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Autore: Trick    11/02/2011    9 recensioni
"Pareva essere una sorta di buffa maledizione – o di un sarcastico scherzo del destino, magari – ma ogniqualvolta decidevano di allargare la famiglia con un bel gatto o con un Kneazle, ecco spuntare un altro figlio".
Per tutti coloro che non hanno ancora capito che la loro coppia preferita č inspiegabilmente deceduta e continuano a chiedersi:
«Cosa sarebbe successo se avessi acquistato un'edizione del libro in cui Remus e Tonks sopravvivono e si trasferiscono nel Derbyshire?».
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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Note dell'Autrice – sempre discutibilmente utili:
Non abituatevi al fatto che aggiornerò sempre a distanza di... uhm, quanto? Uno, due giorni? Ecco, per l'appunto. Ho deciso di postare oggi solo perché: a) il primo capitolo era già pronto da quando ho scritto il prologo; b) non riesco a dormire e mi annoio – stupida caffeinomania; c) basta. È stato il mio dito a cliccare da solo.
Come vi avevo accennato – non l'ho fatto? Uhm, beh, non so che farci, mi spiace – in questo capitolo compaiono i prodi eredi di Remus e Tonks, di cui uno è nato con tre occhi, una con l'alluce al posto del naso e l'altra con il superpotere di lanciare raggi gamma dalle orecchie.
...nessuno di voi mi ha preso sul serio, vero? Se tu che stai leggendo mi hai preso sul serio, sappi che potresti avere qualche problema di tipo riflessivo-cognitivo. :)
No, okay. Seriamente. Questo è il primo capitolo di una long-fic che, confesso, non so esattamente dove mi porterà. Poco professionale, voi dite? Chissenefrega, vi ripeto che ho bisogno di fluffosità – e il primo che allude al fatto che presto sarà San Valentino verrà mutilato via fax, poiché la sottoscritta odia candidamente San Valentino.
Le uniche note veramente utili (ma in realtà non lo sono affatto) che devo sottolineare sono: a) la filastrocca finale, che io sappia, è un made in mia nonna, ma tradotta in italiano da un ben più volgare e barbaro dialetto; b) tutti i nomi di Creature Magiche che compaiono sono stati spudoratamente letti sulla sempre fedele Wiki; c) i personaggi e i luoghi di questa fan fiction non appartengono a me, ma a J.K. Rowling – cosa che sapete perfettamente e che... no, un attimo. Tre di questi personaggi mi appartengono eccome, invece. Oh, chissenefrega. Piantatela di leggere le mie note inutili, così la mia incurabile logorrea può lasciarvi al capitolo.
Buona lettura, baldo popolo di Efp! :)
*

La Casa Stornella

Capitolo Uno

Ninna Nanna

 

Remus non ricordava da quanto tempo non rincasasse a quella tarda ora della sera – anni, probabilmente. Quando si Smaterializzò nel cortile di Casa Stornella, il suo orologio da taschino segnava le nove e quarantacinque minuti. Non si concesse neppure il tempo di lisciare il risvolto del lungo soprabito nero che indossava: era un'abitudine che aveva sempre avuto dacché aveva superato l'Esame per la Materializzazione. Salì con urgenza i gradini di pietra e sfiorò con un polpastrello il battente a forma di volpe. Pochi istanti dopo, questa aprì pigramente un occhio e fece un grande sbadiglio.
«Bentornato, professore...» biascicò appena, con la voce gracchiante un po' impastata.
Si udì un secco rumore metallico, prima che la porta s'aprisse sull'ampio salone di ingresso.
Se l'esterno di Casa Stornella si presentava come una confortevole e tradizionale dimora inglese, l'interno era indiscutibilmente una confortevole e tradizionale dimora magica.
Mentre l'attaccapanni si piegava su se stesso per aiutarlo a sfilare il soprabito dalle spalle, Remus allungò il collo verso la porta della cucina, da cui arrivava il sordo fruscio delle stoviglie che si lavavano e delle ramazze che spazzavano il pavimento.
«Mastro Lupin, ardito e nobile signore! Indomito condottiero di mille e mille sventure!» eruppe una voce da un quadro alla sua destra. «Mi pare siate in ritardo, quest'oggi: cosa vi ha trattenuto lungo la travagliata via del ritorno? Troll? Orchi? Draghi?».
«Magari si fosse trattato di un Drago, Sir Cadogan» scherzò con tono gentile Remus. «Riunione del Consiglio Scolastico nell'Ufficio della Preside McGranitt».
Il vecchio cavaliere dipinto fece una smorfia di disgusto.
«Per la buon anima del mio Crinedoro, qui... quella strega v'ha realmente trattenuto fino a questa tarda ora?».
«Sì, a breve le intenterò sicuramente causa presso il Ministero. Avete visto mia moglie?».
«Naturale, Mastro Lupin! Naturale! I miei occhi sono occhi di falco! Le mie braccia sono braccia di orso! Il mio cuore è cuore di Dra--».
«E le mie orecchie sono davvero stanche, temo» lo prese bonariamente in giro. «Dov'è mia moglie, Sir Cadogan?».
«Ha detto di doversi ristorare nelle stanze da bagno, vista l'immane tortura che oggi s'è rivelata essere addormentare i vostri bambini. Mi sono apparsi assai troppo vivaci, sì. E la vostra più piccola, quella canaglia, ha tentato di disegnarmi un grosso paio di baffi, Mastro Lupin! Proprio qui, sotto il mio eroico naso! È tutto il giorno che se ne va in giro a fare dei danni! Oh, povera, povera la vostra dolce moglie! Una così delicata creatura costretta a inseguire un demonio per ogni dove della casa».
«Che Godric mi aiuti ad accasarla in fretta...» mormorò Remus, passandosi una mano sul viso con aria esasperata. «Vedrò di fare due chiacchiere con lei, Sir Cadogan. Credo di poterla convincere a non recarvi disturbo... o di farlo a giorni alterni, perlomeno».
Si avviò velocemente verso la larga scalinata che portava al piano superiore, fingendo di non sentire l'aulico brontolare del quadro per non essere nuovamente bloccato dalle sue folli fantasie e dai suoi sconsiderati consigli. Talvolta, si chiedeva cosa gli fosse passato per la testa per portare Sir Cadogan a casa sua. Sapeva solo che quando aveva scoperto che il poveretto era stato portato in un vecchio ripostiglio del quarto piano di Hogwarts, solo e dimenticato, aveva avvertito il dovere morale di aiutare quel quadro squilibrato. Fortuna che sua moglie fosse squilibrata quanto lui e Sir Cadogan, o quello sarebbe affondato nel fiume con tutta la sua cornice dorata – e Remus con lui per aver avanzato l'insana proposta di appenderlo nell'ingresso, probabilmente.
Sebbene fosse molto allettato dall'idea di immergersi in una vasca bollente al più presto, Remus avvertì il bisogno di controllare che tutti e quattro i suoi figli stessero effettivamente dormendo. Non si sarebbe affatto stupito se gli avesse trovati tutti nascosti sotto le coperte in una delle loro stanze, illuminati solo dalla torcia a pile che Arthur aveva loro regalato. Due mattine prima, lui e Tonks li avevano trovati addormentati sul pavimento di legno della stanza di Teddy e Alastor, ingarbugliati gli uni con le altre e con un grossissimo libro di leggende irlandesi aperto lì accanto.
Quatto quatto, si avvicinò alla cameretta delle bambine, abbassò con estrema delicatezza la maniglia d'ottone e aprì la porta di qualche centimetro. La luce s'insinuò nella stanza buia, illuminando un piedino scoperto. Remus sorrise ed entrò con cautela, avanzando in punta di piedi verso il lettino di Andromeda. Prestando attenzione ad ogni movimento, afferrò il bordo della trapunta turchese e le rimboccò amorevolmente le coperte. Andromeda emise un incomprensibile borbottio e Remus alzò il capo per guardarla in viso.
Come Alastor, Andromeda aveva ereditato i capelli chiari del padre, ma, al contrario, non possedeva niente del buffo contegno assennato del fratello. Era una bambina dall'indole calma, dallo spirito generoso e dall'innocente ingenuità: fra i quattro, era indiscutibilmente la meno capricciosa e la più avvezza alle coccole.
Era anche estremamente timida, tant'è che aveva il vizio di nascondere il volto dagli sguardi degli adulti che cercavano di conversare con lei e di nascondersi dietro alle spalle dei genitori. Sebbene Tonks cercasse di incitarla a parlare, sembrava proprio che in pubblico Andromeda non riuscisse a spiccicare più di qualche stringata formula di cortesia. E dire che in casa, di norma, chiacchierava esattamente quanto gli altri.
Ciò che più di ogni altra cosa aveva sempre destato l'interesse dei loro conoscenti era la limpida tonalità azzurra dei suoi occhi. Quelli di Tonks – quelli naturali, perlomeno – erano scuri e brillanti; quelli di Remus, invece, erano di una calda tonalità ambrata. Quando avevano scoperto che gli occhi di Andromeda sarebbero rimasti celesti, Tonks e sua madre avevano drammaticamente annunciato un ritorno in voga dei geni Black. Remus aveva avuto l'incauto ardimento di domandare loro chi, in quella famiglia di pazzi sconsiderati, avesse posseduto due occhi tanto belli e lucenti. Andromeda Tonks aveva assottigliato pericolosamente le palpebre e aveva sibilato un gelido “Narcissa”.
Remus le aveva liquidate sostenendo quanto fossero irrimediabilmente svitate, perché non c'era proprio nulla – nulla – nei suoi figli che potesse ricondurre ai Black. Quando era nata Minerva, tuttavia, aveva dovuto ricredersi.
I suoi capelli erano dritti come dei fusi, neri e lucenti – e i suoi occhi lo erano altrettanto. A differenza di Tonks, tuttavia, la cui forma conferiva al volto qualcosa di naturalmente simpatico, gli occhi di Minerva erano stretti e allungati, come quelli di un predatore ad un balzo dalla preda.
Dopo qualche mese dalla sua nascita, Andromeda si era dichiarata sconvolta dalla somiglianza che correva fra lei e la defunta Bellatrix Black. Quel paragone aveva fatto infuriare Tonks e la questione era rapidamente degenerata in una violenta discussione fra madre e figlia.
All'età di cinque anni, Minerva era più bassa delle sue coetanee di almeno una spanna. Dominique Weasley, che aveva solo pochi mesi in più di lei, la superava già dell'intera testa. Era così piccola e minuta che tutti quanti, un po' per vezzeggiarla e un po' per divertirsi, l'avevano soprannominata Minima - e pareva proprio che quell'assurdo nomignolo avesse ormai sostituito il suo nome di battesimo. Minima, d'altro canto, di piccolo e minuto aveva solo la corporatura.
Era una bambina particolarmente sveglia e curiosa, dal temperamento impetuoso, testardo e impaziente. Era nata con la lingua lunga e la mente acuta: Remus aveva capito fin da subito che crescere Minima sarebbe stata un'epica crociata. Sembrava avere una visione del mondo in bianco e nero, senza compromessi o vie di mezzo, ed era ostinatamente convinta che ad ogni battaglia persa ne conseguisse un'altra più feroce. Anche il rispetto, nella sua infantile concezione della vita, era fatto di estremi. Nonostante fosse ancora così piccola, sembrava già capace di distinguere le persone a cui concedere la propria attenzione da quelle con le quali non valeva la pena confrontarsi. A differenza dei fratelli e di tutti gli altri bambini, pareva avvertire la differenza di meriti e pregi che differenziava un adulto da un altro e, in base al suo insindacabile giudizio, si comportava di conseguenza.
Il mese prima, durante la cena, Tonks stava raccontando a Remus di aver litigato con l'Auror Dawlish per un affare di carattere burocratico. Teddy stava cercando di nascondere i fagioli in un angolo del piatto, mentre ascoltava Alastor raccontare ad Andromeda la storia – letta in chissà quale enciclopedia della loro biblioteca - di come l'usanza delle forchette fosse arrivata in Gran Bretagna. Minima, seduta accanto alla madre, aveva alzato improvvisamente la testa dalla bistecca che stava sbocconcellando e aveva domandato candidamente:
«L'Auror Dawlish è il signore altissimo e con i capelli cortissimi, mamma? È quello che quando parla tiene tutta la pancia in fuori?».
Tonks aveva interrotto la conversazione con il marito e aveva guardato la figlia con aria di puro divertimento.
«Sì, tesoro, ma non è la pancia. È il petto».
«Sì, Minima» aveva incalzato d'un tratto Teddy, sporgendosi verso la sorellina e annuendo vigorosamente. «Si chiama “petto”, quello dell'Auror Dawlish. Ha un sacco di muscoli, lui! Deve essere fortissimo!».
«Perché?» aveva protestato Andromeda. «Papà non ha i muscoli, ma è fortissimo anche lui. Vero, papà, che tu sei fortissimo?».
«Assolutamente sì» aveva assicurato Remus. «E bada, Ted, che i muscoli non sono sempre indice di forza».
«Come Re Davide e il gigante Golia nei Libri delle Cronache» si era intromesso Alastor.
«Precisamente».
«Ma con te non vale. A te non servono i muscoli, papà. Sei un professore» aveva concluso con ovvietà Teddy. «I professori non hanno mica i muscoli come gli Auror».
Tonks stava per aprire la bocca, quando Minima aveva sentenziato con estrema semplicità:
«L'Auror Dawlish è un idiota».
L'avevano fissata tutti per un lungo istante di silenzio. Era stata Tonks la prima a parlare e la sua voce aveva una nota minacciosa.
«Minima, se ti sento ripetere la parola “idiota”, ti annodo la lingua al palato per i prossimi sei mesi».
«Ma lo è, mamma» aveva ripetuto lei con decisione. «Se ne gira con la pancia in fuori e il naso in su, e dice di essere una persona forte anche quando non serve che lo dica. Quando l'abbiamo visto a Diagon Alley, l'altra volta, aveva attaccato al suo mantello rosso un distintivo uguale a quello che tu porti in tasca. Se lo puliva sempre con la manica e quando girava si vedeva che voleva che tutti lo guardavamo. Io dico che è un idiota».
L'irritazione di Tonks per aver sentito Minima pronunciare la parola “idiota” si era presto trasformata in sbigottita ilarità. La vanità e l'estenuante contegno di Dawlish non era certo un segreto per la comunità magica, ma scoprire che Minima era stata in grado di trarne una descrizione così accurata aveva un che di preoccupantemente comico.
«Ciao, papà».
Remus trasalì impercettibilmente e si voltò verso il letto della sua bambina più piccola.
«Minima» le disse in un sussurro, avvicinandosi con estrema delicatezza e sedendosi sul bordo. «Perché sei ancora sveglia?».
«Non lo so».
«Non lo sai?».
«Non lo so» ripeté con voce convinta Minima. «A te succede di non sapere le cose, papà?».
Remus strinse fra loro le labbra e si massaggiò stancamente l'attaccatura fra le sopracciglia e il naso. Fra le incontrollabili particolarità di Minima, la peggiore era sicuramente la sua capacità di fare sempre domande che finivano per mettere gli adulti in imbarazzante difficoltà.
«Sì, tesoro» le rispose dopo un attimo di riflessione. «È normale non sapere tutto quanto. Ciò che non è normale è non sapere per quale motivo si è svegli... soprattutto quando chi dovrebbe dormire ha già superato da un bel pezzo l'ora della ritirata. Dico bene, signorina?».
«Sì, lo dice pure l'orologio. L'ho sentito fare due cucù, prima».
«Per l'appunto. Povero orologio, mai nessuno in questa casa che gli dia ascolto» scherzò piano Remus, cercando nella penombra il bordo della trapunta per rimboccare le coperte per la seconda volta nel giro di due minuti.
«Dovrebbe arrabbiarsi» aggiunse Minima. «Se ero io, l'orologio, mi arrabbiavo».
«Oh, questo lo so perfettamente» ridacchiò Remus, insaccandola fino al mento e controllando che fosse ben coperta. «A proposito di cose che si arrabbiano... vuoi provare a indovinare chi era molto arrabbiato, quando sono rientrato questa sera?».
Lei scosse vigorosamente il capo.
«No, papà. Non voglio indovinare».
«Beh, temo che dovrò ugualmente dirtelo. Posso sapere cos'hai combinato, oggi, a quel poveretto di Sir Cadogan?».
«Niente» affermò con voce innocente.
«Minima...» la avvisò Remus con un mezzo sorriso.
«Giuro solennemente, papà».
Diviso dal desiderio di ridere e quello di compiere i suoi doveri di genitore, Remus fece un sospiro stremato.
«Sir Cadogan non è dello stesso parere».
«Forse dobbiamo disegnarci un paio di occhiali».
A questa affermazione, Remus dovette appellare tutta la propria volontà per non scoppiare in una fragorosa risata.
«Forse qualcuno dovrebbe smetterla di usarlo come un album da disegno, non ti pare? Cosa faresti se domani mattina ti svegliassi con tutta la faccia scarabocchiata?».
Minima sembrò soppesare mentalmente la questione.
«Butto Teddy nel fiume, perché sicuramente Alastor e Dromeda non sono stati, a scarabocchiarmi la faccia».
«Ne deduco che in questa sporca faccenda c'entri anche Ted. Com'è possibile che voi due andiate d'accordo solo quando si tratta di fare dei pasticci?» mormorò piano Remus, prima di alzarsi dal letto. «Si è fatto davvero tardi, Minima. Se la mamma dovesse scoprire che non ti ho obbligato immediatamente a dormire, mi Trasfigurerebbe in un calzino».
Lei ridacchiò fra le coperte, mentre Remus le baciava appena la fronte liscia. Avviandosi verso la porta, gettò uno sguardo ad Andromeda. Per sua fortuna, era ancora profondamente addormentata. Si fermò sull'uscio e si voltò verso Minima.
«Giuri di metterti subito a dormire?» le domandò con un sorriso affettuoso.
«Solennemente, papà».

*

Nell'istante in cui apriva la porta della stanza dei due figli più grandi, Remus sapeva già che li avrebbe trovati svegli. Aveva appena infilato la testa nella stanza quando aveva sentito un sordo tonfo provenire dal letto più vicino alla finestra. Fece un sospiro rassegnato e accese le luci con un movimento pigro della bacchetta.
Alastor giaceva di schiena ai piedi del proprio letto, con le gambe ingarbugliate nelle lenzuola e gli occhiali storti sul naso. Quando ebbe riconosciuto la figura del padre, si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore e gli rivolse un sorriso innocente.
Remus inarcò un sopracciglio e si voltò verso la trapunta sotto la quale si era nascosto Teddy. A giudicare dal ritmato tremolio, stava ridendo con il viso sepolto nel cuscino. Si avvicinò e gli tolse la coperta tutto d'un colpo. Teddy si girò rapidamente sulla schiena e scoppiò in una risata cristallina.
«Sei cascato da solo!» rise, mentre i capelli si tingevano del colore dei mirtilli. «Sei davvero cascato da solo!».
Alastor fece forza sulle piccole mani, si mise a sedere e si grattò timidamente una guancia, arrossendo appena. Remus lo osservò con espressione interrogativa.
«Non l'ho fatto apposta».
Se c'era qualcosa di cui l'intera comunità magica era totalmente d'accordo, era che il giovane Alastor Lupin era indiscutibilmente figlio di suo padre – e non solo per l'incredibile somiglianza fisica. Aveva compiuto otto anni lo scorso settembre e ne aveva già trascorsi cinque con la testa immersa nei libri. Sembrava avere una particolare predisposizione allo studio ed era dotato di una memoria sconcertante. All'età di sei anni, Remus lo aveva trovato seduto davanti al caminetto della biblioteca, mentre fissava con aria perplessa un vecchio poema gnomico scritto in Rune Antiche. Appoggiato acconto ai suoi piedi, Remus aveva riconosciuto il suo vecchio Compendio per la Lettura Semplificate delle Rune.
Remus si era avvicinato con un mezzo sorriso divertito, si era accomodato sulla proprio poltrona e aveva intrecciato fra loro le dita, in attesa. Fu solo in quel momento che Alastor aveva sollevato il viso dal pesante libro e aveva detto:
«C'è un passaggio che non capisco, papà».
Remus si era trattenuto con forza dal ridere, ma si era limitato a spronarlo silenziosamente con un movimento della mano. Com'era possibile che un bambino di sei anni, per quanto sveglio, potesse capire la sottile arte delle Rune Antiche?
«“Gefinn Óð ni, sjalfur sjalfum mér, à þeim meiði er manngi veit”» aveva recitato a gran voce Alastor, muovendo gli occhi davanti a sé come se stesse leggendo le parole nell'aria. «“Vlð hlefi mik sæ ldu né við hornigi. Ný sta ek niðr, nam ek upp rùnar, æpandi nam, fell ek aftr þaðan”».
Remus era rimasto in silenzio per diversi istanti, sconcertato. Aveva letto talmente tante volte quel poema gnomico da conoscerlo a memoria e sapeva che il figlio, contro ogni più logico giudizio, aveva appena ripetuto alla perfezione l'intera strofa della morte di Odino. Aveva sbattuto un paio di volte le palpebre, cercando una spiegazione a quell'inverosimile comportamento.
«Alastor» gli aveva detto con voce calma. «Come sei riuscito a impararlo a memoria?».
Il bambino lo aveva guardato con aria confusa e aveva alzato le spalle.
«L'ho letto, papà».
«Quante volte?».
«Una sola, prima che entrassi tu».
Quando lo aveva raccontato a Tonks, lei si era particolarmente agitata e aveva insistito per portare Alastor al San Mungo il giorno seguente. Remus non era molto entusiasta all'idea – aveva sempre detestato qualunque genere di ospedale o di infermeria – ed era oltremodo convinto che la reazione della moglie fosse assolutamente esagerata. Alla fine, tuttavia, aveva acconsentito.
Il Medimago specializzato in Magia Infantile, Eliphas Sheehan, aveva ascoltato il resoconto di Remus con grande interesse, lisciandosi pensieroso i lunghi baffi bianchi e annuendo con solenni grugniti. Aveva sottoposto Alastor a qualche quesito di logica, al quale il bambino aveva risposto con vivace acume. Poi, gli aveva fatto leggere una filastrocca lunga una ventina di righe e gli aveva chiesto se fosse in grado di ripetergliela. Alastor si era comportato esattamente come nella biblioteca di Casa Stornella: i suoi occhi sembravano scorrere lungo parole invisibili tracciate a mezz'aria.
Il responso del Mediamago Sheenan fu che Alastor era dotato di una sottile memoria eidetica che gli permetteva di visualizzare nella mente le immagini viste con limpidissima precisione. Aveva aggiunto che molti bambini possedevano quel particolare tipo di memoria e che, di norma, tendevano a perderla con il passare degli anni. Tuttavia, erano ormai trascorsi due anni, da allora, e la memoria di Alastor pareva incrementarsi anziché diminuire.
«Sei arrivato tardissimo, papà» affermò Teddy, gettandosi di pancia sul materasso e appoggiando il mento alle mani. «Dov'eri?».
Remus si avvicinò al letto di Teddy, lo afferrò per una caviglia, lo ribaltò sulla schiena e lo infilò di forza sotto le coperte.
«A Hogwarts per una riunione con il Consiglio. Quei vecchi brontoloni non volevano più tornarsene a casa».
«Dovevate liberare i ragni, allora» sentenziò lui con piglio deciso.
«Ragni? Quali ragni?».
«Non sono ragni, Teddy» lo corresse piano Alastor, rigirandosi nelle coperte. «Sono Acromantule».
«Beh, fa lo stesso. Hanno tante zampe, tanti occhi e tante tenaglie. Quei vecchi che non lasciavano tornare papà a casa sarebbero scappati come dei Fuochi Forsennati!».
«Non si può. Il Ministero della Magia ha inserito le Acromantule fra le Creature Ammazzamaghi».
«E allora devono liberarle anche con quelli del Ministero» ribatté con decisione Teddy. «A me piacciono».
Remus alzò gli occhi al cielo. Se c'era un'abitudine del suo primogenito che lo preoccupava davvero, quella era la sfrenata passione per qualunque cosa potesse essere definita anche solo remotamente imprudente. Non credeva che un bambino di nove anni potesse dimostrare un simile sprezzo del pericolo – lui, perlomeno, non lo aveva mai avuto. Eppure, Teddy era sempre pronto a tuffarsi da improbabili trampolini, a saltare rovinosi ostacoli, a familiarizzare con animali selvatici potenzialmente letali e a proporre ai fratelli più piccoli qualsivoglia genere di gioco rischioso.
L'anno prima, incurante delle più ovvie regole di sopravvivenza, aveva legato il capo di una corda al ramo di un grosso faggio che si ergeva dietro Casa Stornella. Poi, tenendo saldamente stretto l'altro capo, si era arrampicato sulla grondaia, aveva raggiunto il tetto e si era lanciato, convinto che avrebbe dondolato. Invece, si era rotto il polso destro e la gamba sinistra.
Il sesto senso di Remus gli diceva che il Cappello Parlante lo avrebbe Smistato a Grifondoro. Non poteva che essere così: era troppo sconsiderato e irrequieto per una qualsiasi delle altre Case. Non che per Remus fosse motivo di vergogna, naturalmente: era il Direttore di Grifondoro dacché Minerva McGranitt era diventata Preside, ma sospettava che la spontanea irruenza di Ted dovesse ancora raggiungere il culmine. Per allora, Remus prevedeva guai seri.
«Posso tenere un cucciolo di Acromantula, papà?» domandò con innocenza Teddy.
«Non abbiamo già avuto una conversazione simile la settimana scorsa, noi due?» ribatté Remus, costringendolo a infilarsi sotto le coperte.
Alzò la mano destra verso Alastor, schioccò con eloquenza le dita e indicò con decisione il letto. Il ragazzino si sfilò gli occhiali dal naso, li ripiegò con cura, li mise su un grosso libro di fiabe appoggiato al comodino e si gettò addosso le lenzuola.
«Avevamo parlato di un Camuflone, ma hai detto che è troppo grosso e perde un sacco di pelo» continuò Teddy. «Però, papà, lo sai che i draghi peruviani non superano mai i cinque metri di lunghezza?».
«La nostra porta d'ingresso non è abbastanza grande».
«E un Fiammagranchio? Sono piccolissimi, quelli!».
«Sputano fiamme dal posteriore, il che li rende veramente poco signorili».
Teddy soffocò una risatina alla parola “posteriore” e Remus sfruttò la sua distrazione per coprirlo fino al naso e avvicinarsi al letto di Alastor.
«Un Runespoor? Ha tre teste, papà, lo sapevi?» riprese imperterrito Teddy.
«Sì, e nessuna di loro varcherà la soglia di questa casa finché io sarò in vita».
«Un Tebo?».
«Diventerebbe invisibile e qualcuno finirebbe per inciamparvi sopra».
«Allora uno Yeti!».
Mentre rimboccava le coperte di Alastor, Remus si finse pensieroso.
«Quello è perfetto».
«Davvero!?» esclamarono in coro i due bambini.
«Ma, papà, gli Yeti sono creature native del Tibet» recitò Alastor con il tono tranquillo di chi sta leggendo a voce alta. «Possono raggiungere l'altezza massima di quattro metri e mezzo e divorano qualunque creatura incontrino sul loro cammino. La loro voracità è risaputa e temuta, tant'è che nessun Mago o Strega si è mai avvicinato abbastanza per verificare se lo Yeti sia imparentato con i Troll».
Teddy annuì con solenne enfasi.
«Già. Non è fantastico? Avrò uno Yeti tutto mio!».
«Se sarò fortunato, potrebbe mangiarvi tutti» commentò con estrema semplicità Remus. «Così, finalmente, io e vostra madre avremmo un attimo di serenità».
Mentre Teddy iniziava a protestare e Alastor ridacchiava fra le mani, Remus si avvicinò alla porta e spense le luci. Sull'uscio, si voltò per rivolgere ai figli un ultimo sguardo severo.
«Papà?» lo chiamò improvvisamente la voce di Teddy.
«No, Teddy. Non ho realmente intenzione di comprarti uno Yeti».
«Sì, lo avevo capito... volevo chiederti se domani possiamo andare a fare un giro a Diagon Alley».
«Oh, sì!» esclamò la voce entusiasta di Alastor. «Possiamo, papà?».
«Vedremo» disse Remus con un mezzo sorriso. «Prima, voglio sapere da vostra madre quante ne avete combinate, oggi».
«Siamo stati bravissimi, papà» rimbeccò Teddy. «Bravissimissimi».
«Come un branco di Chimere impazzite, di sicuro» concluse con divertito Remus. «Dormite, adesso. È tardissimo. Sogni di burro, sogni di miele...».
«...hanno già spento le candele».
«Sogni di latte, sogni di panna...».
«...chiudi gli occhi e fai la nanna».
Remus fece un movimento compiaciuto del capo.
«Buona notte» mormorò, richiudendo piano la porta della camera.


   
 
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