Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: AcchanBaka    10/06/2010    3 recensioni
Non poteva immaginare che fare la conoscenza di quell'apparente bonaccione avrebbe a poco a poco dissolto l'oasi di perfetta solitudine che aveva costruito in anni di gentile isolamento – come lo chiamava lui – aprendogli porte colme di esperienze che, davvero, non avrebbe mai voluto provare.
La storia di un sospettoso pianista e un fotografo ficcanaso.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

1. le informazioni riguardo il pianoforte sono un po' farina del mio sacco, un po' raccimolate su wikipedia.com; lo stesso vale per le macchine fotografiche;
2. il parlato si esprime tra i simboli «», il corsivo indica pensieri (trascritti al presente) oppure serve a marcare l'importanza di un dato soggetto, le virgolette “” sono utilizzate per nomi di cose/opere o in generale per sottolineare concetti.
3. dopo avervi annoiato con le note, vi lascio solo con i copyright: i personaggi, i luoghi e il resto sono opera mia, mentre le opere citate (come “Für Elise”) sono ovviamente di proprietà del loro creatore (non ruberei niente a Beethoven-san <3). Grazie per l'attenzione e buona lettura!



 


 

Black and White
O magari in seppia?

 

 


3. Polsi di pietra
In una foto di famiglia.


 


 

«Polso fermo, Steve.»
«Sì.»
«Le mani più ad archetto. Esatto. Morbide, ma determinate. Flessibili, ma stabili.»
«Sì.»
«Ricorda, Steve, le dita eseguono, le braccia guidano, ma i polsi restano fermi. I tuoi polsi devono essere di pietra, capito Steve?»
«Sì, papà.»
«Bravo Steve...»

Aprì gli occhi di scatto. Ancora.
Era la quarta volta in due giorni che quello stesso strano sogno si presentava alle porte della sua mente, irrompendo nel subconscio senza bussare, disturbandogli il sonno, impedendogli il riposo, distruggendo uno dopo l'altro i muri che durante quegli anni aveva costruito tra sé e quel passato che, volente o nolente, aveva dimenticato.
E adesso, sotto forma di onirica angoscia, quei ricordi avevano ben deciso di intaccare il fragile e delicato equilibrio che lo aveva tenuto in piedi fino ad allora.
Fino alle odiose parole di Maximilian Jackson.

Io so tutto di tuo padre, Steven Macmillian secondo. Faresti bene a temermi, lo sai?”

«Mh, che c'è?»
«E me lo chiedi?», sibilò in risposta. Non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi di una voce estranea nella stanza, che la figura di Max si materializzò nel buio, scompostamente distesa al proprio fianco.
Assottigliò lo sguardo, contrariato, eppure sconfitto; e la cosa non faceva altro che renderlo ancor più irritato e soprattutto irritabile.
Perfino nel buio vide saettare quel bianco lucore che altro non era se non la dentatura di Maximilian, che avrebbe fatto felice qualunque dentista nel giro di chilometri e chilometri.
Migliaia di chilometri.
Esattamente il luogo ove avrebbe desiderato vivere, potendo. A migliaia e migliaia di chilometri di distanza da quell'odiosa persona che ora occupava un indesiderato posto nel proprio letto, che tra l'altro era ad una sola piazza, e tutto ciò rendeva difficile trovare uno spazio in cui intrufolare il proprio corpo senza dar vita a strofinamenti di determinate parti anatomiche.
In ogni caso, quel maledetto se la stava ridendo, per la precisione sogghignando.
Steven non si prese troppo tempo per star lì a domandarsi la mistica ragione di tanto divertimento, e fece per distendersi. Era una decisione difficile dormire, e decidere come farlo: dargli le spalle avrebbe di sicuro comportato un avvicinamento di corpi in punti particolarmente sensibili, un avvicinamento non casuale, conoscendo il soggetto che dormiva con lui; schiena al muro significava rischiare di accoccolarglisi, possibilità che il suo cervello rifiutava categoricamente di prendere in considerazione. Per cui già dalla prima sera aveva finito per stendersi pancia in su, la posizione in assoluto più scomoda: così occupava il doppio dello spazio ed era costretto a sentire il muscoloso petto del ragazzo premere contro la propria spalla, il proprio braccio; era costretto a sollevare leggermente le ginocchia, perché se si metteva supino non riusciva a stendere del tutto le gambe, e quel movimento comportava un leggero sollevamento delle lenzuola, il cui possesso portava sempre ad un'insolita lotta furiosa per accaparrarsene il più possibile.
Maximilian però non era soddisfatto: lui stava ridendo, e quel Steven nemmeno lo notava. Neanche un po', giusto per curiosità. E invece niente.
La cosa non lo demoralizzò: lo aveva circuito tanto da indurlo a lasciarlo dormire nel proprio letto – dormire e non solo –, di sicuro sarebbe riuscito ad esasperarlo tanto da far sì che anche quel gelido cyborg cominciasse ad interessarsi all'esistenza di qualcun altro oltre se stesso.
Per la precisione, quel “qualcun altro” doveva essere lui.
Il sorriso si allargò leggermente, e la mano che non stava sotto il cuscino si avvicinò al corpo di Steven, accarezzò il fianco e si posò sul torace magro e smilzo coperto solo da una leggera maglietta, scivolò sul ventre, ne carezzò la consistenza. Poté avvertire Steven contrarre i muscoli, stringere la mandibola, digrignare i denti.
«Non mi toccare.», fu l'ordine, pronunciato con stizza e nervosismo vergognosamente palese, se si pensava alla fredda gentilezza che di solito caratterizzava sempre la voce del moro.
«Adesso è “non mi toccare”?», cantilenò Max, senza spostare la mano dal ventre, nelle vicinanze del perineo. «Non mi sembra che l'altra sera fosse “non mi toccare”.», continuò implacabile, le dita che si muovevano in lenti cerchi, sollevando di tanto in tanto la t-shirt. Steven era rimasto fermo, le braccia lungo i fianchi, le gambe leggermente sollevate.
«È sempre “non mi toccare”, Jackson, ma tu senti solo quel che vuoi sentire.», replicò secco l'altro, ruotando la testa il tanto che bastava per lanciargli una contrariata occhiata in tralice, gli occhi nocciola mezzi coperti dalla disordinata frangia.
Il sorriso di Max non vacillò. «Eppure ricordo espressioni decisamente differenti uscire dalla tua bocca...»

«No...»
«So che ti piace...»
Le delicate, affusolate dita da pianista strinsero le lenzuola, accartocciandole nel palmo, gli occhi sgranati si sollevarono al soffitto – che vedeva sfocato causa mancanza di occhiali – e la bocca si schiuse, lasciando sfogo a gemiti leggeri e poco trattenuti.
Avvertì distintamente il castano succhiare, e dovette chiudere gli occhi in un fremito di piacere che lo scosse da capo a piedi.
«Idiota di un Jackson...», sibilò, tremando leggermente. Sentiva gocce di sudore scivolargli lungo la coscia, ben presto carezzata da quella grande mano che andò ad afferrargli le natiche, senza un minimo di ritegno, o pudore. Sebbene il pudore fosse l'ultimo dei suoi pensieri, in quel preciso istante.
La mano destra si sollevò lentamente dalle lenzuola, salendo in uno scatto spasmodico a tappargli le labbra con il dorso; nell'istante immediatamente successivo quel dorso si trovò a dover tacere una serie di versi indecenti, dovuti alle continue e scandalose carezze che il castano non smetteva di esercitare sulle sue parti intime.
Diversi mugolii accompagnarono i movimenti di quella lingua maledetta, e le palpebre si serrarono più volte in preda a violente contrazioni dei muscoli di tutto il corpo.
Le carezze lo fecero vibrare, i fianchi suo malgrado assecondarono le sensazioni puramente fisiche accompagnando l'altalenante moto della testa di Max.
Poi la schiena si curvò, arcuandosi per un breve istante prima di ricadere mollemente sul letto; i gemiti si spensero, lasciando posto ad un affannato respiro liberato dalla mano, il cui dorso scoprì essere leggermente umido per la saliva.
Rabbioso seguì il sollevarsi di quella testa, e il sorriso lascivo che campeggiava su quella faccia.
«Avevo ragione, visto?»
«Fottiti.»
Lo aveva seguito stendersi, allungare il braccio muscoloso a recuperare la bottiglia d'acqua sul comodino, bere un sorso.
«Oh, io credo sarebbe molto più divertente fare l'opposto.»

Steven guardò altrove, precisamente verso il muro.
Ricordare la sera precedente era di per sé vergognoso; niente di ciò che era successo con Maximilian avrebbe compromesso il suo normale atteggiamento. Lo aveva giurato non appena aveva capito il fine del ragazzo, quando tutta quella trafila era iniziata.
L'ostinato silenzio in cui si era chiuso dopo l'ennesima uscita strafottente del castano, fece ridere quest'ultimo.
«Visto? Ho ragione, no?», lo punzecchiò esultante. Steven si limitò ad afferrargli la mano e allontanarla da sé con sdegno, incrociando poi le proprie braccia sul petto, controllando con cura di infilargli il gomito nel torace.
Una vendetta infantile, ne era conscio, ma se doveva combattere contro Max doveva scendere al suo infimo livello.
«Ouch», ridacchiò quello, la mano appena respinta che andava a massaggiare la parte colpita. «Questa tua reazione mi dà da pensare. Sicuramente ho ragione, e tu non vuoi ammetterlo, così mi colpisci e pensi di farmi cambiare idea, ma non ce la fai, e adesso ti sto stressando così tanto che vorresti tapparmi la bocca col nastro adesivo», continuò, il sogghigno sempre più ampio mentre la vena sulla tempia di Steven pulsava sempre più, e la mascella si induriva, «ma ti consiglio un metodo più veloce e sicuro: perché non mi dai un bacio, eh, Steve?»
Steven non si voltò; restò fermo, sostanzialmente a fissare la parete.
«È Steven, per te.», si premurò di ricordargli, assottigliando leggermente gli occhi, scuri nell'oscurità.
Lo sentì nuovamente ridere e la cosa lo innervosì.
Qualunque cosa facesse Maximilian, lo irritava come non mai. Qualunque cosa dicesse, toccasse, muovesse, ogni volta che rideva, parlava, scherzava con lui, ogni singolo movimento lo faceva imbestialire, perché sapeva fosse mirato al suo punto debole, mirato a volerlo punzecchiare, infastidire, logorare fino allo stremo, fino al suo limite umano e poi andare oltre, a raccogliere i cocci, a ricostruirli come più gli pareva.
Il pensiero lo colpì: era esattamente come si sentiva quando sfiorava il pianoforte, la sua architettura pregiata, delicata e al tempo stesso forte: lo distruggeva e poi lo ricreava daccapo. Il solo fatto di aver accostato Maximilian al suo adorato strumento lo avvilì: cominciava a perdere colpi.
«Sei troppo forte, Steve; comincio a pensare di aver fatto proprio bene, ad avvicinarmi a te.»
Era troppo buio per fulminarlo con un'occhiataccia, ergo si limitò a rimanere sostanzialmente in silenzio, con un sospiro pesante e palese.
Significava “e ora che te ne sei intelligentemente reso conto, mi faresti il grande favore di chiudere quel forno?”, pressappoco.
«D'altronde, non puoi farci niente. Vorresti respingermi, ma in realtà hai paura di farlo: perché io so quello che tu non sai, e che vorresti sapere...»
Steven roteò gli occhi: eccolo, aveva ricominciato a vantarsi delle sue mistiche conoscenze riguardo il suo passato, a far finta di conoscerlo così bene da parlare come uno psicologo, aveva ripreso a ricordargli che bla, bla, bla, “io so che tu sai che io so e tu sai che io so che tu vorresti sapere” e teatrini logistici del genere. Decise che quella volta non gli andava bene.
Non lo guardò, si limitò ad interromperlo con le parole.
«Basta», fu secco, ma non bastò; «io non voglio sapere, né ricordare, per quel che m'interessa io con quell'uomo ho chiuso, e ben presto chiuderò anche con te.», gli assicurò. Si voltò solo in quel momento per fissarlo. «E quando l'avrai capito sarà finita.», rettificò.
Max fece un sorriso sghembo, fin troppo arrogante.
«Come vuoi.», lo blandì, con aria noncurante: in fondo, di tutte quelle belle cose ne era convinto solo Steven, non certo lui, non aveva nulla a che spartire con il suo modo di pensare. Lui aveva altro da fare.
«In ogni caso non mi hai risposto, Steven caro, e a ben due domande: uno, come mai ti sei svegliato tanto di soprassalto?», non aggiunse la seconda, segno evidente per il moro che volesse una risposta ad una domanda per volta.
Steven tornò a guardare il soffitto, in realtà senza vederlo nella penombra della stanza.
«Incubo.», fu quindi il lapidario borbottio.
Maximilian mentalmente se lo segnò, senza però aggiungere altro. L'espressione tornò seria per qualche istante mentre compiva quell'operazione silenziosa.
Quindi, tornò immancabile il sorriso sornione. «Numero due... non me lo dai un bacio, Steve?», ripeté la domanda di non molto prima.
«No.», rispose immediatamente il moro, anche un po' annoiato in realtà.
«Su... dai, che ti costa? In confronto a cosa ti ho fatto ieri, un bacio è come una carezza.»
«Nel tuo caso perfino una carezza sarebbe troppo, Maximilian.»
«Max, Steve!»
«Steven. Maximilian.»
Lo sentì sbuffare.
«Che noioso. Dai, un bacetto solo...», nella penombra Steven vide la sua figura avvicinarsi, il fiato farsi più vicino, più lento, come a voler soppesare ogni singolo respiro... Trattenne il proprio, mordendosi il labbro inferiore mentre si voltava e gli premette entrambe le mani sul petto, facendo forza per allontanarlo e al contempo spingere se stesso ancor più verso il muro.
«Non ci provare. Potrai anche avere tutto il mio corpo, anche se non ci spererei fossi in te, ma le labbra non te le lascerò toccare.», lo avvisò, il tono più basso, dalle vibrazioni quasi minacciose.
L'altro sospirò pesantemente. «Steve, Steve, non fare il santarellino. Solo un bacio!», insistette ancora.
«No, fammi dormire.», esigette, dandogli a quel punto le spalle – e a quel paese l'avvicinamento di parti anatomiche un tantinello intime – e stringendosi nella parte di coperta da lui occupata.
«Ah, è così, eh?», a quel punto avvertì le sue braccia circondarlo, travalicando anche il confine tra il suo corpo e il materasso per avvolgerlo totalmente. Si irrigidì dal primissimo istante, sgranando leggermente gli occhi.
«Cosa stai--?»
«Shht.», Max lo zittì, appoggiando nel contempo le labbra sul suo collo. Steven non tollerò una cosa del genere, e mosse subitaneo il gomito per colpirlo ovunque fosse possibile. Il gesto ebbe successo, sebbene con minor forza di quanto avesse sperato, perché quelle braccia muscolose gli dimezzavano la libertà di movimento.
«Smettila. O quei gioiellini te li faccio saltare.», minacciò a quel punto, agitandosi il più possibile per dargli fastidio. Le labbra dell'altro parvero scollarsi dal suo collo, che sentì fastidiosamente pruriginoso e umido.
«D'accordo, d'accordo tigre.»
Tigre? Ancora?
«Allora... per stasera dormiamo.», concesse e Steven roteò gli occhi, da parte sua, mentre si scostava con malagrazia intanto che l'altro già allontanava le braccia da lui. «Ma la tua bella bocca non mi sfuggirà per sempre.», aggiunse inevitabilmente.
Steven rimase qualche istante in silenzio; nel frattempo il castano si sistemava cercando una buona posizione per dormire.
«Sta' certo che il tuo “per sempre” e il mio sono pregni di concetti temporali estremamente differenti.»
«Che frase da Einstein represso.»

Per quella notte si addormentarono, Max non ebbe accesso al suo corpo né alle sue labbra e Steven nemmeno gli raccontò oltre quell'unico vocabolo dell'incubo che lo aveva svegliato di soprassalto. D'altronde, perché avrebbe dovuto? Non erano in confidenza, e quell'avvicinamento fisico era solo dovuto con la forza e per ricatto, perciò Steve non si sentiva in dovere di tenerlo al corrente di ogni suo pensiero, nemmeno fosse il suo ragazzo.
La mattina dopo, in mensa, rabbrividì al pensiero. E l'altro non meno di due giorni prima aveva avuto la faccia tosta di dirgli che “se voleva, era libero”. Insomma, ma chi lo voleva un tipo del genere?
Un tipo che conosce il segreto che avevi dimenticato, sepolto nel cuore in uno scrigno serrato, un tipo che riesuma ricordi polverosi e li usa per ricattarti, per averti al suo servizio quando aveva istinti da sfogare, per permettersi di dormire nel tuo letto e baciarti dappertutto?
Scosse il capo, agitandosi leggermente, lì in fila con il suo bravo vassoio tra le mani, che lo stringevano quasi con la voglia di distruggerlo.
Si distrasse solo con l'amaro pensiero che quel vassoio no, non era mica il collo di Maximilian.
Era martedì. Il lunedì era stato affrontato con successo, e il martedì – sia lode – era uno dei due giorni liberi. Si era comunque alzato presto, sia perché voleva fare colazione in una mensa ancora affollata, così che Max non potesse avvicinarsi troppo a lui in pubblico.
Tutta una tecnica.

«...e con questo cosa vorresti dire?»
«Che so tutto di lui, di te e di tuo...»
«Sta' zitto!», aveva esclamato, di getto, gli occhi ancora leggermente sgranati. «Non voglio sapere nulla di quello che stai dicendo, nulla, mi hai sentito?», aveva continuato, l'aria vagamente stravolta, puntando lo sguardo allucinato sul viso dell'altro, sul quale campeggiava un sorriso strafottente, praticamente come al solito.
«Non ti credo.», aveva sentenziato, l'aria asciutta, quasi distaccata, come di chi non è assolutamente colpevole di una data situazione o reazione; gli lasciò i polsi. «Sicuramente da qualche parte nella tua testa c'è qualcosa che preme di sapere.»
Lo schiaffo era arrivato subitaneo.
«Non credere di poter sbirciare tanto facilmente nella mia testa.», il sibilo giunse leggermente tremante alle orecchie di Maximilian, che infatti non lo prese per buono, e con una mano sulla guancia colpita lo guardò, sempre con quel sorriso irritante, saccente, inquietante.
«Mh, scommetto che adesso indovinerò la tua reazione.», sogghignò, l'aria gioiosa di un bambino dispettoso che si diverte a mettere un compagno più debole in difficoltà. Cacciò l'altra mano in tasca, estraendone qualcosa di frusciante, forse un pezzo di carta.
«Scommetto che ora tratterrai il fiato e farai tanto d'occhi.»
Gliela mise sotto il naso. Era una foto.
Steven trattenne bruscamente il respiro.
Sgranò gli occhi.

«Steven!»
Un ragazzo biondo, mediamente alto, dovette chiamarlo un altro paio di volte prima che il moro si riscuotesse, perso nei suoi pensieri, nei ricordi di quei brevi istanti che avevano portato al ricatto malefico, al “i tuoi ricordi per il tuo corpo”, stile io do i ricordi a te, tu dai il tuo corpo a me.
Finora, al suo corpo in senso letteralmente fisico non c'era arrivato, ma già poter dormire con lui poteva definirsi “un grande passo”.
«Ehi, Steven, dormi in piedi?», scherzò il biondino, e Steven abbozzò un mezzo sorriso di circostanza, recuperando la sua aria placida e un po' gelida.
«No, riflettevo. Dimmi, Ian.», lo invitò, gentile e distante. Come al solito, insomma. Ian era un semplice compagno di classe, non erano proprio in confidenza ma siccome Steven cercava di mantenere un rapporto abbastanza amichevole ma non troppo con i coetanei, alla fine tutti gli si rivolgevano con tranquillità.
«Ecco... la faccenda riguarderebbe lui.», se ne uscì, e Steven dovette un secondo battere gli occhi prima di capire chi fosse “lui”. Abbassò lo sguardo al fianco di Ian: un affarino alto più o meno fino al bacino del compagno, biondo anche lui, con un'aria divisa tra corrucciata, imbarazzata e ammirata tutto insieme sulla faccia – come potesse essere possibile, Steven invero non ne aveva idea.
«E... lui sarebbe?», domandò a ragione, inarcando il sopracciglio.
Ian ridacchiò. Era affabile, il suo ridere non era irritante come quello di qualcun altro. «Sì, scusa. Lui è Dean, il mio fratellino.», spiegò. «I miei mi hanno chiesto di fargli vedere un po' l'ambiente: sai, anche lui vorrebbe studiare pianoforte, tra qualche anno.», si passò una mano sulla nuca, scompigliandosi poi anche i capelli sulla fronte, lasciandoli ancora più spettinati di prima. «Così, mi sono chiesto... siccome tu sei il più bravo del corso e sicuramente oltre, non potresti dargli qualche dimostrazione?», domandò alla fine, con un sorriso sbilenco un po' colpevole, nemmeno gli stesse chiedendo di spostare una montagna.
Steven se ne uscì con un ghigno a metà arrogante, a metà divertito, per quanto la sua maschera potesse permetterselo. «Ma così non ne risentirà la tua immagine da fratello maggiore?», lo punzecchiò velatamente, comunque senza malizia o cattiveria. Ian era troppo tonto perché anche lui si divertisse a prenderlo in giro.
L'altro infatti rise, come un moccioso, sicuramente peggio del fratellino che gli stava accanto. E che difatti prese la parola prima di lui, incrociando le braccia con il tipico broncio da bambino.
«Tanto Ian non è granché come fratellone.», commentò e Steven, potendo, avrebbe riso sinceramente. Quel bambino, era forte.
«D'accordo. Se lo dici tu, mi fido.», rispose, alleandosi palesemente con Dean, giusto per canzonare bonariamente il più grande. Che infatti mollò al piccolo uno scappellotto scherzoso. «Non si dicono queste cose del fratellone!», lo riprese, e l'altro con un “ahio”, rispondeva: «ma se te le meriti!», a tono.
Che cosa incredibile, l'essere fratelli.
Qualcuno di abbastanza simile a te da farti sentire protetto. Da non farti accorgere della tremenda solitudine del mondo. Qualcuno generato come te dalle medesime persone, che condivide il tuo DNA, il tuo sangue, che condivide la tua casa, la tua vita, dalla nascita in poi, fino alla naturale divisione delle strade.
Steven lo trovava meraviglioso.

«Fratellone!»

«Steven?»
Si riscosse ancora. Nuovamente un sorriso di circostanza.
«Sì, perdonami. Stavamo dicendo: allora, vogliamo andare in aula?», concluse, e Dean annuì, contento finalmente di iniziare.
Ian lo prese per mano – e l'altro parve lasciarlo fare con sufficienza, quasi rassegnazione; Steven si chiese chi fosse il maggiore tra i due – e insieme guidarono il bambino attraverso il breve dedalo di corridoi fino all'aula di musica, naturalmente vuota. Steven accolse dentro di sé un respiro sollevato di aria pura e incontaminata – epurata cioè da quel brutto virus di nome Maximilian Jackson.
Si erano portati i vassoi dalla mensa, e li appoggiarono sui banchi. Tutta roba che non ungesse le dita, comunque: una tazza di caffè e una mini-brioche da mangiare con un tovagliolo. Il tempo di fare entrambe le cose e leccarsi i baffi che Steven si accomodò sul largo sgabello, facendo posto anche al piccolo Dean.
«Da cosa vuoi iniziare?», chiese, l'aria disponibile.
Il bambino scrollò le spalle.
«Suona qualcosa.», lo invitò, più generico di così si moriva.
Steven suppose di dover fare qualcosa da sé.
Così appoggiò le mani sul piano.
Polsi di pietra.
Dovette di nuovo reprimere un brivido, e mantenere la calma.
Cominciò a suonare qualcosa di classico: la “sonata per pianoforte n°14, Quasi una fantasia” del suo adorato Ludwig Van, forse meglio conosciuta come “Sonata al chiaro di luna” o “Moonlight sonata”. Fino al secondo tempo della terza battuta, le note della mano destra erano sempre le stesse: in una bassa tonalità, sol, do, mi. Sol, do, mi. Sol, do, mi. Era la mano sinistra a dare un lieve cambiamento, un senso a quelle tre note identiche, calme, lente.
La cosa lo compiaceva sempre, almeno un po', per via di tutte le sue elucubrazioni al riguardo.
La sinistra intonava due cambi di note da quattro quarti: nella prima battuta, due la di due ottave differenti; nella seconda battuta, due sol, sempre con un'ottava di differenza.
Era un suono morbido, greve, pareva una piuma che con la leggiadria di cui è pregna si posasse sulla terra, e nella sua caduta producesse un suono tanto flebile quanto sublime: ecco, quello era precisamente il suono che gli ispiravano quelle note suonate dalla mancina.
Cominciava tutto piano: con note basse, poco invasive, come di un sentimento che si fa strada nel cuore del destinatario senza che questi possa rendersene minimamente conto; come un gatto che con zampe felpate strisci sul pavimento, movenze eleganti, morbide, fino a strofinarsi con piacere contro qualche caviglia, risultando sempre ben accetto e intenerendo chiunque.
Dean lo ascoltava incantato: il broncio apatico che prima si era conquistato la posizione sul suo tondo viso da bambino aveva lasciato il passo ad una bocca semiaperta, gli occhi fissi sulle mani che dolcemente ricreavano l'antica melodia per offrirla di nuovo ad orecchie fortunate, come quelle del biondino, un po' a sventola, ma pronte a recepire ogni minuscolo fruscio o vibrazione che i tasti producevano stuzzicando le corde all'interno dello strumento.
Steven concluse, con un leggero sospiro.
Il più piccolo rimase ancora in silenzio, senza variare espressione, prima di riscuotersi sentendo il fratello maggiore battere le mani in un applauso, e cominciare a fare lo stesso, impacciato.
«Sei-sei bravissimo!», esclamò, un po' a disagio, forse perché non si aspettava così tanto. Steven sorrise vagamente; non sapeva perché, ma con i bambini non riusciva a rimanere sempre lo stesso.
«Grazie. Sei molto gentile.», gli assicurò, azzardando perfino ad accarezzargli la testa scarmigliata. Ian si alzò, raggiungendoli, e perfino uno come lui poté notare l'atteggiamento di Steven: gli batté la mano sulla spalla, amichevole. «Ehi Steven, sei figlio unico? Non tratti spesso con mocciosi eh?», ridacchiò, mentre Dean protestava al “moccioso” con un “ehi!”.
Steven scosse il capo.
«No, non ho fratelli.», rispose asciutto, mantenendo comunque quel velo di affabile cortesia che gli permetteva di non risultare antipatico o spocchioso. Anni di allenamento, con determinazione, ma in segreto.
«E come mai? I tuoi genitori non hanno voluto?», domandò l'altro, continuando la chiacchierata come farebbe chiunque con uno che considerano amico, né estraneo, né conoscente, né confidente stretto, ma quel giusto che permette di fare domande un po' personali senza risultare invadenti.
Solo che era la domanda sbagliata.
«No.»
Steven suppose che avrebbe potuto fermarsi lì, ma non lo fece.
«Perché ho perso mio padre all'età di sei anni e mezzo, mese più mese meno. E mamma non si è più risposata.»
Nel silenzio imbarazzato che cadde dopo quella risposta, nessuno – chi preso dal disagio, chi dai ricordi che sepolti premevano per tornare a galla, chi troppo piccolo per capire – colse i passi che si allontanavano da dietro la porta.

Maximilian si allontanò, felpato come un felino.
«E così lo ha perso. Ti dico io che hai perso.», borbottò tra sé e sé, decidendo di passare alle maniere forti. «Un pezzo di storia, ecco cos'hai perso.»
Girò l'angolo, prendendo la direzione opposta ai dormitori. Aveva diverse cose da fare...

Durante la mattinata, nei giorni liberi Steven si dedicava allo studio, al ripasso, alla lettura. Quel giorno, però, si era rinchiuso nella sua stanza, la sua faccia colma di espressioni che difficilmente avrebbe desiderato mostrare ai propri compagni, ai professori, al mondo, meno che mai a Maximilian Jackson.
Aveva chiuso la porta a chiave per evitare quello scocciatore, e si era disteso sul letto. Il lettore cd era abbandonato sul letto, le cuffie ben premute nelle orecchie.
Strano a dirsi ma vero, non stava ascoltando musica classica. Aveva diversi cd di band rock, pop, punk, alcune non troppo commerciali, altre storiche, diverse scelte in base ai propri gusti del momento.
Il brano che era appena iniziato era dei Pink Floyd.

So, so you think you can tell
Heaven from Hell?

Si girò su un fianco, un braccio piegato sotto il cuscino che aveva estratto dal lenzuolo, l'altro abbandonato sul fianco fino al gomito, dopo il quale la mano scendeva sul materasso, due dita sul lettore cd, in un movimento istintivo, abitudinario, in modo da cambiare canzone, alzare il volume o spegnere senza perdere troppo tempo.

Can you tell a green field
from a cold steel rail?

Socchiuse gli occhi, si morse leggermente il labbro. Gli era sempre piaciuta quella canzone. Aveva un che di malinconico, rassegnato, disperato.

Running over the same old ground
What have we found?

Allungò il braccio che sostava sul fianco, per afferrare il pomello del cassetto sotto il comodino, ed aprirlo. Scavò alla cieca con le dita, fino a sentire un fruscio. Cavò la mano da lì per estrarre la foto. Sospirò leggermente.

The same old fears.

La foto ritraeva un ragazzino, ad occhio e croce dodici anni, seduto ad un pianoforte, vestito come un signorotto, la camicia nera, la giacca bianca e un nastrino a fare da fiocco sul colletto. Appoggiava mollemente i polpastrelli sulla tastiera.
Al suo fianco un ragazzo, probabilmente più grande di pochi anni. Dietro di loro un uomo. Tutti e tre si assomigliavano gli uni agli altri in maniera impressionante.
Steven si rimise disteso schiena sul materasso, e sempre mantenendo la foto con la punta delle dita si coprì gli occhi con l'avambraccio che aveva ritirato da sotto il cuscino.

Wish you were here.

«Papà...»

 


 


E dopo un mese esatto (giorno più giorno meno...!) eccomi con il terzo capitolo! *grida di giubilo*
Grazie a chiunque è arrivato fin qui senza annoiarsi, vomitare, sbraitare o lanciarmi maledizioni. È davvero tanto per me u.u”
Grazie ad aniki, Shichan, che me l'ha letto e betato, dandomi alcuni preziosi consigli. E grazie alla ziaH Yoko891 per il betaggio del capitolo precedente! Perdono, avevo dimenticato di scriverlo nelle note >.<
E grazie a chi so che l'ha letto o in separata sede o qui ma non ha potuto commentare <3

Shichan: grazie ancora per i complimenti sul lessico >//<' sono contenta che non risulti ripetitivo, è una cosa che odio ç_ç per quanto riguarda Maximilian, è un personaggio affascinante, e lo sarà ancora di più (o almeno lo spero...), perciò il fatto che piaccia non può che farmi piacere XD Spero comunque di continuare a caratterizzare al meglio sia lui sia Steve <33 Per quanto riguarda il mio “difetto” da giocatrice di gdr, l'ho notato anch'io specie nel capitolo precedente e devo dire che, accidenti, è proprio vero: ho dovuto frenarmi un po' per non aggiungerne altri qui, ma spero che comunque la lettura non sia risultata spiacevole o che. Grazie comunque <3


Alla prossima!
Ja ne <3

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: AcchanBaka