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Autore: Kiki Daikiri    05/08/2009    1 recensioni
"Era giunta la nostra fine, la fine della nostra pazzesca storia, la fine dei Sex Pistols. Sentivo il mio cervello lontano, come se fosse rimasto incatenato a quel motel di San Francisco.
Più consumavamo strada, più i miei pensieri venivano strappati via, ed io rimanevo come un vegetale sradicato, fermo, pallido, emaciato.
Sentivo il calore della sua spalla contro la mia, ma Sid non mi vedeva. Non vedevamo più nulla, eravamo vuoti e morti. Non vedevamo più nessuno, né noi stessi né il mondo che ci circondava. Non c’era nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente."
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: Questa FF è di soli tre capitoli, ispirata ai fatti accaduti prima, dopo e durante l'ultimo concerto dei Sex Pistols (Stadio Winterland di San Francisco, 14.01.1978); mi sono permessa di reinterpretare la cosa, perchè i fatti originali avrebbero visto semplicemente la partenza di John per l'Inghilterra, il ricovero di Sid e la rottura del gruppo.
Malcolm McLaren è il manager dei Sex, nonché co-proprietario con la Westwood del negozio su King's Road, Tiberi è realmente esistito e faceva parte dell'entourage dei Pistols, Sid Vicious fu sottoposto ad agopuntura da lui, mentre John Lydon (aka Rotten) partiva per l'UK. Nella storia, il punto di vista è quello alternato di Sid e John.


No fun without you.
Prologo
Ci trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci avevano affibbiato. Faceva schifo, era lurida, era marcia. Pessima.
Noi li guardammo senza in realtà vederli, mentre ci portavano via di lì per recarci chissà dove, non ricordo, non ci chiesero spiegazioni, diedero tutto per scontato.
Stemmo vicini per tutto il tragitto in limousine, una limousine che ormai era giunto il momento di restituire, semmai non ce l’avessero sottratta da sotto i sederi mentre stavamo per strada.
Era giunta la nostra fine, la fine della nostra pazzesca storia, la fine dei Sex Pistols. Sentivo il mio cervello lontano, come se fosse rimasto incatenato a quel motel di San Francisco.
Più consumavamo strada, più i miei pensieri venivano strappati via, ed io rimanevo come un vegetale sradicato, fermo, pallido, emaciato.
Sentivo il calore della sua spalla contro la mia, ma Sid non mi vedeva. Non vedevamo più nulla, eravamo vuoti e morti. Non vedevamo più nessuno, né noi stessi né il mondo che ci circondava. Non c’era nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente.
No fun, my babe, no fun.
 
Capitolo I
Belsen was a gas.
 
Non eravamo in vacanza, si trattava di lavoro lavoro lavoro. Non credevo sarebbe diventato un lavoro, quello di suonare nella mia band preferita. Non doveva essere un lavoro, non avrebbe dovuto essere un lavoro.
Tutto il tour era stato un vero disastro, uno schifo indicibile, per cui ci avevano privato della maggior parte degli attrezzisti e gente varia.
Ero una star del rock’n’roll internazionale, eppure mi spostavo con il basso in spalla, come avrei fatto quasi due anni prima, camminando per King’s Road.
Cook e Jones stavano sempre più in disparte, tra di loro, fatto a cui ci eravamo tutti un po’ abituati. Spesso si parlava di separazione, ma il gruppo aveva ancora troppe cose in ballo per poterci dividere: dopo la data a San Francisco, nel giro di nemmeno un mese, sarebbe iniziata un’altra turnée in Svezia.
Chi mi preoccupava davvero, ad essere sincero, era John.
Camminava sempre più chino, più gobbo, con lo sguardo rabbuiato e un sacco di lamentele sempre in bocca. Mi chiedevo davvero cosa stesse succedendo a tutti noi, cosa stessimo combinando.
«Signor McLaren, dopo il disastro a Dallas, credete che il gruppo riuscirà a conquistare San Francisco?» la cronista spingeva il microfono verso la bocca di Malcolm, quasi fino a farglielo leccare, ma lui si rifiutò di rispondere ad ogni domanda, mentre varcavamo le porte del MiYako Hotel.
Gli americani avevano due opinioni totalmente opposte sui Sex Pistols: o li amavano, o li odiavano a morte.
Alcuni di quegli zotici avrebbero voluto vederci morire in un lago di sangue, avrebbero voluto farci fuori con le loro mani. Più ci addentravamo nella logica americana, più questo ci appariva chiaro.
Vedevo John soffrire dell’intera situazione, dei concerti che erano stati cancellati, delle bugie che venivano dette sul nostro conto, anche dai nostri stessi impresari.
Era stressante, se non trovavi qualcosa a cui aggrapparti.
Io qualcosa avevo, avevo l’alcol, e, si, avevo anche Nancy ad aspettarmi in Inghilterra.
Improvvisamente, mi sentii assalire da un’ondata di malinconia e di straziante malessere fisico, era parecchio che non stavo così male.
John se ne accorse, ma non disse nulla, era troppo occupato a litigare con Malcolm, il quale ci stava informando con fin troppo garbo che non c’erano stanze per me, in quell’albergo. Il direttore non mi voleva: la mia trista fama mi aveva preceduto anche lì.
Estremamente scocciato, John l’aveva ricoperto di insulti, per poi afferrarmi malamente per un braccio e trascinarmi fuori, accompagnati da due guardie del corpo.
John mi odiava per il fatto della droga, io l’avevo ormai capito, ma eravamo grandi amici sin dai tempi della scuola, sapevo che non mi avrebbe mai abbandonato.
«Stammi lontano, non mi va di parlare con te.» «Lasciami in pace Sid, non abbiamo nulla a che spartire» «Malcolm, non intendo viaggiare con Sid Vicious.» Erano queste le cose che diceva, sempre più spesso.
Parlava così, ma era sempre lui a prendersi i miei sputi in faccia, quando rimaneva chiuso in una stanza con me per intere giornate, durante le disintossicazioni e le conseguenti crisi d’astinenza.
«Senti, Malcolm non ci vuole qui, e tu devi essere in grado almeno di stare in piedi domani…»mi rimproverò, quando fummo su un devastatissimo camioncino in compagnia delle guardie del corpo e dei roadies.
Quando John mi sgridava, il suo sguardo si ammorbidiva sempre. Faceva uno strano effetto: più era arrabbiato, più lo sguardo duro da psicopatico scivolava via dal suo volto contorto, dalla mascella serrata nelle più grottesche smorfie, fino a lasciare lì, di fronte a me, il timidissimo ragazzino irlandese emaciato e gobbo che avevo conosciuto nella mia primissima adolescenza.
Non so come accadesse, forse, semplicemente, John non amava imporsi su di me, oppure non si sentiva nella posizione di consigliare chiunque, o, più probabilmente, io non stavo deludendo Johnny Rotten, stavo deludendo il ragazzino conosciuto a Finsbury Park.
Annuii senza dire una parola, totalmente immerso nella valanga di pensieri negativi che il malessere e quel senso di colpa mi stavano insediando nel cervello da ormai parecchi giorni.
Con il basso in spalla e senza guardie del corpo, che avevano deciso di aver concluso con l’incarico, ci arrampicammo su una rampa di scale scivolosa ed angusta, su, fino al secondo piano del Motel San José, un posto squallido e terribile, ma un posto dove ci volevano.
Avevamo pochi soldi, così si decise per dividere una stanza, anche se l’idea non faceva di certo piacere a John.
 
Quella stessa mattina, ci avevano portati a fare una breve sosta in uno di quei locali per camionisti, lungo la strada. Io e Sid amavamo quei posti, ci entusiasmavano. Li trovavamo deliziosamente disgustosi ed erano pieni di CowBoys terribili, di cui Sid amava copiare l’abbigliamento. Non appena cambiavamo città, bang, Sid si andava a comprare degli stivali da rodeo o un cappello, così da poter assomigliare a quei tizi. Aveva già una giacca di pelle. Era veramente terribile, terribile.
A San Francisco, in uno di questi posti, ordinammo della birra a colazione, poiché non avevamo dormito e per noi il senso del tempo era diventato un contro-senso. Inutile seguire una serie di abitudini, se estrapolate dal contesto.
Ordinammo queste birre, e Sid si mise a berciare con un tipo ubriaco -mi ricordò molto la situazione del Bill Grundy Show- e, per irritarlo ancora di più, prese a canticchiare Belsen Was a Gas. Già per un europeo era a dir poco inaccettabile ed oscena, quella canzone, ma cantata ad un americano ubriaco, gli effetti furono quelli che furono.
Potete immaginare cosa potesse significare fare a botte con un motociclista di quel genere, in un locale pieno gremito di suoi simili. In un attimo, ci furono tutti addosso. Sid cerco di defilarsi, come faceva sempre, ma, quando ebbe capito che ormai eravamo dentro fino al collo, afferrò una sedia e la fracassò in testa ad uno di quei bastardi. Io avevo iniziato a fare rissa già dal primo minuto, non perché mi piacesse, ma perché odiavo la situazione in generale e provavo piacere nel poter sfogare queste acidità. Steve e Cook si unirono ben presto alla caciara, nella maniera più violenta possibile, come loro solito: in particolare Steve cercava sempre di sottomettere il pubblico durante i nostri concerti, sfidandolo a muso duro ed istigando risse epocali, perciò non gli sembrava proprio vero di avere l’opportunità, finalmente, di pestare qualcuno con diritto.
«CowBoy del cazzo!» sentii strillare Sid, spaccando l’ennesima sedia in testa a qualcuno, il quale cadde riverso sul pavimento, trascinandosi dietro la mia disgrazia. Mentre mi impegnavo per scansare l’ennesimo cazzotto, vidi Sid rotolare sul proprio avversario.
Era incredibile, pensai, come quel ragazzo alto ed allampanato, vagamente sottopeso, riuscisse a tenere testa senza troppa difficoltà ad un uomo che sarà pesato su per giù due volte lui. Cosa poteva dargli tutta quell’energia? Io avevo la rabbia, Steve aveva un’infanzia di violenze da espiare, Paul era semplicemente un bonaccione, ma Sid? Cosa spingeva Sid, un ragazzo intelligente, buono e ingenuo ad essere così violento?
Poi un fulmine mi attraversò il cervello, proprio nell’istante in cui un orrido individuo gli fracassava sulla faccia un boccale vuoto di birra, in un’esplosione di sangue. La droga, era la droga a dargli quell’energia innaturale. Sentii la nausea strizzarmi le viscere, mentre la rissa scemava ed io barcollavo verso un Sid Vicious delirante e straziato, che menava ancora fendenti come se non si fosse affatto accorto di avere la faccia irrorata della sua stessa linfa vitale.
Ero abbastanza abituato, oramai, ad asciugare il sangue che gli colava giù, lungo il mento. Capitava spesso e non mi preoccupava affatto: per quanto mi divertissi assieme a lui, io desideravo davvero che Sid morisse.
Lo pensavo così spesso, con tanta rabbia, che mi auto convinsi che fosse così, che io odiassi davvero Sid.
È triste, davvero triste non riuscire ad essere sinceri con se stessi, quando con gli altri sono in assoluto la persona più onesta che esista su questo lerciume di pianeta.
«Cazzo, fottuto, bastardo.» biascicò Sid, scostando la mia mano con delicatezza e passando rudemente la sua sul labbro ferito. «Cazzo.» sputò a terra un grume di sangue arancionastro.
«Andiamo, prima che si risvegli.» osservai, notando che l’uomo a terra si stava muovendo, soccorso malamente da uno degli uomini ancora interessati, mentre il resto della banda si era già ricomposta, per ricominciare a bere.
Il gioco è bello finché dura poco.
 
John era fantastico, sapeva trasformarsi da ragazzino dall’aspetto bislacco ma quasi innocuo in un’arma letale. Davvero, mi faceva impressione. Ero io quello che si cacciava sempre nei guai, ero io che cercavo sempre qualcuno con cui fare a botte, anche se poi tendevo a tirarmi indietro. Avevo una gran paura del dolore, prima di conoscere Nancy, ero un codardo. Fu dopo, dopo la droga e dopo Nancy che compresi quanto poco valesse la mia salute. Vivere o morire, per cosa? Nulla, niente, nessuna importanza. L’importante era fare ciò che mi andava di fare e farlo a modo mio.
John no, lui non amava cercare lo scontro fisico, lui era una mitraglia verbale, lui sapeva sfidare, affrontare e sotterrare una persona con le sole parole ed un decimo della fatica che facevo io per prendere a schiaffi una di quelle facce barbute. Eppure era lì, a pochi metri da me, pronto a vincere una rissa al mio fianco. Nonostante mi odiasse, nonostante non riuscisse più nemmeno a guardarmi in faccia senza provare disgusto –sentimento estremamente visibile sul suo volto così espressivo-, nonostante non provasse più nessun sentimento nei miei confronti. Un uomo mi si avvicinò, credo fosse il barista, ma non ci feci caso, mi disse che voleva che ce ne andassimo. Era stranamente calmo e gentile. Presi una sedie e gliela ruppi in testa, beandomi del rumore sordo che fece il suo corpo afflosciandosi a terra. Ma non mi sentivo meglio, mi sentivo solo molto più furioso.
«CowBoy del cazzo!» cominciai a strillare, atterrandone un altro e poi un altro, finché uno non mi tirò giù con sé.
Mentre provavo a difendermi, tirandomi contemporaneamente su, qualcuno mi colpì in faccia con qualcosa. I ricordi di ciò che accadde dopo sono confusi, ma so che non mi fermai. Non sentivo dolore, non avevo paura, non provavo nulla se non il cieco desiderio di uccidere. Uccidere me stesso.
Pochi secondi dopo mi trovavo appeso ad un braccio di Cook, mentre John mi passava una mano sulle labbra e sul mento. La sua mano.
Improvvisamente mi sembrò di fuoco, cinque lunghe e strette lingue di fuoco che lambivano la mia carne scoperta e vulnerabile, le spostai, poi il dolore giunse tutto d’un colpo.
Attraverso le pupille sporche di sangue, potevo vedere il volto di John a pochi millimetri dal mio, il suo volto indifferente, gelido e tagliente come i versi delle canzoni che scriveva. Sembrava cattivo, sembrava distaccato allo stesso tempo. Come se non gli importasse nulla, mi fece cenno di muovermi e disse qualcosa che io non capii.
Imprecando e sputando, uscimmo dal locale.
   
 
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