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Autore: Applepagly    04/04/2018    4 recensioni
Su Melody è risaputo: mai raccontare una leggenda, se essa è poco chiara. A furia di cercare il bello alle volte quasi ci si strozza!
Genere: Horror, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Merry-go-round'
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D’accordo, non ce l’ho proprio fatta a lasciarlo a mollo nel PC.
Questa è una specie di seguito in tre capitoli (un po’ lunghetti) de “Il catalogo delle cose belle”; diciamo che sistema le questioni… irrisolte.
Lo so, oggi non è Halloween, ma qualche mesetto fa ero abbastanza ispirata per qualcosa di creepy (complice un sabato in cui sono tristemente rimasta a casa in solitudine e ad ogni scricchiolio del tetto stringevo il mattarello un po’ di più).
Le tre leggende metropolitane principali sono di origine cinese, anche se ne ho modificato qualche punto e da lì… beh, da lì iniziano le vicende vere e proprie!
Buona lettura!
Applepagly

 

 
 
La ragazza mosse un timido passo in avanti, incantata dal pallido riflesso che la luna proiettava di sé sullo specchio dello stagno. Immerse prima un piede, poi l’altro; avanzò fino a che si rese conto che l’acqua scura era giunta fino alle ginocchia.
Il letto limaccioso su cui camminava sembrava assorbirla lentamente, costringerla in un abbraccio di fango e melma che rendeva sempre più difficile avanzare oltre. Di nuovo, quella voce sottile della brezza le sussurrò tra i capelli e, prima di lasciarsi andare come le aveva suggerito, la giovane si volse un’ultima volta indietro, come se davvero avesse creduto di scorgere un’ombra, in lontananza.
Ma quell’ombra non venne, né in quel momento, né mai; e di lei, della sua promessa disattesa, non si seppe più nulla.
Quella stessa sera, tempo dopo, un ragazzetto volgeva le spalle allo stesso stagno, attendendo che la sua bella si facesse vedere come d’accordo. Un appuntamento in una notte di luna piena, in una notte in cui la luna era grande e luminosa anche se, per qualche curiosa ragione, non si rifletteva nitidamente come avrebbe dovuto.
Di tanto in tanto qualche refolo di vento smuoveva il profilo liscio di quella grande pozza e piccole bolle parevano salire in superficie, dissolvendosi in uno scoppiettio che iniziò a farsi sempre più molesto.
All’improvviso, al sussurro del vento parve sostituirsi un sibilo sinistro, una voce, come di donna; metallica, che annaspava e si affannava. Mormorava parole indicibili al suo orecchio, vomitando orrori che resero piena di urla di terrore una notte prima silenziosa e quieta.
Delle mani emersero dalle bolle, e l’afferrarono, lo tirarono, ne divorarono le carni lasciando solchi profondi, dilaniando la pelle come semplice stoffa; e lo stagno si tinse di nero putridume, eclissando ancor di più la fioca luce dell’unica testimone dello strazio. Quando l’amata giunse sul posto rinvenne solo denti ed occhi dell’amato, unici pegni di quella fuga che sarebbe dovuta essere per loro madre di nuovi inizi.
Ogni anno il fato sembrava riservare la stessa sorte ad un innamorato, ed ogni anno lo spirito irrequieto ed inquieto dello stagno cercava di arrestare il dolore che aveva vissuto nel vedere infranta una promessa per mano di un uomo e di un’altra donna che lo aveva portato con sé…
 
 
*
 
 
Spooks
#1 – Stroke of midnight
 
 
Maybe I’m a ghost
Just a whisper in a puff of smoke
A secret that nobody knows
No one will ever hear
Ghost Story, Coldplay
 
 
Lo scroscio della pioggia giungeva lì sotto ormai ovattato, quasi fosse stato solo un pallido ricordo; in un movimento brusco, il ragazzo si scrollò di dosso qualche goccia che era rimasta imprigionata tra le pieghe della giacca a vento.
Prese a frugare nelle tasche, alla ricerca della piccola torcia che era certo di aver preso con sé – uno Specialista che si rispettasse doveva sempre averne almeno una, a portata di mano. In quel mentre, dell’acqua filtrò attraversò la botola e precipitò per qualche metro fino a che, con suo sommo disappunto, precipitò proprio sulla punta del naso di lui.
Sbuffò, chiedendosi ancora una volta perché accidenti si fosse lasciato coinvolgere in quell’idea balzana. Dal giorno della festa aveva giurato che non ci avrebbe mai più messo piede, in quella sala gelida come i morti che molto probabilmente stavano seppelliti appena un paio di centimetri sotto il pavimento.
E poi… e poi quel posto gli ricordava quella pessima figura che aveva fatto, quando la sua linguaccia non aveva saputo trattenersi dallo sputacchiare cose che, in verità, non aveva mai seriamente pensato.
Si scostò un ricciolo dalla fronte e si rese conto di aver aggrottato le sopracciglia all’inverosimile; se qualche mese prima qualcuno gli avesse detto che un giorno si sarebbe ritrovato a conversare in maniera più o meno civile con certa gentaglia, beh, forse avrebbe accolto quell’affermazione con una pernacchia.
La flebile luce della torcia disegnò i contorni sfocati del grande portone, ancora pregno dell’odore dell’ultima verniciata di restauro che aveva ricevuto. Avendo entrambe le mani impegnate – e naturalmente sarebbe stato poco igienico o comunque contro i suoi saldi principi posare momentaneamente il prezioso carico che aveva nella destra – sferrò una pedata contro la maniglia per abbassarla.
Quando fece il suo ingresso, gli sembrò che l’aria si fosse fatta momentaneamente pesante. Ventidue paia di occhi sbarrati si fermarono sulla sua figura, con il fiato sospeso.
«Smettetela di guardarmi così» borbottò. «Non sono ancora un colosso di due metri con un pizzetto ridicolo ed il peso di un pachiderma»
«La grazia con cui apri le porte è la stessa, però» ghignò il gemello, alzandosi per aiutarlo. «Abbiamo davvero temuto che fosse Codatorta»
Il biondo lo trucidò con lo sguardo, porgendogli il sacchetto che aveva tra le mani. «È tutto quello che sono riuscito a sgraffignare dalle cucine. Credo che la cuoca mi abbia visto»
«Oh, va bene così» sorrise Helia, aprendo un pacchetto di arachidi glassate. «Comunque, Bloom… sul serio da voi sono considerate paurose, queste storie?»
La fulva sussultò sul posto, come ridestandosi. «Beh, sì… è una delle leggende metropolitane più spaventose che io conosca. Me l’hanno raccontata quando avevo sei anni e ho evitato il lago ed il mare per non so quanto tempo»
«Ma dai, bastava che il ragazzo avesse con sé un talismano, lo sanno tutti!» protestò Musa.
«Sulla Terra non funziona esattamente così…» si strinse nelle spalle l’altra.
«Cosa mi sono perso?» chiese Alan, stravaccandosi su una delle poltroncine che avevano disposto accanto ad una finestra.
Da qualche tempo a quella parte – da quando le acque sembravano essersi calmate e non c’era più lo spettro di mostri e nemici all’orizzonte – quelle fate avevano preso la pessima abitudine di sbucare dal sottopassaggio che collegava la scuola e di usare quel salone come luogo di ritrovo con i ragazzi.
Ovviamente quando c’erano di mezzo Looma, la fata delle piante e quella gallina petulante della principessa era pressoché impossibile che non facessero la propria comparsa divani, luci, fiorellini e quant’altro. Alla fine era venuto fuori un lavoro decente, ma era quasi impazzito a sentir parlare quelle tre di arredamenti per settimane e settimane.
Quasi quasi non ricordava come avesse potuto sopravvivere ad i preparativi per la festa, in mezzo a tutto il cicaleccio.
«Il primo racconto del terrore» riportò Timmy.
«E l’ha proposto Bloom, immagino» sospirò Alan. «Sulla Terra i ragazzini tra i sei e i tredici anni d’età non danno mai tregua a nessuno, con quelle storie»
«Ma quindi ne conosci qualcuna anche tu?» chiese Flora.
Sem rise e quasi si affogò con l’acqua che stava sorseggiando. «Oh, certo che ne conosce… i nostri compagni le raccontavano tutte a lui per fargliela fare addosso»
«Sta’ un po’ zitto, Sem» ringhiò l’altro, a denti stretti. «Sì, qualcuna sì. Ma scommetto che ne girano anche da dove venite voi… quindi, chi è il prossimo?»
«Oh, io, io!» esclamò Looma. «È veramente spaventosa, questa! Me l’ha raccontata Amaryl qualche sera fa, ma mi ha detto che in realtà gliel’aveva raccontata la sua amica di Torrenuvola»
«Ah, lo dicevo che c’era una ragione, se era così antipatica…» sospirò Musa, alzandosi per prendere qualche noce da sgusciare.
«Però la storia è davvero inquietante!»
 
*
 
Riven si corrucciò, prendendo ad accarezzarsi il mento con fare pensoso.
Masticava ripetutamente lo stecchino dello spiedino di caramelle che aveva divorato, riflettendo su quanto Looma aveva appena raccontato. «Quindi, fammi capire… loro vanno nella grotta e la sfera di cristallo ce l’ha il mostro. Poi lo sconfiggono e si scopre che era scontroso perché il veggente l’aveva buttata nella cascata ed il mostro non voleva che vi si gettassero i rifiuti?»
«Esatto! C’era finanche un cartello d’avviso»
«E quindi riportano la sfera al veggente» concluse Brandon.
«Sì, e lui aiuta i due forestieri nella loro ricerca»
«Scusa, Looma… ma qual è l’elemento spaventoso, in questa storia?» fece Timmy, piuttosto confuso.
«Ce ne sono molti! Il fatto che nessuno sappia da dove venga il veggente, il suo potere inquietante, l’amico ucciso dallo stesso tipo sulle cui tracce sono i due forestieri… ce ne sono!» ribadì, convinta.
«Looma cara, non credo che tu abbia capito lo scopo di queste storie…» intervenne Stella, esasperata. «Faceva paura meno di quella di Bloom»
«Hey, guarda che la mia faceva paura!» sbraitò la diretta interessata.
«Oh, ti prego… perfino la faccia di Griselda è più spaventosa» insistette la principessa, suscitando le risate delle compagne. «Anche se gira voce che le sopracciglia di Saladin la mattina presto abbiano poteri spaventosi che consentono loro di assumere il comando del proprietario e che il loro piano sia quello di assoggettare l’intera accademia… ecco perché è così burbero»
«Sì, e poi aggiungici un paio di ernie al disco ed il disprezzo viscerale per una matricola che è davvero incapace» confermò Helia. «Il mostro è bello e pronto»
«Io ho sentito che l’infermiere Quaquall tiene nell’armadietto dei medicinali scaduti che spaccia per antidolorifici, mentre invece si tratta di suoi stratagemmi per invasare gli studenti cosicché diano vita ad una rivolta» rabbrividì Looma.
«Dovresti chiedere a Sem, lui assume quella roba più di chiunque altro» commentò Alan, ottenendo un grugnito di risposta dal fratello. «A me avevano detto che la vostra insegnante di galateo se la intende con Palladium»
«E dove starebbe, la parte spaventosa?» fece Tecna.
«È da brividi!» esclamarono Bloom e Musa, insieme.
«Beh… direi che, se non avete dettagli più succulenti sulle sopracciglia di Saladin, le droghe di Quaquall o sull’affair segreto dei professori di Alfea… è ora che qualcuno tiri fuori un’altra storia» propose Brandon. «Chi è il prossimo?»
«Potrei… raccontarne una io. La conosce anche Alan» intervenne Sem, pensoso.
Il gemello strinse i pugni, sbiancando completamente. «Oh, dai, quella storia… non fa paura, non fa paura per niente»
In verità, quando dei ragazzi delle scuole superiori gliel’avevano raccontata – aveva ancora dieci anni, all’epoca – non aveva più voluto prendere i mezzi pubblici e ogni mattina si era alzato con un’ora d’anticipo per fare la strada a piedi.
La storia suonava più o meno in questo modo: in una fredda notte di novembre, quando la pioggia cadeva copiosa, l’autobus 375 aveva effettuato la propria ultima corsa.
Il protagonista del racconto in questione, un esile ed attaccabrighe ragazzino, era salito insieme ad un vecchio ed una coppia di fidanzati che, per tutto il tragitto, non avevano fatto altro che sbaciucchiarsi.
Ad un certo punto, l’autobus si era fermato ed avevano fatto il loro ingresso due figure che avevano in qualche modo appesantito l’atmosfera. Entrambe indossavano dei lunghissimi impermeabili che ne occultavano le forme, ed i cui cappucci erano tirati fino alla punta del naso.
L’attenzione di tutti i passeggeri si era focalizzata su di loro, ma era stato soprattutto un anziano a non distogliere mai lo sguardo dai nuovi venuti.
Ad un tratto, si era rivolto al ragazzino rachitico che aveva seduto accanto, sostenendo – al solito e burbero modo dei vecchi borbottoni che si incontrano sui pullman – di averlo sentito dire qualcosa di ingiurioso proprio riguardo a quel povero anziano che stava alla sua sinistra.
Il moccioso aveva stizzosamente replicato di non aver proferito parola e, siccome l’altro insisteva, lo prese a male parole. L’autista aveva fermato l’autobus, intimando ai due di scendere.
Inutile descrivere la folle rabbia del ragazzetto che, non solo si era trovato in un luogo del tutto sperduto e sotto la pioggia, ma sarebbe costantemente stato perseguitato da quel vecchio matto e strampalato che sentiva le voci… senonché, questi si era scusato e, con una serietà agghiacciante, aveva spiegato le proprie ragioni.
Quei due che erano saliti sul bus, come aveva detto, non erano umani. Li aveva osservati bene ed aveva notato che, in verità, quegli impermeabili non nascondevano piedi né caviglie, e che le maniche avevano spesso oscillato come se non vi fossero state braccia ad indossarle.
Il vecchio, poi aveva raccontato di aver sentito un terribile tanfo di carogna attorno a loro, quando era sceso.
E, in effetti, tre giorni dopo l’autobus era stato trovato molto lontano dalla città, in una campagna sterile, ribaltato. Al suo interno erano stati trovati dei cadaveri, ma due in particolare avevano turbato la polizia scientifica, dal momento che erano stati rinvenuti in un avanzatissimo stato di decomposizione, nonostante il poco tempo trascorso.
Ovviamente a tutti questi scemi fa paura solo perché il tono di Sem assolutamente incolore rende il racconto più lugubre… ma la storia non fa paura per niente. Beh, per un bambino che va a scuola in pullman, forse sì.
«Okay, diciamo che questa è servita come riscaldamento» fece Alan, spezzando l’atmosfera.
«Ehi, e allora la mia e quella di Looma?» protestò Bloom.
«Quelle erano un esempio di cosa non raccontare» intervenne Musa, sgranocchiando un cracker. «Qualcuno ne ha una da lacrime di panico nel cuore della notte?»
«Perché non ne racconti una tu, allora?» le rispose a tono la fulva, indispettita.
L’altra non si scompose, concedendosi qualche istante per riflettere. Poi s’alzò, gettò l’involucro dello snack e, con un incantesimo, fece spegnere le luci che illuminavano la sala.
«Ma sei impazzita?» esclamò Stella, colta alla sprovvista.
All’improvviso, un fascio d’energia si sprigionò dalle mani della fata della musica, illuminandone parzialmente il volto in una scena spettrale che, pensò Bloom, rendeva il tutto dannatamente simile a quei film horror in cui dei ragazzi si raccontano storie spaventose con la sola luce di una torcia, e poi la mattina dopo gli investigatori li ritrovano stecchiti a causa dell’ennesimo maniaco.
«Questa non sarà una storia come quelle proposte fino ad ora… perciò, se siete deboli di cuore, vi consiglio caldamente di andarvene adesso…» sussurrò Musa, con tono lugubre. «Ci tengo a precisare che i fatti che vi narrerò fanno riferimento a qualcosa di realmente accaduto in una buia notte di primavera come lo è questa…»
«Realmente… accaduto?» deglutì Flora, muovendosi un po’ a disagio sulla poltrona che occupava.
Musa annuì. «Bene, allora… dovete sapere che su Melody, poco distante dal mio paese, c’è un collegio piuttosto rinomato per aspiranti fate e maghi musicisti»
«E perché non sei andata lì?» chiese Stella, annoiata.
«Non interrompermi!» sbottò l’altra. «Dicevo… il collegio è molto famoso, ma non solo per la preparazione dei suoi allievi… esiste una strada, lungo i dormitori, chiamata “La strada della Treccia”. Pare che, di notte, ogni tanto appaia una ragazza con una lunga treccia corvina»
La fata ghignò, constatando di essere riuscita a creare la giusta atmosfera.
«Esistono diverse supposizioni, a riguardo, ma non si conoscono con esattezza le dinamiche. Tutte le versioni, però, riportano la storia di una ragazza che, per un motivo o per un altro, era ruzzolata giù da un treno a causa di uno scossone. Prima di esalare l’ultimo respiro, pare che avesse rivolto uno sguardo indietro e che, con orrore, avesse visto giacere poco lontano parte del proprio capo e del proprio volto… la treccia, invece, era rimasta impigliata tra i cardini della porta del treno»
Pausò, forse distratta dal mugolio di disagio emesso da Flora. Looma era pallida come un cencio, Alan tratteneva un po’ il respiro e stava diventando viola in volto, mentre il suo gemello si torceva le dita.
«Il giorno successivo, le forze dell’ordine avrebbero trovato i resti di una ragazza nel pozzo in disuso poco distante dal collegio, senza sapere come fossero finiti proprio lì» proseguì. «Una notte, uno studente che si era attardato in biblioteca e che stava tornando ai dormitori, si ritrovò a percorrere la Strada della Treccia. Canticchiava un motivetto ma, all’improvviso, la sagoma di una ragazza di spalle comparve lungo il tragitto, e lui si ammutolì. Di lei poteva distinguere con chiarezza solo la lunga treccia corvina che oscillava sinistramente al vento, insieme al turbine di petali degli alberi in fiore»
Bloom deglutì nervosamente. Era una sua impressione, o un refolo d’aria gelida si era intrufolato nella stanza?
Seduta sul tappeto, strinse con forza a sé il cuscino che aveva tra le braccia. Beh, almeno non era l’unica, dato che Tecna si era morsa le labbra quasi fino a farle sanguinare… perfino Helia sembrava turbato, per non parlare di Timmy che, per quanto razionale, teneva gli occhi sgranati e di tanto in tanto si guardava le spalle.
Gli unici impassibili erano Riven, che sembrava quasi soddisfatto delle abilità narrative della – forse/quasi/non si capiva – fidanzata, e Brandon, che forse stava solo occultando il tutto per non sfigurare.
Stella, che aveva la fama di essere una gran fifona quando si parlava di fantasmi e simili, stranamente non batteva ciglio.
«Lo studente provò allora ad attirare l’attenzione di lei, chiedendosi cosa ci facesse una ragazza fuori a quell’ora della notte… la chiamò, ma quella non si voltava, e quindi le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla e, quando in fine si girò, il ragazzo svenne a terra per l’orrore…» continuò, abbassando ancora la voce. «…perché lo spirito non aveva il voltò, né naso né narici, e gli occhi penzolavano in una maniera oscena e lo avevano guardato in un modo che non avrebbe mai dimenticato. La ragazza con la treccia si mostra sempre agli studenti nelle notti di primavera, sulla stessa strada… lui è stato l’unico ad essere sopravvissuto all’esperienza per poterla raccontare»
Calò un silenzio di tomba e, proprio mentre Musa stava per dire qualcosa, per smorzare un po’ l’atmosfera pesante e prenderli tutti in giro, il rombo di un tuono squarciò il cielo con tanta violenza che si sentì fin là sotto.
Le ragazze – ed Alan – lanciarono un urlo di sgomento, e Looma pretese di riaccendere la luce con un incantesimo. Tuttavia, l’incantesimo non andò a buon fine.
Stella stessa, spazientita, fece un tentativo che ebbe il medesimo esito. «Ma cosa succede?»
Alan illuminò con una torcia i lampadari. O meglio, li avrebbe illuminati, se solo fossero stati ancora lì; ma sembravano scomparsi.
«C’è un problema…» biascicò come spiegazione. «Guardate…»
La torcia si fulminò, lasciando tutti a brancolare nel buio. Prima che il biondo potesse imprecare ad alta voce, come sarebbe stata sua premura fare, il cigolio del portone catturò la sua attenzione, insieme a quella degli altri.
Avrei proprio dovuto metterci dell’olio. Sì… un litro… o forse due; così se ne sarebbe stato buono e zitto. Stupido portone… ma è solo il vento.
Beh, non so come faccia il vento ad arrivare quaggiù, visto che c’è una botola e siamo in un sotterraneo. Però magari sono gli spifferi.
Sì… gli spifferi.
Sem si alzò, muovendosi incerto verso l’ingresso del salone, per sigillare le ante che ora stavano socchiuse in un modo alquanto sinistro… ma sussultò sul posto, perché il portone si era all’improvviso spalancato con un tonfo, ed il legno aveva sbattuto contro le pareti con talmente tanta veemenza che forse avrebbe lasciato un solco.
Raggelò, ed una miriade di pensieri prese ad infestargli la mente. Sarebbe dovuto restare fermo? Si sarebbe dovuto spostare? Forse urlare sarebbe stato poco virile?
A salvarlo fu la prontezza di spirito di Tecna che, senza perdere un attimo, aveva scagliato uno dei suoi lampi d’energia in direzione del corridoio che avevano di fronte. La saetta doveva essere stata davvero potente, perché aveva abbagliato la vista a tutti quanti, prima di infrangersi in una non meglio specificata area dell’antro.
Ma, in verità, non c’era stato proprio niente, da cui salvare Sem; o, almeno, così sembrò quando tornò la luce.
«Non capisco…» sussurrò Alan, tenendo il naso incollato all’insù.
Avrebbe potuto giurare di non aver visto i lampadari, poco prima.
«Ci… siamo presi un bello spavento, eh?» ironizzò Musa.
«Io no» ribatté Riven, anche se la sua voce trasudava concitazione. «Vi siete solo lasciati autosuggestionare»
«Allora… allora come si spiega… beh, tutto?» tremò Looma, stringendo le ginocchia al petto. «Non credo fosse solo un’illusione»
«Di cosa stai parlando, Looma?» fece Brandon, confuso.
«Voi non l’avete visto?» si fece coraggio, guardando indietro, sul fondo della sala. «Ecco… quando Tecna ha lanciato l’incantesimo e ha illuminato il corridoio… io…»
Non se l’era immaginato.
«Ho visto qualcosa… con… con la coda dell’occhio. C’era qualcosa… qualcuno che ci guardava» balbettò.
Musa si irrigidì.
La notte della festa, quando la creatura del nucleo di Fonterossa aveva trascinato Timmy sul fondo del sotterraneo e lei e Stella l’avevano trovato, aveva rimuginato sulla possibilità che il mostro fosse rimasto nascosto nell’ombra ad osservarli. Ricordava con precisione di aver sperato che non si trattasse effettivamente di una persona perché, per qualche ragione, la cosa la terrorizzava.
Ebbene, in verità, ne aveva avuto proprio l’impressione.
Non avrebbe mai saputo come spiegarlo – dopotutto, cose del genere erano strane perfino in un mondo di stranezze come quello – ma talvolta avvertiva qualcosa, in determinati posti… qualcosa che la mente non si sapeva spiegare, e che aveva sempre ricondotto al proprio udito sopraffino, che le permetteva di udire anche il minimo spostamento d’aria.
Eppure… quella volta era stato diverso.
«Che aspetto aveva?» indagò Tecna.
«Ecco… era buio, quindi non ho visto bene. Vedevo solo la sagoma, ma è durato un istante… il tempo di scorgerla» spiegò.
«Non è che hai visto male?» la buttò lì Alan.
«Non mi credi?» protestò Looma, infastidita.
L’altro sospirò. «Non è che non ti creda, è che magari hai solo scambiato qualcos’altro per una persona… che ne so… un attaccapanni»
«Non ci sono attaccapanni in questa stanza» fece notare Helia.
«Era per fare un esempio!» sbottò il biondo. «Andiamo… tutto quello che ci poteva essere di pericoloso qui sotto lo abbiamo debellato… creature secolari intrappolate nella scuola, pantegane viola…»
«Alan, piacerebbe anche a me credere che non ci fosse effettivamente nulla, ma… perché diamine il portone si è spalancato?» rifletté il fratello. «E poi non è solo questo. Mentre Musa raccontava ho sentito dell’aria gelida entrare qui dentro»
«Allora non l’ho sentita solo io!» esclamò Bloom incredula.
«Perché io non ho sentito o visto niente?» fece Riven.
«Perché tu sei un rozzone privo di sensibilità» replicò Musa. «Sentite… perché non ce ne andiamo a dormire? Forse siamo tutti stanchi… ne riparliamo domani»
Timmy fu il primo ad alzarsi. «Mi trovo assolutamente d’accordo con te, Musa»
Riven scosse la testa, borbottando un “coniglio”.
«È comprensibile che abbia paura, l’ultima volta ci ha quasi rimesso la pelle» lo difese Brandon. «Forse qualcuno dovrebbe andare con lui»
«Andremo tutti con lui» lo corresse Alan, nervoso. Magari questa volta sarebbe riuscito ad evitare di essere nuovamente rinchiuso da qualche parte. «Mi sono stufato di stare qui dentro… fa freddo»
Di certo non per colpa di una qualsiasi presenza… fa solo freddo. Dopotutto, ad occuparsi dell’impianto di riscaldamento sono stati quel becero di Riven, sua maestà il farlocco Brandon e qualche matricola mano di burro…
Ad uno ad uno uscirono di lì e il biondo, l’unico con le chiavi, fu l’ultimo. Guardò lo stanzone ancora una volta, con il respiro corto.
Non c’era proprio nessuno. Ci siamo solo autosuggestionati, come dice il brontolone… domani sarà tutto come prima. Magari schiafferò qualche talismano scaccia-spiriti qua e là, ma solo per precauzione…
«Alan, ti sbrighi?» borbottò Riven, aspettandolo.
Infilò la chiave nella toppa, dandole una doppia mandata. «Che c’è, hai paura che lo spirito del collegio di Melody di strozzi con la sua treccia?»
«Se la incontrassi sarebbe un bene, così potrei farmela prestare per strozzare te» replicò. «Datti una mossa»
«L’unico mistero, qui, è come i tuoi amici facciano a sopportarti» disse il biondo, tagliente.
«È mai possibile che tu litighi con tutti, Alan?» sospirò Helia, esasperato.
«Diciamo che parlare con Riven rende tutti più litigiosi» rise Brandon, che era poco lontano.
Alan gli lanciò un’occhiata infastidita ma, sotto sotto, un po’ grata. Insomma, nonostante i loro trascorsi l’altro aveva preso le sue parti. «Avete ragione entrambi… ma sono solo stanco. Il resto della giornata ho abbastanza energie per ignorare il borbottio continuo di questo tizio insopportabile»
Risero tutti e tre – beh, escluso Riven – e s’incamminarono dietro agli altri. Aveva smesso di piovere.
Una volta fuori di lì, era arrivato il momento di salutare quelle fastidiose fatine di Alfea che, eccezion fatta per Looma e Tecna, naturalmente, gli avevano sfondato i timpani con tutto il loro cicaleccio.
«È stato bello, ma… ecco, magari la prossima volta non ritroviamoci così tardi» sorrise Bloom, imbarazzata.
«Ci troviamo sempre alla stessa ora. Ciò che ci ha messi tutti a disagio non è stato l’orario, ma la tua volontà di raccontare storie dell’orrore» le ricordò Tecna.
«Quindi anche tu avevi paura, ammettilo!» fece vittoriosa l’altra. «E poi guarda che è stata Musa a “metterci a disagio”, come dici tu»
«Mentre loro litigano, vi salutiamo» disse Stella ai ragazzi.
Infilò la mano nella tasca della gonna per prendere l’anello – che stonava troppo con la mise per essere indossato – ma non lo trovò. Sconvolta, si mise a frugare con insistenza in ogni anfratto dei suoi vestiti.
«Va tutto bene, Stella?» chiese Flora.
«Ehm… ma sì, certo» balbettò la ragazza, combattendo con quelle stupide tasche che non ne volevano sapere, di farle avere indietro lo scettro.
«Ma cosa stai cercando?» domandò Bloom, che aveva smesso di accapigliarsi con Tecna. «Stella?»
La principessa si voltò piano, con il solito sorriso di scuse che sfoggiava quando ne aveva combinata una delle sue. Le altre capirono tutto al volo, mentre gli Specialisti rimasero ad osservare l’ennesimo litigio – o meglio, l’ennesima strigliata – senza capire a cosa dovessero il privilegio.
«Ti sei dimenticata l’anello? Ma ce l’hai, la testa?» strillò Bloom, infatti.
Per la prima volta in vita sua, forse, Alan trovò gratificante il tono petulante della fata del Fuoco, perché si vedeva d’accordo con lei.
L’ho sempre sostenuto, io, che quella è una gallina senza materia grigia…
«Dai, Bloom… possiamo pur sempre tornare per le gallerie sotterranee che collegano le scuole…» cercò di calmarla Looma. «Siamo arrivate qui così, no?»
«Non vorrei smontare il tuo ottimismo, ma dopo quello che è successo direi che girovagare a notte fonda per strade sottoterra non è una grande idea» ridacchiò Musa, nervosamente. «Senza contare che era una cosa così semplice! Doveva solo ricordarsi di portare quel dannato anello… se questa è la cura con cui lo tratta, beh, mi sorprende che le Trix non fossero riuscite a rubarlo al primo tentativo»
«Ehi, ehi» intervenne Sem. «Non dovreste litigare»
«Ha ragione. Volete svegliare tutti?» aggiunse Riven.
«Non intendevo questo…»
«Sentite, dov’è il problema? Potete restare qui ed andare via domattina presto, no?» rifletté Brandon. «Possiamo ospitarvi»
Alan aggrottò la fronte, contrariato.
Oh, di certo non staranno in camera mia. Alla pel di carota piacerebbe sicuramente ma, se proprio vuole, può dormire seduta a terra come l’ultima volta.
O forse pretenderebbe di dormire con Sem.
La guardò. Ora stava a braccia conserte, chiaramente in un futile tentativo di mantenere l’arrabbiatura di prima.
Scosse la testa. Ma cosa diavolo ci trovava, suo fratello?
È tappa e logorroica, goffa come un ragno su degli sci e petulante… per di più è depositaria di un potere per il quale per poco non siamo rimasti tutti ammazzati… perché ti dai pena per lei, Semmino?
Non gli erano mai piaciute le spasimanti del suo gemello.
C’era stata quella ragazza in terza media, Oksana, forse… quella racchia con la fissa per gli animali… poi un’occhialuta ed impacciata fata di Alfea…
E poi, beh… poi c’era stata Vesela. Però lei era sempre stata tutt’altro che racchia ed impacciata.
«Le stanze più spaziose sono la mia e quella di Brandon» ragionò Helia. «Tre in una e tre nell’altra»
«E voi?» chiese Flora.
Brandon si strinse nelle spalle. «So che Riven muore dalla voglia di dormire abbracciato a me. Condividere la camera, ormai, non è più abbastanza per lui»
«Cretino!» borbottò il diretto interessato.
«Andiamo, dai» gli sorrise l’altro.
Benché fosse ormai notte fonda, le camere di alcuni studenti rimandavano fuori la luce delle loro lampade e, accostando bene l’orecchio alle loro finestre, si sarebbero potuti udire i loro discorsi. Un ragazzo dell’ultimo anno stava fumando sotto la tettoia antistante l’accesso ai dormitori, ma non disse nemmeno una parola, quando vide quella lunga comitiva di ragazze muoversi nei dintorni.
«Cameratismo maschile?» chiese Bloom a Sem in un bisbiglio, appena furono dentro.
«È cieco»
«Oh»
 
*
 
 
Listen to me now
I need to let you know
You don’t have to go it alone
Sometimes You Can’t Make It On Your Own, U2
 
 
Musa si rigirò piano nel sacco a pelo che i ragazzi avevano improvvisato per lei.
Aprì gli occhi lentamente e, passatasi una mano sulla fronte, si accorse di averla imperlata di sudore.
Aveva di nuovo fatto quell’incubo.
L’anno precedente, quando le Trix si erano intrufolate ad Alfea attraverso il mostro che avevano evocato, lei aveva sognato sua madre. In effetti, ricordava di averla sognata spesso in quel periodo; ma poi, all’improvviso, aveva smesso.
Forse tutti quei racconti di fantasmi e quello che era successo quella notte l’avevano condizionata… eppure sapeva bene che, quando Wa-nin le appariva nel sonno, beh… qualcosa era destinato a succedere.
Lasciò vagare lo sguardo per il soffitto, seguendo gli arabeschi che si rincorrevano sulle pareti. Ad un tratto, le parve di udire chiaramente il ticchettio delle lancette di un orologio che, lontano, scandiva lo scorrere inesorabile dei secondi.
Voltò il capo da ogni parte, ma nella spartana stanza di Timmy ed Helia non v’era nemmeno l’ombra di una pendola o qualcosa del genere. Il comodino del primo, al contrario, faceva bella mostra di una sveglia che probabilmente aveva progettato il suo stesso proprietario, silenziosa e luminosa.
Eppure, avrebbe potuto giurare di averlo sentito. Anzi, ora il suono si era fatto fragore, ed era divenuto quasi molesto. Scostò le coperte repentinamente, mettendosi subito in piedi.
Barcollò fino alla finestra, avvertendo un’improvvisa emicrania – anche se non avrebbe saputo dire se fosse dovuta al fatto di essersi alzata in quel modo o al continuo ticchettio di quelle maledette lancette.
Gettò uno sguardo oltre il vetro e la prima impressione che ebbe la turbò.
La Luna si nascondeva ben bene dietro al grigio rimasuglio del temporale di qualche ora prima, e giungeva laggiù a sprazzi, illuminando qua e là macchie che brillavano di una luce sinistra, che alludeva a qualcosa che lei non avrebbe saputo spiegarsi.
Nel complesso, sapeva che avrebbe ricordato quella notte come di un silenzio spaventoso, di quelli che avvolgono chiunque quando è solo, quando non c’è nessuno ed ogni scricchiolio, ogni refolo d’aria sembra preludio ad un male terrificante.
Faceva sempre molta fatica ad addormentarsi in un letto che non era il suo e quel presagio nefasto, quello che aveva avuto dopo che Looma aveva raccontato ciò che aveva visto – o che credeva di aver visto – la rendeva tesa come non mai. Quel che aveva interrotto il sogno in cui era comparsa sua madre era stato un sussurro che aveva sentito con la parte di sé che restava sempre vigile, quando dormiva.
Un sussurro…
D’altra parte, la storia più spaventosa l’aveva raccontata proprio lei. Forse avrebbe dovuto evitare, forse avrebbe dovuto sceglierne un’altra; perché su Melody era risaputo: mai narrare una leggenda se essa aveva più punti scuri che chiari.
E quella storia, quella della ragazza con la treccia, restava mutila di dettagli, e di cose che nessuno sapeva con certezza e su cui tutti avevano sempre avuto opinioni diverse. A dir la verità, nemmeno ricordava con esattezza le circostanze in cui le era stata raccontata.
Forse quand’era all’asilo, o dalle bambine che facevano danza con lei… non ricordava, ma c’era stato fin da subito qualcosa che l’aveva resa inquieta. Perché aveva voluto riesumare quel racconto e non un altro?
Infilò il maglione che aveva lasciato su una sedia, e un mugolio la fece irrigidire.
Poi si rilassò; era solo stata Flora, nel sonno. Dormiva serena, il suo petto s’alzava e s’abbassava ritmicamente.
Chissà, forse sente il profumo di Helia sul cuscino…
Tecna, invece, sembrava quasi morta. Respirava impercettibilmente ed era esattamente nella stessa posizione in cui si era addormentata.
Musa sapeva che l’amica non era solita credere a quelle storie – fantasmi, spiriti e quant’altro – e che si faceva beffe di tutto ciò che non poteva essere razionalmente spiegato; però aveva avuto come l’impressione che anche lei fosse rimasta turbata dalle vicende delle ultime ore.
Chissà come faceva ad avere sempre quella prontezza di riflessi e quel sangue freddo…
Sospirò, muovendosi in punta di piedi per non svegliare nessuna delle due compagne. Posò piano la mano sulla maniglia della porta, abbassandola lentamente.
«Dove vai?» la voce bassa e atona della fata della tecnologia la fece trasalire.
Si voltò, e quasi le parse che gli occhi di giada dell’altra illuminassero il buio della stanza. «Vado a fare due passi... torna a dormire»
Prima che potesse dire qualsiasi cosa in un pressoché futile tentativo di dissuaderla, quella si era già messa in piedi, perfettamente vigile. «Ero già sveglia. Non riesco a riposare» spiegò. «Vengo con te, non puoi andare da sola. Non questa notte»
La guardò, dubbiosa. «Pensi quello che penso io?»
«Quello che penso in questo momento è che dovremmo svegliare Flora ed andare dalle altre» le rispose. «È meglio restare unite, adesso. Domani ne parleremo con Faragonda, per quanto ci possa costare l’ennesima punizione»
«Hai ripreso a fidarti dei presidi?» le chiese, sorridendo.
«Più o meno» sussurrò, guardando Flora, ancora assopita. «Ma certamente sapranno qualcosa. Tu credi che sia il nucleo?»
Musa scosse la testa. Il nucleo era stato qualcosa di maligno, ma si era sempre annunciato con una risata mista ad una richiesta d’aiuto.
Quello che aveva avvertito e che le aveva fatto rizzare i peli era stato ben diverso. Collera, un desiderio di vendetta implacabile e, forse, disperazione per qualcosa di doloroso e profondo. «Era diverso»
«Qualsiasi cosa sia,» si strinse nelle spalle. «non deve dividerci»
Si avvicinò al letto dove Flora riposava, chiamando il suo nome a voce bassa, con un tono delicato che non le si era mai sentito prima. «Flora… devi svegliarti» bisbigliò. «Flora? Mi senti?»
La fata dei fiori aprì gli occhi di scatto e, prima ancora che Tecna avesse il tempo di dire qualcosa, l’altra si era rizzata a sedere in un gesto che aveva fatto cozzare le loro teste sonoramente. «Oddio… scusa, Tecna! Scusa, scusa! Non volevo!»
«Lo spero» mugugnò la ragazza, portatasi una mano in fronte.
Musa scoppiò a ridere e non si scoraggiò nemmeno per la stilettata che l’amica le lanciò con lo sguardo. «Flora, ti verrà un bernoccolo grosso così!»
La diretta interessata, ora completamente sveglia, teneva il capo abbassato, sinceramente dispiaciuta. «Mi spiace molto»
«Tranquilla, ho ancora il pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e cognitive» tentò di rasserenarla. «D’altronde, avrei potuto prevederlo… comunque, è il caso che ci sbrighiamo»
Flora la guardò interrogativa, ma la fata della musica la precedette. «Cos’hai intenzione di fare? Anche se andiamo dalle altre non credo che ci sia molto che si possa risolvere… se davvero c’è qualcosa, dobbiamo aspettare che si faccia vedere»
«L’ho considerato anch’io, ma credo che non sia necessario attendere poi molto» replicò, prendendo ad allacciare le stringhe delle proprie scarpe.
Le altre due si scambiarono un’occhiata perplessa, aspettando che proseguisse.
«Intendo dire che è mia convinzione che, di qualsiasi cosa si sia trattato, siamo stati noi ad evocarlo»
 
*
 
Di tutti i ricordi traumatici che aveva, quello di quando i ragazzi delle superiori lo avevano rinchiuso in uno sgabuzzino era sicuramente il peggiore – beh, oltre a quella di circa un mesetto prima, quando era rimasto in un ripostiglio per ore ed ore.
Quel giorno delle elementari lo avrebbe conservato nel cuore finché fosse campato, come prova di quanto effettivamente stare al mondo potesse fare schifo se si aveva la disgrazia di essere circondati da babbuini stupidi.
La situazione, in quel momento, era piuttosto analoga… solo che i babbuini non erano fuori dal bugigattolo, ma dentro; ed il bugigattolo era camera sua e restava un mistero come avrebbe fatto ad uscire di lì per andare in bagno.
Grugnì di disappunto e subito gli rispose il frastuono che proveniva dalle soavi labbra di Riven quando russava.
Il bisbetico giaceva proprio a qualche centimetro dal letto, rigido come un soldato e totalmente scoperto; poco più in là dormiva Timmy, che evidentemente doveva avere freddo nonostante fosse abbracciato da un piumone e avesse sopra anche la coperta che il burbero carciofo gli aveva rivoltato addosso per il caldo.
Helia stava rannicchiato in un angolo, con i lunghi capelli sparsi in ogni dove, che nascondevano un po’ la sua espressione serena e che invadevano lo spazio vitale di Brandon, che gli dava le spalle. Nel complesso, l’avrebbe trovato un quadretto comico, se solo non avesse interposto una quantità ragguardevole di metri tra la sua persona ed il bagno.
Non c’era nemmeno una vaga fessura tra un corpo e l’altro che gli permettesse di fare lo slalom, perché camera sua era ormai allo stesso livello del tugurio in cui aveva per la prima volta scoperto di essere claustrofobico. Sbuffò, facendo lavorare il cervello per trovare una soluzione.
Forse sarebbe potuto saltare sul letto di Sem e poi fare qualche piroetta nello spazio che intercorreva tra la testata e le gambe di Brandon… anche se forse avrebbe rischiato di svegliare il fratello.
Ma il fratello non c’è…
Dove poteva essere andato? A ben pensarci, lui era sveglio da una buona ventina di minuti e non l’aveva visto uscire, quindi doveva essersi allontanato molto prima e, certamente, non doveva essere in bagno, altrimenti avrebbe già fatto ritorno.
Che avesse sbattuto la testa contro il soffitto di quel cubicolo? Gli accadeva spesso di picchiare il capo quando si muoveva lì dentro e si dimenticava quanto quelle maledette travi fossero basse.
Però Sem aveva una capoccia dura – in tutti i sensi – perciò era da escludere. Che fine aveva fatto?
Avrebbe dovuto aspettare che facesse ritorno?
E se gli fosse davvero successo qualcosa?
Si cacciava sempre nei guai ed era assurdo come cercasse di farsi forte anche nelle avversità, anche quando i suoi amati draghetti lo accarezzavano con gli artigli. Sospirò, rassegnato.
Buttò un occhio in basso, verso Riven, che aveva preso a russare più forte. Ma come diavolo faceva, Brandon, a dormire ogni notte con quel baccano di sottofondo? E come facevano gli altri?
Scivolò fuori, scavalcò il re dell’apnea notturna e, sfruttando il corridoio tra questi e il bozzolo che avvolgeva Timmy, superò Helia con un’ampia falcata. Proprio mentre si apprestava a compiere l’ultimo salto acrobatico per oltrepassare Brandon, quest’ultimo si mosse all’improvviso, facendo sì che Alan perdesse l’equilibrio e si trovasse spiaccicato contro la porta.
Ovviamente, in tutto questo, le dolci melodie di Riven avevano coperto tutto il trambusto e nessuno si era svegliato.
Non capirò mai come funziona il mondo…
Se non altro, aveva raggiunto la propria destinazione.
Una volta fuori di lì, respirò a pieni polmoni la fragranza di chiuso imbastardita dall’umido che era penetrato nei corridoi – e che comunque rendeva l’aria meno pesante di quella che c’era in camera.
Mentre si incamminava, si rese conto di essere scalzo. Le piastrelle erano fredde e scivolose e, in prossimità dei bagni, si facevano quasi bagnate.
Un rivolo d’acqua trotterellò sulla ceramica, seguita a ruota da una pozza che si espandeva sempre più.
Ma che cosa…?
Si avvicinò all’ingresso dei bagni e, sbirciando oltre la porta socchiusa, si accorse che la luce era accesa. S’irrigidì e pensò che suo fratello potesse aver davvero sbattuto la testa lì dentro.
Fece irruzione chiamandolo, per poi accorgersi che non c’era proprio nessuno. Come mise piede lì dentro, il getto d’acqua cessò all’improvviso, come per magia; al suo posto, solo il ticchettio di gocce che, dal rubinetto, si infrangevano a terra.
C’era qualcosa di terribilmente sinistro, in tutta quella vicenda.
Non v’era un angolo del pavimento che fosse stato risparmiato, e fu quasi faticoso spostarsi senza ruzzolare all’indietro. Chiunque avesse allagato il bagno – perché di certo era stato qualcuno, a farlo – doveva averlo fatto una buona mezz’ora prima che lui arrivasse lì, per aver combinato quel disastro.
E, in verità, pareva quasi fosse stato tutto pianificato per essere un invito ad un gioco a cui Alan non era del tutto certo di voler partecipare.
Con circospezione camminò per le cabine, nella speranza di scorgere il fratello. Il rumore delle goccioline divenne corrosivo, e si ricordò di quelle leggende metropolitane che alle elementari gli avevano raccontato. Tremò appena; ma doveva farsi forza, non aveva più dieci anni.
Maledisse quelle fate da quattro soldi, era tutta colpa loro se si trovava in quella stupida situazione. Se camera sua non fosse stata invasa da quattro scimmioni che occupavano lo spazio di otto, allora, sicuramente avrebbe potuto rispettare il proprio orologio biologico, che gli imponeva di usufruire del bagno sempre alla stessa ora.
Invece no, erano arrivate loro a scombussolare tutto.
Beh, in verità, un po’ la colpa era anche sua: avrebbe dovuto farsi i fattacci propri quando Looma gli aveva proposto di sistemare quella dannata stanza sotto la scuola; almeno avrebbe evitato di fare la conoscenza della pel di carota insopportabile e, soprattutto, avrebbe impedito a suo fratello di restarne invaghito e di rimanere coinvolto in quella combriccola scadente alla quale, per riflesso, si era trovato legato anche Alan stesso.
Digrignò i denti, lì lì per dar voce a tutte le imprecazioni che aveva in mente; quand’ecco che un rumore catturò la sua attenzione. Un fruscio, come di vestiti; era stato ovattato, e lui non aveva potuto capire da dove fosse venuto.
Deglutì, cercando di scacciare quella vocina che gli suggeriva di filarsela a gambe levate. Restava solo un’ultima cabina, da controllare, no?
Sentiva il cuore palpitare come mai prima, così veementemente che sembrava volergli uscire dal petto; e quello che era ormai il frastuono delle gocce si fece sempre più pressante e molesto, e poté sentirlo risuonare per quelli che parvero minuti.
Si avvicinò, fece per abbassare la maniglia della porta dell’ultimo anfratto; quand’ecco che una mano gli si strinse attorno all’altro braccio.
Urlò e saltò, divincolandosi come un gatto randagio, mentre una voce che detestava cercava di placarlo.
«Alan!» lo chiamò, prendendogli le mani. «Alan, sono io! Ti vuoi calmare? Alan!»
Il biondo aprì prima un occhio e poi l’altro, come aspettandosi che qualcosa lo colpisse da un momento all’altro. «Tu?!» sbraitò incredulo.
Ma come aveva fatto a spaventarsi tanto? Era solo quella stupida mocciosa, tappa, infagottata in un pigiama ed antipatica; quella che suo fratello adorava tanto.
«Ma ad Alfea non vi insegnano come si sta al mondo? Non potevi semplicemente chiamarmi per nome?» inveì, provando una voglia matta di dar sfogo alla fervida immaginazione che riesumava quando si trattava di parolacce.
«L’ho fatto» ribatté a tono lei. «Ma sembrava che tu non mi sentissi»
Alan deglutì. Forse si era concentrato talmente tanto su quelle maledette gocce e sulla porta e su quanto quella situazione lo rendesse teso che, beh, addirittura era arrivato a non sentire quella vocetta insignificante.
«Che ci fai qui?» le chiese, sospettoso.
«Beh… dovevo… usare il bagno. L’hai allagato tu?» fece, imbarazzata.
«Ma sei scema? Ti sembra?» sbraitò, stentando davvero a credere alle proprie orecchie.
«Non lo so… è solo…» distolse lo sguardo.
La guardò, perplesso. La pel di carota che capitolava?
Non era da lei quel tono assorto. «Che c’è, hai sentito un rumore nella notte ed avevi paura? In tal caso la colpa è solo tua, hai proposto tu di raccontare quelle stupide storie» la prese in giro.
«È successo qualcosa, Alan» disse, criptica. «Io credo a quello che ha detto Looma. Abbiamo avvertito tutti qualcosa di strano. Beh… a parte Riven»
«Riven è l’unico ad averci visto giusto, per quanto sia odioso. Ci siamo tutti lasciati condizionare» replicò, esitante. «Voglio bene a Looma, ma alle volte lei… bah, lasciamo stare»
Con rinnovato coraggio, si decise ad abbassare quella maledetta maniglia e scoprire finalmente se Sem fosse là dentro o meno. In un sospiro – forse sollevato, forse rassegnato – constatò che non c’era nessuno.
«Ma cosa stai cercando?» gli chiese Bloom, guardandosi attorno tesa come una corda di violino. Si allontanò, ispezionando ogni cubicolo.
«Mio fratello» rispose, fissando il vuoto.
Ma dove poteva essere finito?
«Alan…»
Era stato un verso strozzato, il suo; stupore ed orrore insieme, nella sua voce e in quegli occhi che ora stavano più sgranati del solito, non per meraviglia del mondo ma per paura dello stesso. Ritta di fronte a quella porta che aveva spalancato – quella di una cabina che lui aveva già controllato, ne era certo – sembrava aver perso vita e colore, e perfino il rosso di quella sua zazzera sembrava essersi fatto di uno scialbo arancio che aveva qualcosa di vecchio, morto.
Sem era seduto a terra, davanti a lei, con le braccia spalancate e le orbite rivoltate come calzini; rivoli di sangue colavano da uno strano taglio che aveva lungo il lato destro del viso, e la casacca bianca che indossava si era tinta di un rubino scuro, denso, che quasi era nero.
Alan inorridì, ed una serie di pensieri presero a vorticargli per la testa e si chiese come fosse mai stato possibile che il gemello fosse lì, se prima non c’era stato; e come mai il sangue si perdesse nell’acqua così lentamente; e quanto tempo fosse passato da che lui era stato ridotto in quelle condizioni.
La spintonò in malo modo, chinandosi sul fratello, cercando di capire cosa gli fosse successo, come si fosse procurato quelle ferite.
«Va’ da Aibao e digli di venire qui; la stanza è accanto alla mia» disse alla fata, febbrilmente. «Sbrigati!»
Con la coda dell’occhio la vide schizzare via come una saetta; e, nella speranza che facesse presto, tentò di richiamare alla mente qualsiasi tipo di nozione utile.
Sem era del tutto incosciente; forse per l’emorragia, forse per il troppo dolore. Certamente non aveva sbattuto il capo contro una trave; anzi, lo squarcio che aveva in faccia sembrava quasi suggerire che qualcuno gli avesse rigato il volto con un coltellaccio.
Cercò di spostarlo di lì, trascinandolo fuori. Nel mentre, si accorse che il retro della sua schiena era semiscoperto, lacerato laddove il sangue sgorgava nuovo – ed erano le sue vecchie ferite, quelle dei draghi e dei duelli che aveva perso.
Tremò, ubriaco di panico e di terrore, sentendosi infinitamente piccolo e stupido, inutile; e cosa avrebbe dovuto fare? Svegliare il preside? Codatorta? L’infermiere?
E cos’avrebbe spiegato? Che c’era qualcosa di strano, quella sera?
Che c’era una presenza inquietante che doveva aver deciso di agire proprio nel cuore di quella maledetta notte? Oh, sì; perché la presenza inquietante c’era ed Alan lo sapeva.
Lo sapeva, anche se non l’aveva voluto ammettere; ma era così. Looma aveva fantasia da vendere, ma alcune cose non erano frutto di un’invenzione di quella mente allegra e spensierata che si trovava.
Perché Looma non sbagliava, Looma li vedeva; era quello, il suo potere.
E, a dirla tutta, lui stesso aveva avuto l’impressione di scorgere qualcosa sulla destra, quando aveva spostato suo fratello. Una sagoma sfocata, per qualche istante; una che lo aveva osservato ed era subito svanita.
Ma non era lei, la presenza inquietante. Alan lo sapeva, lo percepiva; non era lei.
Per la prima volta pensò a Sem, al sorriso di Sem, a quanto fosse straziante vederlo così, a quanto fosse straziante l’idea di vederlo svanire così, per una ragione forse destinata a restare per sempre oscura; proprio come quel rosso che deturpava i suoi lineamenti.
E lo stesso pensava Bloom mentre camminava per il corridoio senza rendersi conto della direzione, con gli occhi vuoti, nei quali si rifletteva la luce calda di una fiamma evocata più per conforto che per esigenza.
Ed eccola là, la stanza di Aibao, di quello che all’accademia tutti conoscevano perché le donne della sua famiglia erano fate guaritrici e perché ci si aspettava che da un giorno all’altro le ali spuntassero anche a lui, per gli incantesimi di guarigione che sapeva fare.
Bussò piano, poi un po’ più forte; e vide nell’ombra una figura senza volto, e bussò ancor più forte, con insistenza, e la vide avvicinarsi, camminare verso di lei come un automa, ed il cuore si fermò, come debole, come morto, come quello del corpo che la stava raggiungendo.
La porta si spalancò, rivelando quel ragazzo, Aibao, stupito e assonnato; e la figura se n’era andata, ma Bloom sapeva che non se n’era andata per davvero, che aspettava da qualche parte la sua prossima mossa, acquattata nell’ombra.
Che cosa stava succedendo?
«Aibao…» e che cosa avrebbe dovuto dirgli?
Perché in quei frangenti le parole venivano sempre a mancare, quando il resto del giorno e dei giorni abbondavano senza che ce ne fosse davvero bisogno?
Lo prese per mano, corsero; e lui non capì del tutto o, forse, capì fin troppo bene e fu subito lucido. Quando arrivarono nel bagno, Bloom non comprese cosa lui ed Alan si fossero detti; era stato qualcosa a proposito di ferite e tagli, e tutte altre cose che lei non avrebbe mai più voluto sentir nominare.
Sem stava male; Sem stava male.
Lei provava dolore alla testa, alla schiena; sentiva le membra pulsare e bruciare di un male che le avrebbe fatto esalare l’anima; ma non era reale, era un’impressione, forse un’immagine troppo viva di quello che Sem doveva star avvertendo in quel momento.
Oppure non stava avvertendo proprio nulla, solo il vuoto, tutto nero; e così vedeva Bloom. Amare qualcuno era soffrire delle sue stesse pene?
Perché Sem stava male? Perché qualcuno lo aveva voluto?
Aibao non pensava, invece; agiva e si concentrava, seguendo le mani con lo sguardo, di tanto in tanto domandandosi quale margine di possibilità di riuscita ci fosse.
Ma la sua magia davvero sorprendente, perché niente avrebbe lasciato trasparire quanto fosse agitato in quel momento, e quanto far scomparire tutto quell’orrore fosse spossante, in ogni senso.
C’era una clausola, una premessa che ogni fata guaritrice non poteva mai trascurare, per cui sanare i mali degli altri li trasferiva su di sé; e lui lo sapeva, sua madre e sua nonna glielo avevano detto spesso: alcuni gettavano la spugna, perché non capivano che il dolore che assorbivano non si poteva vedere sulla carne, che era tutto un altro sforzo.
E lui poteva sopportarlo, perché il segreto per riuscire era sopportare; ma per quanto ancora? Avrebbe davvero salvato la situazione?
Perché Sem aveva le orbite spalancate?
«Ha degli strani segni, sul collo» disse, con la freddezza di un analista.
«La colpa è sua. Ma credo starà bene, se saprete fare qualcosa»
Delicata e leggera, una voce di donna li aveva raggiunti tutti e tre come sospinta dalla brezza che lasciava danzare gli alberi in quei giorni di primavera; un sussurro leggiadro che il cuore di Alan accolse con nostalgia, senza che potesse tuttavia spiegarsi a cosa questa fosse dovuta e per quale ragione avesse evocato ricordi lontani di una ragazza, dei suoi sorrisi materni.
Bloom si voltò, cercando con lo sguardo colei che, criptica, si era annunciata in quel modo; ma non c’era nessuno, né sembrava che fosse intenzionata a mostrarsi. Cos’aveva voluto dire?
Di chi era la colpa? Chi sarebbe stato bene?
E chi avrebbero dovuto aiutare?
Sem o qualcun altro?
 
 
Drink up one more time and I’ll make you mine
Keep you apart, deep in my heart
Separate from the rest, where I like you the best
And keep the things you forgot
Betweem the Bars, Elliott Smith
 
  
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