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Autore: KikiWhiteFly    31/12/2010    13 recensioni
[AkitoSana; Sana centric principalmente]
«Ricordati che... Los Angeles è vicina. Vicina... vicina.»
Mi costrinsi a non piangere, strizzai gli occhi con tutta la forza che possedevo. L'aveva detto in modo incerto, trapelava un po' di insicurezza nella sua voce. Più ripeteva quella supplica sottovoce, tanto più sembrava crederci, così decisi di adottare quel metodo anch'io. E ci ritrovammo a parlare sottovoce, per infinitesimali secondi, forse quella era l'unica parola sensata da dire in quel momento.
«Se lo ripeto, funziona davvero.»
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Sana Kurata/Rossana Smith
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bene, signori.

Vi dico subito che tengo molto a questa storia, ma non aspettatevi grandi slanci amorosi o romanticherie del genere. Quello che narrerò sarà l'amore... a distanza. Sì, perché mi sono sempre chiesta che cosa abbia fatto, cosa abbia provato e quante volte si sia abbattuta o meno la nostra Sana Kurata dopo aver visto il suo Akito partire.
Voi non ve lo siete mai chiesto?

Certo, nel manga si vedono qua e là cosa hanno fatto i due in quei tre anni ma il tutto è narrato molto velocemente e, per un'amante delle introspezioni come me, questo non è abbastanza. Quindi, la domanda che mi sono posta è stata: come si è sentita Sana dalla partenza di Akito in poi? <3.

Or bene, signori e signore, questa fan fiction comprenderà un periodo dell'adolescenza di Sana compreso tra i tredici ed i sedici anni (se non vado errata, i due sono stati separati per ben tre anni – e mica cavoletti, eh ò.ò).

Ringrazio in anticipo chi mi seguirà, vi dico subito che questa sarà una long fic non più lunga di quindici capitoli.

P.S.: risponderò alle vostre recensioni tramite il nuovo servizio di EFP <3.


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È già ieri, è quasi domani.






I.



«Se lo ripeto, funziona davvero»







Mi guardo attorno disorientata, sembra che tu sia partito veramente; certo, lo so che la scelta è stata necessaria, capisco anche le ragioni che ti hanno spinto a prenderla ed io stessa ti ho chiesto di andare. È che una piccola speranza la covo ancora nel profondo – magari potresti decidere di scendere dall'aeroporto e gettarti con uno slancio poco coordinato tra le mie braccia, proprio come in un film americano –, ma questa è solo la fantasia di una ragazzina che ha smarrito per un attimo la ragione.

Mi precipito verso le immense vetrate dalle quali solitamente gli aerei decollano; i mormorii degli altri li lascio indietro, in questo momento ho bisogno di dirti arrivederci – perché sarà un arrivederci, vero? –, non ci disturberà nessuno.

E così mi trovo con le mani incollate ai vetri, a sperare che anche tu faccia la stessa cosa da lontano; non voglio piangere, ti ho promesso che non l'avrei fatto.

Il motto era “sorridi”, giusto?


Il volo per Los Angeles è in partenza.


Una voce fastidiosa mi entra nei timpani, sembra quasi l'eco della coscienza. Anche da questa distanza posso udire il rumore delle eliche, i segnali acustici, una seconda voce fastidiosa che ripete lo stesso messaggio – sta succedendo veramente, ripeto a me stessa –; chiudo gli occhi, poi tutto accade in un attimo. Le mie mani, quasi per empatia, si staccano dal vetro e l'aereo si libra su, più in alto degli uccelli, più elevato di qualsiasi montagna... Lassù, per arrivare in un altro mondo, per incontrare un altro destino.

E quando apro gli occhi quello strano gioco di luci, segnali e suoni è terminato.

È terminato, sì.

Le piante dei piedi rimangono incollate al pavimento, è solo la parte superiore del busto a muoversi; non credo che saresti fiero di me: riaprendo gli occhi mi sono accorta che qualcosa di salato mi ha bagnato le labbra.

Sospiro, tra poco troverò il coraggio di voltarmi e sorridere – ho bisogno ancora di un attimo di panico, giusto il tempo che Rei e gli altri mi trovino.




La sera prima eravamo racchiusi in uno spicchio lunare – scopriva solo le nostre figure, il resto era nascosto nell'ombra –, era superfluo parlare. Sapevamo che semmai avessimo tirato in ballo l'argomento Los Angeles uno dei due ne sarebbe uscito ferito e, a giudicare dalle recenti vicissitudini, io sarei stata la più debole.

Ho tenuto la tua mano nella mia, tutto il tempo necessario. Avevo l'impressione che mi sarebbe mancato quel calore, sentivo che dovevo guardarti bene, rimanere ancora paralizzata da quegli occhi color miele, perdere il respiro se mi avvicinavo più del dovuto e...

«Non pensare.»

Mi sussurrasti, con un fil di voce – per quale motivo sai sempre cosa penso, eh?

«Questa è la tua politica, Hayama?»

Ridacchiai, voltandomi a guardare l'ultimo quarto di luna.

«E' insistente questa luna.»

Dissi alla fine, sospirando un po' affranta.

«Mai quanto te.»

Mi voltai verso di lui, certo che sapeva davvero come spezzare l'atmosfera. Dopotutto, non mi aspettavo una frase da romanzo rosa ma... niente, alla fine l'avevo già perdonato. Quello era il suo modo di farmi sentire speciale, quello era l'Akito Hayama di cui mi ero follemente innamorata.

Alla fine, restammo faccia a faccia – ad una spanna dal volto – per interminabili minuti, il tempo però non mi sembrò mai passare così velocemente. Era il tempo che avrei voluto allungare, fare in modo che tutto fosse rimandato, escogitare una mossa oppure una strategia per ricordarci ancora, per rivedere ogni tratto e inscatolarlo nella memoria.

Poi qualcosa ci destò, forse una lucciola oppure la presa di coscienza del fatto che era davvero tardi e l'indomani sarebbe stata una giornata lunga.

Mia madre ci chiamò, lo fece con un fil di voce poiché evidentemente aveva intuito l'atmosfera tesa che si era creata – non stavamo respirando anidride carbonica bensì parole, sospiri, attimi di smarrimento.

Fu un attimo: le mani di Akito lasciarono le mie, così un pezzo di me se ne andò insieme a lui. Mi lanciai contro di lui quasi istintivamente, poi ricordai che quello stesso pezzo lui ce l'aveva indosso – sui vestiti, sulla pelle e... nel cuore, forse?

Ritornò per un attimo sui suoi passi, sillabò velocemente qualcosa di incomprensibile e poi mi avvicinò a lui; fu un gesto dettato dall'istinto, i miei capelli si erano ritrovati sul suo petto senza che me ne rendessi conto.

«Ricordati che... Los Angeles è vicina. Vicina... vicina

Mi costrinsi a non piangere, strizzai gli occhi con tutta la forza che possedevo. L'aveva detto in modo incerto, trapelava un po' di insicurezza nella sua voce. Più ripeteva quella supplica sottovoce, tanto più sembrava crederci, così decisi di adottare quel metodo anch'io.

E ci ritrovammo a parlare sottovoce, per infinitesimali secondi, forse quella era l'unica parola sensata da dire in quel momento.

«Se lo ripeto, funziona davvero.»






Lascio la debolezza da parte, stringo le nocche con vigore e dirigo lo sguardo verso l'alto.

Dobbiamo trovare sempre un punto d'appoggio ma, allo stesso tempo, imparare a guardare oltre; detto così non sembra tanto difficile no, Hayama?


«Sana, che fine avevi fatto? Ti abbiamo cercato ovunque!»

Borbotta Rei spazientito, sempre troppo premuroso. Fuka e gli altri si avvicinano a me, chiedono se tutto va bene, anche loro un po' ansiosi.

«Che ne dite di mangiare? Il mio stomaco sta brontolando...»

«Sempre la solita, Sana!»

Fuka mi rimbecca, poi mi prende sottobraccio.

Ora ci separa solo qualche miglia di troppo, Hayama... Cerco ancora di non pensarci ma quel giorno, al ristorante, ho ordinato un hamburger – volevo sentirti vicino a me... se lo ripeto, funziona davvero.





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