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Autore: Shichan    20/12/2010    5 recensioni
C'era chi diceva che un "no, grazie", potevi rivolgerlo solo a richieste superficiali.
In realtà, potevi rifiutare qualsiasi cosa con un'espressione di falsa cortesia come quella: promesse, parole, e persino la gentilezza.
Potevi rifiutare anche di essere salvato.

[Raccolta di tre oneshot: G/Giotto, Cavallone Primo/Alaude, MukuroTsuna]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Mukuro Rokudo, Nuovo Personaggio, Tsunayoshi Sawada
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei

Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei.

Prompt: 15.Desiring promises is an innocent, child-like frailty. I’ve already long since… graduated from that. (Tabella)

Note: mini raccolta che sarà formata da tre oneshot. Una G/Giotto, una Cavallone Primo/Alaude e una Mukuro/Tsuna. Se in quest'ordine o meno non lo so nemmeno io x°

Non sono certa di essere riuscita ad esprimere il messaggio che volevo far arrivare e che è al centro di questa shot, ossia la parte dei sentimenti di G e il motivo del suo gesto rivelato nelle ultime righe. Io ci spero *perplessa*

Dedica: mi rendo conto che non sia esattamente l'apoteosi della gioia natalizia x° in ogni caso, dedicata alle mie amanti delle varie coppie preferite <3 Yoko891, LitaChan, CriminalDanage, pralinedetective e Gioielle.

E a chiunque vorrà leggere, ovviamente <3

 

 

Promesse

 

 

Desiderare promesse,

è un'innocente fragilità da bambini.

È passato molto tempo da quando...

sono cresciuto per cose come questa.

 

 

Se c'era una cosa che Hayato si era ripromesso, era di diventare un uomo che avrebbe potuto non solo stare al fianco del Decimo con orgoglio, ma che con altrettanto orgoglio avrebbe potuto un giorno presentarsi a testa alta di fronte a quel Guardiano della Prima Generazione.

Gli avrebbe dimostrato che era in grado di diventare un braccio destro impeccabile e sì, persino migliore di lui. Non aveva completamente accettatto – questione di indole, probabilmente – le parole dell'altro durante il suo esame per ereditarne la posizione, o il potere, o quello che accidenti era.

E, sebbene la prova si fosse ormai conclusa con un giudizio positivo, Hayato non aveva dimenticato le parole che avevano preceduto quel verdetto.

Totale, completa inadeguatezza: ecco cosa ne era trasparso.

E per quello stesso motivo, di certo Hayato non si era aspettato che – aprendo la porta del suo appartamento dopo aver salutato il Decimo quella sera – si sarebbe ritrovato qualcun altro all'interno.

Se poi proprio avesse dovuto indovinare chi, di certo avere come ospite il Guardiano della Tempesta della Prima Generazione non era il suo desiderio più intimo.

Ma proprio no.

Si accigliò infatti non appena ne riconobbe la figura; fermo sulla soglia, entrò in un secondo momento con un impercettibile: «Tch.» scocciato, al quale – ma non poté vederlo – G sogghignò leggermente, divertito.

Senza una parola, si era mosso per entrare in casa come se l'altro non fosse nemmeno stato presente: si era diretto in cucina, aprendo un paio di sportelli per recuperare qualcosa di semplice e veloce da cucinare.

Ma Gokudera Hayato non era esattamente tipo da lasciarsi osservare senza dare di matto.

Non ci volle granché, quindi, perché si voltasse stizzito verso l'altro Guardiano che pareva essersi accomodato con tutta calma come se fosse casa sua, e non quella del suo successore.

«Che vuoi?» chiese brusco, senza tanti complimenti, guardandolo truce.

G non parve esserne particolarmente toccato, e si limitò inizialmente ad osservarlo, cosa che probabilmente ebbe l'effetto contrario su Hayato.

«Tch, fai un po' come ti pare, ma smettila di guardare da questa parte.»

«Cos'è, ansia da prestazione, moccioso?» ribatté maliziosamente sarcastico l'altro, fissandolo con gli occhi carmini; Gokudera si imbronciò, forse imbarazzato o forse – semplicemente – seccato.

«Cos'è, non hai di meglio da fare in quanto spirito? O nell'anello ti annoi?» lo sfotté neanche G fosse il genio della lampada magica di una di quelle favole che si leggono da bambini.

Nonostante le spalle, G non rispose né lo riprese e Hayato non trovò di certo nulla da dirgli, continuando a prepararsi la cena.

Quando ebbe finito, aveva già ampiamente deciso di ignorare la presenza dell'altro salvo complicazioni, o che G si degnasse di dirgli cosa diamine voleva da lui.

Aveva cenato sul divano, la televisione accesa su un canale casuale e tenuta non troppo alta, quanto bastava ad essere udibile.

Ogni tanto, però, lanciava al Guardiano più anziano qualche occhiata sfuggente, veloce; non aveva alcuna intenzione di fare conversazione con l'altro, ma a meno che non avessero dimenticato di dirgli che riconosciuta la successione il vecchio Guardiano ti invadeva casa, qualcosa decisamente non quadrava.

«Quando hai finito di vedere porcherie e perdere tempo sul divano, fammi un cenno, moccioso.» commentò G all'improvviso e solo allora Gokudera notò che aveva fra le mani un libro, preso chissà quando ma indiscutibilmente dalla sua libreria – Teoria della Fisica, dubitava che esistesse ai tempi dell'altro a dirla tutta.

«Non sono io ad essermi infilato in casa d'altri senza un perché, pseudo antenato.» rispose sarcastico, lo sguardo ancora sullo schermo senza però interessarsi davvero a cosa vedeva; fu il turno di G di osservarlo con la coda dell'occhio, non direttamente.

Sospirò quindi, lentamente e profondamente.

Hayato spense con un gesto secco la tv, voltandosi verso l'altro pur rimanendo seduto sul divano.

«Allora» sbottò: «cosa vuoi? Di nuovo una predica? Ci hai ripensato sulla successione? O stai per dirmi che avendo ereditato il diritto ad essere tuo successore ora sarai il mio mentore per i prossimi dieci anni?»

«Non sono arrivato a questo livello di masochismo, moccioso.»

«Credessi in Dio, lo starei ringraziando per avermi risparmiato dieci anni di convivenza con te, sappilo.» rimbeccò Hayato, senza mutare espressione o nascondere una sfumatura di ostilità nei confronti dell'altro.

«Ora che hai finito di agitarti come una ragazzina in crisi mestruale possiamo parlare?»

«In che cosa?!» sbottò Hayato alzando la voce e sporgendosi inconsciamente in avanti con fare attacca brighe.

«Cosa credi? Che ai miei tempi i bambini li coltivassimo nei campi, mocciosetto?» ironizzò l'altro, il ghigno strafottente ad incurvargli le labbra.

Hayato digrignò i denti, fissandolo truce, ma con un sospiro seccato assunse un'espressione che – a suo avviso – doveva essere ben disposta: non aveva alcuna intenzione di farsi riprendere nuovamente o di sentirsi dire che era un povero bamboccio immaturo.

Incrociò le braccia al petto, scettico, focalizzando l'attenzione completamente su G e rimanendo in attesa di questa fantomatica chiacchierata cui l'altro aveva accennato.

Il Guardiano della Prima Generazione parve cogliere quel cambiamento seppur minimo nel suo successore, perché lasciò sfumare il ghigno, mutando l'espressione in una particolarmente seria.

«C'è qualcosa riguardo l'eredità che ora hai fra le mani che dovresti sapere.» pronunciò, apparentemente senza girarci intorno.

Hayato si fece più attento: «C'è qualcosa che non hai detto alla fine della tua prova?» incalzò anche lui senza tergiversare.

«Non era una cosa che potessi dirti di fronte al Decimo.» spiegò brevemente l'altro, studiandone le reazioni in virtù dall'attenzione che stava rivolgendo alla gestualità e ai cambi di espressione del Guardiano più giovane.

Hayato tacque, un cenno leggero del capo come a dirgli di proseguire; il fatto, però, che fosse qualcosa di cui il Decimo dovesse presumibilmente rimanere all'oscuro non gli faceva esattamente assumere un atteggiamento ottimista. Non era stato proprio G, a parlare di un rapporto di completa fiducia indispensabile perché lui potesse davvero aspirare a divenire non solo il legittimo Guardiano della Tempesta ma anche il braccio destro del Boss?

La cosa non quadrava. Non quadrava per niente.

«Hai detto di voler diventare il suo braccio destro. Sai cosa significa?» domandò l'altro, nel tono una nota quasi di derisione, come se stesse dicendo qualcosa che reputava completamente insensata. Come se, a suo avviso, Gokudera si fosse riempito la bocca di parole di cui non conosceva davvero il significato, come un bambino che ripete quello che sente dagli adulti senza nemmeno porsi il problema di cosa stia effettivamente dicendo.

La cosa lo innervosì; se G era venuto per ribadirgli quanto lo reputasse attualmente un ragazzino inadatto, non era proprio aria.

«Qualsiasi risposta ti darò sarà comunque quella sbagliata, no?» sbottò irritato il più giovane.

G tacque, quasi si fosse aspettato qualcosa di diverso da quella domanda retorica da parte dell'altro. Tuttavia non fece né un commento sarcastico, né qualcosa del genere.

Ma nemmeno si alzò, dandogli le spalle e accusandolo di immaturità – di nuovo – usandola come scusa per andare via, e rimandare quello che ad Hayato dava sempre più la sensazione di un discorso scomodo.

Al contrario, G si lasciò sfuggire un sospiro leggero, ma percettibile.

«Tu potresti non riuscire ad essere fedele al tuo dovere fino alla fine.»

 

 

Era rientrato da una missione, e la prima cosa che aveva fatto – com'era suo dovere, d'altronde – era stato dirigersi nell'ufficio del Boss per fare rapporto il più presto possibile.

Aveva bussato alla porta, ricevendo quasi nell'immediato il permesso per entrare; aveva socchiuso la porta quanto bastava ad oltrepassare la soglia e, dopo essersela richiusa alle spalle, la prima cosa che era rientrata nel suo campo visivo era stata la figura di Giotto.

Seduto dietro la scrivania, i gomiti poggiati sopra di essa e le mani intrecciate fra loro a nascondere parte del volto, il biondo gli aveva rivolto il solito sguardo gentile con cui accoglieva ognuno dei suoi Guardiani.

G si mosse in avanti, raggiungendolo dall'altro lato della scrivania.

«Bentornato, G.» lo salutò, il sorriso affabile.

G annuì meccanicamente, rispondendo con un: «Grazie Boss.» molto professionale, al quale Giotto – complice l'assenza di altre persone nella stanza – sospirò con un sorriso leggero e rassegnato.

Tuttavia, il suo essere testardo e pignolo anche nelle cose che non richiedevano tanta importanza, lo portò ad aggiungere quello che ormai era divenuto un richiamo quasi di prassi con il Guardiano della Tempesta.

«Sei freddo come al solito, G.» gli fece notare, un po' canzonatorio e un po' per ripicca forse. G, sospirando a sua volta rassegnato – ormai se lo aspettava sempre, quella sorta di rimprovero da parte del suo presunto “capo” - poteva quasi scommettere che nascosto dalle mani ancora intrecciate fra loro, ci fosse un broncio appena accennato.

«È deformazione professionale.» ribatté in sua difesa, senza trattenere un incurvarsi di labbra divertito nel pronunciare quelle parole. Giotto non replicò oltre, visto che quando lo aveva fatto si era rivelato inutile, e lo incalzò invece a dare voce al rapporto che lo aveva condotto lì.

G riportò fedelmente le informazioni pervenute, parlando a ruota libera per dieci minuti buoni; alla fine, si limitò a tacere dopo un: «E questo è tutto.» a seguito del quale posò lo sguardo sul biondo, quasi in attesa.

Giotto aveva ascoltato con estrema attenzione ogni sua parola, senza assumere espressioni particolari per tutto il tempo e lo stesso fece anche quando G tacque.

Il Guardiano rispettò quel silenzio, almeno fino a quando non iniziò a pesare nella stanza: Giotto non era una persona frettolosa, al contrario ponderava sempre in maniera piuttosto seria su ogni questione che richiedesse il suo giudizio. Tuttavia, era stata proprio la sua precisa capacità di analisi che lo aveva contraddistinto al capo dei Vongola nonostante la sua giovane età.

Tra l'altro, in quel caso si trattava di una questione più logistica che non prettamente tattica o che richiedesse un'azione particolarmente articolata.

«Boss?» lo richiamò, quasi ad incalzarlo, lo sguardo che ora non si limitava ad osservarlo in attesa ma a studiarlo.

Giotto socchiuse gli occhi, poggiandosi allo schienale della sedia e rilassandovisi contro, senza rispondere nell'immediato; si prese anzi il suo tempo, fissando un punto casuale della stanza oltre la spalla di G.

Il Guardiano iniziava a credere di doversi preoccupare, quando il biondo prese parola.

«G, sono stanco. Ti andrebbe una tazza di the?» domandò, per nulla pertinente a tutto ciò cui il Guardiano si era riferito fino a poco prima. Questi, perplesso, alzò un sopracciglio nel rivolgergli un'occhiata confusa.

«Non stai bene?» chiese, lasciando cadere le formalità che con Giotto non erano certo necessarie, almeno quando erano soli – e in realtà tutti i Guardiani erano a conoscenza almeno del fatto che i due fossero amici d'infanzia.

Vide Giotto sorridere in quel modo gentile che utilizzava sempre per tranquillizzare le persone che gli stavano a cuore: «Solo stanchezza. Non sai che fatica, firmare documenti tutti il giorno.» scherzò su, alzandosi e aggirando la scrivania.

«Se vuoi del the posso prepararlo e portartelo.» gli fece notare G, ancora intento a studiarlo per capire cosa ci fosse a stonare questa volta – perché sì, c'era qualcosa e su quello non aveva alcun dubbio.

Il biondo tuttavia non fece altro se non allargare impercettibilmente quello stesso sorriso, muovendosi fino ad oltrepassare l'altro dirigendosi verso la porta; G si voltò, seguendolo con lo sguardo, mentre Giotto si limitò a guardarlo da sopra la spalla ormai nei pressi dell'uscita.

«Ho voglia di uscire un po'. È tanto che non lo facciamo, no?» suggerì.

 

G lo aveva assecondato – era già difficile non farlo prima, ma ultimamente la cosa era divenuta improponibile. Era ormai certo di stare viziando Giotto, e di doverla anche piantare, ma puntualmente i suoi buoni propositi andavano a farsi benedire.

Erano usciti, in pieno inverno e con tanto di neve, con quel tempo che ti fa venire voglia di fare tutto tranne che di mettere il naso fuori dalla porta.

Giotto camminava silenziosamente al suo fianco, com'erano soliti fare tempo addietro quando il gruppo di vigilanza non era ancora nemmeno vagamente nei loro pensieri.

Avevano percorso la strada a quel modo da quando erano usciti, ad eccezione di qualche commento di Giotto sulla presenza della neve, e qualche risposta di poco rilievo da parte di G.

Erano quindi andati in un locale come ce ne erano tanti, mezzo vuoto per motivi ovvi quali il tempo da lupi, e si erano accomodati ad un tavolo anonimo; avevano ordinato semplicemente del the, per entrambi.

Giotto si era concentrato, fino all'arrivo delle loro ordinazioni, su discussioni di poco conto: pensava principalmente a cosa poter regalare ai suoi Guardiani con l'avvicinarsi del Natale – che il suo Boss avesse di questi pensieri non era una novità, senza considerare che il suo attaccamento alla Famiglia lo portava naturalmente ad occuparsi di cose simili.

E G non aveva avuto cuore di fargli notare che qualsiasi regalo avesse fatto gli unici ad accettarlo decentemente sarebbero stati Knuckle, lui e Asari – quest'ultimo era effettivamente il più dotato di qualcosa simile all'educazione.

Per il resto, era quasi ovvio che Lampo avrebbe comunque avuto qualcosa da ridire viziato com'era – solo Giotto poteva trovarlo infantilmente divertente, come lo definiva lui. G non avrebbe mai capito: lui quando Lampo apriva bocca aveva semplicemente voglia di affondargli una mano fra i capelli sulla nuca e fargli colpire ripetutamente il tavolo o il muro con la fronte. Possibilmente fino a causare uno svenimento, così taceva per un po'.

E non voleva essere nemmeno così infame da far notare a Giotto che no, Alaude non era una persona capace di pronunciare parole di commozione per un regalo e che – gli si fosse incenerito l'arco se non era vero – Daemon era un povero cerebroleso che non avrebbe fatto altro che sottolineare quanto il regalo fosse “inadatto”, “infantile”, “inappropriato” e simili. Ma anche aggettivi che non iniziavano per “i” sarebbero stati utilizzati con la stessa delicatezza che poteva avere lui quando imprecava.

E no, G era consapevole di non essere affatto delicato in quei frangenti.

«...non la trovi una buona idea, vero?» fu distratto dalle sue elucubrazioni mentali dalla voce di Giotto, che lo osservava nonostante la mano fosse impegnata a girare il the appena zuccherato con il cucchiaino.

G sospirò, l'espressione a metà fra l'imbronciato e lo scorbutico che in casi come quello assumeva.

«No, stavo solo dicendo a me stesso di non infrangere i tuoi sogni natalizi in cui noi Guardiani facciamo l'equivalente di un presepe vivente.» lo sfotté, ma bonariamente.

Tant'è che l'altro ridacchiò: «Come sei pessimista, G.» lo canzonò a sua volta «Ti vedrei perfettamente come mulo. Tanto sbuffi sempre di tuo. Tu il mulo e Alaude il bue?»

«Mi stai dando dell'asino, mio amato Boss?» commentò ironico, suscitando un sorriso divertito nel biondo.

«No, commentavo con ammirazione le tue doti interpretative. Potrei prendere sul serio questa proposta del presepe vivente.» aggiunse, guadagnandosi un'occhiata allucinata di G.

«...Accetterò di fare una cosa del genere quando Daemon accetterà di fare la parte dell'angelo dell'Annunciazione. Il che è presumibilmente fra almeno venti delle mie teoriche vite future.» concluse, esclissandosi nella sua tazza di the mentre Giotto faticava a non ridere di gusto – avrebbe riso chiunque ad immaginare Daemon Spade in quelle vesti.

Ci fu un silenzio fra i due che durò qualche minuto, in cui entrambi si limitarono a bere il proprio the.

Fu G ad interromperlo questa volta.

«Tu cosa vuoi?» se ne uscì senza un apparente filo logico, che probabilmente anche Giotto non riuscì ad individuare.

«Cosa?»

«Per Natale. Se mi fai un regalo, si suppone ne faccia io uno a te.» gli fece notare, sottolineando l'ovvio.

Giotto sorrise, ma quell'incurvarsi di labbra risultò a G familiare e sconosciuto al tempo stesso; era un tipo di espressione che non ricordava di aver mai scorto sul visto dell'altro.

«Posso chiedere qualsiasi cosa, G?» domandò, quasi infantilmente forse. Tuttavia G non se ne stupì in questo caso: di Giotto conosceva molti lati, forse tutti – o pochi meno – e altrettanti ne amava, sebbene non stesse a dirlo ogni minuto della giornata.

«Qualsiasi cosa.» affermò, correggendosi subito dopo: «Purché non sia diventare il migliore amico di alcuni soggetti di nostra comune conoscenza. Voglio farti un regalo, sì, ma per i miracoli natalizi non sono io l'addetto a compierli.» gli fece notare, sarcastico, ma fondamentalmente serio.

Ci aveva provato – con un Guardiano della Nebbia a caso – ma era stato evidente che proprio non poteva funzionare. Non senza lui che cercava di spaccargli la faccia, almeno.

Giotto ridacchiò, spostando lo sguardo fuori dalla finestra vicino alla quale sedevano: il gomito poggiato sul tavolo e la mano a fare da sostegno al volto, si prese qualche istante per pensarci.

«Andiamo via.» fu la risposta, che certamente nemmeno G poteva aspettarsi.

«...Andiamo via?» ripeté infatti.

«Sì.» riprese Giotto senza spostare lo sguardo dalla neve fuori: «Andiamo da qualche parte. Va bene un posto qualsiasi, ma un giorno andiamoci senza avvisare nessuno. Io e te, G. Magari quando possiamo allontanarci dalla Famiglia, mh?» chiarì il biondo, lasciando G ancora più perplesso.

Non era da Giotto provare il desiderio di lasciarsi la Famiglia alle spalle o il volersi allontanare da essa. Né, tanto meno, di fare qualcosa in segretezza degli altri Guardiani.

Fu per G istintivo allungare la mano e andare a sfiorare quella di Giotto, un po' perché quel contatto in quel momento gli sembrava necessario, un po' per attirarne l'attenzione su di sé.

Gli rivolse un'espressione seria e sincera: non la preoccupazione data dal suo ruolo di Guardiano, ma da quella di G per Giotto, di un amico per un amico, e di un amante per la persona amata.

«Sei strano da quando sono arrivato in ufficio. Cosa c'è che non va?» chiese, diretto ma non brusco come suo solito.

Giotto sorrise, ma G lo riconobbe, differentemente da prima: quello era il sorriso di quando il Boss dissimulava, e fingeva che fosse tutto perfetto – in un mondo in cui si uccideva un po' per non essere uccisi, un po' perché era l'unico modo errato con cui avevano deciso di vivere. Un mondo con cui Giotto non aveva a che fare, ma che si era plasmato addosso alla perfezione.

Se per un lato di crudeltà che nessuno avrebbe mai sospettato, o se per non permettere a quella stessa crudeltà di consumarlo fin dentro l'anima, questo G non lo aveva ancora chiaro.

«Cosa c'è, non posso voler passare del tempo con te senza che ci sia dietro un motivo così serio da preoccupare il mio braccio destro?» chiese con dolcezza, come a smentire le sue preoccupazioni.

G capì che Giotto stava mentendo.

E quando Giotto mentiva, nulla di quel che avrebbe detto gli avrebbe fatto pronunciare la verità.

Sospirò, spostando lo sguardo fuori.

«Chissà. Magari per Natale ti svegli nella stanza di un albergo che non conosci perché ti ho rapito e portato via durante la notte.» cambiò completamente discorso il Guardiano della Tempesta.

Non era un tacito accordo nel mentirsi.

Era solo un modo di proteggersi a vicenda.

E a vicenda, inconsapevolmente, si ferivano.

 

G aveva sempre avuto problemi a rapportarsi con alcuni dei Guardiani: questo non significava che ci fosse necessariamente odio fra loro, semplicemente avevano sempre avuto caratteri diversi e spesso con alcuni era entrato in conflitto.

Lampo era stato uno di quei casi; sebbene in fondo l'uno rispettasse l'altro nel ruolo che aveva, guardarli discutere era sempre stato come vedere due fratelli litigare sulle cose più stupide e prive d'importanza.

È il più giovane, gli aveva sempre ripetuto Giotto.

Come se Giotto non lo fosse, giovane. Come se tutti loro non fossero stati dei ragazzini quando avevano iniziato tutto quello.

«Come va?» sentì chiedere, il tono pacato di Asari che aveva riempito il silenzio della stanza.

G non si voltò, lo sguardo verso la finestra; seduto sul divanetto nell'ufficio che era stato di Giotto, nella penombra, non dava neanche segno di aver sentito l'altro entrare.

Asari avanzò comunque in sua direzione, fino a raggiungerlo: «Il viso, intendo.» aggiunse.

Era stata una scena a dir poco surreale, vedere Lampo alzare le mani su G per picchiarlo in pieno volto – sporcandosi le suddette mani, tra le altre cose – e riuscirvi senza che il Guardiano della Tempesta muovesse un solo dito per impedirglielo.

«Lampo è un ragazzino, ed era solo un pugno.» commentò di rimando, il tono piatto e alto quanto bastava a farsi sentire dal compagno. Asari sospirò impercettibilmente, lo sguardo sull'altro che non gli rivolgeva il proprio.

Si sedette al suo fianco, senza chiedergli il permesso, guardando di fronte a sé anziché fuori dalla finestra come G: «Ci sono cose che lui non potrà mai vedere tramite i tuoi occhi, G.» gli fece notare, con la pacatezza che era tipica di lui persino in situazioni simili.

Eppure lo sapeva, G, che Asari era così; sembrava che nemmeno la tempesta più grande potesse smuoverlo, ma dentro era come tutti loro.

Lentamente, si lasciava scivolare giù.

Solo, più silenziosamente degli altri.

«Nessuno gli ha chiesto di vedere nulla.» ribatté aspro, nonostante il tono di voce non si alzasse.

«Ma Lampo ha comunque visto qualcosa che lo ha smosso. E lo ha visto nel giorno del funerale della persona che per lui è stata amico, fratello e quasi una guida, oltre che un Boss da seguire.» gli fece presente, con gentilezza.

G parlava a bassa voce, quanto necessario per districare le parole da un rumore qualsiasi che potesse renderle incomprensibili, e agli occhi di Asari significava solo che il Guardiano della Tempesta stava per spezzarsi prima di tutti loro.

 

 

«...Perché me lo stai raccontando?» domandò Hayato, confuso, lo sguardo chiaro sul suo predecessore.

G aveva parlato senza mai essere interrotto dal più giovane, raccontando di un passato lontano a tal punto che Hayato non poteva provare a fare nulla più che immaginarlo.

Alzò lo sguardo sul giovane italiano, tacendo qualche istante prima di dargli una risposta: «Arriverà il momento in cui non sarai più in grado di essere il suo braccio destro.» sentenziò forse brusco, forse crudo.

Hayato non era fatto per cose come quella: lui non era fatto per sentirsi sbriciolare di nuovo il mondo sotto i piedi senza reagire male a parole come quelle.

«Non dire stronzate! Ho giurato di rimanere al fianco del Decimo per il resto della mia vita, e se mi stai raccontando questa storiella per spaventarmi e mettermi alla prova di nuovo, allora stai perdendo tempo!» sbraitò Hayato, senza trovare reazione nell'altro. Incrociò le braccia al petto, con fare seccato e saccente insieme.

«Tch, non confondere i tuoi fallimenti con quelli degli altri, sparando sentenze su cose che non– »

Fu interrotto, la mano di G che aveva colpito la sua spalla all'improvviso, portandovi dietro il peso del corpo e costringendo l'altro – preso di sorpresa – a sbilanciarsi indietro.

Gokudera strinse gli occhi in una smorfia dolorante, la testa che nel movimento aveva urtato il bracciolo del divano su cui sedevano. Quando li riaprì, il suo sguardo trovò per primo G e l'espressione che aveva.

Hayato tacque, non riuscendo a distogliere l'attenzione da lui, riconoscendo con un fastidio misto quasi ad un senso di paura celato da qualche parte, quella stessa espressione che per lungo tempo lui stesso aveva avuto.

La sensazione di non appartenere più a nessun luogo, il senso di colpa per qualcosa che non avrebbe comunque potuto influenzare anche volendo, e il dolore di una perdita.

«Non parlare di cose che non capisci.» gli ringhiò contro: «Le parole di Asari non erano sbagliate... la reazione di Lampo non era sbagliata. Ma lasciare il posto al suo fianco lo è stato. So che lo è stato. Ma un braccio destro che lascia che il Boss venga ucciso, con quale diritto rimane al suo fianco a quel modo?» sibilò, il tono intriso di frustrazione.

«Dovrai crescere anche tu. Arriverà un momento in cui non potrai più permetterti di credere che nella Mafia va sempre tutto bene, o che ci sarà il lieto fine come nelle favole moccioso. Le favole non esistono, prima lo impari e meglio sarà. Perché il Decimo ha ereditato dal Primo una delle cose peggiori che potesse prendere.» pronunciò, allontanando infine la mano da lui.

Gokudera aggrottò le sopracciglia in un'espressione irritata; benché ci fosse qualcosa che gli impediva di aggredirlo come sarebbe stato tipico di lui – la sensazione che ci fosse qualcosa di vero, qualcosa che a lui ancora sfuggiva e che faceva paura proprio perché scivolava via senza lasciarsi intravedere – non avrebbe permesso comunque commenti irrispettosi sul Decimo. Non lo aveva mai fatto, dopotutto.

«Non conosci nemmeno il Decimo, e piantala di parlarne per mettermi ansia.» gli ringhiò contro di rimando, spazientendo G definitivamente.

Le labbra del Guardiano della Prima Generazione si incurvarono in un sorriso di scherno, di quelli che a Gokudera ricordavano l'espressione di chi sta deridendo una vittima che sta per uccidere.

«Sawada Tsunayoshi è esattamente come Giotto Vongola è stato al suo tempo. Qualcuno troppo buono per iniziare anche solo a rapportarsi con quel mondo che era per tutti, tranne che per lui. Se l'è cucito addosso perché non aveva scelta, perché “doveva essere lui”. Portava sulle spalle il peso di un'intera Famiglia e ha continuato a farlo lasciandosi piegare prima, e schiacciare poi. Giotto aveva fiducia in tutti, ma non abbastanza per ammettere con qualcuno di noi che non ce la faceva più. Fino all'ultimo ha sorriso come se tutto andasse bene, come se il giorno dopo fosse una cosa scontata e alla fine un giorno dopo non c'è stato affatto! Non è così, il tuo Decimo? Non è così che fa anche lui? Rimprovera tutti voi di non tenere alle vostre vite, e poi lui mette in gioco la sua continuamente. Parla di voler proteggere tutti, ma in quel “tutti” è compreso anche lui? Qualcuno glielo ha mai chiesto?» chiese, aspro, lo sguardo su di lui.

A Gokudera sembrò che G non stesse accusando loro, ma se stesso e chi con lui era implicato in qualcosa che il più giovane poteva solo immaginare.

L'immagine di Giotto, che aveva intravisto quando quelle prove per la successione erano cominciate, si sovrappose a quella del Decimo stesso.

Lui che lo aveva spronato a non gettare via la sua vita, che si era addossato la colpa di aver mostrato quel futuro inadatto a molti di loro nonostante non fosse colpa sua, che aveva detto di voler combattere per proteggere le persone importanti.

Se lo chiese, se il Decimo si considerasse importante per se stesso e si rispose che era ovvio, non si sarebbe mai lasciato morire.

Ma mentre lo pensava, G non riusciva a guardarlo, né riusciva a rendere quel suo pensiero una risposta sincera.

Intimamente... non ci credeva neanche lui, forse.

 

Aveva reputato inutile riunirsi attorno ad una bara.

Giotto aveva scelto di morire.

Lui non aveva saputo fermarlo, né accorgesene quando avrebbe dovuto.

 

Tornavano indietro, di nuovo sotto la neve.

«Vorrei che lo facessi in inverno.» disse Giotto.

«Mh? Cosa?» domandò alzando lo sguardo su di lui, la mano che non lasciava la sua, nascosta agli sguardi da stoffa e guanti.

«Rapirmi durante la notte senza dire nulla a nessuno. Lo hai promesso, no? Che un giorno mi porterai via.»

«...Vuoi andare via?»

«A volte penso di sì.»

 

Che senso aveva,

blaterare cose sull'essere il suo braccio destro?

Era stato un fallimento.

Era stato uno strazio che non trovava fine.

 

«Vado a tranquillizzare gli altri.» mormorò Asari, alzandosi per uscire da quell'ufficio che sarebbe rimasto vuoto, ad eccezione di G.

«Tranquillizzarli?»

«Sono preoccupati per te.»

«Me lo fai un favore, Asari?» chiese con tono stanco, lo sguardo che dalla finestra e dalla neve fuori di essa non si era mai spostato.

«Cosa, G?»

«Lasciatemi morire in pace un altro po'.»

 

I Guardiani del Primo Boss dei Vongola,

porgono il loro ultimo saluto.

Alla destra di una bara fredda, nessuno piange.

Il Guardiano della Tempesta, è accanto al Boss.

Alla sua sinistra.

   
 
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