpo annega nel bianco, pallidissimo, come se fosse stato sbranato dalle coperte e di lui restassero soltanto le ossa, rivestite da uno velo traslucido di pelle. Osserva a lungo il soffitto sconosciuto, dominato da un lampadario sobrio, di forma circolare, la mente diradata in una nebbia caotica. Cerca di alzarsi bruscamente, ma i muscoli non lo seguono, svuotati di energia e incatenati da una moltitudine di fili attaccati al suo petto fasciato.
Inspira lentamente, trafitto da un dolore acuto che si irradia in tutto il torace. Il suo sguardo stanco indugia sulla sua mano destra, abbandonata fra le coperte, avvolta strettamente da un bendaggio regolare.
Al posto del pollice e l’indice, recisi alla base del palmo, si stagliano due vuoti roventi come lava che ustiona la sua carne viva. Deglutisce mentre si avvicina la mano al volto, osservando le altre tre dita leggermente vibranti, come se potessero ancora vedere la lama amputare vorace e implacabile le altre.
La mano di un alieno, storpia e deforme.
Vorrebbe soltanto gridare con tutte le forze che gli restano, ma si trattiene. È il segno dell’infamia e sa che da suo padre non poteva aspettarsi nulla di diverso: l’onore è tutto per la sua famiglia e lui l’ha infangato, facendosi decimare i seguaci in una trappola ridicola per poi spararsi di fronte a tutti in preda a una crisi psicotica dovuta alla troppa cocaina.  
E non solo alla cocaina, anche all’immagine di No riversa nell’erba come una bambola rotta, il cuore flebile come un orologio a pendolo silenzioso e immobile, corroso dal tempo e avvizzito.
Non sei più nessuno
Questo significano le due dita mozzate, le dita che vivevano in simbiosi con Raggio della Morte, dotate del potere divino di scegliere chi uccidere e chi risparmiare. Questo significa il vuoto abissale di quella stanza, in cui nessuno ha appoggiato un fiore, in cui nessuno ha vegliato il suo corpo nella speranza di vederlo ritornare alla vita come un albero che rifiorisce dopo l’inverno.
Vorrebbe soltanto vomitare, rovesciare lo stomaco e l’anima su quel letto di ospedale che non gli appartiene. Ma niente gli appartiene più, ormai. Né la città, né i suoi scagnozzi, né i suoi abiti raffinati, né la sua automobile, né la droga, né la sua pistola, né la moltitudine infinita di lussi e ricchezze di cui è da sempre abituato a circondarsi.
I conati di vomito gli risalgono lungo l’esofago, violenti, così violenti da riempirgli gli occhi di lacrime, ma nulla sgorga, pozzi prosciugati nel deserto del suo volto increspato da dune di angoscia. Tossisce e avvampa, infiammato dalla vergogna per aver permesso al mondo esterno di toccarlo, di sfiorarlo ancora una volta, proprio quel mondo che giurava di aver rifiutato.
Per quanto Freezer si sforzi di riprodurre dentro di sé il silenzio del cosmo e il moto lento degli astri, il dolore continua a gridare dentro di lui, implacabile, come il lamento disperato di una bestia morente. L’ira illividisce le sue vene, risale lungo il suo viso fino a contrarre i suoi lineamenti delicati, rocce sul punto di sgretolarsi in un sisma che capovolge la terra.
I suoi occhi sanguigni si riempiono di una cupa oscurità, tremanti e indifferenti alle rade lacrime incastonate fra le sue ciglia, rinnegate con lo sdegno altezzoso di chi ha avuto bisogno di separarsi da tutto per non morire.
Mentre si osserva riflesso nel buio della finestra, come in uno specchio, notando la spigolosità delle proprie guance scavate e le labbra screpolate, si accorge che il cassetto del comodino è leggermente aperto. Infila lentamente le dita e lo apre, estraendo un pacchetto nuovo di Black Devil e un accendino.
 
*
 
I suoi passi sono pesanti e stentati nell’inerpicarsi sui pochi scalini che lo separano dal tetto dell’edificio. Vagando fra i corridoi alla ricerca delle scale si è accorto di conoscere bene quell’ospedale: Zarbon era stato ricoverato in seguito a una brutta sparatoria l’anno precedente nel suo stesso reparto. Ricorda anche lo sguardo di deferenza che gli aveva rivolto allora il personale ospedaliero, mescolato a qualche rara occhiata di disprezzo, subito inginocchiata di fronte al suo cipiglio sicuro, accecato dall’arroganza.
Zarbon era stato servito ossequiosamente dopo aver capito che era suo, un oggetto di sua proprietà. La stessa deferenza ora la hanno rivolta a lui, fingendo di non vederlo mentre usciva dalla sua stanza traballante, con un pacchetto di sigarette stretto nel pugno. Non possono capire fino in fondo come in questo momento Freezer non valga un centesimo in più di nessuno di loro, una formica fra le formiche, tutte equamente indifese di fronte allo stivale che le riduce in poltiglia.
La porta del tetto è socchiusa, leggermente tremolante per la corrente d’aria.
Gli manca il fiato, il torace perforato da un dolore pungente come quello di una coltellata, ma si obbliga a inspirare a fondo e spingere con la pantofola consumata il legno cigolante della porta.
Il cielo notturno è un tessuto di nubi rossastre, gonfie di umidità e di luce soffocata, tradito da alcuni fili spezzati, venature di liquida oscurità in cui balena la luce pallida di stelle rade.
L’aria gelida lo schiaffeggia in pieno volto e si irrigidisce serrando la mandibola, mentre avanza e si accorge di una sagoma lontana, che si staglia luminosa contro l’orizzonte tetro.
È un pigiama chiaro, con un motivo geometrico a figure romboidali, sfiorato da volute di fumo e di vapore che si disperdono nell’aria. A lato della figura si erge un’asta di acciaio con le ruote, a cui è attaccata una flebo.
Freezer si avvicina, inalando avido il suo odore.
Vaniglia e cannella.
È un’allucinazione, non può che esserlo, si ripete, mentre osserva con attenzione maniacale il ritmo delle sue spalle alzarsi e abbassarsi, la mano destra gettare la sigaretta a terra in un gesto sbrigativo che conosce anche troppo bene. I suoi capelli corti sono leggermente mossi dal vento, increspati in direzione del mare che ulula lontano, già tormentato dalla tempesta.
Si ferma a pochi centimetri da lei, vuoto come un cratere lunare, sopravvissuto all’assalto mortale di asteroidi e meteoriti spietati nell’incidere le sue carni di roccia.   
Le iridi scure di No fissano il punto il cui il mare e il cielo si fondono in un’unica tenebra impenetrabile, ipnotizzata dal silenzio della città ancora addormentata e del fruscio sfocato delle onde. Fatica a tenere gli occhi aperti, è esausta ed è soltanto grazie agli antidolorifici che penetrano sinuosi nelle sue vene che riesce a stare in piedi. Nota la sua ombra avvicinarsi, lenta come una condanna, sentendosi il cuore esplodere nel petto.
È quasi morta, avvelenata dall’eroina contaminata che si è iniettata in vena, soltanto per essere sua amica.
Per colpa sua, di quel bastardo, figlio di puttana, ingrato essere umano che ora è immobile dietro di lei come se non osasse parlarle, come se lei non fosse neppure reale.
È sopravvissuta per miracolo, salvata dalla stessa telefonata al 118 che ha salvato anche Freezer, a una punizione che doveva essere letale, un astuto castello di carte fondato sul suo bisogno bruciante e famelico di godere, sulla sua disperazione e sulla sua, frastornante, solitudine. Di quel momento ricorda soltanto l’orgasmo, il piacere cocente e diffuso del suo corpo che si sparpagliava, come un’enorme foglia autunnale in un tappeto di milioni di altre foglie, appassendo al contatto con la terra. Il nero di un incubo muto e roboante, il rosso degli occhi di Freezer e un lampo di emozione che gli aveva attraversato le iridi. E poi, soltanto un soffitto sconosciuto.
La morte ha perforato il corpo di No come una cascata di acqua gelida, che irrigidisce e toglie il fiato, inducendo i polmoni a contrarsi per urlare. Vorrebbe farlo, ci ha provato nella vastità solitaria di quel tetto elevato, un gigante fra i palazzi della città, ma dalla gola non è sbocciato nulla.
No sa perfettamente quello che vuole e questa volta non accetterà un “no” come risposta. Dovrebbe odiarlo. Lo odia. Lo odia con una tale violenza da desiderare soltanto di girarsi e farlo a pezzi come un boa, avvolgendolo fra le sue spire in un abbraccio fatale.
Non le interessa se è inappropriato, da quando si è risvegliata in quel letto di ospedale che non fa che sentire le maldicenze della gente, indispettita per come lei, una brava ragazza di buona famiglia, sia diventata una sporca tossica, frequentatrice di luoghi immorali come quel festino in cui l’hanno trovata, svenuta e quasi asfissiata. Le ha sempre sentite, quelle voci, una gorgogliante torre di babele che è cresciuta, secondo dopo secondo, ora dopo ora, giorno dopo giorno della sua vita. Gli sguardi di disapprovazione delle infermiere, dei medici, di sua madre, si sono moltiplicati come erbacce nelle stanze infinite e sterili dell’ospedale.
Ma, adesso, non le interessa più.
Non le interessa più nulla.
La mano sinistra di No arretra lentamente, cercando il volto di Freezer nel buio dello spazio retrostante alle sue spalle. Le sue dita cieche sfiorano la sua fronte liscia e altera come spifferi di vento. Freezer sussulta, spaventato dalla solidità di quel contatto, cercando di ritrarsi.
«No»
Dichiara lei, perentoria, le dita che si chiudono come artigli nella carne della sua tempia. I piedi di Freezer restano immobili, invischiati dalle ortiche di un rovo che ha iniziato a germogliare intorno a lui molto tempo prima.
Le dita di No discendono, delicate e sospinte dalla gravità, ad accarezzargli le sopracciglia, le lunghe ciglia, la pelle diafana e affilata degli zigomi.  
Freezer è una stella moribonda, intossicata dall’oscurità, priva di ogni fonte di energia. Si spezza e precipita in un vuoto senza fine, dilaniato dalla pressione interna che grida, strepita e si dimena per esplodere. La cute esangue del suo volto trema di paura e di rabbia folle, di furia omicida, acciaio inossidabile nelle ossa della sua mascella.
Il collasso gravitazionale della sua anima increspa la sua pelle, come il vento che culla le spighe di grano, mute e fiduciose danzatrici. Ha paura di perdere il controllo, ma forse l’ha già perso quando si è puntato Raggio della Morte addosso con l’intenzione di uccidersi.
No dischiude le sue labbra umide, nude e bagnate dal suo respiro, per poi ritrarsi come un’onda nella compostezza dell’oceano.
Ipnotizzato dall’incavo morbido del suo collo, Freezer immagina la pressione delle dita necessaria per soffocarla, il suono del suo cranio andare in frantumi, sbattuto ripetutamente contro il pavimento. Vorrebbe soltanto batterla, ammazzarla di botte fino a farsi implorare pietà con il volto tumefatto di sangue e di lividi.
Se solo No si girasse, se i loro sguardi si incontrassero, lui sarebbe costretto a ucciderla per aver osato lacerare la maschera perfetta del suo volto ordinato, per aver osato sprofondare nei suoi occhi vermigli e allucinati.
No non vuole girarsi, desidera soltanto continuare a osservare la città e lo spazio in compagnia dell’unica persona al mondo che ama veramente.
Freezer è l’unico che si sia affacciato dentro di lei, colmandosi gli occhi del suo abisso, annusando la sua attrazione per la morte, dotato di un istinto naturale nel percepirne l’odore e nel rilevare la sfumatura obliqua del suo sguardo, plasmato nella stessa sostanza del suo desiderio inaccettabile, impronunciabile a voce alta.
Forse è per questo che ha scelto Freezer, perché le sembrava un alieno esattamente quanto lei.
«Stringimi»
È un ordine, il primo che lei gli abbia mai dato.
Le loro pupille sprofondano all’orizzonte, specchi bui per gli astri radi, intrappolati nei labirinti delle nuvole tremanti di ocra e di porpora. Eppure, ora, mentre si trovano su quella terrazza che domina tutto, la città e le sue luci fosforescenti, No e Freezer non sono mai stati più lontani dal cielo, dal moto paziente dei corpi celesti, dalla grazia eterea delle stelle nevrotiche, dalla frenesia degli asteroidi, dalla muta oscurità dello spazio interstellare.
Sono ciechi, ormai, annientati dalla potenza di una collisione inevitabile, quella avvenuta fra i cieli cupi e glaciali di Freezer e quelli malinconici e decadenti di No.
Perché, anche se la ammazzerebbe pur di non ammetterlo, è contento che lei sia viva.
Le dita di Freezer si intrecciano alle sue e affondano nel suo dorso, violente e impetuose, non abituate a manipolare qualcosa di diverso dalla morte, furiose come propaggini di metallo gelido intorno alla carne tiepida della sua mano smaltata, in una morsa così decisa da far scricchiolare le sue ossa.
La stringe e poi si calma, come una catena che ricade a terra in un tintinnio, soffocando lo stupore di No che per un attimo sussulta, le lacrime come strali di luce timida lungo il suo volto emozionato.
La neve inizia a scendere lentamente sulla città, bianca polvere di vetro che lambisce i loro corpi, adulandoli piano in un sussurro che muore nel silenzio.
Freezer non si è mai sentito così umano.
Fragile e disperato come un fiocco di neve l’attimo prima di sciogliersi nella terra.
 

 
Fine

 
10 Marilyn Manson – Running To The Edge Of The World
https://www.youtube.com/watch?v=_bacm20rFO4
  
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