Fumetti/Cartoni europei > Winx
Segui la storia  |       
Autore: Applepagly    05/05/2018    3 recensioni
Su Melody è risaputo: mai raccontare una leggenda, se essa è poco chiara. A furia di cercare il bello alle volte quasi ci si strozza!
Genere: Horror, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Merry-go-round'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Salve! Come andiamo?
Fuhuhuh, che cosa posso dire, per iniziare?
Questo capitolo dovrebbe essere appena più breve rispetto agli altri (con vostra somma gioia; dovrebbero dedicare almeno una targhetta a chi ha avuto il coraggio di arrivare fino a qui) e, soprattutto, più intricato. L'ho riletto molte volte alla ricerca di errori e di punti poco chiari ma, siccome io sono stupida e non vedo mai niente, perdonatemi per qualsiasi scempio e, se qualche passaggio dovesse apparirvi oscuro, non fatevi problemi a dirmelo (mi rendo conto che, per me che l'ho scritto e partorito, magari possano apparire ovvi dettagli che non lo sono).
Dunque... questo è anche il capitolo conclusivo della storia e... beh, anche della serie. E non so cosa dire, perché è meraviglioso averla finita ed essere riuscita a pubblicare questa cosuccia come ultima, ma è anche un po' triste.
Sì, vabbe', non voglio rattristarmi troppo... alla fine è sempre così, no? Perciò, passiamo a qualcosa di allegro.
Vorrei ringraziare chi legge, chi ha letto e chi non lo ha fatto; vorrei ringraziare le due ninfette a cui devo rispondere se non oggi stesso almeno domani (dal momento che avrei dovuto farlo già prima; ma ovviamente io sono troppo stupida anche a scuola e a ricordarmi la fisica ci metto settimane, e questa è stata quella in cui non mi ricordavo come si disegnasse un multimetro e quindi in verifica, al posto di quello che dovevo disegnare, ho riportato l'esperimento che abbiamo fatto collegando delle arance a un coso che non so manco se fosse il multimetro. Vabbe', ho disegnato delle arance su una verifica, quindi vi prego: abbiate pietà di me).
Vorrei ringraziare chi mi ha sostenuta fin qui e... vorrei ringraziare un sacco di gente, in effetti, ma mi sto dilungando troppo troppissimo.
Quindi, bando alle ciance.
Buona lettura, e grazie di cuore!
Applepagly



Esisteva una volta una fanciulla come tante, una fanciulla che aveva grandi desideri nel cuore. Il più potente di essi era la musica.
La vedeva nel mondo e la sognava di notte; la scriveva di giorno e la ascoltava da sola. La percepiva sulle dita, scorreva leggera e fluiva dalla mente nell’aria.
Era un potere e lo volle coltivare, laddove sul suo pianeta i sognatori avevano un pregio e come tale esso veniva trattato. Volle andare in quella scuola di musici che sorgeva oltre il mare, al di là del colle dai peschi e dai ciliegi che fioriscono in un turbine di petali quando arriva il momento.
Tuttavia, la ragazza conservava anche un'altra grande bellezza a cui non aveva mai saputo dare volto finché non l’aveva conosciuta; ed essa era l’amore.
Così accadde che un tempo, quando gli alberi si riempivano di colori, ella fece lo stesso e la sua mente diede vita a melodie nuove, che mai avrebbe creduto di poter udire; ma talvolta, si sa, la forza con cui il sentimento pervade le membra da una parte non vive anche dall’altra con la medesima intensità.
Ed avvenne dunque che il suo amore non l’amò, smise presto e finse d’amarla come prima, amando alle sue spalle, amando a metà.
La seguì nel suo sogno, la seguì verso la scuola di musici; lassù, sul treno che attraversava i cieli ed i mari in un lungo viaggio; e la fanciulla sorrideva, ignara di ciò che il suo amore e la sua amata avevano ordito contro la sua felicità.
Il treno volava e ad ogni scossa la ragazza era più vicina al suo sogno; ma una fu troppo forte o forse troppo forte fu la spinta. Lei ruzzolò fuori, giù, e la sua treccia rimase impigliata tra i vetri di quella corsa della morte, come monito, come maledizione.
E per l’amore e l’amata non fu abbastanza, non fu abbastanza che la fanciulla non avesse più un viso e la treccia, e allora ne devastarono le carni e la fecero scomparire; e con lei scomparve anche quella magia che aveva in grembo, quel dono che non avrebbe mai avuto un nome ed un volto.
Di lei non vollero sapere più nulla; ma la treccia era rimasta, un segno nel vento.
Un segno di quella vita che avevano stroncato quando era radiosa e di quell’altra che avevano reciso prima che potesse vedere la luce; un segno che non avrebbe dimenticato o perdonato.
Da allora, chiunque avesse osato raccontare o ascoltare quella triste fiaba ed avesse avuto nel cuore la consapevolezza o il sentimento di aver fatto qualcosa di simile a quell’orrenda novella, sarebbe stato perseguitato dall’ombra della ragazza senza volto, dalla sua felicità senza nome.
Gli spettri del passato lo avrebbero inseguito, ed avrebbe avuto un solo modo, per liberarsene.
 
 
*
 
 
Spooks
#3 – Fading of ancient sorrows
 
 
Well I know that you’re gonna cry
Tears are runnin’ from your eyes
The piece of my life you take
Is one that so often breaks
Rainy Day, America
 
 
Se qualcuno avesse domandato ad Alan – fino a qualche mese prima, per lo meno – se gli piacessero i bambini, lui avrebbe senza esitazione risposto di sì.
Benché non avesse una gran pazienza pressoché con nessuno, aveva sempre pensato a se stesso come ad uno che un giorno l’avrebbe in qualche modo acquisita ed avrebbe fatto la parte del padre iperprotettivo; e questo sarebbe stato particolarmente vero se avesse avuto una figlia di quelle che, quando raggiungevano l’adolescenza, diventavano complicate ed insopportabili.
Un segreto per il quale si vedeva alle prese con pannolini, protezioni solari al profumo di bimbo e tutte quelle cose con cui Looma, quando erano piccoli, gli aveva trivellato la mente fino ad inculcargliele dentro. Un segreto che, ovviamente, non aveva mia condiviso con anima viva o ne sarebbe andato della sua reputazione.
Ora, invece, le circostanze e le continue apparizioni di mocciosi inquietanti lo avevano costretto a ricredersi e storcere spesso il naso quando, vagando per Magix, scorgeva da lontano qualche marmocchio pestifero.
In particolare, il fatto che a raccontare quella storiella atroce fosse stata una ragazzina lo aveva piuttosto turbato.
Sulle prime, quando si erano avvicinati a quell’enigmatica sagoma apparsa dal nulla, aveva pensato che in un’altra situazione l’avrebbe potuta scambiare per una bambina qualunque, riconoscibile più per gli abiti fuori moda che indossava, che non per particolari fattezze somatiche. Una figura avvolta da un abito azzurro, dello stesso tono di quel nastro che aveva intrecciato tra il corvino dei capelli brutalmente potati; minuta e, allo stesso tempo, dall’aria grave ed austera, che la faceva apparire più grande di quanto in realtà non fosse.
Aveva i tratti esotici di chiunque venisse da Melody, e questo aveva subito lasciato intendere come quel fantasma fosse in qualche modo legato alla leggenda che aveva raccontato Musa; l’unica vera stranezza di quel suo viso diafano, che si era resa più visibile quando l’avevano raggiunta, era la piega delle labbra.
C’era qualcosa di profondamente disturbante nel modo che aveva di corrucciarle da un lato, mentre raccontava loro la vera storia della ragazza con la treccia.
Aveva chiare difficoltà a parlare, e le parole le si srotolavano in bocca con lentezza e con fastidiosi schiocchi della lingua. Il suo sguardo, per tutto il tempo, era guizzato su ognuno di loro in una maniera che ad Alan aveva ricordato il divincolarsi di un pesce fuor d’acqua.
La sensazione di disagio, poi, era amplificata dall’ignorare per quale ragione lei avesse effettivamente deciso di parlare loro, di raccontare tutta quella storia e, soprattutto, che cosa c’entrasse lei con la medesima.
Looma era abbastanza sicura di aver visto anche la sua anima, tra le tante; ma non riusciva proprio a comprendere come avesse potuto evocarla. Se quel che aveva detto corrispondeva alla realtà, allora, tutti i tasselli avrebbero trovato il proprio posto.
Ciò che si tende a dimenticare o ad ignorare, quando si pensa al male, è che spesso quello stesso male è scaturito da altro, da una sofferenza ben più grande e profonda, che lacera l’anima e, nel caso della ragazza con la treccia, anche tutto il resto.
E non era stato lo stesso, per le Trix? L’ingiustizia della natura, rifletté Musa, aveva portato via loro l’unica bellezza che avessero mai conosciuto, e allora gli altri non avrebbero potuto usufruirne allo stesso modo.
Tuttavia… tuttavia quella volta era stata diversa; quella volta era stato qualcosa più grande di loro, a privarle del bello.
La ragazza con la treccia, invece, l’aveva perduto per una questione orribilmente umana e crudele; per un gioco di parole non dette e tramate alle sue spalle, alle spalle del suo amore. Alle spalle della concretizzazione più assoluta del sentimento che può legare due individui.
«Perché ci hai raccontato tutto questo?» intervenne Tecna, senza tanti giri di parole.
«Perché possiate capire… capire come fare…» rispose la ragazzina, con un’infinita flemma. «Perché sappiate la verità…»
«E tu? Che ruolo hai?» continuò la fata.
La bambina parve esitare per qualche istante, corrugando le labbra in quel suo modo e lasciando vagare i suoi occhi d’oltretomba tutt’intorno. «Io sono la figlia di lui e dell’amante… la ragazza con la treccia ha ucciso me per prima… io sono rimasta qui per indicare la via a chi ne ha bisogno… la via per allontanare la ragazza…»
La figlia di lui e dell’amante… l’ha uccisa per prima per contrappasso? Perché loro, togliendo di mezzo la ragazza con la treccia, hanno spezzato anche la vita del figlio che portava in grembo?
«Come facciamo, a sconfiggerla?» chiese Alan.
Ancora, la risposta giunse dopo una lunga attesa, come se nemmeno la ragazzina fosse stata certa sul da farsi. «Non si può sconfiggere… si può solo allontanare, ma la persona perseguitata deve… morire…»
Musa aggrottò la fronte, dubbiosa. «Sul serio?»
«Com’è possibile?» scosse la testa Flora.
Tecna strinse le labbra.
Per quanto poco se ne intendesse di quelle faccende, era pressoché certa di aver captato qualcosa di marcio, in quella versione dei fatti.
Lasciò scivolare una mano dietro la schiena, sfilando lentamente il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Non poteva lasciare che quel fantasma la vedesse digitare dei tasti, altrimenti avrebbe fallito; allora si concentrò.
Le sembrò quasi di vederli, i dati che cercava. Cifre che scorrevano, che si ripetevano in un periodo senza fine che, per altri, non avrebbe avuto il minimo senso; per lei, invece, era un linguaggio più efficace di quello che si usava quotidianamente.
Lo sforzo mentale di instaurare una connessione con il dispositivo era davvero stremante ma, date le circostanze, non vi era altra soluzione. Aveva ricevuto un messaggio da Stella, che recitava “Abbiamo scoperto la verità”.
Riuscì a comporre un ultimo testo di risposta, prima che la bambina potesse scorgere, con quel suo sguardo sbilenco, ciò che la fata aveva in mano. Tecna non poté nemmeno gustare quella piccola vittoria nel veder avvalorate le proprie tesi, perché quello spettro mostrò il suo vero volto e li aggredì.
Delle sue reali fattezze non avrebbero ricordato molto; solo quell’abominio che doveva aver avuto in volto.
 
 
Anche noi. Ce l’ha raccontata la figlia di lui e della sua amante. La bambina che è stata uccisa per prima
“Non c’è nessuna figlia di lui e della sua amante, Tecna”
 
 
*
 
Non vi era stato dolore nella voce di Vesela, mentre aveva parlato; solo una nota melanconica, come se ella stessa avesse sperimentato una sofferenza simile molto tempo prima e fosse stata in grado di superarla e di guardarla con quel sorriso lontano che ora aveva sulle labbra.
Nessuno avrebbe saputo spiegare con chiarezza che genere di pensiero avesse attraversato la propria mente nel prestare ascolto a quella storia.
C’era stato chi aveva ascoltato ed aveva avvertito qualcosa torcersi nello stomaco, ma con fare involontariamente distante, in quel modo in cui si accoglie la notizia della morte di qualcuno che si conosce appena. Qualcun altro non aveva pensato proprio a nulla, aveva immaginato ogni scena e l’aveva vissuta sulla pelle con un brivido.
Qualcuno, ancora, aveva potuto leggere nel racconto la ragione di quell’ombra che lo aveva inseguito nella notte.
E dunque, in quei corridoi che prima di allora non aveva mai rinvenuto nessuno, tutto si fece più nitido e un cuore vacillò, domandandosi se tutti i dubbi e le incertezze superati con tanta fatica fossero stati poi così sciocchi come ci si era convinti all’inizio.
Sem guardava la donna che un tempo lo aveva amato, che lui aveva amato; e, quasi immerso in una visione che non avrebbe saputo definire sogno o incubo, vedeva in lei un’ombra luminosa di qualcuno che il suo cuore non aveva mai dimenticato per davvero.
Rivedeva se stesso senza quella luce; e, anche se adesso c’era un’altra luce, con lui, parlare a lei era difficile e quasi surreale. Parlare e non sapere cosa dire; o non sapere come farlo, come esprimere qualcosa che, nella mente, aveva una sua logicità per quanto confusionaria potesse esserne la disposizione.
«Perché sei qui?» le chiese, ad un certo punto.
Forse… forse un po’ lo sapeva, forse una parte di sé lo immaginava.
Il fantasma della ragazza sorrise con fare un po’ triste. Lui la guardò ancora e, nonostante quella sua forma eterea ed indescrivibile, la trovò ancora sorprendentemente bella e simile a se stessa.
Era ancora la ragazza che aveva fatto danzare nel cielo, quella mattina di tanto tempo prima.
«Non mi sono allontanata. Non per davvero, almeno» rispose, criptica. «Sono sempre rimasta qui. Avevo qualcosa da fare»
«Qualcosa da fare…» continuò lui, abbassando lo sguardo.
«Ehm… noi… forse dovremmo levare il disturbo» sussurrò Aibao a Stella.
«Ma io voglio sentire» sbuffò, dando però retta all’altro.
Si allontanarono un po’ e, prima di volgere le spalle a quella scena, la principessa rivolse un’occhiata a quei due.
Sem e Vesela non si lasciavano andare con lo sguardo, e negli occhi di lui si potevano leggere una gioia ed un dolore che la fata non aveva mai visto in nessuno e che, ancora una volta, la ancoravano a quanto di misterioso, bello e terribile ci potesse essere in quel mondo.
«Rifletti su te stesso. Troverai la risposta, Sem» le sembrò che lo spirito gli avesse sussurrato. «Volevo solo ricordati qualcosa… ciò che ti dissi, mesi e mesi fa»
Lui aveva risposto in un sussurro; forse bisbigli colpevoli.
«Non smettere di suonare. Quel racconto è diverso» gli aveva risposto.
Si scambiarono qualche altra parola che Stella, per la lontananza o per il rispetto che riscoprì in quel momento, non volle ascoltare. Colse solo ciò che Vesela disse per ultimo.
La vide muoversi appena verso di lui, come spinta da una brezza che non esisteva; lo aveva avvolto in una danza che ricordava un pallido abbraccio e si era sporta sulle sue labbra, che non avrebbero sentito quella stessa carnosità di un tempo ma, ugualmente, ne avrebbero conservato per sempre il ricordo.
«Un giorno ci ritroveremo. Allora suoneremo tutti insieme» sorrise. «Ascolterò la vostra musica, è sarà davvero bellissima»
Il ricordo di un bacio triste e leggero.
E allora la ragazza rifletté e, mentre l’altra si dissolveva e ballava nel suo sonno di pace, pensò a Brandon, a come sarebbe stato se lui fosse svanito, se la vita si fosse tenuta solo uno dei due. Lasciò vagare l’immaginazione a tutti i momenti di interminabile paura che tempo prima avevano vissuto e a quelli che sarebbero venuti; e così l’angoscia s’insinuava nel suo sorriso commosso, non incontrando alcuna opposizione.
Lasciò che qualche lacrima s’impigliasse tra le ciglia, in silenzio, non curandosi minimamente del fatto che Aibao la potesse vedere, perché non aveva importanza che vedesse in lei una sciocca femminuccia; pianse, senza sapere che quell’ultimo scambio tra i due innamorati, quell’ultima e breve melodia, aveva commosso anche lui nella medesima maniera.
Guardò Sem, ora solo al centro di quel mosaico sulle piastrelle che, poco prima, si erano illuminate di quei pochi attimi che erano rimasti di un’esistenza buona e di luce; quella era stata per lui l’ultima occasione per salutare la vecchia e bella parte di sé, per scoprirne una ancora migliore, giorno dopo giorno.
Non si sarebbe disperato, perché una delle sue più grandi qualità consisteva nell’accogliere il dolore e trarne forza per affrontare il dolore che sarebbe venuto dopo; tuttavia, sebbene Stella non avesse tatto e conoscesse il ragazzo meno di altri, poté comunque cogliere quella chiara tristezza che aveva negli occhi e che chiedeva solo di poter essere liberata.
Forse, pensò, un giorno gli avrebbe fatto bene lasciarla andare.
Bloom una volta le aveva spiegato che, sulla Terra, esisteva gente che ascoltava gli altri di professione. Qualche volta l’aveva presa in giro, perché le era parso assurdo che qualcuno venisse pagato per ascoltare; aveva detto alla fulva che, se proprio fosse stata negata come fata, avrebbe potuto considerare la carriera da “ascoltatrice”, visto che le riusciva abbastanza bene.
Forse Sem avrebbe avuto semplicemente bisogno di qualcuno che lo ascoltasse?
Brandon dice che le persone che parlano poco sono spesso quelle che avrebbero più cose da dire…
«Dovremmo… cercare gli altri. Spiegare tutto anche a loro la storia e come liberarci dello spettro» la voce dal ragazzo la risvegliò da quelle riflessioni, dura forse più del solito.
Presa alla sprovvista, non seppe cosa dire. Sdrammatizzare com’era suo uso?
Perché, all’improvviso, le sembrava di poter capire meglio tanti dettagli che non aveva mai, fino a quel momento, preso in considerazione?
«Scrivo… scrivo un messaggio a Tecna» rispose, ripresasi. «Non capisco dove possano essere, oltretutto. Avevano detto che ci saremmo trovati qui»
Attesero in un silenzio quanto mai imbarazzante, ringraziando l’intervento del volume assordante di quella stupida suoneria quando comunicò loro che l’altra fata aveva risposto.
«Dice che anche loro hanno scoperto tutto… gliel’ha raccontato…» pausò, accertandosi di aver letto correttamente. «La figlia di “lui e dell’amante”…»
«Quale figlia?» fece Aibao, perplesso.
«Infatti non…» iniziò Sem, per poi interrompersi.
Si guardarono e, senza dirsi nulla, Stella prese a digitare tasti con frenesia; ma Tecna non rispondeva, ed anche il tentativo di contattare Musa fallì miseramente.
Che cosa poteva essere successo loro?
«Perché raccontare una bugia?» rifletté la principessa. «Forse ho capito male io la storia, forse l’abbiamo capita male tutti…»
«In tre?» scosse la testa Aibao. «Dobbiamo trovarli… e se fossero stati attaccati?»
«Sì, ma a che scopo?» ragionò l’altro Specialista.
Presero a vagare per quei corridoi, con disperazione e con la crescente sensazione di trovarsi in un labirinto; ogni passo era uguale al primo, ma sempre più stanco ed angoscioso, un crescendo di panico e timore.
«Dobbiamo trovare anche Bloom. Vesela… lei mi ha indicato la via» continuò. «Forse dovremmo dividerci»
«D’accordo, però…» sospirò Stella. «Teniamoci in contatto, okay?»
Quello annuì e corse, scomparendo presto in quella fitta rete di gallerie.
Gli altri due si trovarono nuovamente soli, senza sapere che cosa dire.
Entrambi erano agitati e continuamente si domandavano che cosa ne fosse di Tecna, se la sua mente sensazionale avesse trovato un modo per salvarli da quella che, presumibilmente, era un’orribile situazione… si domandavano se Looma fosse in lacrime, come le accadeva spesso quand’era in difficoltà o in pericolo.
Forse, in quel momento, Alan stava inveendo a più non posso, forse stava insultando la bambina bugiarda dando bella mostra di un ricco lessico preso in prestito da Riven; magari Musa gli stava dando man forte, con la sua voce che si faceva sempre sentire.
Camminavano vicini, cercando con gli occhi un segno tangibile del passaggio dei loro amici lì, invano; ignari che, di tutti loro, l’unica ancora vigile fosse Flora.
Si era risvegliata grazie a dei sussurri dolci, che le erano giunti all’orecchio come non poi troppo lontani: era stata la voce della natura a parlarle, abbastanza vicina perché potesse farsi sentire. Aveva subito compreso di non trovarsi più esattamente nei sotterranei di Fonterossa, ma in prossimità di un’area dove cresceva la vita; forse, pensava, quelle gallerie risalivano in superficie, snodandosi attorno ad un tronco centrale come un petalo in volo avrebbe fatto avviluppandosi attorno alla corteccia di un albero.
La fata aveva aperto gli occhi a fatica e, sempre a fatica, era riuscita a ricordarsi per quale ragione lei e gli altri giacessero a terra; un frammento di un’immagine spaventosa saettò nella sua mente e, con infinita pena, si rese conto della fitta che la coglieva nel muovere il capo.
Il collo era dolorante, caldo, pulsava come fosse stato scorticato; sfiorandolo, apprese di aver riportato un qualche taglio di cui non si spiegava l’origine. Anche Musa, sdraiata poco più in là, riportava gli stessi segni.
Alan aveva invece una lunga ferita che faceva da cornice al suo bel viso e da cui, curiosamente, quasi non sgorgava sangue. Nell’aggredirli, evidentemente, quella bambina non aveva voluto ucciderli; o, almeno, non aveva voluto ridurli nelle stesse condizioni pietose in cui la ragazza con la treccia aveva lasciato Sem.
Allora, perché li aveva attaccati? Se aveva voluto avvertirli perché potessero essere d’aiuto ai loro amici in pericolo, perché aveva all’improvviso si era comportata esattamente come quell’anima da cui aveva cercato di metterli in guardia?
Forse, ragionò, aveva solo voluto trattenerli e guadagnare del tempo; ma a che scopo?
Con uno sforzo che non avrebbe mai ritenuto possibile, si avvicinò a ciascuno dei suoi amici, perché si svegliassero anche loro. Quanto tempo poteva essere trascorso, da che erano stati messi tutti fuori gioco?
Scrollò un po’ Looma, e lo Specialista, entrambi intontiti.
«Tecna… mi senti?» la chiamò con fermezza.
Non fu nemmeno necessario che la sfiorasse, perché quelle semplici parole furono sufficienti affinché Tecna spalancasse gli occhi e si mettesse subito in piedi.
«Le mie deduzioni erano esatte» esclamò, enigmatica.
«Spero che sia qualcosa di grosso, se parli a voce così alta…» mugugnò Musa, da poco ridestatasi. «Di che si tratta?»
«Adesso sono curiosa anch’io» intervenne da lontano la voce di Stella, come una piacevole ventata fresca che, in qualche modo – e con sommo rammarico di Alan – fece vibrare i loro cuori di allegria.
Flora le sorrise, sinceramente contenta di vederla sana e salva. La leggerezza dell’altra era sempre d’aiuto, in quei momenti.
«Ma che vi è successo? Avete delle facce orribili» proseguì la principessa, avvicinandosi. «Fatemi indovinare… è stata la “figlia di lui e dell’amante”»
Tecna sospirò, sentendosi chiamata in causa. «Chiaramente non era quella, la sua identità» sbuffò. «Avevo intuito fin dall’inizio che ci stesse raccontando una menzogna. Se davvero fosse stata chi diceva di essere, non avrebbe potuto sapere tutti quei dettagli. I suoi genitori non si sarebbero presi la briga di raccontarglieli»
«Allora non potevi dircelo prima?» borbottò Alan.
«Un momento» intervenne Flora. «Siamo certi che, una volta morti, quelli che hanno ancora qualcosa da fare non vengano a conoscenza di tutti i dettagli che li collegano alla loro morte?»
La fata della tecnologia strinse le labbra. Proprio non se ne intendeva, di quelle questioni.
«Non solo di quelli legati direttamente alla loro morte… vengono a conoscenza di tutto ciò che, in qualche modo, li accomuna ad altri che hanno vissuto una vicenda più o meno simile» spiegò Aiabo, mentre tendeva una mano verso il viso dell’altro Specialista, per curarlo.
«È… è vero» confermò Looma. «Come fai a saperlo?»
«Ce l’ha spiegato una… un’amica» sorrise Stella. «Perché non ci dite quello che la mocciosa vi ha raccontato? Così possiamo capire quanto di vero c’è»
Presero così a vagare per una landa di parole e di labirintici tratti del sotterraneo, confrontando storie altrettanto raccapriccianti nei dettagli, ma profondamente diverse nei contenuti scabrosi. Fu subito chiaro il parallelismo, allora, tra la ragazza con la treccia e la tanto compianta Vesela sebbene, in verità, le cause della dipartita delle due fossero piuttosto divergenti.
Restava, tuttavia, ancora un’incognita se la ragazzina avesse detto il vero o meno sulla possibilità di sconfiggere lo spirito che perseguitava Sem e, di riflesso, anche Bloom. Certamente aveva raggiunto il proprio obiettivo, che doveva essere stato quello di separarli dagli altri fin dall’inizio; ed ecco che il ragazzo aveva appena lasciato loro un conciso messaggio nel quale spiegava di essere finito insieme a lei non si sapeva bene dove.
«Sentite, dato che certamente non li troveremo» fece Musa, appena Stella ebbe risposto al cellulare. «che ne direste di sfondare una parete e volare fuori per cercarli? Dal momento che sono precipitati, significa che questa zona del sotterraneo è rialzata»
«La struttura potrebbe cedere, no?» rifletté Looma.
«Non se la fenditura è fatta a regola d’arte» considerò Tecna, avvicinandosi alle pareti.
In una maniera che ritenne un po’ infantile, provò quasi repulsione nell’accostare le mani a quei disegni dalle fantasie tutt’altro che rassicuranti per valutare lo spessore di ciò che la separava dal nulla della notte. Una sonda le comunicò che la proposta dell’altra era di fatto attuabile.
«Bisogna adoperare la massima cautela, però» ricordò. «Siete pronte?»
Si trasformarono e, senza perdere un attimo, Musa iniziò a canalizzare dell’energia attraverso il proprio Charmix nel mentre in cui Looma intesseva una fitta trama di stoffa attraverso sinuosi movimenti della mano.
Tecna osservò il suo operato, pronta ad intervenire al termine.
Si concesse un altro pensiero sciocco, perché non si era mai effettivamente soffermata – né aveva mai avuto motivo di farlo – sull’aria maestosa che la migliore amica di Alan emanava in quelle condizioni. Il blu dei suoi abiti era così intenso e magnetico che quasi rendeva tali i suoi grandi occhi ridenti; e nelle ali aveva una forma che ricordava la regalità di una corona.
Quali capacità si celavano, dietro a quel folletto insolitamente cupo?
«Allontanati un po’» le disse la principessa.
Stella, pur senza lo scettro e senza l’ausilio della trasformazione, tracciò la sagoma del varco che si sarebbe aperto, alla quale la rete sarebbe stata applicata; e, nel momento in cui la fata della musica liberò l’incantesimo e la sua potenza vibrò celere in direzione della parete, Tecna fu rapida ad imporre su ogni filamento parte di un codice di dati che trattenne il suono all’interno delle maglie, impedendo così che rimbombasse anche al di fuori e che mettesse a repentaglio l’intera struttura, come aveva fatto la creatura del nucleo di Fonterossa muovendosi là sotto.
Chissà che non avesse esplorato anche quelle gallerie nascoste.
La principessa, dunque, fece esplodere il sigillo che aveva dapprima tratteggiato ed il boato, ormai imbastardito dell’eco continua di quello generato da Musa, fu sufficiente perché la parete si sgretolasse come previsto; così Flora richiamò subito le uniche forze vegetali che percepiva da lì, ed alte e robuste piante crebbero alla sua parola e si arrampicarono verso di loro, verso quella frattura poco stabile.
Dietro comando, corsero lungo i margini della stessa, abbracciandola e sorreggendola da ogni parte, con ampie e spesse volute che quasi diedero vita ad una nuova e più vitale facciata, che segnava una brusca interruzione rispetto ai sinistri ghirigori della carta da parati.
«Devo ammetterlo… non me l’aspettavo» mormorò Aibao, colpito.
«Nemmeno noi» annuì Stella. «Tutto merito mio, ovviamente. Andiamo?»
«Di grazia, come credi che dovremmo fare, io ed Aiabo? Non abbiamo ali per volare» borbottò Alan, forse un po’ invidioso. «Non credo che vogliate portarci in spalla»
Flora sorrise. «Niente paura»
Lasciò una carezza lungo il liscio e massiccio fusto di uno dei rampicanti e, poco dopo, uno dei suoi simili li raggiunse. Pareva di molto più grande degli altri, alla vista.
«Oh, no» balbettò il biondo. «Non ti aspetterai che salga su quel coso»
«Vedi altre alternative?» mugugnò Musa.
«Smettila di fare la suocera e sbrigati» lo redarguì Looma, spingendolo appena verso la pianta, che si era avvicinata.
Sbuffò ancora, rassegnato.
Sicuramente scivolerò e cadrò di sotto. Va sempre a finire così.
Con una naturalezza che non gli riuscì ad imitare, vide la fata dei fiori prendere posto sul corpo solido di quel maledetto fiore che doveva essere stato geneticamente modificato, o che aveva sicuramente fatto uso di qualche integratore alimentare.
Che idee geniali che hanno, queste fatine. Sedersi su un alberello.
Aiabo gli fece cenno di affrettarsi.
Farsi scarrozzare in giro da un fuscello simile… oh, sì, proprio geniale. Forse, la lunghezza delle loro gonne è direttamente proporzionale alla grandezza dei loro cervelli.
L’unica a comprendere e condividere il suo punto di vista fu Tecna, quella santa donna che osò mettere in dubbio la robustezza di quell’affare e che si beccò pure un’occhiata esasperata.
Sarà per quello che è l’unica con dei pantaloni? Forse è un pensiero sessista. Dopotutto, anche Looma ce li ha, ma resta un po’ scema.
Allora non capisco.
Con estrema riluttanza, si posizionò accanto alla fata della tecnologia, agitato come non mai. Non di era sentito così nemmeno quando, il primo anno, aveva affrontato il test finale e per poco non ci aveva rimesso le penne come quel povero cadetto che era scomparso, Levi.
Avrei dovuto fare come voleva la nonna e pregare un po’ di più.
«Reggetevi» suggerì la fatina del pot-pourri.
Prima che Alan pronunciasse la prima sarcastica sillaba di “dove diamine dovrei reggermi?”, il rampicante iniziò la sua veloce ascesa, in un movimento che ricordò allo Specialista quello di quando ci si lasciava sospingere dalle onde del mare, nei giorni in cui era più agitato.
A Flora, invece, faceva venire in mente quella notte poco prima del Soldì, quella giostra a bordo della quale aveva capito il reale senso di ciò che la circondava; e sorrise, sussurrando alla pianta ciò che cercava e ricevendo una timida risposta non dalla pianta stessa, ma da forti fiori che riposavano più in là, e che avevano visto.
Era dunque chiara la meta; ma sarebbero arrivati in tempo?
 
*
 
Talk, talk, talk, talk
I’ve felt the coldness of my winter
I never thought it would ever go
I cursed the gloom that set upon us, ‘pon us, ‘pon us
But I know that I love you so
Oh, but I know that I love you so
Rain Song, Led Zeppelin
 
 
Mentre procedeva, si accorse che i motivi sulle pareti e sulle piastrelle si facevano sempre più indecifrabili. Presto rallentò, ed un’inspiegabile terrore lo colse nel constatare che i disegni non erano rovinati, ma diversi e, per qualche ragione, inquietanti.
Delle linee sinuose si diramavano da un unico viso che si ripeteva su ogni mattonella e che, su ognuna di esse, riproponeva sempre la stessa espressione orribile; un misto di ira e sofferenza, che lui aveva visto in quel sogno che aveva fatto prima che la ragazza con la treccia tentasse di strozzarlo.
Che cosa significavano, quei volti?
Non avrebbe più potuto convincersi in alcun modo che si trattasse di una casualità perché, in mezzo a tutte quelle vicende, aveva imparato che ciò che appariva casuale nascondeva spesso ragioni oscure dietro di sé; e quella foschia incipiente non fece altro che avvalorare la sua convinzione.
Tuttavia, non doveva lasciare che la paura avesse il sopravvento: c’era qualcuno, qualcuno di caro che aspettava e soffriva senza meritarlo; qualcuno da salvare, qualcuno che amava.
Riprese la sua corsa contro il tempo, ripensando alle parole di Vesela.
In verità, quando aveva conosciuto Bloom e si erano avvicinati, lui si era così concentrato sul volere che lei si riscoprisse, che aveva quasi dimenticato quella parte di sé che provava la sua stessa scissione: il desiderio di andare avanti e, allo stesso tempo, di non trasgredire un legame a cui entrambi avevano sentito di dover in qualche modo restare fedeli.
E quel senso di colpa lo attanagliava da giorni e giorni, e lo aveva reso più freddo e distante, senza che potesse rendersi conto del reale pensiero che aveva destato il lui un’aria più scostante del solito.
Quella storia di sofferenza lo aveva dapprima turbato più degli altri, perché la sua anima aveva tratto da essa un frammento di dolore e lo aveva fatto proprio, cosicché essa si vedesse peccatrice e colpevole, proprio come la ragazza con la treccia aveva voluto. Ed era stato l’aver vacillato nei propri sentimenti, ad aver richiamato quello spettro che adesso cercava lui, che cercava Bloom per punirli entrambi; e con loro gli amici, i complici, i dannati.
Corse e gli parve di salire sempre più, perché la strada si era fatta ripida. Si fermò; ecco l’ingresso, ecco che quel volto infernale si ripeteva grande e minaccioso, ma corroso dal tempo e, proprio per questo, ancor più raccapricciante.
Non esitò, ma strinse le dita attorno alla maniglia ed aprì la porta, in un gesto rapido ed istintivo. La stanza che gli si parò davanti era poco più che un ripostiglio dal cui buio truculento emergeva la minuta figura di quella fata forte ed addormentata.
Un’emozione nuova gli balzò nel petto, simile forse solo a quella di quando, prima del Soldì, avevano ballato insieme in silenzio; si chinò su di lei, che giaceva rannicchiata e serena. Sorrise; scostò dalla fronte di lei quelle ciocche di rame che le nascondevano le ciglia chiare e vide una cicatrice frastagliata increspare quel mare di lentiggini che riposava sotto i suoi occhi.
Aveva sofferto, doveva aver sofferto; ma certamente era stata la mano di Vesela a salvarla, perché quasi il suo tocco era ancora impresso sulla pelle di Bloom, come una carezza. La chiamò a bassa voce, forse dispiaciuto di risvegliarla da un sonno che sembrava portarle quiete.
Lei si ridestò piano, e fu piacevolmente sorpresa di vedere Sem e solo Sem, Sem che sorrideva allo stesso modo di quella foto che c’era in camera di Aibao. Per qualche istante, quasi si dimenticò di tutta quella brutta storia e fu capace di vedere soltanto la bellezza che aveva ancora in mente dalle ultime parole che aveva sentito in sogno.
«Cerbero… sei qui» trovò la forza di scherzare.
«E chi altri avrebbe potuto salvarla, una nanerottola del genere?» sospirò lui, senza smettere di sorridere.
Risero ma, in uno spasmo, Sem perse l’equilibrio proiettandosi verso di lei, verso una parete che si sfaldò come piccoli tasselli di un gioco rovinato; caddero a lungo, senza sapere che cosa stesse succedendo fino a che un morbido profumo di prato non attutì la loro caduta.
Avevano entrambi tenuto gli occhi serrati e fu quasi un miracolo pensare di poterli aprire di nuovo. Possibile che, in quei sotterranei, fosse sempre tutto così fragile?
Bloom, poi, era particolarmente confusa. Quando si era svegliata la prima volta aveva percepito attorno a sé soltanto un mobilio opprimente in una stanza infinita, quando in realtà si era trattato di un cubicolo; ed ora, a quanto pareva, quel cubicolo era sempre stato a ridosso del nulla, dell’aria.
Si mise a sedere, portandosi una mano al volto. Avvertì un leggero fastidio in prossimità della guancia e ricordò.
Chissà chi era…
«Dove… dove siamo?» sussurrò, frastornata.
Il ragazzo assottigliò lo sguardo; nella notte senza stelle fu difficile distinguere ad un palmo dal proprio naso. Sembrava che quel posto fosse come un’ampia aiuola dimenticata su una balconata di cui ancora restavano intatte le grate.
Lei si guardò attorno e apprese di essere stata salvata da dei fiori che conosceva, dei fiori che vivevano solo a quell’ora; come la bella di notte della Terra, ma forse un po’ più cupa ed accogliente.
«Credi che siano magici?» chiese, sfiorando con delicatezza qualche petalo di luna.
«Non chiederlo a me… sei tu la fata» rispose, alzandosi.
Le tese una mano, aiutandola ad issarsi in piedi.
«Non si spiega, altrimenti» continuò lei, pensierosa.
«Non credo che dovremmo preoccuparcene, per ora» considerò Sem. «Non ho idea di dove siamo. Soprattutto, non ho idea di come tornare indietro… dubito che tu sia abbastanza in forze per portarci tutti e due»
Bloom annuì e si allontanò un po’, muovendosi silenziosa fino a sporgersi un poco oltre la balconata che, vide, li separava da uno strapiombo senza fine. Tremò, un po’ per l’aria gelida di quella fredda notte primaverile che giungeva al termine, e un po’ per le sequenze che non avevano mai, da che si era svegliata, smesso di vorticarle in mente.
«Sai… prima che tu mi trovassi mi sono svegliata. Qualcuno mi ha curata… non so chi fosse» iniziò lei. «Prima di svegliarmi ho fatto un sogno in cui c’era Icy che faceva lo stesso gesto della figura che ho visto dopo»
Anche se, a pensarci bene, Icy mi curerebbe solo se fosse buona, dolce e non si chiamasse Icy…
«Poi mi sono riaddormentata e l’ho vista di nuovo. Icy, intendo» proseguì, facendo mente locale delle immagini fugaci che si erano susseguite in quel sogno. «C’era una bambina, con lei… era un po’ inquietante. Era vestita come una bambolina, tutta d’azzurro. Non so perché, ma vivevano in una città in cui erano tutti morti o malfamati e loro due giocavano sotto il portico di una chiesetta. Facevano un gioco strano»
Sem s’irrigidì, non riuscendo a non pensare a quel messaggio che Stella aveva ricevuto da Tecna. «Pettinavano delle bambole e si raccontavano il modo in cui le loro madri erano morte» disse ancora Bloom.
«E come… com’erano morte? Com’era morta, la madre dell’altra bambina?» deglutì lui.
«Qualcuno l’aveva uccisa. Se non ricordo male, quando la bambina era appena nata, sua madre era stata assassinata da… beh, da suo padre» raccontò. «Da suo padre e dall’amante»
Seguirono attimi di silenzio, in cui la fata non fece altro che domandarsi quale fosse il legame tra il sogno e la realtà mentre, al contrario, Sem non aveva alcun dubbio.
«Che cos’altro succedeva?» le chiese.
«Non sono sicura… Icy mi parlava. Mi diceva di stare attenta a quella bambina, perché era morta anche lei» spiegò. «Diceva che, da dove viene lei, chi muore di morte violenta vuole che anche gli altri muoiano così. Forse non dovrei pensarci troppo, però… era solo un sogno, giusto?»
«Bloom…» mormorò lui. «Sei più vicina alla verità di quanto tu possa pensare»
«Che… che cosa vuoi dire?»
Sem sospirò, stanco. Era arrivato il momento di riferirle ciò che Vesela aveva raccontato loro, per quanto orribile potesse essere.
«Prima dobbiamo contattare Stella. Spero che abbia trovato gli altri» continuò il ragazzo.
«Li avete… persi di vista?» chiese lei, sospirando.
«Sì. Ti stavano cercando» replicò, digitando i tasti del cellulare con agitazione.
La fata sospirò ancora. Quella figura che l’aveva salvata aveva detto il vero; eppure, era sempre abbastanza difficile accettare che qualcuno fosse costantemente in apprensione per lei.
«Forse sono io, ad avere qualcosa che non va. Voglio dire, prima che arrivassi ad Alfea stavano sempre tutti bene e le Trix non avrebbero mai trovato la Fiamma del Drago, se fossi rimasta sulla Terra… così i nuclei delle scuole non si sarebbero mai risvegliati, no? E adesso ho combinato un disastro senza nemmeno che c’entrasse il potere che mi trascino fin dalla nascita» rifletté. «Insomma… da quando ci sono io succede sempre qualcosa di male, in un modo o nell’altro. Anche a te»
Sem, che all’inizio non aveva prestato molta attenzione al discorso perché troppo impegnato, colse strascichi di ciò che aveva detto per ultimo. Alzò lo sguardo, incerto.
«Insomma… se me ne fossi rimasta a Gardenia, forse, le Trix non avrebbero mai pensato di poter usare la mia magia per i loro scopi, non avrebbero mai cercato il talismano e quindi non ci sarebbe stata alcuna battaglia» continuò. «E lei… Vesela… sarebbe ancora viva. Invece, le cose non stanno così ed ora c’è addirittura uno spettro che ti perseguita»
Improvvisamente fu tutto chiaro. Lui sbuffò, scuotendo la testa.
Si ricordò delle ultime parole del fantasma di lei e, ancora una volta, pensò a quanto Bloom potesse essere sciocca. A quanto potessero essere sciocchi entrambi.
«Talvolta sei stupida, lo sai?» commentò, avvicinandosi.
«Cos’è, hai dato retta a tuo fratello e ti sei lasciato persuadere?» rispose la ragazza, inviperita. «Io ti dico quello che penso e tu-»
«Anche io sono stupido» la anticipò.
«Sono d’accordo, ma mi piacerebbe molto ascoltare i motivi per cui tu credi di essere stupido» fece, incrociando le braccia. «Sono tutt’orecchi»
Sem sospirò, inginocchiandosi e mettendosi nuovamente seduto tra i fiori.
«Non facciamo altro che sentirci colpevoli, vero? Anche quando la colpa non è davvero nostra…» s’interruppe. «È per questo, che lo spettro ci perseguita»
«Non capisco…» mormorò Bloom.
«La bambina che tu hai visto giocare con Icy… la bambina morta, cioè» iniziò. «Sua madre… è stata davvero assassinata nel modo in cui ti è stato descritto: da suo padre e dall’amante di lui. Ciò che non sai, però, è che la ragazzina stessa è stata uccisa dalle medesime persone»
«E questo vorrebbe dire che-»
«La ragazzina è stata uccisa dal padre e dalla sua amante, sì» continuò. «Ma non nel mondo in cui hanno tolto di mezzo la madre»
«Mi stai dicendo che sua madre era la ragazza con la treccia?» ragionò, dubbiosa.
Lui scosse la testa. «Non sua madre. È la bambina, ad essere la ragazza con la treccia»
La ragazza sgranò gli occhi, sconvolta.
«La leggenda di Melody è stata obliata con il tempo, e nessuno sa più la verità. Nessuno voleva ricordarsi la storia atroce di una ragazzina spinta da un treno e fatta a pezzi» spiegò, non trovando parole meno dirette e crude. «La storia di come nessuno l’avesse mai amata perché frutto di un amore che era d’ostacolo ad un altro»
Bloom, disorientata più che mai, non riuscì a formulare nessun pensiero che avesse un senso logico. «Ma… perché?» fu tutto quel che riuscì a dire.
«Non ha più… alcuna importanza…»
Un rantolo come annuncio; ed ecco la bambina vestita d’azzurro, la bambina con i nastri intrecciati tra i capelli mozzati e dallo sguardo che guizzava, quella che nel sogno pettinava una bambola dalla lunghissima chioma come la pece.
Ecco la ragazza con la treccia, la ragazza con il corpo di ragazzina ed il viso di donna, poi di vecchia ed infine di una smorfia di odio, di brama di vendetta. «Non ha più… alcuna… importanza…» ripeté, a fatica.
Stette lì, in piedi e ricurva su di sé, con le braccia che ciondolavano spente lungo i fianchi. Vedeva quei due, quei due traditori infami di un’anima simile a sé; lì vedeva vicini in un gesto di cui non ricordava il nome, ansioso, che la fece ribollire di odio – lei la serpe rossa tentatrice, lui lo stolto di ghiaccio che si era lasciato sciogliere dalle spire di quel mostro dallo sguardo sperduto.
«Sperduto…» sibilò, per poi ridere.
Per il resto dei propri giorni, Sem avrebbe ricordato quella risata in ogni momento di tristezza e solitudine, in ogni momento di smarrimento; una risata di una voce pazza che singhiozzava ed annaspava in continuazione, che ballava come i suoi occhi sbilenchi e le sue occhiate di sbieco, perforanti.
Tremava, stringeva convulsamente le nocche e rideva, rideva quale la folle che era, che era diventata; ma non era ancora tutto, non era ancora la vera se stessa e lui lo sapeva, aveva visto ciò che era in realtà e, per quanto non potesse ricordarlo con certezza, sapeva quanto fosse spaventoso.
«Perduto…» biascicò, avanzando di un passo verso quei due patetici vermi che avevano cercato di sfuggirle a più riprese, che avevano osato infangarne il nome e la memoria senza sapere. «Io ho… perduto il mio volto… la mia treccia…»
Si mosse ancora, ridendo di nuovo, ma questa volta tristemente. «Ho perduto… la mia magia… la mia… musica…» rise. «Il mio… amore…»
Si fermò, inchiodata al terreno, corrugando le labbra. Come un automa, sfiorò i capelli con le dita, e questi crebbero quasi per incanto.
Aprì la bocca e, prima che gridasse, Bloom si accorse che non aveva né denti né lingua.
E riaprì gli occhi dopo averli serrati d’istinto, ed il suo cuore ricordò tutto: la treccia avvolta attorno al collo, la treccia che l’aveva trascinata via in quel cubicolo delle allucinazioni; ricordò le sue unghie che le laceravano le carni e le artigliavano il volto, mentre i suoi strilli acuti la intrappolavano in un incubo di ricordi di una sofferenza antica quanto quegli abiti che la ragazza aveva indosso da secoli.
Sì, ora ricordava di aver visto la verità nel sogno: Icy gliel’aveva mostrata per un attimo attraverso la purezza cristallina delle sue iridi, in cui si era riflessa la storia di una donna che aveva amato e che aveva creduto di essere amata, che era stata assassinata e che era nata di nuovo in quel corpo a cui aveva dato la vita e che, ugualmente, le era stato strappato un’altra volta e dalle stesse mani.
Quel che nessuno sapeva, quel segreto che la ragazza con la treccia nascondeva sulla propria origine, sulla propria nascita; ecco che riaffiorava tutto, con chiarezza.
Non respirava più, perché avvertiva attorno al collo la morsa del dolore di lei e del senso di colpa che non aveva mai davvero abbandonato Bloom stessa; e tutte le battaglie precedenti, le memorie di coloro che avevano sofferto a causa sua si accalcarono nella mente e le urlarono parole indicibili, arrabbiate.
Tuttavia, mentre la coscienza volava via, in un riflesso di lucidità vide Sem che soffriva e che scrollava la ragazza con la treccia, che l’implorava e spendeva ogni briciolo di forza che aveva in corpo per lei; e, forse, forse questa volta non avevano davvero nessuna colpa. Forse… forse, per una volta, i mali di qualcuno non dipendevano da loro, da lei.
Qualcuno aveva reso quell’anima quel che era; l’ingiustizia, la crudeltà. Era colpa, di nuovo, della Fiamma del Drago, perché l’aveva creata? Era colpa della Fiamma, se esisteva il dolore?
Oppure… oppure le cose stavano diversamente? Si ricordò dei nuclei, di quegli spiriti che erano stati incatenati lì e che non avevano avuto scelta; e apprese che non era lo stesso, che quelle essenze che camminavano sulla terra, volavano tra i cieli e si libravano sotto le onde compiendo meraviglie di magia avevano una libertà che le creature dei cuori delle scuole non avevano mai avuto.
Allora quell’uomo e quella donna, che avevano ucciso la ragazza con la treccia ed i suoi sogni – il suo amore – per ben due volte, sempre per ben due volte avevano avuto la possibilità di una scelta che non avevano mai rinnegato per volontà propria; e quella vendetta che si leggeva nella rabbia dello spettro altro non era che un disperato desiderio di capire perché fosse andata in quel modo e perché continuasse a farlo.
Allora doveva aver iniziato ad inseguire che sapeva di lei e, in cuor suo, aveva almeno una volta provato un senso di colpevolezza dovuto a vicende a quelle di lei affini, senza sapere che lo fossero; ed aveva inseguito loro due così, allo scopo di vendicarsi e di far piangere loro del sangue che non l’avrebbe saziata comunque e che l’avrebbe spinta a cercarne dell’altro, in un ciclo inestinguibile.
Morire sarebbe equivalso ad allontanarla; ma non poteva, non doveva essere l’unica via.
Sem lo sapeva, lo aveva visto nelle parole di Vesela; ma non riusciva a mostrarlo alla ragazza con la treccia, perché ormai non vi era più parte del suo cuore che non fosse stata divorata dall’odio nel tempo, ed era sorda. Leggeva la rivelazione nello sguardo quasi spento di Bloom, senza sapere come fare per salvarla, per liberarla.
Poi, come colto da un brivido, realizzò tutto quanto e ripensò a quelle volte che, gli era stato detto, quella ragazzetta ficcanaso aveva saputo farsi da parte ed anteporre la necessità di ascoltare a quella di combattere. Rivide il racconto di come fosse riuscita non a liberarsi, ma a liberare attraverso l’ascolto e la parola, la pietà e la comprensione; e decise di tentare con un ultimo sforzo di bontà.
La ragazza con la treccia ora rideva e singhiozzava sempre più forte, mentre dalle orbite spalancate colava tutto il nero della sua anima affamata del dolore di quell’insulsa vittima che teneva tra le proprie tenaglie nere; non si aspettava certo quella strana novità che prese a pervaderle il petto quando lui, lo stolto di ghiaccio, decise di sciogliersi non per le spire della serpe rossa, ma per il calore che emanava quel drago che ora la guardava con quegli occhi d’acqua.
Lui, lo stolto di ghiaccio, l’avvolgeva in quello strano modo in cui l’aveva visto avvolgere il drago; una sensazione insolita, curiosa, che mai aveva davvero vissuto. Neppure quando ricordava di essere stata adulta e bambina ed aveva creduto di essere amata: perché non era mai stato amore vero fino a quel momento, fino a quel momento in cui apprese per la prima volta che cosa fosse l’affetto.
Ricordò il nome di quel gesto, l’abbraccio; pianse, ma non più di nero. Lo stolto di ghiaccio sciolto profumava di quell’emozione sconosciuta ed indefinibile, che forse era un po’ gioia, forse un po’ di paura e di qualcos’altro che non sapeva più come si chiamasse.
Lasciò andare il drago, imbrigliata dalla sua maestosa bontà, e scorse nei suoi colori ogni errore scuro che aveva commesso. Rivide un frammento di sé infante, una voce di madre che le raccontava dei draghi che volavano per i cieli della scuola di musici, tra i peschi ed i ciliegi che respiravano i sospiri di quelle creature; lo rivide in quella creatura bellissima che ora l’abbracciava insieme al ragazzo di ghiaccio fondendosi in lui.
Chiese allora perdono per tutti quei volti, quelle trecce, le magie, le musiche e gli amori che aveva stroncato; e nel perdono vide una meraviglia che l’accompagnò in quegli istanti in cui si sentì, finalmente, libera e serena.
Scorse da lontano altre anime vicine al drago ed al ragazzo, altre anime che aveva tormentato; sorrise sincera a quella fanciulla che aveva già incontrato tante volte senza che lei lo sapesse, e la ringraziò, li ringraziò tutti.
Mentre chiudeva gli occhi ebbe come l’impressione che la treccia si fosse disciolta in tante ciocche sottili; le parve di intravvederle piegarsi leggere alla brezza, mentre il nastro azzurro che le aveva tenute intrecciate volare lontano.
 
*
 
«Quindi state dicendo che c’era effettivamente qualcosa che vi perseguitava?» ripeté Brandon, sbigottito. «Perché non ci avete svegliati?»
«Sì, come no. Saremmo dovuti venire lì e dire: “Brandon, ragazzi, c’è uno spettro che ha cercato di strozzare un po’ tutti con una treccia; perché non venite a farvi strozzare anche voi?”» replicò Musa. «Ti pare?»
«Lo sapevo che avrebbe cercato di strozzarti» sussurrò Riven ad Alan.
«Sta’ zitto, corvaccio della malora» borbottò il diretto interessato. «Sono l’unico della combriccola per il quale il trattamento è stato sostituito con un affresco sulla mia faccia»
L’altro si strinse nelle spalle. «Sarà stata così brutta, in quel momento, che le avrà fatto venire lo schifo. D’altronde, aveva già la luna storta»
«Se siamo ancora tutti vivi, allora, dobbiamo esserti grato per non esserti mostrato» replicò. «Avrebbe fatto implodere questo mondo»
«Potreste finirla di litigare come due ragazzini?» sospirò Helia.
«Non dire quella parola. Da questo momento in poi, dichiaro bandita qualsiasi parola come “bambino”, “ragazzino”, “moccioso” e quant’altro» fece Alan, buttandosi sul proprio letto con l’intenzione di non alzarsi mai più. «Non voglio più saperne. E non voglio neanche più saperne di piante. Ho ancora il mal di mare»
Risero un po’, sereni.
Timmy, benché fosse ormai l’alba e non facesse più così freddo, era di nuovo avvolto nel suo bozzolo di coperte, sebbene ne avesse gentilmente concessa una a Flora. «Forse non dovremmo più raccontarle, quelle storie» suggerì il ragazzo. «A meno che non vi sia una documentazione storica dietro, ecco»
«Sono più che a favore dell’idea di non cimentarci mai più in racconti dell’orrore» annuì Tecna, osservando il cielo oltre alla finestra. «Ed anche di non ritrovarci più là sotto. Per dirla come la direste voi… mi mette i brividi»
Sorrise, contenta che nessuno potesse vederla poiché di spalle. In verità – anche se non lo avrebbe ammesso nemmeno se ne fosse andato della sua esistenza – era stata un’esperienza emozionante, nel bene e nel male.
Si prospettava una giornata luminosa all’orizzonte, annunciata dalle calde striature di celeste di cui si tingeva il pallore delle prime ore di quella mattinata; e fu improvvisamente contenta di trovarsi lì, con loro.
Con i suoi amici.
«Nah… basta semplicemente che la smettiamo tutti di farci pippe mentali» minimizzò Stella. «A proposito di pippe mentali… dove sono pippa rossa e pippa antipatica?»
«Si chiamano “tappetta insopportabile” e “povero Sem”» la informò Alan, abbracciato al cuscino. «Se proprio devi, esprimiti con una certa proprietà di linguaggio»
La principessa sbuffò, scocciata. Looma, lì accanto, si guardò intorno e rinvenne una perfetta arma del delitto con cui colpire quella portinaia inacidita del suo migliore amico. La cuscinata fu così sonora e vigorosa che quasi tutti si aspettarono di vedere qualche piuma svolazzare per la stanza. «Tu non esprimerti proprio, megera!»
«Sei una traditrice» l’accusò.
«Oh, vi prego… basta storie di tradimenti» disse Aibao, con tono supplice. «Altrimenti compare qualche altro fantasma a perseguitare noi, o quei due»
«Ma quanto ci mettono? Vorrei tornarmene ad Alfea» sbraitò Stella, affacciandosi alla finestra, accanto a Tecna, cercando invano la sua migliore amica e la statua ambulante con lei.
«Mi spiace ricordartelo, Stellina, ma è colpa tua se siete qui» dovette ricordarle Brandon. «E poi, lasciali in pace. Non lo vedi che sono a sbaciucchiarsi, finalmente?»
Un altro “che cosa?” – di intensità pari solo a quella del “che cosa?” pronunciato quella notte, al telefono – risuonò per la camera, otturando le orecchie dei presenti.
«Che ti aspettavi?» rise Alan. «Lei si sarà fatta le solite pippe mentali e lui avrà deciso di farla tacere, una buona volta»
 
 
Moats and boats, and waterfalls,
Alleways, and payphone calls
I been everywhere with you (that’s true)
Home, Edwars Sharpe And The Magnetic Zeros
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni europei > Winx / Vai alla pagina dell'autore: Applepagly