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di fuoritema
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** O E' solo un gioco ***
Capitolo 2: *** I C'è un tempo per vivere e uno per morire ***
Capitolo 3: *** II Soffice neve macchiata di rosso ***
Capitolo 4: *** III Temi tu la morte? ***
Capitolo 5: *** IV Il destino mescola le carte e noi giochiamo ***
Capitolo 6: *** V Salutaci quella del sei ***
Capitolo 7: *** VI La vita è una partita giocata con la Fortuna, spesso persa. ***
Capitolo 8: *** VII Abbiamo sciolto il nodo ed issato la vela, dimenticato tutti i nostri ricordi ***
Capitolo 9: *** VIII In un mare di neve ***
Capitolo 10: *** IX Nulla avrebbe potuto essere più logico ***
Capitolo 11: *** X Il vento era dolce e profumava di casa ***
Capitolo 12: *** XI Tre volte tentai di cingerle il collo con le braccia, tre volte inutilmente avvinta l'immagine si dileguò ***
Capitolo 13: *** XII If I seem dangerous, would you be scared? ***
Capitolo 14: *** XIII Di domande indiscrete, messaggi in codice e ricordi tornati a galla. ***
Capitolo 15: *** XIV Save our souls ***
Capitolo 16: *** XV It's too cold outside for angels to fly. ***
Capitolo 17: *** XVI.» You're so hypnotizing. Could you be the devil? Could you be an angel? ***



Capitolo 1
*** O E' solo un gioco ***




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PROLOGO: E' SOLO UN GIOCO



 

È solo un gioco,
ma non ci sono vincitori.
Sei un concorrente,
ma non spetta a te muoverti.
E’ così:
da quando sei scelto il tuo destino è già segnato.
Un soldato.
Ecco cosa sei diventato.
O combatti o muori:
ormai la tua sorte non è più tua.
Guardi il cielo mentre la terra si tinge di rosso.
Urli,
ma nessuno ti può sentire.
Piangi,
ma nel gioco è vietato piangere.
Lotti per la tua vita,
proprio come un’animale
E’ solo un gioco,
ma si muore davvero.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




















































NDA (note d'autrice):

Vi dico subito che potrei non reggere allo stress di iniziare una long, andare nel pallone (come dice Gordon Ramsey) e cancellare tutto, senza riserbe. Scappare da EFP o peggio: aggiornare ogni morte di Papa. Ok, come potete vedere il mio positivismo non esiste, già, è un po' deprimente. Nemmeno questo come prologo è un granché: sono preparata ai pomodori ;)
Ho iniziato questa long sulla neve senza un motivo preciso, diciamo che mi ha spronata mia cugina Elisa, e che abbiamo scritto insieme alcuni passaggi. Per il resto saprete tutto nei prossimi capitoli - spero - migliori di questo... Ci sono OC per quesi tutti i distretti e alcuni si possono trovare anche nella mia raccolta "Shadows of dust and Memories" <3

Hope 13
PS: Grazie a te, che hai letto questa ff. Anzi, guai a te anima prava, che provareai a leggere questa long :3

 
 
 

 
 



 

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Capitolo 2
*** I C'è un tempo per vivere e uno per morire ***




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(I)
 C’è un tempo per vivere e uno per morire.
 
 


Le fiamme si espandevano oltre le sue dita.
Sembravano ballare al vento come le ali di una fenice in volo.
Un sorriso rischiarò lo sguardo del ragazzo dai capelli scurissimi. Era riuscito a non scottarsi, per la prima volta, e ne era soddisfatto.
Gli abitanti del nove non si avvicinavano a lui: gli faceva paura. Il fuoco, già di per sé un elemento odiato dai lavoratori del distretto del grano, sembrava essersi fuso con il suo corpo lasciando qua e là cicatrici biancastre; segno del suo continuo esercizio. Su di lui giravano strane leggende. Si diceva che avesse venduto la sua anima a spiriti oscuri, che punisse bruciando la sua casa chiunque osasse infamarlo; ma la gente parlava per parlare e nessuna di quelle voci poteva essere data per certa. Eppure il ragazzo era sempre lì: appariva al tramonto e scompariva con la notte dissolto nel buio. Quasi nessuno conosceva il suo nome, quasi nessuno lo aveva sentito pronunciare una parola.
Viveva ma era come se non vivesse, lavorando il mattino nei campi e allenandosi la sera. Il resto delle sue abitudini era sconosciuto. Così, quando fu chiamato alla Mietitura, anche lui, che ormai si considerava un fantasma del distretto nove, rimase sconcertato.
Non che non se lo aspettasse: chiunque poteva essere scelto, ma il suo nome – Raika - gli era diventato estraneo, dopotutto quando si va a morire far conoscere il proprio nome ai Capitolini non è di grande utilità. Inghiottì le lacrime andando fino al palco, con le braccia bloccate lungo i fianchi e la schiena leggermente curva. Non disse una parola, si limitò a fissare il vuoto con un sorrisino ironico nel viso pallido.
Prima di allora nessuno l’aveva mai visto senza le fiamme che gli avvolgevano il corpo, lambendogli dolcemente i fianchi.
 
 
Ventiquattro pedane erano disposte attorno alla Cornucopia ghiacciata. Ventiquattro ragazzi erano pronti a scattare verso la morte, lottando per la loro vita come dei soldati in battaglia. Erano ancora giovani, ma erano dovuti crescere in fretta. Prima del tempo.
Raika guardò gli altri Tributi strizzando gli occhi per scorgere anche le figure più lontane da lui.
L’ascesa verso l’Arena gli era sembrata interminabile: aveva provato a fermare il vetro con le dita, spingendolo forte sperando che si rompesse, ma non era servito a nulla. Cercò di calmarsi guardandosi attorno e preparandosi per scattare giù dalla pedana. Si trovavano su di un lago coperto da un sottile strato di ghiaccio: strisce di un azzurro molto più scuro andavano verso la Cornucopia sfumando nel bianco del cielo. Soffi di vento gelido si insinuavano nel suo corpo attraverso tutti i buchi possibili facendolo tremare con forza mentre cercava di scorgere le figure degli altri Tributi, coperte dalla nebbia.
Alla sua sinistra il bambino dell’undici tirava su con il naso: doveva essere terrorizzato e non si preoccupava neppure di nasconderlo. Al Gong tutto sarebbe cambiato: sarebbero diventati delle bestie pronte al macello, e pronte ad uccidersi a vicenda. Quel ragazzino era la prova vivente della brutalità di quei giochi, dell’innocenza strappata ad ognuno di loro.
La femmina del suo distretto era totalmente diversa: aveva sofferto molto per sopravvivere e le cicatrici che aveva un po’ su tutto il corpo ne erano la prova. I capelli le arrivavano fino al mento in riccioli scomposti smossi dal vento e nei suoi occhi c’era quella punta di determinazione che faceva pensare che forse quell’anno non avrebbe vinto un Favorito.
Raika sentì uno scoppio provenire da una delle pedane più lontane mentre brandelli colorati volavano per l’Arena, segno che qualcuno si era ucciso prima dello scadere del tempo. Nicole, la sua compagna di distretto.
“E’ inutile che perdi tempo con me. Tanto sono già morta”
Non sapeva se rallegrarsi oppure no, gliel’aveva detto e così era stato. Si era arresa senza combattere. Il ragazzo si maledisse per non averci pensato prima. Forse sarebbe stato meglio così: saltare in aria per le mine, ma ormai non aveva più scelta. Il suono del Gong fu quasi coperto da quello del cannone che scandiva la prima morte del giorno. Raika scattò in avanti afferrando uno zaino e una coperta per poi dirigersi verso i boschi ma fu fermato dalla ragazza del dieci, ancora indecisa sul da farsi. Aveva la tipica faccia bambinesca delle giovani non ancora adulte, gli occhi spalancati dal terrore. Cadde a terra sputando sangue centrata da una freccia alla schiena. Il moro indietreggiò per correre via mentre un ghigno sadico interrompeva i suoi pensieri. La ragazza dell’uno aveva bloccato il maschio dell’otto al muro della Cornucopia e stava alzando la falce pronta a tagliargli la testa di netto. Raika corse via mentre un urlo disumano squarciava la quiete dell’Arena.
Sul ghiaccio ormai il sangue scorreva copioso, i corpi si afflosciavano privi di vita.
 


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Maple, la quattordicenne del sette, tremava sulla pedana.
Aveva paura di morire, di dover uccidere, ma soprattutto di quel timer che scandiva l’inesorabile scorrere del tempo che mancava perché lei diventasse un’assassina a tutti gli effetti.
Guardò suo fratello, il Tributo maschio del suo distretto, e il ragazzo le sorrise, con quel sorriso sbilenco che le rivolgeva spesso mentre lavoravano in pineta, ma scosse la testa nel capire che sua sorella voleva dirigersi verso la Cornucopia. La ragazzina si rimise una ciocca di capelli rossicci dietro all’orecchio come sempre, per calmarsi.
“Non morirò, non morirò” ripeteva come un mantra trattenendo a stento le lacrime.
Era troppo presto per lasciare il mondo, troppo presto per essere costretta a crescere, ma a Panem non era importante. Si guardò attorno con gli occhi azzurri spalancati per la paura vedendo che il ragazzo del due si trovava alla sua destra.
Decisamente letale, specialmente per una bambina della sua età: l’avrebbe potuta uccidere in un attimo, torcendole il collo con una mossa fulminea o trafiggendola con una spada. Non sembrava tanto cattivo ma spesso l’apparenza inganna, e Maple lo sapeva bene.
Puntò uno zainetto vicino alla sua pedana e si preparò a scattare, sperando che la sua velocità bastasse. Sentì uno scoppio ma non se ne curò riuscendo a scivolare giù per prima, sfruttando il suo peso quasi nullo, mentre il suo cuore perdeva un battito. Corse all’impazzata fino agli alberi voltandosi solo per capire se suo fratello Thor era riuscito a prendere l’accetta.
E lo vide trafitto dalla spada del ragazzo del due, quando i suoi occhi perdevano la lucentezza di un tempo e si oscuravano per sempre. Il ragazzo si afflosciò per terra come un burattino a cui si tagliano i fili mentre il sangue macchiava la sua maglietta e il ghiaccio sottostante. Maple indietreggiò andando a nascondersi nel folto della foresta con lo zaino sulle spalle, piangendo. I capelli le sferzavano la faccia e il corpo era scosso da singhiozzi; se lo rivedeva davanti, morto. Avrebbe voluto tornare indietro ma non poteva, non con i Favoriti pronti ad ucciderla appena arrivata. Inghiottì le lacrime chiudendo forte gli occhi sperando di risvegliarsi nella pineta per uno scherzo di suo fratello, ma non era così. Sentiva il cuore martellarle in petto e ad ogni battito il dolore che provava le impediva di deglutire e le stringeva lo stomaco in una morsa.
Quando finalmente fu arrivata abbastanza lontano dal Corno si buttò per terra, come Thor - l’unica differenza era che lei era ancora viva mentre lui no - sicura di non riuscire più ad alzarsi. Lasciò che il freddo della neve la avvolgesse, intorpidendole il corpo, mentre il cannone annunciava i morti nel Bagno di sangue. Pianse ancora più forte nel pensare che tra loro c’era anche suo fratello.
 

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India era scappata quasi all’istante dalla mischia, subito dopo aver preso uno zaino e una sacca piena di coltelli. Era sempre stata abile nella corsa: era una ladra nel suo distretto e la velocità nel suo “lavoro” era importantissima, così fin da piccola aveva imparato a scegliere la strada più giusta per sfuggire ai suoi inseguitori. In realtà le sue vittime non la scoprivano quasi mai, si accorgevano di essere stati derubati dopo tanto tempo dal fatto e non sapevano chi fosse stato. Eppure più volte da piccola era stata costretta a una fuga contro il tempo, con il cuore in gola e la paura di essere presa per la giacca e consegnata ai Pacificatori. Crescendo era cambiato tutto e aveva dovuto prendere in mano le redini della sua famiglia a pezzi, occupandosi spesso e volentieri dei suoi fratelli più piccoli.
La ragazza continuò a correre fino a quando non arrivò al bosco, dove si fermò un attimo per riposarsi e vide un lago. Era ghiacciato solo superficialmente, un passo e la lastra si sarebbe rotta facendo cadere le persone sopra di esso nell’acqua gelida e sicuramente piena di insidie. Sentì dei passi e si nascose dietro le fronde di un albero, prendendo in mano il coltello che portava appeso alla cintura. Una giovane dai capelli chiarissimi si era avvicinata alla lastra per poi scoppiare in una risata. Aveva una faccia furba, un po’ topesca, ma sembrava scaltra e portava uno zainetto sulle spalle ossute. L’aveva vista varie volte agli allenamenti, sempre alla postazione delle piante commestibili e all’arrampicata: non aveva provato neppure una volta a impugnare un’arma ma aveva deciso di cercare di sopravvivere con la conoscenza della natura. L’aveva soprannominata “la volpe del ghiaccio” e aveva avuto ragione nel chiamarla così: sembrava proprio un animale nordico per la leggerezza e bravura nel muoversi sul sottile strato di neve.
India sorrise leggermente pensando che erano molti simili avendo entrambe capito che c’era qualcosa che non andava in quel lago. Non c’era vita: né pesci né alghe. Era avvelenato con una sostanza acida sconosciuta nei distretti, e caderci dentro avrebbe causato lesioni mortali al diretto interessato, oltre che, naturalmente, il congelamento dopo pochi secondi. India rimase immobile guardando fuori da uno spiraglio nel tronco la ragazza, che aveva deciso di allontanarsi da lì. Sentì i suoi passi diventare sempre più deboli e lontani per poi finire del tutto.
Intanto il cannone scandiva sei colpi per i morti nel Bagno di Sangue.

 


Angolino dell’Autrice:
 
Questo capitolo non mi soddisfa per niente in verità: mi sembra un po’ scontato e scialbo, ma comunque è meglio di niente. Ho deciso di iniziare dal “bagno di sangue” perché i preliminari dell’Arena mi annoiano e ho deciso di metterli solo tramite flashback. Allora… per il momento avete solo conosciuto Raika, Maple ed India, tre dei protagonisti(?) della mia long. In realtà sono molti di più e si spartiranno la scena in tutti i capitoli che avranno tra i due e i tre POV, fino a raggiungere le 1600 parole circa; ogni giorno sarà diviso in due capitoli. Se non l’avete capito India è la sorella di Willow che ho citato nella mia solita raccolta. Gli altri due, invece, sono inventati di sana pianta: Maple è di proprietà di mia cugina che ha intensione di scrivere uno spin-off (fan fiction in cui lei e Thor sono fuori dall’Arena) mentre Raika è tutto mio. Ho penato moltissimo per trovare i prestavolti, ma ce l’ho fatta… così vi lascio i nomi e i distretti (soprattutto non molto conosciuti) di cui fanno parte e mi dileguo <3
 
D9 Raika Swift, 16 anni
D7 Maple Bark , 14 anni
D11 India Ellis, 17 anni
 
MORTI NEL “BAGNO DI SANGUE”
 
F5, M7, M8, F9, F10, M12

 
   

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Capitolo 3
*** II Soffice neve macchiata di rosso ***




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(II)
Soffice neve macchiata di rosso.
 
 


L’alba e l'arrivo degli hovercraft aveva portato via quasi tutto il sangue del giorno prima.
Nella calma dell’Arena tutto sembrava fermo. I primi raggi azzurri rischiaravano l’ambiente velando l’aria di una tranquillità irreale.
Mahinete guardava il ghiaccio pensierosa toccando con la punta delle dita quel nuovo elemento e ritirandole subito dopo. Non aveva mai visto la neve né sofferto il freddo: la scelta di ambientare l’Arena in un paesaggio artico aveva certamente diminuito le sue possibilità di vittoria. La ragazzina si mise le mani tra i capelli bianchi cercando di ravvivarli e trovare un passatempo mentre aspettava il sorgere del sole. Aveva provato a dormire ma non ci era riuscita. Sentiva di essere osservata, di essere osservata da occhi di colori innaturali e da persone senza alcuna pietà. Se li vedeva addosso, che la scrutavano e cercavano di capire quando la piccola ragazza del quattro avrebbe deciso di svegliare gli altri e cominciare la caccia mattutina.
Volevano sangue e volevano che la sua coscienza si macchiasse della morte di un qualche Tributo, magari anche più piccolo di lei.
Strinse forte le ginocchia a sé, raggomitolandosi in una posizione quasi fetale, per preservare il suo basso calore corporeo. I suoi occhi si posarono sulla conchiglia che portava appesa al collo, suo unico ricordo di casa. Erano tutti convinti che sarebbe morta a breve: era solo questione di tempo e la ragazza lo sapeva, ma non ne aveva paura. Non era solo una bambina spaventata ma una vera guerriera che, proprio come gli altri, avrebbe fatto di tutto per sopravvivere.
 
«Ehi Frost, già sveglia?» il ragazzo dell’uno la osservava con un ghigno sadico stampato sulle labbra. Era uno dei più gettonati, anche lei avrebbe scommesso sulla sua vittoria. Dopotutto, come dicevano i ragazzi del distretto: Favoriti si nasce, non si diventa. E’ possibile capire da subito chi vincerà, anzi, chi sarà scelto come sopravvissuto dagli Strateghi, anche da un solo sguardo. Generalmente erano loro che vincevano, i più spietati e sadici.
La ragazzina lo guardò di rimando, glaciale, ficcando la sua conchiglia sotto la maglietta. Intanto il maschio dell’uno aveva iniziato a scuotere gli altri per svegliarli. Era un bel ragazzo: i suoi capelli scurissimi risplendevano per la luce azzurrognola del sole. Non aveva dei bei lineamenti, ma nel complesso gli conferivano una certa aria misteriosa che al pubblico faceva sempre piacere. A concludere il tutto non sembrava un Favorito del tipo: mangia, uccidi, dormi, eppure la ragazzina sapeva di non potersi fidare di lui. Erano nei Giochi e questo bastava come motivazione.
Anche il ragazzo del due, quello con i capelli blu, era sveglio.  Quel colore ricordava tanto a Mahinete il mare del distretto quattro, quello  tanto amato, e che sapeva non avrebbe mai più rivisto. Tutto ad un tratto le sembrò di risentire il dolce suono delle onde che si infrangevano sugli scogli, gli schiamazzi degli altri ragazzini nel cercare conchiglie sulla spiaggia, suoni di casa insomma.
Scosse la testa per tornare alla realtà, ma non avrebbe voluto farlo, e così, per non pentirsi troppo del gesto appena compiuto, iniziò ha osservare gli altri Favoriti che si erano appena alzati.
«Che vuoi?» chiese assonnata la ragazza dell’uno al suo compagno di distretto, aprendo  gli occhi grigi. Mahinete era impaurita dal suo sguardo, sembrava assetata di sangue, e doveva esserlo se si era offerta volontaria. Il contrasto tra la pelle bianchissima e i capelli neri corvino, le davano un aspetto sinistro.
«Russi, Sigma, russi come mio padre. E poi dobbiamo andare» rispose Golia ridendo, come volendo farla arrabbiare. E c’era riuscito. Sigma si stava già girando per prendere la sua falce e tagliargli la testa per far scomparire dal viso di quell’idiota quel sorrisino ironico che le dava tanto fastidio. Eppure si contenne limitandosi a scoccargli un’occhiata glaciale. Era meglio evitare una rissa all’inizio dei giochi e con tutti i Favoriti intorno.
«Lasciala stare Golia, che quella non vede l’ora di trovare un qualunque motivo per bere il tuo sangue in un calice d’argento» rispose Alysha, la ragazza del due, con schiettezza alzandosi in piedi e scuotendosi la neve di dosso.
La ‘caccia’ stava per avere inizio.
 
Procedevano in fila, silenziosi e guardinghi, aggirandosi per gli angoli più vicini alla Cornucopia. Si erano appena addentrati nel bosco e il ghiaccio del lago aveva lasciato il posto ad una candida e soffice neve. Gli alberi erano talmente alti da non riuscire a vederne la cima.
Alysha stava muovendo la spada per aria come per combattere contro dei nemici invisibili. Mahinete ricordava di non averla mai vista sorridere, possedeva la rara e glaciale bellezza di una regina delle Nevi. Le ricordava di quelle fiabe, narrate dai vecchi marinai del suo distretto.
«Sai Neth, nessuno ricorda il suo sorriso. Sembrava che tutte le sue emozioni fossero ghiacciate come il suo cuore, come il suo Regno. Era anche una strega e, di tanto in tanto, rapiva qualche bambino per portarlo nel suo castello.»
Quel pensiero la fece rabbrividire e tornò velocemente alla realtà.
Non erano ancora riusciti a trovare nessuno: i nascondigli erano tanti e la voglia di continuare poca. Sentiva che le sue forze la stavano lentamente abbandonando, ma continuava a camminare comunque, in attesa che gli altri trovassero quello che stavano cercando.
Si ritrovò ad osservare nuovamente Alysha che colpiva la neve, i sibili della sua spada nel conficcarsi nel terreno. L’albina fu la prima ad accorgersi del rosso che stava lentamente diffondendosi per tutta la neve. Inizialmente non capì, ma l’incredulità fece posto all’orrore. Emise un grido strozzato indicando il punto dove la glaciale ragazza del due aveva infilato la spada. Di risposta il suono del cannone rimbombò per tutta l’Arena.
«Devi aver colpito qualcuno» disse con calma Hazard, il suo compagno di distretto, arrivato alla conclusione poco dopo della piccola. Mosse il terreno con un piede scoprendo il viso del Tributo morto.
Una ragazza dalla pelle pallida come la cera e nel cui viso era rimasto impresso il terrore di quella morte orrenda. Dalla profonda ferita al petto continuava ad uscirle molto sangue. Mahinete indietreggiò provata da quella vista terribile.
«Non dirmi che hai paura!» esclamò a gran voce Hurricane, il maschio del due, che fino ad allora non aveva spiccicato parola.
«No, stavo solo pensando che si è uccisa con le sue armi» rispose quasi timidamente Mahinete guardandosi i piedi. Era debole, troppo debole, e ne era cosciente. Cercò di alzare lo sguardo per essere considerata una loro pari ma non ci riuscì, e per non far vedere che aveva le lacrime agli occhi si diresse verso la parte più interna del bosco dicendo di stare andando a cercare cibo.

«E’ inutile, non inganni nessuno, lo si vede da un miglio che sei spaventata a morte, se fossi in te cercherei di nasconderlo meglio» le sussurrò una voce alle spalle. La ragazzina si guardò attorno ma non riuscì a scorgere il volto del Tributo che le aveva parlato. Le sembrava di essere in un incubo, uno di quelli in cui sai di stare per morire ma non puoi sottrarti alla tua fine. Sperò con tutto il cuore di svegliarsi nel suo distretto, nel suo letto, ma non era così. Indietreggiò istintivamente portando le mani alla cintura dove penzolavano i coltelli, più per paura che per spaventare il suo aguzzino, e sentì delle foglie smuoversi. Lanciò una delle lame contro il tronco dell’albero più vicino sperando di colpirlo ma vide solo un uccello alzarsi in volo.
Una Ghiandaia Chiacchierona.
Sorrise nell’andare a riprendere la sua arma mentre un soffio di vento le faceva andare i capelli davanti agli occhi, ma nel tirarla fuori dal tronco un lembo di stoffa le cadde ai piedi.
    
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Era passato solo un giorno dall’inizio degli Hunger Games e la piccola ragazza del dodici, Amethyst, aveva già capito cosa sarebbe stato della sua vita, una delle tante distrutte da quei Giochi. Era cosciente della fine che stava per incombere su di lei, ma nonostante ciò, la sua forza di volontà e la sua fermezza non cessavano di esistere, questo grazie anche al suo nuovo alleato. Era Colin, il bambino del distretto undici, sempre pronto ad aiutare la sua alleata e a tirarle su il morale con le sue parole piene di dolcezza. Anche se piccoli, riuscivano a cavarsela discretamente in quel posto in cui l’unica sensazione presente era la paura. Paura di morire, di non tornare mai più a casa, di non poter mai più abbracciare quel corpo materno che riusciva a riscaldarli anche nelle giornate più fredde.
Questa paura era presente nel corpo e nell’animo dei due bambini, ma facevano di tutto per non dimostrarlo e soprattutto non volevano credere che la morte era alle porte e bussava incessantemente non lasciandoli neppure respirare. Cercavano di rimanere calmi, di sembrare degli adulti in cui erano stati trasformati con l’estrazione, ma non ci riuscivano.
Stavano camminando da quella mattina ma la maggiore non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
«Colin, non possiamo. I Favoriti» sussurrò, tirandolo per la manica della giacca innevata. Erano ancora troppo vicini alla Cornucopia e potevano essere scovati da qualche altro Tributo in qualsiasi momento. Colin cercò di continuare a camminare ma cadde sfinito nella neve, le forze sembravano averlo abbandonato del tutto. Amethyst sbuffò avvicinandosi al bambino, non voleva fermarsi ma non poteva lasciare il suo alleato da solo. Si sdraiò vicino a lui bagnandosi i pantaloni per la neve e rabbrividendo per i soffi di vento gelido che le sferzavano il viso. «Ci possiamo accampare là» disse con calma indicando una grotta vicina a loro. Il piccolo annuì cercando di fare presa sulla gamba destra e appoggiandosi al tronco di un albero. Si avvicinarono all’entrata di ghiaccio cercando di capire se qualcuno fosse già li.
In effetti quel qualcuno c’era, ma era morto trapassato da una stalattite. La piccola non riuscì a reprimere un urlo di orrore, prontamente frenato dalla mano del suo alleato.
 
 


Angolino sclero delle autrici (sì, siamo in due. Io e mia cugina Elisa)
 
Prim(a) di tutto non abbiamo messo la maiuscola ad “autrici” perché non siamo egocentriche (se se XD). Volevo informarvi che ho( hope) appena sbattuto la testa contro il muro, non chiedetemi come ho fatto perché non lo so. Ergo (alla latina) non sarò molto attendibile nelle mie spiegazioni... e poi c’è mia cugina che è problematica e sta scrivendo cose assurde come “cucina, chiodetemi, spiogazioni” e altre cose alienate.
E’ la migliore a inventare fan fiction! (scrive Elisa)
Sta scrivendo lei dato che da questo pomeriggio ha preso in ostaggio il mio pc e non vuole farmi digitare i tasti. Se la capite siete dei mostri…
Passato questo breve momento di sclero volevamo dirvi che ci saranno tanti personaggi ma soltanto uno vincerà, quindi niente regola dei due vincitori (non affezionatevi troppo perché moriranno tutti *faccia sadica* muhaaaaaaa)
Non dateci troppo retta perché stiamo sparando cose alla cavolo.
Ah... Mahinete deriva da "ma hi neth" ragazza bianca favorita dagli spiriti (è un nome Tahitiano).
*Valletta entra in scena* Buona visione!
 
 
 ANGOLINO DEI PERSONAGGI APPARSI FINO AD ORA (ELISA SCELGO TE *LANCIA POKEBALL*)
 
M1: Golia 18 anni
F1: Sigma Gold (proprietà di Elisa) 18 anni
M2: Hurricane (Elisa) 17 anni
F2: Alysha 18 anni
M4: Hazard 18 anni
F4: Mahinete Frost 15 anni 
M11: Colin 12 anni
F12: Amethyst 13 anni


ANGOLINO DEI MORTI :(

F6, M5

 

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Capitolo 4
*** III Temi tu la morte? ***




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(III)
Temi tu la morte?
 
 
Non aveva mai avuto così paura del rumore delle foglie sul terreno.
Amethyst si guardava dietro continuamente facendo dondolare lo zaino che portava sulla schiena. Era piccolo ma sicuramente dentro c’era qualcosa che avrebbe potuto servirle. Non aveva ancora trovato il coraggio per aprirlo, aveva paura che se si fosse fermata i Favoriti l’avrebbero presa e torturata come avevano fatto con il suo compagno per poi infilzarlo con un tridente. Poteva essere ancora vivo ma non aveva ascoltato Haymitch, il loro mentore, che in un momento di sobrietà aveva esplicitamente detto di non provare neppure ad avvicinarsi alla Cornucopia.
«Avrete tutto il tempo di farvi uccidere dopo il bagno di sangue, perché farlo subito?» aveva sussurrato versandosi l’ennesimo bicchiere, con gli occhi acquosi come il liquido che spesso trangugiava direttamente dalla bottiglia. La piccola era rimasta turbata da quelle parole, ma non aveva detto niente e le aveva immagazzinate per poi usarle al momento opportuno.
Il Mentore non aveva detto altro, si era limitato a ripetergli quel consiglio per poi sparire dalla circolazione. Erano entrambi spacciati, e lui gliel’aveva spiegato chiaramente, senza giri di parole. Eppure Amethyst dopo il bagno di sangue era ancora viva, una novità per quelli del suo distretto, ma sapeva che non lo sarebbe restata per molto. Si sforzò di continuare a camminare cercando di non scivolare sul ghiaccio. Non poteva affondare i piedi nella neve vicina a lei: le orme l’avrebbero tradita; quindi barcollava tenendo l’equilibrio appoggiandosi ai tronchi. Al suo distretto aveva visto spesso la neve, ma non ci aveva mai giocato, i vestiti d’inverno si ghiacciavano e la sua famiglia non poteva permettersi di accendere il camino.
Aveva appena svoltato verso a parte di bosco più fitta quando sentì un rumore alle sue spalle, si girò di scatto temendo che uno dei Favoriti l’avesse seguita per ucciderla. Ma non vide nessuna lama trapassarle lo stomaco o il collo; davanti a lei un ragazzino dalla pelle scura tremava vistosamente.
«Ti prego… non uccidermi...» sussurrò, indietreggiando verso la neve mentre una lacrima gli rigava la guancia, forse per la ferita che aveva alla gamba.
«Non ho nessun’arma, non potrei farlo neanche se volessi» disse la bambina, asciugandogliela con il palmo della mano. «Ma… la tua compagna di distretto?» chiese guardandolo fisso, come cercando di capire se non era una trappola.
«Le sarei stato d’impiccio, non mi voleva come alleato» rispose il piccolo tirando su con il naso. Rimasero in silenzio scrutandosi con gli occhi spalancati; i violacei di Amethyst nei marroni dello scricciolo dell’undici. Fu lei a rompere l’imbarazzo e la paura del momento. «Alleati?» chiese, tendendogli la mano tremante per il freddo.
«Alleati» ripeté il piccolo stringendogliela, poi fece un sorrisino “hai dei begli occhi, dodici.” Aveva decisamente cambiato tono dopo aver avuto la certezza che la piccola non l’avrebbe ucciso.
La ragazzina ricambiò il sorriso, «sono Amethyst, non dodici» aggiunse, finendo per terra con il suo alleato dopo aver lasciato l’albero a cui era aggrappata.
«Colin» disse spiccio il moro, scoppiando in una risata. «Certo che non hai molto equilibrio, Amethyst» esclamò, calcando la voce sul nome della ragazzina, per poi aiutarla a rialzarsi. Forse avrebbero potuto sopravvivere a quell’orrore, o almeno provarci, insieme.
 
 
Avevano dovuto dormire vicino a quel cadavere per paura che il rumore dell’hovercraft li tradisse facendo avvicinare i Favoriti. Il freddo gli aveva ghiacciato il corpo facendolo diventare bluastro, nel viso aveva ancora un’espressione di puro terrore e la bocca aperta per lanciare un urlo mai pronunciato. Amethyst pensava fosse il ragazzo del cinque, ma non era importante saperlo, dopotutto quella notte il suo volto sarebbe apparso in cielo accompagnato dal distretto da cui proveniva. Non sapeva neppure il suo nome ma era certa che da qualche parte qualcuno lo stesse piangendo maledicendo la Capitale per avergli portato via una persona cara. Era strano, se non macabro, ammettere che la gente trovava in quell’evento una sorta di calma; come se ormai lo considerasse parte integrante della propria vita e lo accettasse come tale. Non era concesso ribellarsi, sperare in una vita migliore, nella fine degli Hunger Games, e, ormai, tutti avevano perso ogni speranza.
Scosse le spalle di Colin per svegliarlo. Amethyst non l’avrebbe mai creduto, ma quel ragazzino dalla pelle scura riusciva a farla sentire a casa – anche se non era molto appropriato in quel luogo - e calmarla, a modo suo.
«Che c’è?» sbadigliò il suo alleato allontanando la mano della bambina con uno schiaffetto.
«I morti di oggi» sussurrò Amethyst indicando il cielo con il dito quasi congelato. Colin le si accoccolò rabbrividendo al solo toccare il ghiaccio fuori dal sacco a pelo che aveva preso alla Cornucopia. «Ehi, va tutto bene. Siamo vivi» disse cercando di tranquillizzarla, come solo lui sapeva fare. La piccola sospirò rivolgendogli un sorriso anche se la paura non accennava ad andarsene e stringendogli forte la mano.
 

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Non capiva.
Non capiva perché quell’idiota del ragazzo del dieci aveva deciso di far entrare nell’alleanza anche la femmina dell’otto. Non sapeva combattere né difendersi dagli attacchi degli altri Tributi: era inutile. Eppure il suo alleato lo aveva fermato prima che le tagliasse il collo con il suo coltello. "Può servirci" aveva detto semplicemente, allontanando con un gesto seccato la sua mano. Poi aveva tranquillizzato la ragazza, tremante, "sono…" ma la giovane lo aveva interrotto.
«Nat, giusto?» esclamò con un sorriso in direzione del suo “salvatore.”
«Sì. E lui è Xavier» rispose il ragazzo dai capelli color cioccolato, mentre un angolo della sua bocca si piegava verso l’alto.
Così il biondo del sei era passato come un assassino cattivo e sadico, mentre quel Nat diventava l’esempio vivente della bontà dei Tributi dei distretti remoti. La ragazza dell’otto però non sembrava affatto spaventata da lui, forse era una di quelli che cercavano di dimenticarsi di essere nell’Arena, scambiando parole di conforto con i propri alleati.
Stavano camminando ormai da quella mattina, senza fermarsi neppure un attimo. Il cannone che aveva suonato li terrorizzati, e avevano preso la decisione più ovvia: allontanarsi dalla Cornucopia, in fretta. Non potevano nulla contro i Favoriti con una sola torcia e un paio di coltelli che, seppur affilati, non sarebbero bastati per rimanere vivi dopo uno scontro del genere.
«Tra un po’ dovremmo essere al confine dell’Arena» sussurrò la ragazza – Cassiopea, credeva si chiamasse, ma non ne era certo – battendo il piede sulla neve che diventava via via più morbida e pesante.
Nat le lanciò uno sguardo d’intesa, sembrava si capissero in un istante, indicando una grotta nelle vicinanze. «Potremmo nasconderci lì» disse sbadigliando Xavier. La ragazza scosse la testa facendo ondeggiare i capelli scuri, «non ti sei ancora accorto che ogni tre, quattro kilometri ce n’è una? Sarà il primo posto dove cercheranno i Favoriti!»
Il maschio del dieci fece cenno di assenso; non parlava molto, sembrava essere sempre assorto nei suoi pensieri, oppure detestava aprire la bocca per i soffi di vento gelido che gli ghiacciavano il corpo e l’anima al solo aprirla.
«E allora dove vorresti fermarti, otto?» chiese seccato il biondo in direzione di quella ragazza che sembrava schernirlo con le sue presupposizioni. «Non qui. Anche se fa freddo dovremmo provare ad accamparci qui fuori, magari sotto un albero» rispose Cassiopea guardando i suoi piedi affondare nella neve. «Ah, non fate orme. Si vedono lontano un miglio, nella neve…» continuò andando verso all’albero citato pochi secondi prima mentre Xavier sbuffava contrariato.
 
 
«Hai paura della morte?"
Forse era una domanda un po’ strana ma necessaria, almeno per Nat.
La ragazzina dai capelli rossi lo guardò con un’espressione stranita, dondolando il piede scalzo giù dal ramo dove era seduta.
«Che razza di domande fai?» chiese infine, ricominciando a tormentarsi i riccioli che le ricadevano scomposti sugli occhi, come faceva sempre quando era nervosa.
«Gea, sono serio» sbuffò il maggiore, guardandola fissa negli occhi verdi. Si arrampicò vicino a lei per poi sedersi sul ramo subito inferiore, fermandosi ad osservare il ginocchio dei suoi pantaloni, strappato in più punti.
«Anche io sono seria, Carter.» Gea calcò la voce sul cognome dell’amico.
«Non chiamarmi così» esclamò seccato, «in ogni caso sai a cosa mi sto riferendo.»
Sì, Gea lo sapeva. Ormai era abituata alle paure, non infondate, del suo amico con l’avvicinarsi della Mietitura. Aveva tanti biglietti in quella dannata boccia, troppi, ma vi era costretto. Per lei era quasi impossibile essere scelta: non aveva preso tessere e era anche la figlia di una delle uniche vincitrici del suo distretto.
«Non verrai estratto. Smettila di pensarci, okay?» disse infine mettendo la sua mano sopra quella del ragazzo.
Nat aveva sospirato – forse con troppa forza – pensando che forse quello scricciolo di ragazzina aveva ragione, ma posando gli occhi sull’ennesimo strappo che si era fatto ai pantaloni, ritornò abbastanza preoccupato. Non avrebbe dovuto seguire Gea in una delle sue solite “avventure” ma aveva bisogno di parlarle, anche a costo di prenderle appena arrivato a casa.
«
Va bene… Ma se mai venissi estratto non offrirti volontaria» le comandò con calma, aspettando la pronta risposta dell’amica che non arrivò. Gea aveva ricominciato a guardarsi i piedi, sporchi per il gran correre. «Non succederà. È inutile che ti preoccupi» aveva ribattuto infine lei, ma non ne era molto convinta.
Nat aveva sempre ragione e non aveva sbagliato neppure quella volta.
 
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Maple era quasi congelata.
Nell’unico zaino che era riuscita a prendere alla Cornucopia non c’era neppure un fiammifero, un unico fiammifero per scaldarla. Le si erano persino ghiacciate le parole per esprimere la rabbia nei confronti della Capitale. Si erano ghiacciate anche le lacrime che aveva versato per la morte di suo fratello. Continuava a vederselo davanti, che sputava sangue maledicendola per non averlo salvato. Era morto anche per colpa sua, ma il maschio del due doveva pagare per quello che aveva fatto.
Lo avrebbe ucciso, in modo lento e doloroso, per vendicare Thor. Pregustava già la vendetta che le rodeva il cuore e l’anima. Perché i Giochi fanno questo: trasformano le persone in animali, riempiono d’incubi il sonno dell’unico sopravvissuto. E per Maple erano iniziati solo con quella decisione.
Uccidere “due.”
Doveva solo rimanere viva e aspettare il momento giusto per farlo, se mai fosse arrivato. Dopotutto a casa sua dicevano spesso che era fatta per vincere come sua zia. Ma lei non ce l’aveva fatta. Era morta nel duello finale combattendo contro il suo compagno di distretto.
La ragazzina si rannicchiò nel sacco a pelo che aveva preso alla Cornucopia stringendo forte la sua fionda. Era stato Thor ad insegnarle come usarla. Una lacrima le rigò il viso ma la asciugò all’istante: non poteva permettersi quel lusso. Intanto guardava il cielo aspettando di vedere i volti dei Tributi morti quel giorno. Fu questione di un attimo e il sigillo di Panem apparve sulla volta celeste insieme all’inno. Saltò direttamente al distretto cinque annunciando che il maschio aveva raggiunto la femmina nell’aldilà - se mai fosse realmente esistito – seguito dalla ragazza del sei. Strano che fosse morta così presto, pensò Maple, era intelligente, furba; ma non ce l’aveva fatta.
Non comparve più nessun volto. Avrebbero movimentato Giochi, fino a quel momento era morta pochissima gente e i Capitolini sicuramente non avevano gradito. La ragazzina del sette strinse forte le ginocchia a sé con quell’unico pensiero in testa.
Non sarebbe rimasta calma per molto.

 
 
NDA (note d'autrice):

Questo è il primo capitolo che ho scritto senza l'aiuto e il supporto morale delle mie cugine, la maggiore della mia stessa età e la piccola di nove anni che ha dichiarato di essere la protettrice di Maple e di dover scrivere anche un po' lei i POV. Così Lucia - si chiama così - ha scritto la base per il POV della amorine del sette per il "Bagno di sangue iniziale" e si è autoproclamata sua sponsor :3 Perspicace, eh? In ogni caso come avete potuto notare sono apparsi anche Nat e Cassiopea in compagnia di Xavier, il biondo del sei. Devo dire che mi sto affezionando moltissimo a tutte le mie creature, ma le dovrò uccidere fino a proclamare il vincitore... Peccato... *fa la faccia sadica* 
Per questo capitolo ho voluto mettere una citazione, anche perché ci stava veramente bene, e ho deciso di farvi una domanda che si ripeterà molto spesso. Ehm... *si schiarisce la voce* Chi sono i vostri preferiti? No... perché ho appena deciso chi vincerà e voglio sapere chi desiderà uccidermi alla fine ;D Il nome del capitolo è una citazione di “Pirati dei Caraibi” e colui che l'ha detta è Davy Jones :3
Saluti a tutti e grazie delle recensioni, dei complimenti e di tutto (soprattutto aver aperto questa long)

Talking Cricket 


ANGOLO DEI PERSONAGGI APPARSI:

M6: Xavier
F8: Cassiopea
M10: Nat Carter


 

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Capitolo 5
*** IV Il destino mescola le carte e noi giochiamo ***


 
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   (IV)
Il destino mescola le carte e noi giochiamo.
 
 
Lo aveva seguito per un bel pezzo sperando che si addormentasse, e così era stato.
Non c’era voluto molto perché cadesse sfinito sul ramo dove si era fermato da quella mattina.
Raika, dal canto suo, si era rannicchiato vicino al tronco aspettando il momento in cui avrebbe potuto prendere quella dannata balestra alla quale mirava dal bagno di sangue iniziale. Certo si era mosso un paio di volte per esplorare le vicinanze, ma l’aveva fatto in modo tale da non farsi scoprire, silenzioso come sempre.
Doveva capire i trucchi degli Strateghi di quell’anno, ma per il momento aveva chiara soltanto l’intricata rete di cunicoli che partivano dalle grotte ghiacciate poste a distanza di circa tre, quattro chilometri l’una dall’altra: dove portassero gli era ancora sconosciuto. Non che gli importasse: sapeva che i Favoriti avrebbero cominciato a cercare anche lì, setacciando i cunicoli alla ricerca di nuove prede. Già era un miracolo che non avessero trovato il ragazzo del tre, appena sopra la sua testa, che aveva lasciato numerose orme, non pensando che chiunque le avrebbe potute seguire e ucciderlo. E poi si diceva spesso che i Tributi del distretto della tecnologia erano sempre i più furbi…
Raika sbuffò confrontandolo con quelli degli anni passati. Non ricordava a che età avesse iniziato a guardare gli Hunger Games, ricordava solo di aver pianto, quella volta, per tutto il sangue che aveva visto sullo schermo. Era un bene aver capito come funzionava il tutto prima di essere estratto. Sapeva che non era la fortuna a farti vincere ma gli Strateghi, e che lui non era uno dei possibili candidati perché ritenuto già morto come il cretino che stava seguendo. Inizialmente aveva persino preso in considerazione di allearsi con lui ma era impossibile fidarsi di qualcuno in quei giochi. Così era rimasto lì: rannicchiato nella neve e bagnato come un pulcino fradicio mentre vedeva le frecce conficcarsi nel terreno a due passi da lui.
Quel ragazzo non le sapeva tirare bene, anzi a dirla tutta era veramente mediocre dato che aveva centrato soltanto uno scoiattolo da quella mattinata. Era uno di quegli animaletti innocui che si trovavano spesso nell’Arena che aveva il pelo candido come la neve e gli occhi azzurro ghiaccio, sulla schiena una striscia leggermente più scura in verticale. Raika si soffiò sulle mani quasi congelate sfregandole una contro l’altra mentre guardava il cielo dove sarebbero stati proiettati tutti i volti dei caduti di quella seconda giornata. Fece appena in tempo a sentire l’inno, prima che gli occhi gli si chiudessero involontariamente.
Si svegliò tempo dopo e vide vicinissimi a lui luccichii simili a quelli del vetro che si riflettevano sul ghiaccio della terra. Dapprima pensava fosse un’allucinazione dovuta ai frutti che aveva mangiato quella mattina, ma si ricredette quasi subito. Li vide avvicinarsi a lui, circondandolo del tutto, mentre emettevano dei versi minacciosi. Provò l’istinto di fuggire ma non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose, così si immobilizzò nella neve, sperando di essere scambiato per parte integrante del tronco. Non capì mai perché non l’avessero aggredito ma gli fossero passati sopra con le loro zampette artigliate, veloci come i ratti che circolavano nel suo distretto vicino al quartiere dove risiedevano i più poveri, ma fatto sta che non lo toccarono nemmeno e si accanirono sul ragazzo del tre. Lo rosero fino all’osso mentre il poveretto urlava da far pietà e cercava di alzarsi con il risultato di aizzarli ancor di più contro se stesso. Gli scoiattoli finirono solo all’alba e il cannone sparò il suo solito canto di morte.
Raika si alzò scuotendosi la neve di dosso, come un automa, ancora terrorizzato per quello spettacolo che non aveva visto, ma soltanto sentito - e gli bastava. Si arrampicò sul tronco con i legamenti intorpiditi per il freddo e prese la balestra, quasi annegata in tutto quel sangue e la poltiglia che un tempo doveva essere stata il corpo del maschio del tre. Sentì un conato di vomito salirgli su per la gola fino a fermarsi nella sua bocca, ma lo ricacciò dentro sigillandolo nello stomaco come in una morsa. Il ragazzo del nove scappò in fretta via da quel luogo per andare a nascondersi da qualche parte che neppure lui conosceva, con il cuore che batteva a mille e il corpo che tremava.
 
 
Aveva sempre odiato dover tornare a casa prima del coprifuoco.
A dire il vero era proprio essere comandato dalla Capitale che non gli andava giù.
Nessuno lo poteva costringere a fare qualcosa, ma la paura, che mai avrebbe ammesso di avere, gli impediva di fare una qualsiasi infrazione alle regole.
Si caricò il vecchio zaino sulle spalle e si avviò verso casa, prendendo a calci i ciottoli del selciato.
Da lontano poteva vedere i ragazzini della sua età, intenti a rincorrersi nei campi di grano, e le madri che li richiamavano. Raika non aveva provato neppure una volta a correre nei campi, non sapeva neppure come fosse essere amati, ma non gli importava – o meglio – non credeva gli importasse. Fin da piccolo aveva sempre cercato di cavarsela da solo e quel regime di solitudine che si era imposto non aveva migliorato le cose. Ricordava soltanto una mano che gli accarezzava dolcemente i capelli scuri per calmarlo, ma quel ricordo era seppellito nella sua memoria, sbiadito dal tempo passato.
Cercò di mettere un piede davanti all’altro e continuare a camminare con il cappuccio della felpa fin sopra gli occhi. Odiava dover tornare in quel posto che chiamava “casa” ma che non lo era per niente.
Si fermò dopo una decina di minuti davanti a una porta in legno marcio, mentre il sole tramontava lento.
“E’ questa l’ora di tornare?” disse una voce proveniente dall’interno.
Raika rimase impassibile nel sussurrare “fatti i fatti tuoi” con la vibrazione del sibilo di un serpente.
Venne spinto in malo modo dentro al vecchi granaio in disuso del distretto, dimora di quelli come lui: senza un posto né uno scopo nella vita. “Si può sapere dove sei stato?” chiese un uomo alto e vestito di un cappotto lungo e caldo, pieno di toppe.
Il moro si limitò a scrollare le spalle, disinteressato da quella conversazione. “Secondo te dove è andato! E’ rimasto a giocare con quell’accendino che ha trovato per terra la settimana scorsa” lo rimbeccò una giovane dai capelli biondi legati in una coda alta. Raika andò verso la camerata dove dormivano un po’ tutti i ragazzi, ma fu fermato dalla mano dell’uomo. “Sai, deficiente, se succede un'altra volta non esiterò a buttarti fuori” gli urlò in faccia. Il ragazzo lo guardò negli occhi sapendo che non sarebbe mai successo: gli servivano i guadagni suoi e di tutti gli altri “lavoratori” che segnava meticolosamente su un taccuino.
“Non me ne frega un cazzo” disse con calma scandendo bene le parole, poi si girò per andarsene. Si aspettava un ceffone da un momento all’altro, ma lo aveva lasciato senza parole, per l’ennesima volta. 
 
 
 
India era stranamente calma in quel secondo giorno nell’Arena. Aveva trovato un posto dove fermarsi e nascondersi. Era a cavallo, insomma. Mai avrebbe pensato di riuscire persino a dormire in un posto del genere. Non si sarebbe neppure alzata dal ghiaccio, se non si fosse accorta di essere quasi fradicia. Era entrata in una delle caverne, perfettamente conscia del fatto che i Favoriti avrebbero cercato lì, ma si era nascosta talmente bene che nessuno avrebbe potuto trovarla, in un cunicolo secondario. Aveva trovato l’entrata per caso e si era messa lì riuscendo a vedere tutto quello che le succedeva attorno, ma non ad essere notata. Sentì uno sparo in lontananza, ovattato per tutto il ghiaccio che la proteggeva dagli attacchi degli altri Tributi, poi vide delle figure avanzare parlottando tra loro.
“Amethyst, secondo me non è sicuro continuare a camminare qui” disse quella più alta con una vocina quasi impercettibile, il pigolio di un uccellino. Sembrava essere Colin – anzi era Colin –, il suo giovane compagno di distretto. Era accompagnato da una bambina più bassa di lui, dalla pelle chiara come la porcellana. India ricordava fosse la femmina del dodici, quella dagli occhi azzurri tendenti al viola. Erano entrambi troppo giovani per i Giochi ma lei non avrebbe potuto fare nulla per aiutarli: doveva tornare viva e non poteva riuscirci mettendosi ad aiutare i Tributi più piccoli, tantomeno se erano così stupidi da entrare nella caverna e non nascondersi all’istante.
“Hai ragione, Colin! Non è stata una buona idea…” sussurrò la ragazzina tremando con forza per il freddo e mettendosi le piccola mani in tasca. “Usciamo da qui” aggiunse avviandosi verso l’uscita, “ci sono troppe vie da seguire: potrebbe essere la tana di un qualche ibrido.”
Colin le mise un braccio sulle spalle e la seguì, traballando per il ghiaccio ma anche il peso dello zaino. India li guardò allontanarsi ringraziando il cielo per il proverbiale intuito della femmina del dodici; dopotutto non erano così scemi come sembravano. Si ritrovò a pensare a sua sorella Willow, sforzandosi per non piangere e maledicendo il giorno in cui aveva deciso di prendere le tessere. Era già morta dal principio di quegli stupidi Giochi, avrebbe voluto non essere scelta, ma ormai era fatta e non poteva più tornare indietro.
“Dall'unione di Pasifae e il toro nacque il Minotauro, una creatura dal corpo di uomo e la testa di toro che si nutriva solo di carne umana.”
Era scritto sul ghiaccio in caratteri incerti, aguzzi e ghiacciati. Non aveva ancora capito cosa significasse – o meglio – non aveva voluto comprendere il senso di quelle parole. Si limitava a fissare quella frase, soffiandosi sulle mani congelate. Ma la sua calma fu spezzata da un lungo verso animalesco che squarciò la quiete della grotta. Non poté negare l’evidenza mentre fissava quella figura avvicinarsi al ghiaccio con il naso fremente e le corna protese in avanti.
Poco tempo dopo il cannone suonò l’ennesimo morto.

 

 
Angolino dell’Autrice:
 
Allora… Finalmente l’Arena inizia ad essere un minimo conosciuta dai Tributi: è formata da una parte esterna ed una interna (i cunicoli dai quali si può accedere dalle grotte). Naturalmente l’Arena non può essere così semplice, c’è qualcosa che i Tributi dovranno scoprire, ma non vi dico cosa.
In ogni caso India ha trovato un cunicolo secondario coperto da uno strato molto spesso di ghiaccio e dal quale non può essere vista, il problema è che ha trovato anche il Minotauro… Lascio a voi l’immaginazione della scena :’( Peccato perché mi stava simpatica… E così sono iniziati i veri Giochi con gli ibridi e il resto.
Passiamo alla questione Raika…
Mi sono immaginata che i ragazzini del distretto nove che non sono stati presi dall’orfanotrofio sovraffollato, abitino un vecchio granaio inutilizzato e sottostiano al controllo di un signore (ma la backstory non si limita a questo). Loro gli portano l’ottanta per cento del salario e lui si occupa di portare da mangiare rompendogli il cazzo e mantenendo la disciplina(?) in modo violento… Raika è un OC coraggioso, che non parla per niente e odia i contatti con le persone: per lui esistono solo se stesso e il fuoco, suo migliore amico. E’ strano ma a me sta molto simpatico, come tutti i Tributi, ormai.
Vi anticipo che nel prossimo capitolo torneranno i Favoriti e… non ve lo dico XD.
Detto ciò vi saluto e vado a fare scienze che domani ho il compito *saluta con la manina*
 
Talking Cricket

 

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Capitolo 6
*** V Salutaci quella del sei ***


 
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(V) 
Salutaci quella del sei.
 



Stavano camminando, come al solito, alla ricerca di Tributi da uccidere.
La femmina dell’uno guidava la comitiva tenendo la sua falce in mano. Per lei qualsiasi tentativo di spodestarla dal ruolo di capo era impensabile. I capelli neri le sferzavano la faccia mossi dal vento mentre si guardava attorno con gli occhi grigi spalancati. Si erano divise dai ragazzi solo poco tempo prima, ma a Mahinete sembrava un’eternità: non si fidava di nessuna di quelle due ragazze, e non ci sarebbe mai riuscita neppure se lo avesse voluto. La ragazzina del quattro si ficcò le mani nelle tasche della giacca cercando di non farle congelare: le facevano già male e questo non era un bene, soprattutto se considerava che era soltanto il terzo giorno che passava in quell’Arena. Avrebbe fatto meglio a cercarsi un altro alleato - magari non un Favorito –, ma ormai era andata e doveva farsene una ragione.
«Io direi di andarci a ricongiungere con gli altri, Sigma. Tanto qui non c’è nessuno» sussurrò Alysha colpendo per l’ennesima volta la neve con la sua spada, era un tic che aveva da quando erano entrati nell’Arena e sembrava esserne fiera. La ragazza dell’uno sbuffò prendendo a calci un pezzo di ghiaccio che si trovava per terra. «Prima o poi succederà» rispose secca lanciandole un’occhiataccia. Sapeva perché voleva tornare: si era innamorata del maschio del quarto distretto e amoreggiare con lui nell’Arena le dava un immenso piacere. Deficienti.
L’amore non era concesso nei Giochi, tantomeno un amore così sbagliato. «Se vuoi andare dal tuo amichetto del cazzo, accomodati» esclamò infatti con un tono aspro che non prometteva niente di buono. La ragazza del due la guardò conficcando la spada in una lastra di ghiaccio, «non rompere» disse, andando verso gli alberi. Le lanciò nuovamente un’occhiataccia di quelle che inceneriscono quando un’esclamazione di felicità squarciò la quiete dell’Arena.
Era Golia: avevano preso qualcuno e probabilmente lo stavano torturando.
Si lanciarono entrambe verso il luogo da dove sembrava provenire, mentre Mahinete rimaneva indietro sperando che per il suo arrivo tutto sarebbe finito. Prese a calci la neve sul terreno mentre un nuovo urlo - femminile forse - risuonava agghiacciante per tutti i meandri del bosco. Cercò di darsi una mossa ma si ritrovò a scivolare con lentezza sul ghiaccio, con il coltello fra le mani e un’espressione amorfa nel viso. Ora le urla erano cessate, ma il cannone non aveva ancora emesso il suo canto di morte.
Mahinete si sedette sulla neve, ravvivandosi i capelli con le dita della mano destra, e schiacciando la neve dove erano posati i suoi piedi. Forse non aveva più voglia di muoversi, forse sarebbe rimasta lì aspettando che gli altri si decidessero a uccidere il Tributo catturato, forse stava iniziando ad essere stanca di quei Giochi.
«Allora?! Vieni o no? Ti vogliono Golia e Sigma. La ragazza del tre» disse una voce da dietro a lei dopo solo pochi minuti dalla sua decisione di fermarsi. Si girò all’istante, con il coltello stretto nella mano, riconoscendo quello che le aveva parlato in Hurricane, il maschio del due. La ragazzina scosse la testa e rimase lì, seduta, senza dare alcun segno di volersi rialzare. «Non so se hai capito… E’ un ordine, non un’affermazione» la tirò su per un braccio malamente, scandendo le parole della frase. Continuò a spingerla per tutto il tragitto fino a quando arrivarono dagli altri Favoriti. «Non voleva venire» esclamò, spingendola verso il ragazzo dell’uno, capo della loro alleanza. Mahinete gli andò quasi a sbattere contro per la forza con cui era stata mandata verso di lui, per poi indietreggiare. Inghiottì ripetutamente per cercare di far andar via quella sgradevole sensazione di avere la lingua attaccata al palato.
«Che vuoi?» disse, trapassando Golia con lo sguardo. Non doveva avere paura, non in quel momento: la debolezza era una cosa che doveva tenere per sé tra gli altri Favoriti. Vide Sigma avvicinarsi a lei tenendo ferma tra le braccia una ragazzina dai capelli rossi che un tempo doveva essersi dibattuta furiosamente dalla morsa dove era imprigionata, ma che in quel momento veniva trascinata dalla ragazza senza opporre alcuna resistenza. Doveva avere circa quindici anni, come lei, ma non era stata altrettanto fortunata. I suoi occhi erano accesi da una flebile lucentezza che stava per spegnersi.
«Mi chiedevo se saresti mai stata in grado di uccidere qualcuno, piccoletta» sussurrò pronunciando l’ultima parola con disprezzo e facendo cenno a Sigma di avvicinarsi a lui. Mahinete indietreggiò istintivamente ma Hazard, il suo compagno di distretto, la fermò all’istante. «Ti do una possibilità, una sola: ascoltami bene perché non te lo ripeterò un’altra volta» aspettò che la ragazzina assentisse debolmente per poi continuare.
«O la uccidi o muori tu» le sussurrò tra i capelli bianchi, sorridendo per la sua espressione spaurita.
La piccola lo guardò a lungo, poi il suo sguardo si posò sugli occhi scuri della ragazzina; sembrava che la stesse pregando di non ucciderla, di lasciarla vivere. Strinse il suo coltello mentre Sigma la lasciava cadere per terra, facendola immancabilmente afflosciare per le numerose ferite che le aveva inferto.
«Come ti chiami?» chiese, avvicinandosi alla femmina del tre abbassando di colpo la lama che aveva alzato pochi secondi prima.
«Lyla» rispose l’altra in un soffio, come sperando di aver trovato qualcuno che la potesse aiutare. «Mi dispiace» sussurrò Mahinete soffocando un singhiozzo, poi la trafisse dove c’era il cuore. «Salutaci quella del sei» affermò Alysha soddisfatta del gesto della più piccola tra loro.
Il cannone sparò dopo pochi secondi, portandosi via l’ennesima vittima di quell’orribile gioco.
 
 
 Un’ombra.
C’era, ma nessuno credeva che esistesse. Non aveva mai chiesto aiuto a nessuno, non si era mai fatta vedere se non per prendere le tessere al Comune. Eppure ogni anno era lì, puntuale come sempre, con i capelli scuri sciolti sulle spalle e i vestiti troppo grandi per lei che erano eccezionalmente puliti. India era conosciuta da tutti nel distretto undici ma le persone a cui rivolgeva parola erano veramente pochissime, escludendo la sua famiglia. Aveva solo tredici anni quando si era avvicinata per la prima volta al Comune, titubante, ma aveva deciso di entrare per richiedere quella misera razione di cibo che poteva decidere tra la vita e la morte. Gli occhi scuri le saettavano per tutta la stanza: dai tavoli in legno scuro ai timbri e il cibo che si trovava su di essi. Si era avvicinata al più basso con la mano dietro la schiena, impassibile, mentre i suoi piedi, sporchi per aver percorso nudi quasi tutto il distretto, sporcavano il pavimento. Il Pacificatore incaricato di quella mansione aveva storto il naso alla vista dell’ennesima stracciona che rimaneva a bocca aperta davanti a tanto lusso, e non si era accorto che la ragazzina si era messa un frutto sotto la giacca logora. Le sue unghie, mangiate senza riserve, tamburellavano incessantemente sulla tavola.
Quando infine venne il suo turno si avvicinò seria e composta all’incaricato. «India Ellis. Tredici anni» disse con voce quasi priva di emozioni dando un’altra occhiata attorno a sé. Il Pacificatore la guardò a lungo come per capire se avesse avuto veramente l’età dichiarata. Era piccola e mingherlina, una moltitudine di capelli scuri e ribelli le ricadeva sugli occhi. «Quante?» chiese l’uomo senza degnarla neppure di uno sguardo. La ragazzina non ci pensò un attimo, «una» rispose con calma mentre congiungeva le mani davanti a sé. «Ecco. Tieni e va’ via.»
India si allontanò con velocità da quel tavolo, senza guardarsi indietro. Lo scricchiolare delle assi del pavimento per i suoi passi era l’unico rumore che si sentiva in quella stanza. Nell’uscire, però, si ficcò un altro frutto sotto il giaccone.
 
 
Era rimasta immobile, aspettando l’inevitabile, che il Minotauro la trafiggesse con quelle corna appuntite o la sbranasse all’istante, ma l’animale aveva girato la testa attirato da un suono proveniente dai meandri della grotta. Sentiva ancora il suo fiato caldo sul suo collo mentre si appiattiva contro il ghiaccio che non era riuscita a proteggerla da quel pericolo, quando lo vide allontanarsi verso la zona da cui sembrava provenire il rumore. Pietrificata dalla paura rimase ferma ancora per una decina di minuti per poi buttarsi per terra, lentamente, scivolando sul ghiaccio. Raccattò delicatamente le cose che aveva preso alla Cornucopia il primo giorno e si allontanò dalla grotta. Aveva il cuore in gola e le emozioni stravolte, negli occhi ancora un’espressione di terrore. Era salva per un soffio: gli Strateghi non l’avevano sottovalutata. Si sforzò di sorridere a una delle telecamere nascoste nell’albero per far vedere la sua forza d’animo ai Capitolini.
Era arrivata la sera e il cielo stava lentamente passando dal bianco azzurrognolo del pomeriggio ai toni rosati del tramonto. Forse era proprio quella la cosa che le mancava: il momento che annunciava la fine del lavoro nel suo distretto, l’undici. Lo aveva visto, lo aveva sentito arrivare e fermare il sole che le bruciava la pelle mentre coglieva i frutti sugli alberi o girovagava per il Mercato Nero pregando che Willow non facesse cazzate. Perché se c’era una cosa che la preoccupava sul serio, era la tendenza di sua sorella ad essere irruenta e a dire le cose sbagliate davanti ai Pacificatori, mettendosi spesso e volentieri nei guai.
India si fermò nelle vicinanze di un albero, una macchia di verde in tutta la distesa innevata dell’Arena, per decidere dove andare e soprattutto cosa fare. Si arrampicò sul tronco facendo presa sui rami più forti, consona che se si fosse appoggiata a quelli deboli sarebbe finita per terra, magari ritrovandosi una costola rotta o peggio. I suoi piedi erano infilati nei buchi di quel tronco mentre si tirava su facendo forza sulle magre braccia, la sacca con i coltelli le penzolava giù dalla cintura. Si sistemò lì, aspettando che i volti dei caduti fossero proiettati nel cielo dell’Arena.
 



Angolino dell'Autrice:

*si ripara dagli eventuali pomodori e fischi*
Ebbene sì, vi ho trollati tutti facendovi credere che era morta *ride sadica*, ma in realtà ho scritto solo che il cannone aveva suonato, non che il Monotauro l'avesse sbranata. Il colpo era per la piccina del tre (amorino) uccisa da Neth. *schiva un pomodoro* Ehm... Non si può rimanere puri e candidi negli Hunger Games, è un dato di fatto e così sarà sempre. Mahinete ha dovuto, vi è stata cstretta, e questo fatto la segnerà per tutto il suo "viaggio" nell'Arena. Mi dispiace, sul serio... Ma passiamo ad altro: la scuola non mi sta danto tregua e mi scuso in anticipo se pubblicherò saltuariamente, ma non trovo il tempo materiale per scrivere. Scusate, sul serio :/ Però ho deciso tutte le morti e Il/La Vincitore/trice e mi sto crogiolando pensando che nessuno oltre me lo sa.
Detto ciò mi dileguo a leggere Inkheart, appena cominciato. Rngrazio tutti per le recensioni, per i consigli (soprattutto quelli di Ivola) ai quali non ho ancora risposto, ma che mi hanno fatta estremamente felice. Ringrazio tutti quelli che mi seguono <3

Talking Cricket
PS: Domani vado a vedere Divergent <3

 

 
 

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Capitolo 7
*** VI La vita è una partita giocata con la Fortuna, spesso persa. ***


 
Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 
 (VI)
La vita è una partita giocata con la Fortuna, spesso persa.
 



«Cosa sono?»
Amethyst indietreggiò con gli occhi viola spalancati, andandosi a schiacciare contro il tronco di un albero. Il suo alleato la guardò sorridendo, per poi indicare gli animaletti che l’avevano tanto spaventata. «Sono coccinelle» le spiegò con calma mentre una si posava su un grande fiore giallo, con delle macchioline rosse sui petali, «portano fortuna.» La ragazzina non accennò a muoversi: era terrorizzata, e poi potevano benissimo essere una trappola degli Strateghi.
«E dai… Non mi dire che ne hai paura!» 
Amethyst scosse la testa lanciandogli un’occhiataccia: quell’esclamazione l’aveva toccata nel vivo del suo orgoglio. «Non ho paura! È solo che dobbiamo andare» esclamò alzando la voce, per poi prendere lo zaino da terra e caricarselo sulle spalle. Colin la seguì sbuffando, «come vuoi tu… Però secondo me eri un po’ spaventata.» 
La ragazzina accelerò il passo lasciandolo indietro: non aveva paura, e se mai ne avesse avuta non l’avrebbe mai detto al suo alleato. Le coccinelle, intanto, continuavano a volare attorno ai due bambini, innocue come solo degli animali così piccoli possono essere.
 
 
Non era mai stato così felice in tutta la sua vita.
Per la prima volta i sorveglianti gli avevano consegnato gli occhiali che tanto gli piacevano: li aveva potuti perfino tenere mentre la solita melodia si diffondeva nell’aria, annunciando la fine del lavoro. Colin pensava fosse antichissima, forse anche più di Panem, e spesso si univa alle Ghiandaie nel tentare di fischiettarla. Congiungeva le labbra, aspirando aria all’interno della bocca, ma non generava alcun suono. Ci aveva provato un milione di volte, senza mai riuscirci.
Sentì la melodia ricominciare per l’ennesima volta e scese, veloce come sempre, da uno dei rami più alti dell’albero. Guardò verso i campi di girasoli vedendo che anche i “dipendenti” della signora Wyatt avevano finito di bruciarsi la pelle sotto il sole cocente e avevano avuto il permesso di tornare a casa. Sentì un fruscio provenire da uno dei rami sopra di lui e si sporse per vedere chi fosse. «Ciao Colin!» vide una bambina pressoché della sua età scendere come una scimmia giù dal tronco.
«Fern!» esclamò il ragazzino sorridendo nel guardare le treccine colorate dell’amica alzarsi per il vento. Era lei quella che saliva sempre più in alto, anche più di lui, e coglieva i frutti più buoni e succosi. «Scendiamo?.» La piccola annuì, togliendosi gli occhiali scuri che le ingrandivano enormemente gli occhi azzurri. Sì, perché Fern era l’unica in tutto il distretto undici ad avere la pelle scura e gli occhi chiari.

Colin fece per scendere dall’albero quando vide la bambina fermarsi su un ramo. «Guarda. Una coccinella! - disse indicando un puntino rosso sul tronco dell’albero - porta fortuna!»
Fern si avvicinò cauta all’animaletto cercando di farlo salire sulla sua mano, non ci riuscì in tempo, l’insetto volò all’istante per andarsi a posare sulla maglietta sdrucita di Colin. «Uffa… Si vede che preferiva portare fortuna a te» sbuffò la bambina, appendendosi a testa in giù al ramo dove prima era seduta. Il ragazzino sorrise e alzò la mano per farla volare via. L’animale si dileguò in un attimo nel cielo, lasciando i due ragazzini a guardarlo felici perché, per una volta, avevano avuto fortuna.
Peccato che non sarebbe durata ancora per molto.
 
 
Colin sapeva che non sarebbe mai più tornato da Fern, che non l’avrebbe mai più vista sorridere, e gli dava un dispiacere immenso. Sperava soltanto di ritardare il più possibile la morte e riuscire a salutare il mondo ricordando il suo amato distretto.
Accelerò il passo per raggiungere la sua alleata che, ferita dall’affermazione precedente, era scappata verso il bosco. «Amethyst! Aspettami!» urlò, non pensando che chiunque avrebbe potuto sentirlo e ucciderlo. La ragazzina si fermò e lo zittì con lo sguardo, pregandolo di stare in silenzio. Continuarono a camminare senza produrre alcun suono se non lo scricchiolare delle foglie sul terreno, ormai quasi privo di ghiaccio. Più si allontanavano dalla Cornucopia, più il freddo diminuiva e gli animali più piccoli si facevano vivi guardandoli con gli occhi spalancati e fuggendo subito dopo. Colin guardava le coccinelle avvicinarsi a lui con un sorriso sulle labbra scure. Una gli si posò addirittura sull’indice della mano destra mentre le altre svolazzavano nelle vicinanze. Inizialmente non si accorse di nulla, ma, dopo che se ne fu volata via, vide un taglietto sul dito. Era piccolo, ma sembrava profondo. Si domandò come se lo fosse fatto, cercando di scorgere Amethyst tra le fronde degli alberi.
Non la vide da nessuna parte: forse era andata più avanti!
Non notò neppure le coccinelle accerchiarlo in una nuvoletta di rosso inframezzato da pallini neri, sentì solamente un gran bruciore a tutto il braccio dove si stavano posando in massa. Cercò di farle andare via, ma si avvinghiarono ancora più strette su di lui. Piangeva, piangeva perché le sue forze lo stavano abbandonando, perché non avrebbe mai più potuto vedere Fern e salutarla per bene. Si ritrovò a pensare a quando gli aveva dato un piccolo trifoglio secco, preso dai campi in un momento di distrazione dei Sorveglianti, supplicandolo di tenerlo ben stretto e tornare a casa. Lo sentiva sul collo, mentre le forze lo lasciavano trasformandolo in un involucro vuoto, dissanguato. Come potevano degli animali così piccoli essere così cattivi? Colin chiuse gli occhi appannati dal suo stesso sangue, ricordando i campi dove era vissuto e cresciuto. Era sicuro che Fern lo stesse guardando, e, forse per rassicurarla, fece un sorriso che lo accompagnò nella morte. Perché non voleva che lo ricordasse così, morto, ma tra i campi, che cercava di fischiettare il motivetto che sentiva ogni giorno alla fine del lavoro.
I suoi respiri si fecero sempre più deboli fino a finire del tutto.
Il cannone suonò un colpo, chiudendo gli occhi del bambino dell’undici per sempre.
 
 
Un quadrifoglio spiccava tra la neve dell’Arena, vicino a lui.
Un dettaglio troppo insignificante perché qualcuno se ne ricordasse.
Ma gli abitanti del distretto undici non lo dimenticarono mai.
Perché, prima o poi, Madama Fortuna si sarebbe accorta di loro.
 
 
 Maple si era fermata nelle vicinanze della Cornucopia, nascosta sotto un ramo di un grande albero. Sapeva di dover abbandonare quel nascondiglio ed era meglio farlo mentre i Favoriti erano ancora al corno, per prendere cibo ed armi e cominciare la “caccia.”  Li vedeva prepararsi all’attacco lanciandosi di tanto in tanto minacce e maledizioni. La ragazza del due stava parlando con quello del quattro, sorridendo leggermente, quasi civettuola, un atteggiamento che sicuramente non le si addiceva per niente. Lui teneva in mano un tridente, sulla schiena uno zaino capiente e pesante. Forse poteva prendere qualcosa lì, quando se ne fossero andati! Il problema era che non accennavano neppure a muoversi. Sentì un colpo del cannone, in lontananza, ma non si chiese neppure chi fosse il morto.
I Favoriti parvero risvegliarsi dal letargo mentre il ragazzo dell’uno, quello dai capelli scuri, sbraitava qualcosa verso di loro. La bambina non provò neppure a scuotersi la neve di dosso, rimase lì, mentre il suo corpo si intorpidiva per il freddo. Aveva gli occhi verdi semichiusi e le orecchie in attesa.
Continuò a guardare i ragazzi, ormai alzati e pronti, che parlavano senza però sentire nulla se non pezzi di un discorso che sembrava essere abbastanza importante. Li vide allontanarsi, in fila, convinti che nessuno si sarebbe avvicinato alle loro provviste. La ragazzina del quattro era l’ultima. Avanzava quasi spaurita, con i capelli bianchi chiusi in una morbida treccia in cui spiccavano di tanto in tanto ciocche argentate. Sembrava una sirena del ghiaccio: era strano da dire ma vedendola sembrava proprio così. Quel soprannome le si addiceva, e anche molto. Portava dei coltelli nella tracolla, quelli che aveva usato per squartare il petto della quindicenne del tre. Maple l’aveva sentita urlare fin da lì, l’aveva immaginata, chiudendo gli occhi sopraffatta dalla stanchezza e l’immagine di quella morte. Aveva chiuso gli occhi, cercando di non immaginare più nulla.
La ragazzina guardò fuori dal suo nascondiglio per vedere se erano andati via, verso il bosco, e, appena accertata la loro partenza, si avvicinò al Corno ghiacciato. Non c’era quasi nulla, se non una fionda, del pane e qualche striscia di carne essiccata. Se le cacciò nello zaino guardandosi attorno furtiva. Le pareti riflettevano la luce in modo strano, generando ombre scure e minacciose, senza che ci fosse un nesso tra la parte che doveva essere riprodotta e il resto. Maple si mise le mani in tasca, rabbrividendo per il freddo che sembrava averla avvolta dalla sua entrata in quel posto. Sentì dei passi e cercò di entrare ancora di più, nascondendosi nel buio contro le pareti, appiattita contro il ghiaccio.
«Strano… Avrei giurato che ci fosse qualcuno» disse una voce maschile mentre lo scricchiolio si fermava, facendo emettere alla piccola del sette un sospiro di sollievo.
«Hazard, ma dai! Che sarebbe così coglione da stare qui?» domandò una femminile, sottile e gelida come la Cornucopia.
Il rumore di qualcosa di caduto per terra li fece voltare ed avvicinare alla parte buia.
«Ehi, scricciolo, cosa credevi di fare qui?» chiese canzonatorio il ragazzo, accarezzando il tridente con la punta delle dita.
La piccola corse verso l’interno, ancora di più, mentre i passi dei due ragazzi la inseguivano per tutta la galleria.
«Vogliamo giocare a nascondino? Giochiamo allora!» esclamò l’altra, con una risata agghiacciante, mentre si addentravano nella caverna.
Maple trattenne le lacrime sforzandosi di andare avanti, anche se ormai non vedeva più nulla: si sentiva debole e stanca, distrutta da quello sforzo minimo che stava facendo per salvarsi. Sentiva i loro respiri sul suo collo, arrancando sul ghiaccio certa che si sarebbe accasciata lì, aspettando che le facessero cosa cazzo volevano. Bastava che raggiungesse Thor, le andava bene così.
«Non arrenderti mai, Mape. Mai.»
Si dice che la mente umana immagazzini tutto per poi farlo ricordare alla mente umana nel momento del bisogno. Per Maple fu così perché quella frase, detta da Thor in una circostanza che non riusciva neppure ad abbozzare, le fece tornare la forza di scappare dai suoi inseguitori. La piccola del sette scivolò sul ghiaccio, facendo appena in tempo ad accorgersi che le sue gambe avevano ceduto, prima di sentire il suo corpo cadere nel nulla.

 

NDA:

In realtà non avrei tanta voglia di fare le Note dell'Autrice, ma credo siano necessarie :3
Partiamo con ordine... Le coccinelle assassine sono state una trovata che mi è venuta tanto tempo fa, quando stavo sulla neve dai miei cugini, e così ho deciso di usarle in questo capitolo, per uccidere Colin. Mi dispiace tantissimo per quello scricciolo, soprattutto per Fern, ma i piccini non sopravvivono agli HG :'( Credo di dover spiegare chi sia la signora Wyatt, perché nessuno di voi l'ha mai sentita nominare. E' una delle proprietarie terriere del distretto 11, che sfrutta i ragazzi e soprattutto i bambini per coltivare i campi. E' stata inventata da "Triscele_Celtica98" e io mi sono presa la libertà di citarla, spero solo che non le dispiaccia. Anche perché, quando farò uno SPIN-OFF su Willow (la sorellina di India) credo verrà nuovamente citata.
Per Maple, invece, la situazione si fa complicata. Come credo abbiate capito, l'Arena si divide in due parti: una superiore e una inferiore. Mape è caduta in quella inferiore, nelle grotte di ghiaccio, e dovrà trovare un modo per uscire da lì, se non vuole finire incornata dal Minotauro, ovviamente.
Mi scuso per le due parolacce contenute nel suo pezzo, ma non volevo (né potevo) ometterle. Se le avessi tolte mi avrebbero più dato una sensazione di aver creato un dialogo poco veritiero, considerando il carattere che hanno i Favoriti.
E niente, vi metto l'elenco dei morti fino ad ora :3

DISTRETTO 1: Nessuno, per il momento.
DISTRETTO 2: Nein.
DISTRETTO 3: Entrambi.
DISTRETTO 4: Nicht.
DISTRETTO 5: Entrambi.
DISTRETTo 6: Solo la femmina.
DISTRETTO 7: Solo Thor.
DISTRETTO 8: Solo il maschio.
DISTRETTO 9: La femmina.
DISTRETTO 10: La femmina.
DISTRETTO 11: Oggi se n'è andato Colin :'(
DISTRETTO 12: Solo il maschio.

Talking Cricket (vi piace come nuovo nick?)

 

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Capitolo 8
*** VII Abbiamo sciolto il nodo ed issato la vela, dimenticato tutti i nostri ricordi ***




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 (VII)
Abbiamo sciolto il nodo ed issato la vela,
dimenticato tutti i nostri ricordi.
 
 


Cassiopea non avrebbe mai saputo dire da quanto tempo era lì, forse giorni, forse ore. La sua mente era intorpidita per il gran freddo e non riusciva più a muoversi. Doveva essersi addormentata tempo prima, mentre stava cercando un po’ di cibo. Aveva trovato una scusa per lasciare i suoi alleati e stare per conto suo. Non era mai stata brava a fare amicizia: nel reparto dove lavorava, quello dei telai, non rivolgeva la parola a nessuno, anche per paura delle severe punizioni che venivano inflitte agli scansafatiche. La ragazza dell’otto non era mai stata particolarmente coraggiosa: lavorava in silenzio, non faceva domande, lasciava che tutto le scorresse addosso, specie gli insulti. Era una delle poche che non era mai stata sgridata dai Sorveglianti e spesso, per quel motivo, gli altri orfani le davano addosso dicendo che era la loro preferita.
Non era vero.
Lavorava bene e con sveltezza, senza distrarsi. Il suo era un dono: riuscire a dar vita a qualunque stoffa stesse tessendo, intrecciando i fili con cura. Ma nessuno pareva interessarsi della sua bravura; per gli altri era solo “la svitata delle stelle” perché ogni notte riusciva a salire sul tetto per riempirsi gli occhi con qualche falce di luna e sperare di ricominciare a sognare come faceva una volta. Aveva smesso di riuscirci a soli undici anni, ma ogni notte ci riprovava, chiudendo gli occhi rivolti al cielo stellato.
Anche nell’Arena non aveva perso neppure per un attimo di vista il cielo, soprattutto la notte, ma non aveva ancora visto la W che amava così tanto. Era strano, ma aveva dovuto farsene una ragione. Eppure continuava a provarci, mentre il biondo del sei sbuffava contrariato. Nat, invece, non aveva detto nulla: si era limitato a guardarla con l’intensione di farle una domanda che però non aveva neppure pronunciato, perché non voleva essere invadente. Cassiopea gliene era grata. Ci sono cose che ognuno vuole tenersi per sé, e le abitudini della ragazza facevano parte di quelle.
Si era chiesta varie volte come avesse fatto a capire che era meglio non parlarne, ed era arrivata alla conclusione che probabilmente aveva molta familiarità con i segreti. Più lo guardava più si accorgeva che anche lui aveva qualcosa di cui non voleva parlare, forse inerente al livido che la ragazza aveva notato riguardando le Mietiture alla televisione, forse ad altro. Nemmeno lei, però, gli aveva chiesto nulla: avevano solo parlottato, cercando di decidere che direzione prendere. Poi si erano fermati e ognuno si era dedicato a fare qualcosa: lei era andata a cercare un po’ di cibo, gli altri erano rimasti lì, cercando di accendere un fuoco che non sarebbe mai durato abbastanza per scaldarsi, ma solo per avere qualcosa da fare e distrarsi dalla paura che provavano tutti.
Era notte, nell’Arena tutto appariva calmo e sereno, immobile. Cassiopea cercò di alzarsi lentamente, scuotendosi la neve di dosso, ma non ne aveva le forze. Così rimase lì, incapace di muoversi, con la voce troppo ghiacciata per chiamare aiuto. Provò a urlare, ma gli occhi le si chiusero involontariamente, coperti dalle lacrime. Sentì dei passi schiacciare lentamente il ghiaccio vicino a lei, poi diventarono sempre più veloci. Vide una lama trapassarle lo stomaco, poi più nulla.
Riuscì a guardare il cielo per un’ultima volta, mentre posava le mani macchiate del suo stesso sangue sulla ferita che le squarciava l’addome, e notò che la sua costellazione era solo spostata verso destra, per darle l’addio. Sorrise leggermente, gli occhi lucidi chiusi, per poi addormentarsi.

 

 
Il cannone suonò per l’ennesima volta, debole,
portando con sé la ragazza dell’otto.
Si dice che non sia mai morta,
che sia diventata una delle stelle più belle del cielo.
Prima di allora era successo una sola volta,
con un bambino dagli occhi color dell’acqua, del suo stesso distretto.
Gli anziani raccontano lui l’abbia accompagnata,
e che ora i loro fili del destino siano intrecciati.
 
 
 
 
Una ragazzina procedeva verso il mercato reggendo tra le mani una cassa. I suoi piedi scalzi affondavano nella sabbia umida che abbondava in tutto il distretto quattro. Non si fermò neppure per riposarsi, continuò a camminare, barcollando per il gran peso che gravava sulle sue esili braccia. Le mancavano solo pochi passi e finalmente sarebbe arrivata alla bancarella del pesce, dove lavorava.
Quando fu a ormai pochi metri fischiettò tre note per avvertire il suo datore di lavoro di essere arrivata, di nuovo in ritardo. «E’ questa l’ora?» le chiese un ragazzo di pochi anni più grande di lei, senza darle neppure il tempo di riprendere fiato. «Non riuscivano a prendere i pesci, Hito, mio padre e gli altri. Non abboccavano» spiegò seccata, andandosi a sedere al bancone e tirando fuori un coltellino dalla tasca dei pantaloni. L’altro sbuffò, «non mi importa. Tu domani devi essere qui all’ora giusta, anzi, anche in anticipo. Ché il capo se la prende con me se fai tardi!» aggiunse lanciandole un’occhiataccia.
Mahinete incise il primo pesce, privandolo delle interiora e della pelle, un lavoro schifoso senza dubbio, ma che le permetteva di guadagnarsi il pane e, magari, riuscire a comprare un nuovo coltellino e un vestito nuovo che non le andasse stretto. Per il momento si arrangiava con le camicie dei suoi fratelli, rimboccandosi le mani, ma non sarebbero andate bene per altro tempo.
Mentre lavorava si guardava attorno, incontrando spesso gli occhi dei lavoratori come lei, o quelli dei bambini che scorrazzavano tra le bancarelle. Ascoltava persino il suono del mare, poco lontano da dove era, e il partire dei pescherecci più ampi, dove non era mai stata ammessa. Lei vendeva il pesce: non navigava, e quello era un dato di fatto.
 
«Mahinete, Mahinete! Mi stai ascoltando?»
La ragazzina scosse i capelli bianchi, facendoseli finire davanti agli occhi. Erano legati in una lunga e morbida treccia che le arrivava fino a metà busto, forse l’unica cosa che la soddisfaceva di lei. Avevano lo stesso colore della spuma che si creava nell’infrangersi di un’onda contro gli scogli o la sabbia.
La rendevano particolare, perché nessuno era così tra i pescatori.
Guardò il suo mentore, un giovane dai capelli biondi e la pelle abbronzata, che aveva vinto soli tre anni prima. Aveva due anni più di lei, ma la superava di almeno mezza spanna. Fino a poco tempo fa poteva giurare di averlo visto partecipare alla pesca, ma poi si era isolato dal resto del mondo.
«Sì… Sì ti sto ascoltando» rispose piccata, non aveva voglia di parlare, non lì, non in quel momento.
«Sai, mi ricordi una persona» disse Finnick sorridendo leggermente, gli occhi velati di una limpidezza fanciullesca, inadatta ad un Vincitore come lui. Mahinete lo guardò di rimando, cercando di concentrarsi sulle sue parole, ma, per quanto ci provasse, non ci riusciva. I ricordi le erano rimasti ancorati nel cuore, perché non aveva alcuna intensione di lasciarseli scappare, di dimenticare tutta la sua vita per quegli stupidi Giochi. Peccato che non la potessero in alcun modo aiutarla a sopravvivere, ma almeno le davano la sensazione di essere a casa, osservando il lento incresparsi delle onde.
Hazard, dall’altra parte della stanza, sogghignava.
«Neth!» Finnick scosse le spalle della sua protetta, costringendola a girare la testa verso di lui.
«Scusami… E’ che proprio non ce la faccio a rimanere concentrata» sussurrò reprimendo un singhiozzo, non sapeva neppure perché stesse per piangere, ma sentiva che non sarebbe riuscita a resistere a lungo.
Il biondo le passò una mano tra i capelli, con un gesto un po’ goffo, per poi accarezzarle la guancia dove una lacrima brillava solitaria.
«Shh, tranquilla… Non permetterò che ti succeda nulla di male, ok, piccoletta?» le passò una zolletta di zucchero e rimase lì, a guardarla mentre la succhiava regalandogli il primo sorriso di tutta la giornata.
 
 
Aveva deciso di separarsi dai Favoriti, una delle tante decisioni che era sicura le sarebbero state fatte pagare - una per una - e così stava camminando per allontanarsi dalla Cornucopia. Sotto il peso degli zaini, i suoi piedi affondavano nella neve fresca, mentre fiocchi bianchi le si posavano sui capelli.
Nevicava.
Uno spesso strato di nebbia copriva il paesaggio davanti a lui, intervallato da alberi alti e dai rami sottili. Non aveva mai imparato a salire bene sugli alberi ma era sicura che issarsi su uno di quei rami equivaleva a firmare la sua condanna a morte. Sbuffò scuotendosi la neve di dosso, che nel frattempo le aveva inzuppato i vestiti, e si ficcò il cappuccio fin sopra i capelli. “Almeno – pensava quasi scivolando sul ghiaccio – la nebbia mi coprirà e la nevicata cancellerà le tracce.” Sperava soltanto che non ci fossero ibridi in giro, impugnando con la mano libera il coltello dai margini lisci e taglienti che aveva preso nel Corno insieme a cibo, un sacco a pelo, e una sacca contenente lame di vario genere. Era pronta a difendersi, ma non ad uccidere.
Non di nuovo.
La quindicenne del quattro si guardava attorno, indecisa su da che parte andare. Sentì dei passi dietro di lei, che la seguivano, e il suo cuore che le martellava nel petto, ma decise di non girarsi per non aumentare la paura che già provava. Una grotta le apparve davanti ma decise di non entrarci, continuando a camminare spedita per la sua strada. Poteva dire che l’Arena era un cerchio perfetto, al cui centro spiccava la Cornucopia da cui si diramavano dei lunghi cunicoli, ma i Favoriti parevano non averlo capito, e avevano preferito dare la bambina del sette per scomparsa e morta per gli ibridi. Peccato che il cannone non avesse suonato per lei, quella notte.
Mahinete si sforzò di mettere un piede davanti all’altro e muoversi più velocemente, ma il freddo si stava impadronendo di lei e rallentandole i movimenti degli arti. Si sentiva stanca e aveva bisogno di riposarsi, ma non poteva lasciarsi andare sulla neve, nel bel mezzo di una nevicata.
«Cosa sei a fare qui? Ti sei perduta, pecorella smarrita
Vide una figura avanzare verso di lei, con un cappuccio nero calcato fin sopra gli occhi e una balestra sulla schiena. Indietreggiò istintivamente portandosi le mani alla cintura dove luccicavano i coltelli. Aveva paura, una dannatissima paura che non le permetteva di ragionare per bene. Ricordava di aver sentito parlare, da piccola, di un ragazzo che riuscì a sopravvivere dopo aver sfidato la Morte.
Ormai l’ombra era vicina a lei, innevata, pronta a ucciderla: le tolse il coltello di mano fermandole il braccio pronto a scattare per infliggergli un colpo mortale.
La lama cadde a terra tintinnando sul ghiaccio del terreno.
 
 
NDA:

E sono tornata... In realtà mi stava frullando in testa l'idea di abbandonare anche questa long, dopo la prima che ho fatto, ma poi ci ho ripensato... Ed eccomi qui, a pubblicare. Mi scuso per tutto il tempo che ho fatto passare. Ma davvero: non ho più uno straccio di ispirazione e sono in una fase di blocco :'(
Non escludo di spiattellarvi chi vince senza finire la long... O di uccidere tutti senza esclusione di colpi :3
Forse è meglio passare al capitolo, che è meglio *alla Quattrocchi*
Questa volta abbiamo dovuto salutare Cassiopea e mi dispiace tantissimo :'( Era uno dei miei primi OC e già moriva nella mia raccolta, ergo... Mi sono semplicemente basata sul suo capitolo:  "le stelle." Il paragone con quel ragazzino dagli occhi color ghiaccio è una cavolata che mi sono inventata perché ho un altro OC dell'otto (in un'interattiva) e anche lui è fissato con le stelle. Morirà certamente nella 27esima Edizione. Si chiama Hya Denver.
Ora, però, passiamo alla questione Mahinete... Essì: è cretina ed è scappata dai Favoriti. E chi poteva trovarsi davanti? RAIKA <3 Non vi dico come va a finire, però sappiate che li amo troppo entrambi <3 E nulla. Finno è il mentore di Neth insieme a Conn(or) che è di proprietà di Paolinz e comparirà nelle prossime puntate(?)
Ou revoir e vado a fare una fan art Clato e a scrivere il prossimo capitolo <3

Talking Cricket
PS: Ho scitto una OS su Nat (Tributo del 10). E' questa "errore" <3

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Capitolo 9
*** VIII In un mare di neve ***


Si ringrazia ThanatoseHypnos per il banner stupenderrimo <3


(VIII)
In un mare di neve.
 


Il coltello era caduto per terra facendo un rumore appena percettibile.
Mahinete non aveva neanche provato a dibattersi, era rimasta quasi ferma, valutando la mossa più intelligente da fare per liberarsi dalla presa ferrea dell’altro Tributo.
«Non avrei mai pensato di trovarti qui» sussurrò la voce aumentando la pressione sul suo collo con la punta di una freccia. Le teneva un braccio dietro la schiena, immobile.
La ragazzina cercò di liberarsi scattando di lato ma l’unico risultato fu che il cappuccio del ragazzo si abbassasse facendole vedere la sua faccia.
«Sei quello del nove, giusto?» chiese con un filo di voce.

Lui sorrise, i suoi occhi chiari sembravano risplendere alla luce della luna. «E tu sei quella del quattro» rispose allentando leggermente la presa sul suo collo. Mahinete riprese fiato portandosi le dita alla gola.
«Perché non la facciamo finita? Uccidimi, tanto lo farai comunque» sbottò lei cercando di preservare il suo onore, la sua dignità.
«Non volevo ucciderti in realtà,
pecorella.» Raika le passò la mano tra i capelli bianchi, scompigliandoli leggermente, un gesto di scherno che diede alla ragazzina la forza di reagire. Lo fece inciampare tra i suoi piedi e cadere nella neve, poi gli puntò il suo coltello alla gola. Gli occhi del ragazzo sembravano scrutarla dal basso quando proruppe in una risata.
«Certo che per essere una
pecorella ci sai fare» disse allontanando la mano dell’albina con calma, quasi senza sforzo.
Erano confusi, entrambi, su cosa avrebbero dovuto fare: si limitavano a cercare di spaventarsi a vicenda quando in realtà non avevano nessuna intenzione di uccidere. Raika si alzò in piedi scostandosi di dosso la piccola.
«Io volevo proporti un’alleanza» sbottò mentre si scuoteva la neve di dosso, «siamo sulla stessa barca, e non credo tu voglia tornare dai Favoriti.»

Aveva tremendamente ragione. Mahinete annuì guardando quel ragazzo che, sebbene all’Allenamento avesse allontanato tutti, non aveva avuto alcun problema ad articolare un discorso con lei.
«Okay» tese la mano verso la sua, lui la strinse forte sorridendo nuovamente.
«Allora non sei così stupida come pensavo, piccoletta.»

«Non chiamarmi così!» sbottò lei punta nel vivo da quel soprannome che detestava tanto. Il ragazzo si fece improvvisamente serio, «va bene… Frost. Io sono Raika.»
 
 
Fino al giorno prima non avrebbe mai pensato che sarebbe finita così, lei alleata con un Tributo dei distretti remoti, eppure era successo e quel ragazzo non avrebbe potuto esserle più utile. Era furbo, sapeva combattere, e non si perdeva in discorsi inutili. Potevano considerarsi una bella squadra, insieme. Stavano camminando già da un bel po’ di tempo quando Raika si fermò di colpo tra due alberi.
«Che c’è?» 
Il ragazzo le fece cenno di tacere sbattendo leggermente il piede sul ghiaccio. Era tutto troppo fermo, non si sentiva neppure il cinguettare di un uccello, il muoversi di qualche ibrido. Fu lui a vedere per primo la valanga. Indicò una sottile linea bianca che si estendeva ai margini dell’orizzonte, sulla montagna. In meno di dieci secondi si allargò fino a distruggere tutti gli alberi che si paravano davanti al suo cammino: si avvicinava così velocemente che i ragazzi ebbero a malapena il tempo di reagire.
«Corri!» urlò Raika afferrando la mano dell’alleata e la trascinò via, correndo sulla neve mentre i suoi piedi vi affondavano dentro. La neve lo avvolse come un vortice costringendolo a lasciarla. Alzando gli occhi vide la giacca scura di Mahinete, ma non riuscì a prenderla per la forza con cui stava venendo scaraventato via.
«Aggrappati ad uno degli alberi!» gridò cercando la ragazzina con gli occhi.
Si voltò appena in tempo per vedere il tronco di un pino, sentì un dolore lancinante alla fronte prima di svenire, ormai aggrappato saldamente al tronco.
 
Quando riaprì gli occhi scorse il sole fare capolino tra le fronde agitate degli alberi, ormai distrutti dalla neve. Tutt’intorno regnava lo stesso silenzio irreale di prima, come se non fosse successo nulla. Sentiva un dolore lancinante alla testa, il cuore gli martellava in petto. Raika scese con calma dall’albero, fino a poggiare i piedi sulla terra.
«Neth!» gridò cercando la sua alleata finché non la scorse in lontananza.
La raggiunse per poi staccarle le braccia dal tronco che l’aveva salvata. La ragazzina gli si buttò tra le braccia visibilmente scossa, sussultando per lo choc. «Ti fa male?» chiese indicando la ferita alla testa da cui stava uscendo un rivolo di sangue.
«Shh, va tutto bene… Ho la testa dura, io» rispose stringendola forte a sé. Non era mai successo che abbracciasse qualcuno, ma gli sembrava la cosa più naturale da fare in quella situazione. «Ci eravamo allontanati troppo dagli altri Tributi» le spiegò mettendole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mahinete annuì, tirando su con il naso e staccandosi da lui. Prese una pomata dalla sua tasca e gliela porse, «l’ho presa dai Favoriti - spiegò sorridendo leggermente, - dovrebbe far rimarginare quel….»
Non riuscì a finire la frase, fermata dal suono del cannone.
 

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Erano fermi da più di un’ora, a valutare i danni provocati dalla valanga. L’avevano vista avvicinarsi alla zona est e distruggere alcuni alberi, e poi avevano sentito un colpo di cannone. Nat sedeva su una roccia, i piedi appoggiati sul ghiaccio e lo sguardo perso nel vuoto.
Gli stava capitando spesso, nell’Arena, rivivere la sua vita in flashback, pensare anche ai più piccoli particolari delle giornate trascorse con Gea. Sembrava che il suo cervello gli stesse mandando dei messaggi, presagi di una morte imminente. Era così semplice morire nei Giochi: un colpo netto ed eri per terra, aspettando il rombo dell’ hovercraft che ti avrebbe riportato a casa, morto. Il ragazzo si ritrovò a tormentarsi i bottoni della giacca, chiudendola per poi riaprirla, senza arrivare ad una conclusione. Non aveva mai saputo orientarsi bene: non conosceva i punti cardinali, da che parte sorgeva il sole. Al distretto gli bastava sapere che all’alba doveva essere ai campi, a pascolare le pecore vicino al fiume, e alla sera doveva essere a casa un’ora prima del coprifuoco. Quando tornava poteva andare anche a prendersi una focaccia, godersi il suo consueto tozzo di pane bagnato nel latte, ed aspettare che suo padre rientrasse.
«Ehi! Nat, mi stai ascoltando?» Xavier gli scosse le spalle, costringendolo a guardarlo negli occhi. Il moro annuì, per poi alzarsi bruscamente in piedi, «cosa hai detto?»
«Ho detto che non mi ascolti mai, e che, se non vogliamo fare la fine di otto, dobbiamo muoverci» si caricò lo zaino in spalla allontanandosi verso destra. Nat si chiese come facesse a parlare così a cuor leggero di una ragazza che era morta per colpa loro, perché non erano lì quando il maschio dell’uno l’aveva trafitta al cuore. Lui l’aveva vista. Mentre esalava l’ultimo respiro, mentre la neve si tingeva di rosso, lui la stava osservando nascosto dietro ad un albero.
Sapeva che i Favoriti erano vicini e aveva preferito seguirla a distanza, per occuparsi di lei. Eppure non le aveva detto nulla di quello cui stava andando incontro, e non l’aveva salvata da quella morte.
Era tutta colpa sua.
Non aveva avuto il coraggio di fermare Golia, non aveva creato un diversivo: era rimasto fermo mentre una lacrima gli scendeva solitaria lungo la guancia. Gli era capitato tutto davanti senza che lui muovesse un solo muscolo per fare qualcosa. Suo padre aveva ragione a definirlo un codardo, dopotutto quando aveva compiuto un atto di coraggio? Si ritrovò a pensare a tutte le volte che gliel’aveva sputato in faccia, che l’aveva insultato dicendogli di essere un coniglio, prendendolo a schiaffi nel migliore dei casi. E lui rimaneva fermo, incassando i colpi contro il muro, aspettando la fine di quella furia per scappare in soffitta a piangere. Non riusciva a fare altro se non asciugarsi le lacrime e tirare su con il naso. Ci aveva provato ormai tante, troppe volte, senza riuscire a soddisfarlo per una volta.
Nat seguì il suo alleato, con passi svelti, lasciandosi dietro il masso su cui si era seduto. Sentiva che l’aria stava diventando meno fredda, mano a mano che si allontanavano dalla Cornucopia, dal lago ghiacciato posto al centro dell’Arena. Non sapeva esattamente dove volesse andare Xavier ma decise di continuare a seguirlo senza chiedergli nulla. L’unica cosa certa era che dovevano nascondersi al sicuro, e forse, camminare senza una meta, gli dava quell’impressione.
Continuarono a camminare fino a una radura, identica a tutte le altre, dove, coperto da un sottile strato di neve, un corpo giaceva supino. Dal petto gli usciva un sottile rivolo di sangue, nel punto dove una freccia gli aveva trapassato il corpo. Nat si fermò all’istante, capendo che quello era il Tributo del quattro.
 

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Era tutta colpa sua.
Amethyst corse per pochi altri metri, prima di buttarsi a terra. Le lacrime le sgorgavano copiose dalle guance, arrossandole gli occhi stravolti. Dopo aver sentito il cannone, era rimasta ferma, in attesa di capire chi fosse morto, per poi arrivare all’amara conclusione che Colin era stato ucciso da qualcuno.
Poteva chiamarlo “spirito di conservazione”, “voglia di vivere” ma non cambiava nulla: Colin era morto, e non sarebbe mai più tornato a rallegrarla con le sue battute. Si sentiva persa, smarrita in un posto che non aveva nulla di familiare. Camminava senza una meta precisa, scappava senza alcuna idea in mente. Si sentiva vuota, dentro, e spregevole.
«Sono coccinelle, portano fortuna»
«Shh, siamo ancora vivi»
Amethyst strinse la testa tra le gambe, soffocando a stento i singhiozzi. Non le era mai capitato di sentirsi così. Aveva pianto tante volte, ma senza quella orribile vocina in testa che continuava a mormorarle che avrebbe dovuto aiutarlo e non scappare via. Nel dodici era facile soffrire: bastava il fischiettare di un uccello davanti alla Miniera, e tutto cambiava in un soffio. Ricordava alla perfezione ogni singola volta che aveva visto donne, anche con i bambini in grembo, pregare perché i loro uomini tornassero. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire il pianto di sua madre, poi il rollare di un filo sul rocchetto. La aiutava spesso con il suo lavoro: quando non era a scuola faceva gli orli delle camice, cuciva le asole a casacche sgualcite fino a farsi sanguinare le unghie cortissime. A volte aveva persino avuto il permesso di andarle a consegnare direttamente ai proprietari, guadagnandosi un buffetto sulla guancia o, più raramente, un biscotto o qualcos’altro da mangiare. Allora sorrideva al cliente di turno, ringraziava come le aveva insegnato sua madre per poi ficcarsi il cibo in bocca.
Amethyst continuò a camminare verso il bosco che diveniva sempre più fitto. Le chiome degli alberi filtravano la luce azzurra, che illuminava il suolo solo in alcuni punti. Non faceva più tanto freddo e, se si tendeva l’orecchio, si poteva persino ascoltare il ronzio degli insetti, sentire l’odore delle foglie marce sul terreno. Era lo stesso odore che sentiva ogni giorno, passando davanti alla recinzione.
Era talmente persa nei suoi pensieri da non accorgersi neppure di essere finita in una trappola, tirata su da una rete. Dalle labbra non le uscì una sola parola, mentre lacrime di impotenza si facevano posto sulle sue guance.
Vide due occhi chiari, dallo stesso bagliore del vetro alla luce, avvicinarsi a lei.
I suoi li chiuse, aspettando con orrore il momento in cui tutto sarebbe finito.

 

Angolino dell'Autrice:

Voi non potete sapere quante volte mi si è chiusa la pagina oggi mentre pubblicavo: è stato uno strazio, perché volevo fare in fretta e invece mi sono ritrovata a dover mettere l'html almeno tre/quattro(o Tobias) volte... Una cosa veramente assurda... Credo che il mio computer si stia riempiendo di virus e non posso fare nulla per evitarlo :/ Va lento come un bradipo e devo pigiare almeno cinquanta olte su un tasto per scrivere la suddetta lettera. E' snervante .-.
In ogni caso... Partiamo dal caso Raika/Neth, perché è una ship che mi piace tanto. Raika l'ha osservata per un po' prima di decidere di volerla come alleata. Io li shippo moltissimo, perché Mahinete è l'unica a riuscire a tirar fuori un po' di sensibilità da quel cretino.
Xavier e Nat sono tornati alla riscossa e sono persino riusciti a trovarsi davanti il cadavere di Hazard, ucciso da "qualcuno" che non vi rivelerò ora. Diciamo che sono molto a rischio perché i Favofighi sono in allerta e nelle vicinanze.
Ora... Amethyst è caduta in una trappola ed è fortunata se ne uscirà viva.
Non spiego nient'altro ché devo scendere con mia madre e non posso farle aspettare altro tempo.

Talking Cricket
 
   

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Capitolo 10
*** IX Nulla avrebbe potuto essere più logico ***




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(IX)
Nulla avrebbe potuto essere più logico.
 
 


Ridevano.
Amethyst chiuse nuovamente gli occhi, accecata dalla luce della torcia che le stavano puntando contro. Stava tremando, ma cercò di farsi forza e guardare i suoi aguzzini per capire chi fossero. Chi era ancora vivo, nell’Arena? Il maschio del nove, quello del sei e anche quello del dieci. La piccola del sette. I Favoriti. Rabbrividì inconsciamente all’ultima ipotesi, costringendosi ad aprire gli occhi.
«Toh… Lo scricciolo s’è deciso a smettere di tremare e guardare in faccia i cacciatori!» esclamò una ragazza dai capelli biondi, giocherellando con un coltello. Lo lanciava e lo riprendeva, passandoselo tra le mani con abilità. Amethyst la guardò negli occhi, ormai conscia che il suo peggiore incubo era reale.
«Certo che le tue trappole funzionano bene, Hurry!» aggiunse, pronunciando quel soprannome con un’espressione divertita. Aveva gli occhi freddi come il ghiaccio circostante e i capelli biondi, spruzzati di neve alle estremità.
«Certe volte servono» sbottò l’unico ad avere i capelli blu in quell’edizione e gli altri Favoriti accolsero la sua risposta con un’esclamazione di felicità. Amethyst li osservò uno per uno, rabbrividendo leggermente.
«Non possiamo continuare a giocare così.»
La bionda si girò di scatto verso il giovane che aveva pronunciato quelle parole. Il suo sorriso si spense in un attimo. «Dai Golia! È divertentissimo» disse, indicando la rete con un ghigno.
«E’ da coglioni. Non ha senso. Al massimo dovresti capire che quella è una bambina, e non un Tributo degno della nostra attenzione» sussurrò quello, con una smorfia di disprezzo. Che gusto c’era ad uccidere una bambina? A giocarci come con un topolino in una trappola? Ricordava di averlo fatto, una volta: aveva osservato un gatto randagio giocare con uno di quei piccoli, insulsi animaletti. Aveva visto il felino acquattarsi e lasciarlo scappare, per poi riprenderlo in un attimo e lanciarlo per aria. Erano furbi, i gatti, ma non uccidevano con stile. Volevano solo far diventare la paura delle vittime più grande, in modo penoso.
Golia guardò la piccola del dodici negli occhi, ridendo del suo tentativo di guardarlo male.
«Dovremmo farla finita» disse in un soffio e avvicinò la sua faccia a quella della preda. «Decidete voi, io me ne vado a cacciare qualche Tributo degno della mia attenzione» esclamò, calcando la voce sull’aggettivo possessivo, poi se ne andò e i suoi passi divennero sempre più lontani, fino a sparire del tutto.
Sentì uno sparo di cannone, quando ormai era troppo lontano per sentire le urla di ‘dodici’, poi più nulla.
 

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L’aria era gelida, laggiù, gelida e viziata.
Maple era seduta per terra, con la testa poggiata tra le gambe. Non le era mai piaciuto stare in posti chiusi. Si sentiva la testa girare e non riusciva a ragionare per bene. Non ne aveva paura, ma non riusciva a smettere di pensare che magari, quelle pareti, sarebbero crollate schiacciandola. Ricordava che non era sempre stato così, che non aveva sempre avuto quella sensazione di precarietà. Al suo distretto, lei e Thor eludevano spesso la sorveglianza dei Pacificatori, passando sotto la recinzione che ormai non era più elettrificata. Bastava tendere l’orecchio, per vedere se era accesa oppure no, e regolarsi di conseguenza.
Quel giorno erano andati oltre i confini che si erano posti, oltrepassando perfino la vecchia fonte, con l’intenzione di cercare qualche animale a cui dare la caccia. Thor aveva dei coltelli, nella borsa, regalo del loro padre, mentre sua sorella portava una fionda legata con dello spago ai pantaloni. Gliel’aveva insegnato lui ad usarla, tanto tempo prima.
Maple ricordava di aver sentito dei rumori provenire dalla strada, e che suo fratello l’aveva trascinata via, nascondendosi dietro ad un cespuglio. Era una macchina, da dove stavano uscendo degli uomini vestiti in bianco. La piccola stava per urlare ma suo fratello le aveva messo una mano davanti alla bocca. Si erano guardati attorno, come animali in trappola, per poi correre verso una grotta nelle vicinanze. Lì il rumore dei loro passi rimbombava tra le pareti, delle gocce d’acqua cadevano dal soffitto. Era stata la prima volta che la piccola si era accorta di non riuscire a stare lì dentro. Ad un certo punto erano caduti dei massi davanti all’entrata, bloccandoli all’interno. Maple non ricordava come avessero fatto a uscire, ma quella sensazione di paura non l’aveva più lasciata.
Se solo ci fosse stato Thor a stringerla tra le braccia, sussurrandole parole dolci tra i capelli! Ma lui era morto, ucciso dal ragazzo del due.
La piccola soffocò un singhiozzo, inghiottendolo come bile. Era poca la luce che riusciva ad entrare nella grotta, veniva filtrata dal soffitto, e proveniva da alcuni buchi nel ghiaccio. Si guardò intorno, socchiudendo gli occhi verdi. Le pareti non riflettevano la luce, sembrava anzi che fossero attraversate dai raggi. Maple si alzò con le gambe che tremavano, andando ad appoggiarsi contro una delle lastre di ghiaccio. Vi si specchiò: si sentiva un mostro pur non avendo ancora ucciso nessuno. La voglia di vendetta la stava logorando lentamente, dall’interno.
Dopo pochi secondi il riverbero cambiò, non riflettendola più. Maple fece un passo all’indietro, sconvolta, poi sorrise. Vi si avvicinò nuovamente e appoggiò l’orecchio contro la superficie ghiacciata. Ticchettò con le dita sulla lastra. Non faceva rumore, non faceva alcun rumore. La ragazzina ci provò nuovamente, e nuovamente non sentì nulla, se non il battere dei suoi denti. Sorrise.
«Ogni sistema ha i suoi punti deboli. Vedete di coglierli e sfruttarli a vostro vantaggio» aveva detto Blight, il suo Mentore. Poi se n’era andato nella sua camera, lasciandola a riflettere da sola.
 

Le luci la stavano accecando.
Maple sbatté gli occhi, stringendo con più forza il bracciolo della sua sedia, che aveva sostituito la mano di suo fratello Thor.
«Ma quanto sei bella, stasera!»
La piccola alzò lo sguardo, osservando la faccia del buffo presentatore degli Hunger Games. Aveva cambiato il colore dei capelli e quello dei vestiti, per l’ennesima volta. L’anno prima era un verde menta, mentre quello era una tonalità più vicina al viola lavanda. A Maple piacevano i fiori di lavanda, il loro profumo soprattutto, ma decise di stringere le labbra, senza lasciarsi scappare una sola parola.
«Su, su – l’uomo le carezzò leggermente la mano, prima di continuare – Un po’ nervosette, stasera. Dico bene?»
Il pubblico applaudì come risposta, esultando per l’ennesima bambina da mandare al macello.
Maple continuò a far dondolare i piedi giù dalla sedia, rifiutandosi di aprire bocca. I capelli castani le ricadevano sugli occhi, intrecciati in diverse treccioline, legate con dei nastri verdi.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
Scosse la testa, poi guardò verso i suoi preparatori, che la stavano incenerendo con lo sguardo.
«Caesar, tu m’imbarazzi. Davvero!» esclamò, dopo aver fatto un bel respiro, per prepararsi a fingere. «E’ tutto merito loro!» la bambina indicò i suoi preparatori con un sorriso, questa volta vero. Augustin la guardò di rimando, ammiccando leggermente. Era giovane, un novellino in quell’ambiente, ma era veramente portato a far sentire meglio i suoi Tributi.
«Vedo che vi volete bene, voi due» sorrise Caesar, osservando il giovane scomparire tra le truccatrici.
«E’ molto gentile, e poi è l’unico a non volermi uccidere… Lui non mi tortura con quella cera» ammise la piccola, dondolandosi sulla sedia. «Dice che canto bene.»
«Sai cantare?»
Maple aveva stretto le labbra, come una bambina che non vuole rivelare un segreto, scuotendo forte la testa. Non le andava di cantare. Non lì. Non in quel momento. Non per quella gente, se proprio poteva chiamarla così. Posò lo sguardo sul pubblico, cercando di sorridere. Swed le aveva detto che doveva comportarsi da bambina imbarazzata, perché solo così gli Sponsor la avrebbero aiutata durante i Giochi. Aveva detto anche un’altra cosa, ma Maple non riusciva a ricordarla, persa nelle mille informazioni che aveva cercato di assimilare.
«Non essere timida. Parlaci della tua famiglia. Vi ricordo, gentili signori, che Thor è suo fratello.» Caesar le aveva sorriso complice, guadagnandosi un applauso di assenso da parte del pubblico.
«Beh… Che posso dire. Eravamo in quattro. Mia madre, mio padre, Thor ed io. Stavamo molto bene insieme.» La bambina costrinse le lacrime, che le pizzicavano i lati degli occhi, a non uscire. Persino il più piccolo ricordo di casa le faceva quell’effetto, la rattristava immensamente.
«Aspettate un attimo. Se non ricordo male, ci fu una finalista di cognome Bark, anni fa. Ero appena diventato presentatore.»
Maple annuì distrattamente. «Mia zia» rispose in un soffio, «mamma dice che le assomiglio tanto e che dovrei vincere per lei. La vecchia Liz dice che sono la sua reincarnazione.»
La ragazzina guardò per terra, osservando i suoi piedi tracciare dei cerchi sul pavimento lucido del palco. Non era esattamente così: anche sua madre ne era convinta, che doveva vincere. Lei era destinata a partecipare agli Hunger Games. Suo padre gliel’aveva detto un giorno, tra i capelli, dopo essere tornato da lavoro. Era successa una cosa brutta, per colpa sua. Maple ne era certa. Non sapeva, però, cosa.
«E’ buffo. Due giovani donne della stessa famiglia. Molto simili» esclamò Caesar, mentre il pubblico applaudiva estasiato.
«Già.»
Non mentire.
Maple aveva stretto gli occhi e, riducendoli quasi a due fessure, aveva inficcato le unghie nella poltrona di cuoio per non dire altro. Quel giorno suo padre l’aveva chiamata principessa. Aveva fatto una cosa molto brutta, molto sbagliata, ma non era stato lui a pagare. La sua estrazione era colpa sua, la decisione di Thor di offrirsi volontario era merito suo.
«Maple. C’è qualcos’altro che vuoi dirci?»
La ragazzina scosse la testa, cercando di continuare a sorridere mentre Caesar la guardava con fare incoraggiante. Il segnale acustico scattò prima che l’uomo potesse dire o fare qualcosa.
«Ah… Non mi chiamo Maple. Sono Mape, per gli amici.»
E quella era l’ultima bugia che aveva dovuto dire, prima di andare veramente in scena, perché quelli erano solo i preliminari: i Giochi sarebbero cominciati più tardi.
 
 
 
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Dall’alto la forma dell’Arena era più chiara: si riuscivano perfino a vedere i cerchi concentrici in cui era divisa l’Arena, ognuno delimitato da almeno un paio di grotte, gli alberi che si irradiavano dalla Cornucopia fino alla fine del campo di forza.
India sospirò, sporgendo il viso verso nord, dove supponeva non ci fosse più nessuno. Non vedeva altri Tributi da un giorno, ormai, e quella non era una buona notizia. Aveva fatto due più due, arrivando alla conclusione che qualcosa li stava riunendo, per combattersi. Aveva visto un’edizione in cui i ragazzi erano stati costretti a uccidersi l’un l’altro, mentre un campo di forza li teneva ancorati nella stessa radura. Era stata un’edizione disastrosa, o almeno così ricordava.
La ragazza dell’undici scosse la testa, ormai appesantita dal sonno. Il freddo non l’aiutava per niente: ogni secondo poteva esserle fatale, perché addormentarsi in quel momento sarebbe stato come decretare la propria fine. Troppo gelo uguale morte imminente.
Non era piacevole lasciarsi trasportare da quei pensieri, ma la giovane sapeva di dover tenere in moto il cervello. Gli ingranaggi dovevano muoversi e aiutarla a trovare una soluzione all’enigma dell’Arena. Ormai poteva dire di conoscere bene quell’ambiente. L’incontro ravvicinato con il Minotauro l’aveva aiutata a ragionare, a capire come fossero effettivamente disposte le gallerie. “L’Arena sotterranea”, l’aveva soprannominata, osservando il lento ghiacciarsi del lago sotto di sé. Il freddo aumentava e diminuiva a sprazzi, evidentemente per mano degli Strateghi, e portava dei grandi cambiamenti a tutto ciò che la circondava.
“L’inverno sta diventando più rigido” pensò, seguendo con la mano i solchi nella corteccia. Arrivava alla fine del ramo e ricominciava, senza mai fermarsi: la aiutava a non congelare. Chiuse gli occhi per un secondo, visualizzando l’Arena davanti a sé: le strade innevate che si riunivano in un punto centrale, il lago sempre più solido, il freddo che stava aumentando senza sosta. Sorrise leggermente.
Nulla avrebbe potuto essere più logico.
 

 
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«Dove cazzo è finito Hazard?»
«Non ne ho idea, ma, come puoi vedere, non è qui.» Sigma allargò le braccia in un gesto di scherno, sorridendo al ragazzo a cui si era rivolta. «Si starà slinguazzando con la sua amichetta» aggiunse, cercando in Hurricane uno sguardo d’intesa. Non trovandolo, si mise a tormentarsi le pellicine della mano destra, evidentemente seccata ed annoiata.
«Probabile - sbottò Golia e, con grande calma, si andò ad appoggiare ad un albero - ma la cosa non ci riguarda.»
«Certo che ci riguarda, idiota.»
«Che hai detto?»
«Idiota» rispose la sua compagna di distretto, staccando bene le lettere l’una dall’altra. Intanto Hurricane continuava a guardarli, ben contento di non essere chiamato in causa: si uccidessero da soli, gli avrebbero fatto solo un piacere. Non amava le discussioni e gli sguardi che si stavano lanciando i suoi alleati – sorrise – non promettevano nulla di buono. Meglio per lui, veramente meglio per lui. Meno persone da ammazzare, più probabilità di vittoria. Si mise a contare i Tributi mancanti mentre si puliva le mani dal sangue della bambina del dodici.
I miei colleghi, la piccola del sette, sei e dieci, la puttanella dell’undici, il demone e Frost.
Sorrise inconsciamente all’ultima aggiunta alla lista, pensando che quella ragazzina aveva fatto una buona scelta a decidere di scappare. L’avrebbero uccisa di sicuro, in caso contrario, e lui non l’avrebbe mai fatto. Mai ammazzare bambini. Aveva cercato fin da subito di preservare quella marmocchia dall’orrore dell’Arena, eppure aveva fallito miseramente. Sperava solo che si fosse alleata con qualcuno di intelligente e che non si facesse vedere da loro.
«Il bovaro. Sta dall’altro lato del lago, con il biondino.» Hurricane si girò di scatto, incontrando gli occhi glaciali di Alysha.
«Il coniglio, vorresti forse dire? Se ne scapperà appena faremo un passo. Certo al cento per cento. Mi ha fuggito durante tutto l’Addestramento – disse Golia, scrocchiandosi rumorosamente le nocche – Dov’è il tuo amico?»
La ragazza fece uno strano sorriso e prese ad intonare una delle sue solite canzoni sugli Hunger Games, evitando di rispondere alla domanda. Tra gli occhi le passò il suo solito lampo maligno.
Sigma scrollò le spalle e, caricandosi lo zaino sulla schiena insieme alla sua amata falce, fece un passo verso la foresta.
«Acqua» sbuffò la bionda, poi si passò la lingua sulle labbra.
«Che?»
«Acqua, acquazzone…»
La femmina dell’uno maledisse mentalmente la sua alleata, chiedendosi il significato della sua risposta. «Non fare la cogliona, due.» E Hurricane pregò che la sua compagna di distretto stesse zitta.
«Acqua» ribatté Alysha con più forza, poi, vedendo che Golia stava venendo verso di lei, esclamò felice: «fuochino.»
«Cosa cazzo va blaterando?»
«Il gioco!» rispose Hurricane con uno scatto e oltrepassò Alysha. «Acqua è lontano, fuoco è vicino… Dobbiamo andare di là» spiegò ai suoi alleati, mentre Sigma sbuffava contrariata. Gli fece cenno di seguirlo verso il lago, sorridendo di quel lampo di genio. Si fermò poco dopo per riprendere fiato.
«Toh… Guarda: i due coglioni.» esclamò Golia ad alta voce ed indicò le figure che si stavano muovendo nell’ombra, appena dietro agli alberi.
«Prima, però, osserverei quello.» Sigma gli guidò lo sguardo verso destra, fino a fargli notare il corpo di Hazard, trafitto da una freccia. E i Favoriti si girarono verso la bionda, notando il sorriso che le aveva piegato le sue labbra rosee.
 
 


 Angolino dell’Autrice:
 
Questa volta sono più che di fretta, anche perché quel cretino del mio computer ha annullato le modifiche fatte al capitolo per ben quattro volte e, l’ultima, ero talmente arrabbiata che mi meraviglio di non averlo spaccato in due .-. Non posso scrivere più di tanto ma ci tengo ad informarvi che fino all’uno Luglio starò in Grecia e non potrò portarmi il computer, ergo… Aggiornerò solo allo scadere(?) del viaggio con mio padre. Mi scuso per l’inconveniente, davvero. Mi chiedo anche perché l’ispirazione mi venga sempre nei momenti meno opportuni, tutto qui.
Faccio il punto della situazione per quanto riguarda i Tributi. Come si è notato nello scorso capitolo, delle alleanze si sono formate e dureranno finché la mia mente malata non deciderà di farle finire, quindi tenetele a mente. Le condizioni dell’Arena sono fin troppo stabili, come giustamente ha notato India. E sì, nelle pareti è nascosto qualcosa. Hazard credo si sia capito da chi è stato ucciso, e sono tanto contenta di questo fatto perché l’ha deciso mio cugino quando, a Febbraio, ho iniziato a strutturare la long. Ora vi lascio una lista dei morti, per soddisfare il mio sadismo.
 
MORTI tanto per far cominciare le scommesse su chi vincerà
 
D1: Nessuno.
D2: Nicht.
D3: Entrambi.
D4: Hazard.
D5: Tutti e due.
D6: Solo la femmina.
D7: Thor.
D8: Entrambi.
D9: Solo la ragazza.
D10: Solo la giovine(?)
D11: Colin.
D12: Ora entrambi.
 
Talking Cricket *saluta con la manina*
PS: Tornerò il più presto possibile. Lo giuro, lo giuro. Io credo nelle fate (film errato)


 
 

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Capitolo 11
*** X Il vento era dolce e profumava di casa ***




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(X)
Il vento era dolce e profumava di casa.
 
 


La piazza era piena di gente, mentre India rimaneva ferma sul muretto, ad aspettare. Non erano cose che una bambina avrebbe dovuto osservare, e invece era lì, davanti al palo delle esecuzioni. Il ragazzo che avevano beccato a rubare quella volta si trovava ancora per terra, svenuto.
Si era stretta le mani talmente forse da farsi diventare le nocche bianche, pur di non lasciarsi scappare neppure il più piccolo sospiro. Non aveva abbassato lo sguardo, rimanendo immobile, schiacciata dai corpi della massa di persone che si era riunita in piazza – o meglio – che vi era stata costretta. Ormai la gente era abituata a scene del genere, e rientrava nella normalità della ragazzina notare, con orrore, che nessuno alzava più un dito per impedirle. Era pericoloso e la passività era la salvezza. Semplice. 
Non potevi far nulla per impedire tutto ciò. E India sapeva che, non appena avesse avuto l’età giusta, sarebbe stata quella la punizione per essere stata beccata a rubare. Lo sapeva e non ne aveva più paura, ormai.
Continuò ad osservare la scena, sforzandosi di non lasciar scappare neppure un’esclamazione di orrore. I Pacificatori sovrastavano gli abitanti con il bianco delle loro divise, impedendo ogni sorta d’intervento. “Chissà cosa pensano” si chiese India tra sé e sé, fissando negli occhi il più giovane di loro. Aveva gli occhi vacui, di un azzurro tagliente come la lama di una spada, eppure pareva sul punto di cadere per terra. Era fragile: forse per quello aveva deciso di fare il Pacificatore. Per sentirsi forte.
Un urlo ruppe nuovamente la quiete del distretto, l’ultimo della lunga serie. Poi gli uomini se ne andarono, e la gente si avvicinò al colpevole, riverso per terra.
India lanciò una mela per aria, nascondendosi dietro al muro. «Una bambina non dovrebbe vedere certe cose» sbottò un uomo davanti a lei, robusto e dalla pelle ancora più scura della sua.
«Posso eccome. Non ci sono regole su questo, Chaff»
«Certe regole si sottintendono.» Il suo fiato puzzava tremendamente di alcool come le parole, impastate, impregnate di rhum, probabilmente.
«Non ho regole, io» rispose la bambina, lasciando dondolare una sua gamba giù dal muretto. 
«Dovresti sparire» le sussurrò l’altro, alzando leggermente la testa. India fece una smorfia, per poi mettere la testa dietro alle tegole di una casa, facendo cadere una bottiglia in bilico sul muro. 
«Dannata ragazzina.» 
E la dannata ragazzina sorrise.
 

 
«Ciao, undici.»
Il ragazzo del primo distretto la guardava dall’alto, carezzando leggermente la punta della sua spada. L’aveva vista scendere, seguita e catturata senza che lei se ne accorgesse minimamente. India indietreggiò, maledicendosi. Era bastato un rametto a tradirla. Un sottile, innevato, rametto, e ora la sua vita era nelle mani di quel ragazzo.
«Cos’è? Non saluti?»
«Ciao, Golia» disse India, indietreggiando inconsciamente. C’era qualcosa nel suo sguardo che la spaventava: i suoi occhi la osservavano, captando ogni singolo movimento. Il suo muoversi la metteva in allerta. Golia camminava lento, come assaporando la paura della sua vittima, senza però attaccare. Aveva già visto quei movimenti, quella apparente calma, quel modo freddo e distaccato di osservarla, soppesare il suo sguardo in attesa di decidere che fare.
«Che c’è, undici? Hai paura?» sussurrò il ragazzo, posando appena la mano sul suo collo. Aveva lasciato la sua spada per terra, con lo zaino.
«No.» La voce del giovane si sentì appena, mormorata dagli alberi accanto a lei. E, mentre stringeva il coltello alla sua cintura, lo fissò negli occhi. Non aveva mai avuto paura di niente, eppure Golia la inquietava. Sembrava averla presa di mira durante l’addestramento. India indietreggiò ancora e ancora, andando a sbattere con la schiena contro il tronco.
«Peccato. Sai… Se piangi, ti potrei graziare con una morte veloce» sibilò il ragazzo. I suoi occhi luccicavano nel buio.
«Mi sembra un po’ un peccato sprecare una colombella come te» aggiunse, prendendole il mento tra le mani e stringendolo. La ragazza sussultò, ma evitò di muoversi, stringendo forte i denti per non emettere il benché minimo suono. Non aveva paura di lui: era convinta che non le avrebbe fatto nulla. Non in quel momento, almeno. Aveva visto spesso quello sguardo, quei modi; Golia non le sembrava interessato a trafiggerla con la sua spada. Voleva fare altro, e quell’altro non era proporle un’alleanza.
India strinse gli occhi alla conferma dei suoi presentimenti: la mano del ragazzo, che le accarezzava dolcemente il viso, passò le dita dal suo collo fino al seno. E lì si era fermata, mentre Golia sorrideva leggermente.
«Allora? Niente lacrime?» le chiese, sillabando le parole con cura, come per assaporarle sulla punta della lingua. India imprecò tra i denti. Un ululato ruppe la calma dell’Arena, ma nessuno dei due ci fece caso.
«Al massimo piangi tu.» Il Tributo dell’undici prese il coltello che era a terra con il piede e, lanciatolo con un gesto fulmineo in aria, lo riprese con la mano. Golia ebbe appena il tempo per accorgersi che la lama gli aveva infilzato la gamba, prima di cadere per terra.
Avrebbe giurato di averla vista sorridere nell’oscurità della notte, dopo avergli mormorato un ironico: « e possa la Fortuna sempre essere a tuo favore.»
 
 

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Lo stridore delle ruote sulle rotaie si sentiva anche dentro le carrozze. Insopportabile e persistente. La accompagnava da quando era salita lì, troppo stravolta per versare anche una sola lacrima e per parlare con qualcuno. Ci era riuscito solo Finnick, a calmarla, mentre l’altro Mentore badava al suo compagno.
Poi, però, Neth aveva deciso di ritirarsi nella sua stanza, per pensare un po’ a sé e cercare di piangere. Non ci era riuscita, anche se forse l’avrebbe fatta sentire meglio, e aveva iniziato a fissare una delle tante incanalature tra le piastrelle turchesi che le ricordavano immancabilmente il mare. Finnick le aveva detto di lasciarsi alle spalle i ricordi del distretto ma lei non ci riusciva, e tutto quell’azzurro le dava solo la triste sensazione dell’infrangersi delle onde sugli scogli. Più cercava di reagire più sentiva un vuoto nel petto.
Decise di fare un giro per le carrozze non sapendo bene dove andare, con la stessa camicia che aveva indossato per la Mietitura. Katryn, la sua accompagnatrice, le lanciò un’occhiataccia, ma Mahinete si limitò ad arrotolarsi ancora di più le maniche, facendole una linguaccia subito dopo averla vista girarsi. Non le importava nulla delle espressioni sconcertate della donna al solo poggiare gli occhi sui suoi vestiti.
Avanzò senza fermarsi neppure per guardare le varie sale, voleva arrivare in fondo per vedere l’azzurro del cielo e lasciarsi portare un po’ dalla nostalgia. Vedere il suo distretto, anche da lontano, sentire il vento sferzarle la faccia l’avrebbe fatta sentire meglio, ne era certa.
 
«Anche tu a prendere un po’ d’aria?» 
Neth fece un sorrisino guardando il vincitore della sessantottesima edizione.  Aveva i capelli leggermente scompigliati, di un rosso acceso, e una sigaretta tra le labbra da cui usciva una sottile striscia di fumo grigio. Dato che la ragazzina non accennava a parlare, impietrita sulla porta per rientrare nella carrozza, il rosso continuò: «non hai voglia di dire nulla, eh? Siediti se vuoi.» Scostò una sedia con il piede. Mahinete scosse la testa, imbarazzata. 
«Un pesce ti ha mangiato la lingua? Non mordo mica!» esclamò sorridendo, «abbiamo anche la stessa camicia! E non credo di essere io a indossare qualcosa da donna.»
La ragazzina fece spallucce, «è di mio fratello, però la uso tutti i giorni, a lavoro. Ehm… Connor.»
Il giovane le lanciò un’occhiataccia, «solo Conn» si passò una mano tra i capelli, mentre apriva la bocca per espirare l’ennesima nuvoletta grigia. 
«Va bene, Conn. Allora… posso farti una domanda? - il ragazzo annuì – Hazard è un presuntuoso, eh?» chiese infine con un’espressione sbarazzina. Il rosso si alzò di botto vedendo arrivare Katryn trafelata, aveva infilzato tra i ricci blu della parrucca un coltello da dolce.
«Mi ha detto di andare a fanculo! A fanculo, capisci Connor? Bada al tuo Tributo!» il diciassettenne roteò gli occhi esasperato da quella “r” finale che detestava tanto mentre Mahinete soffocava una risata, incenerita dallo sguardo della donna. Conn seguì la capitolina all’interno, sbuffando per aver dovuto spegnere la sigaretta, ma all’ultimo secondo la ragazzina lo fermò tenendolo per un lembo della camicia.
«Ti lascerai sgridare per il disonorevole comportamento di quel cretino?» gli chiese in tono canzonatorio. Il rosso le si parò davanti, passandole goffo una mano tra i capelli bianchi, «niente più domande, ok?» 
Neth mascherò l’ennesima risata con un colpo di tosse.
 
 
Non le piaceva l’atmosfera che regnava nell’Arena da quella mattina.
Era troppo calma, troppo irreale per essere vera. Il cannone sparava solo di rado e il freddo si stava insinuando dentro di lei. Lo aveva imparato a conoscere, in quei giorni. Aveva capito che bruciava dall’interno, finché il tuo corpo non diventava gelato e tu perdevi la battaglia contro di lui. Allora ti addormentavi di colpo, perché era più facile chiudere gli occhi che lottare. E morivi. Era talmente semplice lasciarsi andare in quel modo, eppure così letale.
Mahinete si rannicchiò vicino al suo alleato. Lui era ancora caldo, nonostante tutto. «Raika, ho freddo» mormorò, seppellendo la testa nella giacca del ragazzo che le scosse rozzamente i capelli bianchi. Raika passò le dita sulle ciocche argentate, carezzandole appena. Alcune erano di un grigio sbiadito, ricordo di quel tempo – neppure troppo lontano - in cui i preparatori le avevano tinte e avevano badato all’appariscenza di quella piccola Sirena. Altre, invece, erano bianche, di un colore identico a quello della neve.
Il Tributo del nove osservò la sua pelle, resa abbronzata dal sole dei campi, con quella della sua alleata, pallida come la cera. Mahinete stava tremando tra le sue braccia, scossa da tremiti sempre più forti. La strinse a sé, pregando che riuscisse a resistere ancora per un po’ di tempo.
C’era la nebbia, dietro agli alberi. Una nebbiolina fitta che pareva avanzare verso di loro. Si poteva tagliare con il coltello, tanto era pesante e notabile. Il verde non si vedeva quasi più, coperto da quella valanga di bianco. Raika odiava il bianco: era l’unico colore che riusciva a metterlo in ansia, troppo calmo, troppo dissonante con il rosso del sangue che aveva bagnato la neve. Non c’era alcun modo di vedere oltre quella copertura chiara, anche se avrebbe dovuto essere quasi trasparente. Quella non era nebbia normale, era nebbia degli Hunger Games e tutto poteva essere tranne innocua.
Il ragazzo scosse la sua alleata, passandole le mani nuovamente tra i capelli. «Neth… Andiamo» sbottò prendendo lo zaino con un gesto fulmineo e tirando l’alleata per la mano. La delicatezza che fino ad allora aveva utilizzato per riscaldare la ragazzina era scomparsa, lasciando il posto ad una sensazione di pericolo.
«Perché?» Mahinete si stiracchiò leggermente e lasciò che il suo corpo ricadesse su quello dell’alleato. «Ho sonno» mormorò allo sbuffare di Raika.
«La nebbia» rispose spiccio, «se vuoi morire, accomodati pure.»
«Lasciami in pace.»
«Ai suoi ordini, principessa.» Raika abbozzò un inchino, stendendo le labbra in un sorriso tirato. «Sua altezza deve dormire?» chiese ancora.
«Sì, e gradirei che non mi disturbassi» sbottò la ragazzina del quattro, coprendosi alla bell’e meglio con la coperta che aveva portato via ai Favoriti. Sbuffò una, due, tre volte, prima di aprire gli occhi e osservare il suo alleato ritto in piedi.
Raika guardò la nebbia avvicinarsi a sé e indietreggiò all’istante.
«Merda» disse con tono strascicato, poi trascinò la ragazzina per un braccio. «Corri» aggiunse, ma, vedendo che Mahinete non si muoveva, rimase fermo.
«Non è velenosa, nove.»
«Non è velenosa, nove» ripeté, imitando il tono saccente della sua alleata. Osservò la nebbia circondarli, stupito di non sentire dolore al tocco. Ricordava che gli Strateghi l’avevano già usata prima, eppure la sua mente non elaborava l’edizione. Strano: lui ricordava sempre tutto. Attorno a lui e la sua alleata si stava formando una nube bianca, pesante.
Raika vide un riflesso dietro ad un albero, ma non ci fece caso, rimanendo fermo a guardare verso il punto dove aveva notato un movimento. Aveva la strana sensazione di essere attratto da quella situazione come quando appiccava un incendio, eppure non lo esaltava. Mahinete gli sussurrò qualcosa nell’orecchio e lui si girò verso di lei.
«Che c’è?» chiese passandosi una mano tra i capelli.
«Non ho detto niente.»
Raika sbatté più volta le palpebre: cercò di distogliere lo sguardo dalla nebbia, non riuscendoci. Riconobbe i passi di una leggerezza quasi felina, il ticchettare di delle dita sul legno. E, nel naso, poteva sentire l’odore di terriccio e grano che emanava il deposito del distretto nove. Sentì la testa che gli girava, vedendosi davanti l’immagine di una ragazza alta poco meno di lui.
Gli sorrideva.
 
 


 Angolino dell’Autrice:
 
Eccomi qui, con il nuovo capitolo di cui non vado per niente fiera… Già, la parte di India non mi convince affatto, eppure la dovevo mettere. Qui Golia si lascia un po’ andare, e sì: avete inteso bene. La sua intenzione era “divertircisi” un po’ prima di ammazzarla, perché questo, contrariamente al torturare un Tributo piccolo ed indifeso, non gli dà l’idea di essere disonorevole. E’ strano, Golia: non lo capisco neppure io e questo la dice lunga.
Passando a Mahinete, nel flashback è presente un personaggio che NON è mio perché l’ho preso in prestito da “Alaska__” (che ringrazio molto). E’ il vincitore dei 68esimi Hunger Games nella long “Semplici pedine dei loro giochi”, si chiama Connor Likin ed è un amorino <3 Lo dovevo usare assolutamente, insomma. Lui è il secondo mentore di Neth, con Finnick, mentre a Hazard ci aveva pensato Roman (altro OC di Alaska).
Fate molta attenzione a quello che ha visto Raika, perché da questo momento le cose si complicheranno. La nebbia è una trappola mortale, e la figura si rivelerà di essere qualcuno proveniente dal suo ignoto passato. Per ora la conosce solo Alaska, quella ragazza, ma nel prossimo capitolo sicuramente ne capirete di più. *sogghigna*
Ora me ne vado a finire il capitolo 13, che è veramente meglio perché non vedo l’ora di finire questa storia per iniziarne un’altra, stavolta sui 12esimi Giochi.
Ciao a tutti :3
 
Talking Cricket
 
 
LINK UTILI(?)
 
  • The Capitol: un gruppo aperto a tutti gli autori/lettori di fanfiction su Hunger Games dove ci sono tante iniziative carinissime <3
  • Penna d’acquerello: altro gruppo facebook, su storie di tutti i generi, anche questo carino ma che deve crescere in membri :3
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Dall’alto la forma dell’Arena era più chiara: si riuscivano perfino a vedere i cerchi concentrici in cui era divisa l’Arena, ognuno delimitato da almeno un paio di grotte, gli alberi che si irradiavano dalla Cornucopia fino alla fine del campo di forza.
India sospirò, sporgendo il viso verso nord, dove supponeva non ci fosse più nessuno. Non vedeva altri Tributi da un giorno, ormai, e quella non era una buona notizia. Aveva fatto due più due, arrivando alla conclusione che qualcosa li stava riunendo, per combattersi. Aveva visto un’edizione in cui i ragazzi erano stati costretti a uccidersi l’un l’altro, mentre un campo di forza li teneva ancorati nella stessa radura. Era stata un’edizione disastrosa, o almeno così ricordava.
La ragazza dell’undici scosse la testa, ormai appesantita dal sonno. Il freddo non l’aiutava per niente: ogni secondo poteva esserle fatale, perché addormentarsi in quel momento sarebbe stato come decretare la propria fine. Troppo gelo uguale morte imminente.
Non era piacevole lasciarsi trasportare da quei pensieri, ma la giovane sapeva di dover tenere in moto il cervello. Gli ingranaggi dovevano muoversi e aiutarla a trovare una soluzione all’enigma dell’Arena. Ormai poteva dire di conoscere bene quell’ambiente. L’incontro ravvicinato con il Minotauro l’aveva aiutata a ragionare, a capire come fossero effettivamente disposte le gallerie. “L’Arena sotterranea”, l’aveva soprannominata, osservando il lento ghiacciarsi del lago sotto di sé. Il freddo aumentava e diminuiva a sprazzi, evidentemente per mano degli Strateghi, e portava dei grandi cambiamenti a tutto ciò che la circondava.
“L’inverno sta diventando più rigido” pensò, seguendo con la mano i solchi nella corteccia. Arrivava alla fine del ramo e ricominciava, senza mai fermarsi: la aiutava a non congelare. Chiuse gli occhi per un secondo, visualizzando l’Arena davanti a sé: le strade innevate che si riunivano in un punto centrale, il lago sempre più solido, il freddo che stava aumentando senza sosta. Sorrise leggermente.
Nulla avrebbe potuto essere più logico.
 

 
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«Dove cazzo è finito Hazard?»
«Non ne ho idea, ma, come puoi vedere, non è qui.» Sigma allargò le braccia in un gesto di scherno, sorridendo al ragazzo a cui si era rivolta. «Si starà slinguazzando con la sua amichetta» aggiunse, cercando in Hurricane uno sguardo d’intesa. Non trovandolo, si mise a tormentarsi le pellicine della mano destra, evidentemente seccata ed annoiata.
«Probabile - sbottò Golia e, con grande calma, si andò ad appoggiare ad un albero - ma la cosa non ci riguarda.»
«Certo che ci riguarda, idiota.»
«Che hai detto?»
«Idiota» rispose la sua compagna di distretto, staccando bene le lettere l’una dall’altra. Intanto Hurricane continuava a guardarli, ben contento di non essere chiamato in causa: si uccidessero da soli, gli avrebbero fatto solo un piacere. Non amava le discussioni e gli sguardi che si stavano lanciando i suoi alleati – sorrise – non promettevano nulla di buono. Meglio per lui, veramente meglio per lui. Meno persone da ammazzare, più probabilità di vittoria. Si mise a contare i Tributi mancanti mentre si puliva le mani dal sangue della bambina del dodici.
I miei colleghi, la piccola del sette, sei e dieci, la puttanella dell’undici, il demone e Frost.
Sorrise inconsciamente all’ultima aggiunta alla lista, pensando che quella ragazzina aveva fatto una buona scelta a decidere di scappare. L’avrebbero uccisa di sicuro, in caso contrario, e lui non l’avrebbe mai fatto. Mai ammazzare bambini. Aveva cercato fin da subito di preservare quella marmocchia dall’orrore dell’Arena, eppure aveva fallito miseramente. Sperava solo che si fosse alleata con qualcuno di intelligente e che non si facesse vedere da loro.
«Il bovaro. Sta dall’altro lato del lago, con il biondino.» Hurricane si girò di scatto, incontrando gli occhi glaciali di Alysha.
«Il coniglio, vorresti forse dire? Se ne scapperà appena faremo un passo. Certo al cento per cento. Mi ha fuggito durante tutto l’Addestramento – disse Golia, scrocchiandosi rumorosamente le nocche – Dov’è il tuo amico?»
La ragazza fece uno strano sorriso e prese ad intonare una delle sue solite canzoni sugli Hunger Games, evitando di rispondere alla domanda. Tra gli occhi le passò il suo solito lampo maligno.
Sigma scrollò le spalle e, caricandosi lo zaino sulla schiena insieme alla sua amata falce, fece un passo verso la foresta.
«Acqua» sbuffò la bionda, poi si passò la lingua sulle labbra.
«Che?»
«Acqua, acquazzone…»
La femmina dell’uno maledisse mentalmente la sua alleata, chiedendosi il significato della sua risposta. «Non fare la cogliona, due.» E Hurricane pregò che la sua compagna di distretto stesse zitta.
«Acqua» ribatté Alysha con più forza, poi, vedendo che Golia stava venendo verso di lei, esclamò felice: «fuochino.»
«Cosa cazzo va blaterando?»
«Il gioco!» rispose Hurricane con uno scatto e oltrepassò Alysha. «Acqua è lontano, fuoco è vicino… Dobbiamo andare di là» spiegò ai suoi alleati, mentre Sigma sbuffava contrariata. Gli fece cenno di seguirlo verso il lago, sorridendo di quel lampo di genio. Si fermò poco dopo per riprendere fiato.
«Toh… Guarda: i due coglioni.» esclamò Golia ad alta voce ed indicò le figure che si stavano muovendo nell’ombra, appena dietro agli alberi.
«Prima, però, osserverei quello.» Sigma gli guidò lo sguardo verso destra, fino a fargli notare il corpo di Hazard, trafitto da una freccia. E i Favoriti si girarono verso la bionda, notando il sorriso che le aveva piegato le sue labbra rosee.
 
 


 Angolino dell’Autrice:
 
Questa volta sono più che di fretta, anche perché quel cretino del mio computer ha annullato le modifiche fatte al capitolo per ben quattro volte e, l’ultima, ero talmente arrabbiata che mi meraviglio di non averlo spaccato in due .-. Non posso scrivere più di tanto ma ci tengo ad informarvi che fino all’uno Luglio starò in Grecia e non potrò portarmi il computer, ergo… Aggiornerò solo allo scadere(?) del viaggio con mio padre. Mi scuso per l’inconveniente, davvero. Mi chiedo anche perché l’ispirazione mi venga sempre nei momenti meno opportuni, tutto qui.
Faccio il punto della situazione per quanto riguarda i Tributi. Come si è notato nello scorso capitolo, delle alleanze si sono formate e dureranno finché la mia mente malata non deciderà di farle finire, quindi tenetele a mente. Le condizioni dell’Arena sono fin troppo stabili, come giustamente ha notato India. E sì, nelle pareti è nascosto qualcosa. Hazard credo si sia capito da chi è stato ucciso, e sono tanto contenta di questo fatto perché l’ha deciso mio cugino quando, a Febbraio, ho iniziato a strutturare la long. Ora vi lascio una lista dei morti, per soddisfare il mio sadismo.
 
MORTI tanto per far cominciare le scommesse su chi vincerà
 
D1: Nessuno.
D2: Nicht.
D3: Entrambi.
D4: Hazard.
D5: Tutti e due.
D6: Solo la femmina.
D7: Thor.
D8: Entrambi.
D9: Solo la ragazza.
D10: Solo la giovine(?)
D11: Colin.
D12: Ora entrambi.
 
Talking Cricket *saluta con la manina*
PS: Tornerò il più presto possibile. Lo giuro, lo giuro. Io credo nelle fate (film errato)


 
 

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Capitolo 12
*** XI Tre volte tentai di cingerle il collo con le braccia, tre volte inutilmente avvinta l'immagine si dileguò ***




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(XI)
Tre volte tentai di cingerle il collo con le braccia,
tre volte  inutilmente avvinta l'immagine si dileguò.

 
«Bel lavoro. Complimenti.»
Rebekah si passò una mano sulla fronte, madida di sudore, con il solo risultato di sporcarsi la pelle di fuliggine. Sorrise leggermente, appena posò lo sguardo sul ragazzo che la precedeva. Il bambino era diventato grande. Finalmente.
«Ormai sei più bravo di me, marmocchio» sibilò la ragazza, beandosi di quei pochi centimetri che aveva in più per guardarlo dall’alto.
«Da quando è diventato un marmocchio?»
«Da adesso. Lui sa a cosa va incontro, vero Raika?» chiese lei, girandosi di scatto. Le sue iridi scure fissarono quelle del ragazzino che non distolse lo sguardo, limitandosi a guardarla con aria di sfida. Il marmocchio sapeva il fatto suo: questo era certo.
«Tu che dici?»
Raika appoggiò la schiena ad un tronco e iniziò a pulirsi le unghie dalla cenere, passandosele l’una sotto l’altra.
«Potremmo finire anche così – passò una corda sulla sua mano destra e la strinse in modo tale da farla rimanere quasi appesa – Crack! Morti.» Ecco: aveva iniziato a sorridere per la sua bravura nel sonorizzare quella scena. Lo faceva sempre quando si sentiva particolarmente fiero di sé, e quel ghigno divertito dava tremendamente fastidio alla ragazza.
«Sì. “Crack morti”, coglione» sbottò la più grande, per poi indietreggiare verso il villaggio sussurrando un «andiamo» appena percettibile. Raika fece girare una monetina sul suo palmo, nascondendola dentro alla manica, un giochetto che un po’ tutti nella banda sapevano fare. Volpe l’aveva reclutato solo pochi anni prima, eppure già gli dava fiducia più degli altri.
«Ferma» esclamò di colpo, bloccando la giovane con il braccio. Si guardò attorno e si passò il dito sul labbro, inumidendoselo con della saliva prima di metterselo davanti.
«Il vento. Il vento sta cambiando» spiegò poi con un solo fiato e fece per andare dal lato opposto della strada.
«Perché?»
«Se il vento cambia, cambia anche la traiettoria del fuoco. E noi non vogliamo giocare con l’incendio, vero ‘Bekah?» rispose con un tono di voce fiero e alzando la schiena dalla sua solita posizione rilassata. Voleva fare colpo sul suo comandante: voleva farle vedere che non aveva sbagliato a farlo entrare nel suo gruppo.
«Vero, marmocchio, ma il mio nome non è ‘Bekah.» Camminava in punta di piedi, come fosse pronta a prendere il volo. I capelli rossi, leggermente schiacciati dal cappello nero con cui li copriva, le incorniciavano il viso. Ma non era quello a darle l’aria da capitano: era il suo modo di impartire ordini ai suoi soldati. Axel, il figlio del lattaio, lo chiamava carisma, sebbene per comandare non bastasse solo quello. Raika era certo che ‘Bekah avesse qualcosa in più degli altri, qualcosa di soltanto suo: doveva solo scoprire cosa.
«Sciogliete le righe. Meno siamo, meno saremo rintracciabili.» Fermò con un gesto della mano il moro e, appena anche l’ultimo dei ragazzi si fu allontanato verso la propria casa, continuò a parlare: «così mi screditi.»
«Così come?» chiese Raika con un sorriso malizioso, venendo presto colpito sulla guancia dalla ragazza.
«Parlando così, coglione. So che sei furbo - anche se non lo dimostri -, ma non sei l’unico ad esserlo» aggiunse, osservandolo mentre si massaggiava la guancia.
«Voglio essere chiara con te. Hai la stoffa del leader.» Passò la mano lungo le nervature del tronco che aveva accanto.
«Del leader?»
«Sai come parlare, Raika. Devi solo imparare a frenare la lingua al momento giusto.»
«Perché dovrei?» Un altro schiaffo gli fece scattare la testa dal lato opposto a prima. Sentiva un fischio nell’orecchio. «Perché così ti creerai solo problemi. Hai idea di quanto basti per farti prendere a frustate dai Pacificatori? Io sì: uno schicco delle dita da parte del Capo e sei morto. Chiaro?» Gli occhi della Volpe rilucevano nel buio il guizzare delle fiamme. Raika si passò nuovamente la mano sulla guancia, più per abitudine che per altro, e rifletté per la prima volta dall’inizio della conversazione su cosa dire.
«Chiarissimo» rispose infine, posando la schiena sul tronco dell’albero.
«Vedi che puoi riflettere?» Gli angoli della bocca di Rebekah si alzarono pericolosamente, mentre lei si affiancava al ragazzo.
«Mi hai colpito abbastanza forte, suppongo sia per questo.»
«Allora dovrei farlo più spesso.» Si sorrisero a vicenda.
«Meglio di no» rispose il più piccolo, sghignazzando, «potrei rimanere traumatizzato a vita.»
«Pensavo già lo fossi.»
«Hai evidentemente sbagliato, Volpe.»
La ragazza si allontanò dall’albero con uno scatto, smettendo di guardare verso il suo nuovo allievo. «Mi ricordi qualcuno» disse in poco più di un sussurro.
«E questo è un bene?»
«Non lo so.»


Il vento muoveva le cime degli alberi, creando dei mostruosi chiaroscuri sul ghiaccio dell’Arena. Raika si chiuse il cappotto e continuò a guardarsi davanti, rapito dalle immagini che venivano proiettate sulle stalattiti. Il rumore del fuoco sulle assi del pavimento, il caldo gelido degli incendi, ma più di tutto quell’odore di grano appena falciato che gli ricordava…
Chi gli ricordava? Il ragazzo chiuse gli occhi, cercando di rimembrare a cosa stava pensando solo pochi secondi prima. Non ci riuscì, tuttavia: sebbene si sforzasse di rendere i suoi pensieri meno fumosi, concentrarcisi non lo aiutava affatto.
Strizzò gli occhi e, riaprendoli solo pochi secondi dopo, si vide davanti una ragazza. I corti capelli rossi le incorniciavano il viso e il suo vestito bianco svolazzava al vento, sferzando l’aria circostante senza fare rumore.
«Sei tu?» chiese Raika, tendendo la mano verso la stoffa e cercando di prenderla tra le dita. Il vento soffiò ancora più forte, come a voler dargli conferma delle sue parole, e la figura indietreggiò sorridendo. Sebbene le sue labbra s’increspassero per lascar uscire lettere, frasi, non parlava se non con gli occhi. Li teneva socchiusi, puntati fissi sulle iridi del Tributo del distretto nove che ora stava indietreggiando, spaventato da quella visione.
Avete presente quella vocina che vi suggerisce di scappare quando non hai idea di quello che potrebbe succedere? Ecco, Raika le stava dando ascolto persino mentre le sue dita tremavano per la voglia di sfiorare, anche se solo per una volta, quella giovane.
Camminò a ritroso ancora e ancora, gli occhi aperti come per captare ogni singolo cambiamento del paesaggio, ma il fantasma continuava a incombere su di lui. Era alto quanto bastava per farlo sentire inquieto, perché ricordava – e ne era certo – che la Volpe fosse ormai più bassa di lui. Forse la morte rendeva più alti o forse la sua mente gli stava giocando dei brutti scherzi. Il ragazzo strizzò gli occhi nuovamente, convenendo che la seconda ipotesi era la più probabile se non voleva cadere nel sovrannaturale.
"I fantasmi non esistono, idiota."
E i fantasmi non esistevano fino a prova contraria, ma gli Strateghi sì: tra tutte le diavolerie che potevano aver inventato per terrorizzare i Tributi, quella poteva benissimo essere la vincente.
Raika si soffermò nuovamente sul fantasma, cercando in quel viso così familiare i tratti distintivi della sua amica. Le sue labbra s’incurvarono pericolosamente verso l’alto quando notò che lei era sulle punte, con il vestito che le accarezzava i fianchi come una coda. Il giovane ricordava che, poco dopo i sessantasettesimi Hunger Games, l’aveva sognata, e mai l’aveva vista così chiara e reale come in quel momento. I contorni sfumati che contraddistinguevano la finzione dalla realtà quella volta non erano presenti.
"È solo una trappola."
Raika scosse la testa: no, non era una trappola degli Strateghi, una visione così dannatamente bella non poteva non essere reale, anche se nell’Arena la realtà pareva essere cambiata del tutto. Aveva visto talmente tanti animali, tante cose funzionare al contrario che ormai non riusciva più a contraddistinguere il vero dal falso.
"Ti sei fatto fregare: Volpe non è qui."
Eppure nella sua mente, strisciante come un serpente, si stava facendo posto l’insinuazione che magari la sua amica non fosse mai morta. L’acqua poteva anche non averla affogata: dopotutto, il suo corpo non era tornato a casa. Le prove della sua scomparsa non esistevano, o almeno così sperava Raika.
"Così ti farai uccidere."
Il ragazzo si mise le mani sulle orecchie mentre un lembo del vestito gli sferzava il viso.
«Perché non rispondi?» chiese in un soffio e corse verso l’altro lato della piazza, sorpreso di ritrovarsi l’entrata della caverna proprio davanti. Non ricordava di averla vista prima, ma forse era stato troppo preso dal fantasma per accorgersene.
«Mi devi fare un favore.» La voce di Volpe rimbombò sulle pareti di ghiaccio, sdoppiata in mille cunicoli differenti, mentre Raika annuiva.
«Che favore?» Questa volta, però, il Tributo del nove appariva meno sicuro di sé, come se le parole facessero fatica a uscire dalla sua bocca.
«Uccidila e tornerò da te.»
«Uccidere chi?» sussurrò lui, accorgendosi solo allora che il suo tono si stava abbassando ogni momento che passava.
«Lo sai benissimo.»

 
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«Da che parte andiamo?» Nat si passò una mano tra i capelli, scompigliandoseli leggermente, e si girò verso il ragazzo che stava osservando le varie entrate della grotta.
«Secondo me dovremmo fare ‘Ambarabà cicì cocò’» suggerì il biondo con una risata. Da un paio di giorni a quella parte sembrava aver ritrovato il buon umore, forse grazie al fatto che i Favoriti, dopo averli visti, non avevano cercato di ammazzarli. Strano, molto strano. Il Tributo del dieci corrugò la fronte, cercando risposta a quel comportamento apparentemente senza senso.
Già, apparentemente. Perché se c’era una cosa che Nat sapeva, era che tutto aveva una spiegazione, un motivo logico. Non sempre era facile da capire, ma esisteva e bisognava scoprirlo, almeno per lui. Lo aveva capito quando suo padre gli aveva detto – più che altro, sputato in faccia – la verità sulla sua nascita, il suo essere un figlio illegittimo di sua madre e un altro uomo. Era stato così che aveva capito che forse sarebbe stato meglio non conoscerla. "La verità fa male", aveva convenuto quel giorno, ma solo poco tempo dopo aveva ricominciato a farsi domande e pretendere risposte.
«Un po’ troppo lasciato al caso, non trovi?» chiese retorico al suo alleato. Xavier scrollò le spalle ed andò ad affiancarsi al giovane, il sorriso ancora sulle labbra.
«Forse - rispose e, andando verso la caverna, si mise ad indicare le entrare una per una – ma tu hai un piano migliore, dieci? O forse devo ricordarti com’è finita per la ragazzina?»
Nat scosse la testa: continuava a non capire come potesse essere così calmo nell’alludere all’atrocità di quella morte. Intanto il suo alleato sorrideva beffardo, conscio di averlo lasciato senza parole.
«Pensare troppo ti spappolerà il cervellino» rise e, spettinando i capelli del moro con la destra, gli fece voltare la testa verso l’entrata. «Dato che sei così saccente, decidi tu da che parte andare.»
«E’ una trappola.» Nat abbasso la voce di colpo, mentre scavava con il piede nel ghiaccio quasi sciolto. «Ci faranno entrare tutti qui» rifletté.
«E se anche fosse? Lo faranno comunque.»
«Già è entrata la ragazzina del sette, forse persino i Favoriti.»
«Ebbene?»
Nat scosse la testa per la seconda volta: no, il suo alleato non voleva capire che cosa gli stava spiegando. Più parlava, più cercava di farlo ragionare, più ‘dieci’ s’impuntava sulle sue scelte idiote. Ma, dopotutto, chi era lui per giudicarle?
«Se vuoi diventare carne da macello, accomodati» gli indicò con un gesto cerimonioso la grotta e sorrise leggermente nel notare che il ragazzo non aveva intenzione di muoversi. «Ebbene?» lo scimmiottò. Non aggiunse altro, ficcandosi le mani nelle tasche e procedendo verso la prima entrata, dove un’immagine ghiacciata brillava per la luce entrata dal soffitto.
«Dove stai andando?» chiese Xavier allarmato.
«Dentro.»
«Perché?»
Questa volta Nat evitò di rispondere, limitandosi a scrollare le spalle disinteressato. Si avvicinò alla parete per osservare da vicino a quello che gli pareva un graffito. Non era colorato, eppure i tratti aguzzi con cui la figura era stata accennata si vedevano benissimo. Ci passò la mano sopra e, continuando a seguire con il dito le increspature sulla superficie, chiamò il suo alleato. Xavier sembrava piuttosto restio ad avvicinarsi, mentre, appoggiato al muro, tendeva l’orecchio verso la galleria più vicina a lui.
«E’ un toro - spiegò Nat indicando la figura – Anche se mi chiedo come mai sia qui e cosa significhi.»
«E’ solo un animale. Andiamo via.»
L’ottusità del suo alleato stava iniziando a dargli sui nervi.
«Se è qui, non sarà per caso. Hai visto le scorse edizioni dei Giochi? – chiese, senza curarsi della risposta che il suo alleato stava borbottando a mezza voce – Beh, io sì. E se c’è una cosa che ho imparato, è che ogni singolo filo d’erba in questa cazzo di Arena è programmato.»
Aspettò una risposta, ma non sentì nulla se non uno scalpiccio di zoccoli. Nat si girò appena in tempo per notare la figura che stava avanzando minacciosa verso Xavier.
«Fa’ piano. Niente scatti» gli suggerì e indietreggiò quanto bastava per essere pronto a scappare, ma non sarebbe corso via finché il biondo non si fosse allontanato dal pericolo: di questo era certo. Il Toro si era fermato, ora, e aveva iniziato a odorare l’aria circostante.
"È cieco" pensò e dovette tapparsi la bocca con una mano per non esultare di quella scoperta.
«Non ti può vedere, niente scat-» Non riuscì a finire la frase, interrotto dal rumore di un pezzo di ghiaccio che si frantumava sotto gli scarponi del suo alleato. Nat si voltò, imboccando la prima galleria che si trovò davanti, mentre un urlo rimbombava sulle pareti.

 

Angolino dell'Autrice:

Non credo che sarò molto lunga, anche perché questo non è il mio pc e non mi ci trovo bene. I tasti sono troppo pesanti e non è un MAC. Credo di essermi disabituata a scrivere su altri computer... .-.
Ma credo che, in questo capitolo specialmente, devo dare tante spiegazioni. Il personaggio che appare all'inizio, poi trasformato(?) in fantasma, è il capo della banda di ribelli del nove di cui fa parte anche Raika. Durante un incendio ad un granaio, si fa acchiappare per aver lasciato un accendino sulla scena del delitto ed esserlo andata a prendere. Però, contrariamente a quello che si aspettavano tutti (Raika in primis), Snow decide di non farla giustiziare in pubblica piazza, mandandola ai giochi di quell'anno. La diciassettenne riesce ad arrivare quasi in finale, nei 67esimi Hunger Games, morendo per un'alluvione il penultimo giorno. Si chiama Rebekah, anche detta 'Bekah oppure "Volpe", ed è uno degli OC di cui sono più contenta al momento. Ora vi lascio il suo prestavolto, che tutti conoscerete con ogni probabilità.
Rebekah Martin [X]
Il suo fantasma viene mandato nell'Arena per tormantare Raika e costringerlo a uccidere... Credo abbiate capito chi intendeva. E così la frittata è fatta.
Passando a Nat, ho fatto emergere un altro lato della sua personalità: ama trovare i collegamenti logici tra le cose che succedono. Gli antefatti e le conseguenze, insomma. E' fermamente convinto che tutto abbia un motivo (proprio come me èwè). Il suo alleato, invece, è un totale deficiente. Hanno incontrato il Minotauro... Già, e Xavier, naturalmente, si è ben guardato dal seguire i consigli di Nat.
Detto ciò, posso aggiungere che di questo capitolo sono fiera in modo particolare u.u E ieri mi sono perfino dilettata a fare un banner per lo SPIN-OFF su Raika, iniziando invece un altra OS sul mio amorino(?) del dieci <3
Ciao a tutti quelli che hanno letto :D *va a dormire, che è stanca*

Talking Cricket
PS: Per Trishele_Celtica. Ti ricordi quando ne parlammo? Bene... Ecco i fantasmi dei Tributi *sogghigna*

 PPS: Il titolo è una citazione dell'Eneide u.u

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Capitolo 13
*** XII If I seem dangerous, would you be scared? ***


 
Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 
(XII)
If I seem dangerous, would you be scared?
 


Calma il battito.
Maple si portò una mano al petto e, stringendo forte la sua maglietta, indietreggiò per osservare i Favoriti dalla parete ghiacciata. Era vuota, come tutte le altre. La ragazzina aveva provato a romperla, ma ai suoi pugni non aveva dato neppure segno di star cominciando a cedere: nessun suono, nessuna crepa. Ricordava che Thor, durante l’inverno nel loro distretto, le aveva spiegato che i punti senza aria, se toccati, non emettono suono; e Maple credeva ciecamente alle poche dritte che le aveva dato suo fratello prima di entrare nell’Arena.
Fatichi pure a dire che è morto.
Il Tributo del sette scosse la testa, concentrandosi sui ragazzi che stava osservando da un pezzo. Ormai viveva a scrocco: appena loro se ne andavano, prendeva cibo e viveri dalle sacche sparse per la grotta, in piccole quantità cosicché non se ne accorgessero. Blight le aveva consigliato di fare così e la piccola, silenziosa come una volpe, rubava ai Favoriti di quell’Edizione con un sorriso sulle labbra. Sì, perché i Capitolini non dovevano vederla triste. Maple si passò una mano sulle labbra, curvandole verso l’alto nuovamente. In quei giorni non riusciva ad essere felice, sebbene fosse l’unica tredicenne ancora in “gara.” Aveva sentito il cannone per la piccola del dodici solo due giorni prima, mentre dormiva – più che altro cercava di prendere sonno – e si era decisa a contare i Tributi ancora in gara. Erano rimasti in dieci tra i ghiacci, dieci giovani più grandi di lei che l’avrebbero potuta spezzare come un bastoncino se solo avessero voluto. E se solo l’avessero trovata. Sorrise all’ultimo pensiero, crogiolandosi nella sua bravura a nascondino.
«Hurry, fai tu la guardia?»
Maple fece un passo avanti e, prendendo dei bei respiri regolari, decise di avanzare verso i Favoriti. Non aveva dimenticato quello che aveva fatto capelli blu – forse non l’avrebbe mai dimenticato – e aveva continuato a ripetersi la promessa che aveva fatto più a se stessa che a Thor. Lo avrebbe ucciso, ma non doveva avere fretta. Dopotutto, a nascondino, se ti muovi troppo presto, non riesci a vincere.
«Sì, la faccio io.» Hurricane non sembrava particolarmente chiacchierone, ora, come se il freddo si fosse portato via la parte restante della sua voce. Giocherellava con un bastoncino, facendo dei cerchi nella neve mentre sembrava assorto nei suoi pensieri. “Chissà quali” si chiese tra sé e sé la piccola, arrivando alla conclusione che forse sarebbe stato meglio non farsi domande: meno pensava a lui, meglio era. Non voleva stabilire il benché minimo legame con lui e solo pensare al perché fosse così silenzioso, l’avrebbe fatta avvicinare all’assassino di suo fratello.
È il momento giusto.
Maple socchiuse gli occhi all’ennesimo soffio di vento, che le scosse la felpa presa alla Cornucopia. Non aveva idea di quando attaccarlo, anzi: era terrorizzata da quell’idea. Eppure qualcosa dentro di lei le ordinava di avanzare. Guardò verso Hurricane, sapendo che quella poteva essere la sua unica opportunità, poi rivolse il suo sguardo alla parete ghiacciata che la sovrastava. Gocciolava leggermente, forse per la temperatura che pareva starsi alzando di giorno in giorno.
Plic, ploc.
La ragazzina coordinò i suoi passi alle gocce, per non farsi sentire da nessuno. Aveva giocato spesso a nascondino, nel suo distretto, e sapeva che non doveva avere fretta: era quello che fregava tutti. Ad un certo punto – presto o tardi che fosse – ogni bambino non riusciva più a trattenersi e si metteva a correre; il rumore attirava quello che stava contando e “Tana!”. Il problema era che gli Hunger Games non erano come nascondino, si chiamavano Giochi ma non lo erano. Se ti beccavano, eri morto. Maple lo trovò quanto mai comico, eppure non rise. Ogni suo muscolo era teso, attento a muoversi nel momento opportuno. Anche i suoi nervi erano tesi allo stremo, resi fragili da quel pericolo che aveva intenzione di correre. Trattenendo il respiro, si andò a mettere perfettamente dietro al ragazzo con i capelli blu, il respiro sincronizzato al suo. C’era una sottile lastra di ghiaccio davanti a lui, talmente sottile che si potevano vedere dei pesciolini muoversi sinuosi tra le stalattiti, mentre nella mano destra di Maple c’era un coltello. Non aveva mai pensato che sarebbe stato così difficile: la sua arma minacciava di cadere ogni secondo che passava, anche se tenuta stretta dalle sua dita sottili. Fu questione di un attimo e Hurricane si girò, gli occhi fissi in quelli di lei. Il Tributo del sette avrebbe giurato che ci fosse del terrore, in quel momento, poi lui si aggrappò con tutte le sue forze alla ragazzina. Tirava unghiate, graffi, calci, ma la superfice dove aveva posato i piedi si ruppe con tanti piccoli crack, una piega dopo l’altra.
“Vendetta” si disse Maple, ma quel suo pensiero non ebbe il tempo di tramutarsi in parole.
 


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Il vento soffiava sempre più forte, facendo muovere le cime innevate degli alberi mentre una figura incappucciata avanzava nella neve. I suoi capelli erano legati in una morbida treccia bianca, lunga fino alla vita, cui alcune ciocche bianche erano sfuggite. Era da tanto – troppo – tempo che Mahinete stava camminando sul ghiaccio: le gambe le facevano male per lo sforzo e alla minima pressione sarebbero miseramente cedute. Già le era successo varie volte, di cadere, bagnandosi la giacca, e non era stata un'esperienza piacevole. Raika avrebbe detto che era «facilmente mimetizzabile nella neve», con quei capelli bianchissimi che si ritrovava. Se ne sarebbe uscito con una delle sue battute, accompagnato dalla sua solita risata sincera mentre avrebbe cercato di rialzarla. Ormai Neth lo conosceva troppo bene per non sentire la sua mancanza. Era stato un errore allearsi con lui, un errore premeditato, un errore cui la ragazza del quattro era voluta andare incontro. E ora ne stava subendo le conseguenze.
“Potrebbe benissimo averti abbandonata.”
L'albina scosse la testa, chiudendosi la giacca alla bell’e meglio con le braccia sottili. Raika non l'aveva abbandonata, era solo andato da qualche parte per seguire un qualcosa che... Più ci pensava, più sembrava ridicolo e più quell'idea si faceva posto nella sua mente – insieme al freddo, ovviamente. Non era più tanto sicura di quell'alleanza, ora come ora, eppure un minimo ci sperava, altrimenti non sarebbe andata avanti a cercarlo. Prima di perderlo di vista, l'aveva notato muoversi verso la grotta, come abbagliato da qualcosa – o qualcuno. Sembrava stranito, preoccupato: Mahinete non era riuscita a capire esattamente come si fosse sentito il suo alleato, anche se aveva rivisto quella scena in sogno. Ricordava solo che in quel momento c'era tanta nebbia, il vento soffiava forte e lei si era sentita come in dovere di star zitta, anche se Raika si era girato chiedendole cosa avesse detto. Era stato strano, e l'albina era certa che c'entrassero gli Strateghi.
D'un tratto si trovò davanti alla grotta, dove un ragazzo se ne stava appoggiato alla parete con un coltello in mano. «Raika!» esclamò appena lo riconobbe, e andò verso di lui. Poi si fermò di scatto: qualcosa nel suo sguardo non la convinceva per niente.
 
Se c'era una cosa che Hito detestava, era che sua sorella gli stava sempre appiccicata. Qualsiasi cosa facesse, Mahinete era sempre dietro di lui, che lo seguiva goffamente. A nulla valevano le sue proteste: la bambina gli veniva lasciata in custodia, in un modo o nell'altro. Hito avrebbe tanto voluto che - anche per poco - quella piccola peste lo lasciasse in pace mentre nuotava o andava a mangiare dei dolci con i suoi amici. Persino durante le partite di calcio, che erano talvolta improvvisate sulla spiaggia, Mahinete insisteva per giocare e combinava casini, uno dopo l'altro. E Hito non poteva farci nulla.
“Dài, portala con te” era intervenuto suo padre, come sempre a favore della principessa dai capelli bianchi, conosciuta anche come Mahinete. La bambina aveva annuito convinta, puntando i piedi per terra, ma suo fratello le aveva rifilato un'occhiataccia. “E' tua sorella. Ringrazia il cielo che non ti lascio anche Ari” aveva aggiunto Nautès, indicando con un gesto della mano il bimbo scalzo che stava camminando per casa. E così, anche quella volta, la principessa aveva vinto e gli era toccato portarsela sugli scogli.
«Neth, datti una mossa! Altrimenti arriviamo tardi!» urlò verso la bambina che si era fermata a raccogliere una conchiglia. Mahinete scrollò le spalle, sbuffando alla spinta che le diede suo fratello per farla andare più veloce.
«Se ti muovi, ti faccio fare un tuffo.»
«Davvero?» chiese sorridendo.
«Davvero.»
Hito si maledisse da solo, perché la bambina, ora, stava correndo veloce come il vento per quella promessa. «Dannazione. A me e alla mia stupida linguaccia» sussurrò tra sé e sé, mentre l'albina corricchiava felice, sporcandosi i piedi scalzi di sabbia. Ecco: un'altra cosa che a lei veniva permessa era non mettersi le scarpe, anche grazie alla sua bravura sul non farsi beccare. Mahinete era furba, e questo gli doleva ammetterlo.
«Neth, dove stai andando? E' da lì che dobbiamo tuffarci» esclamò il ragazzo, indicando gli scogli con un dito mentre l'albina, che stava andando verso delle rocce molto più basse, li fissava sbalordita.
«D-da lì?» chiese, stranita.
«Sì, da lì.» Hito salutò con un cenno i suoi amici, nascondendo la sorella con il busto.
«Ciao!» Neth si piazzò davanti a lui e qualche ragazzino sghignazzò al vederla.
«Non farmi fare figure di merda» sbottò il più grande, mentre Mahinete cercava di assimilare, con la fronte aggrottata, la parolaccia detta dal fratello. 
«Questa è mia sorella» la presentò spiccio, «e ora muoviamoci a salire. Dix e Conn sono già su?»
Di risposta un ragazzo dai capelli rossi si tuffò di testa dallo scoglio, subito seguito da uno con i capelli biondi. «Erano su» rispose Mahinete, e si portò una mano allo stomaco in subbuglio per la paura.
«Ma è tanto alto» sussurrò l'albina, ma Hito la spinse avanti. «Non fare la femminuccia: se non vuoi, non lo fai. Niente lagne.»
La bambina si sedette sulla sabbia, lasciando che l'acqua le bagnasse la camicia che portava come copertura. Guardò la cima dello scoglio, deglutendo rumorosamente. Nel frattempo, suo fratello si era andato ad aggregare ai suoi compagni di classe e lo schiamazzo che facevano stava via via salendo.
«Vengo con te!» urlò la bambina e, corsa fino al biondo, ficcò la mano nella sua. «Però mi devi insegnare ad arrampicarmi.»
Hito si zittì di colpo: non aveva affatto previsto che le sarebbe venuta voglia di tuffarsi da là in alto. Si maledisse nuovamente, mentre pensava a cosa fare. Lui era bravo nelle arrampicate, molto bravo, ma sua sorella? Era sangue del suo sangue, certo, ma con quelle braccine non sarebbe andata tanto lontano. Era deboluccia, però doveva aver ereditato un po' della sua bravura certamente.
«Te l'insegno io, tranquilla. Innanzitutto devi cercare un punto d'appoggio e mai ­– dico MAI – appoggiarti alla cieca da qualche parte senza di aver provato prima che sia solida.»
Mahinete aveva aggrottato la fronte in modo buffo, come per captare le informazioni e immagazzinarle.
«Va' prima tu» le comandò, «se cadi, ti prendo io. Ah... Non guardare giù.» La bambina scosse la testa e, per una volta, Hito fu felice che quella fosse sua sorella. Anche se era incerta, proseguì testarda fino a che uno dei ragazzi già su le prese la mano per farle fare l'ultimo pezzo.
«Fratellone... Io ho... ehm... paura di buttarmi.»
Il biondo si dovette trattenere per non mollarle uno schiaffo dietro alla testa. «Come hai paura?! Ora ti devi buttare per forza.»
«Voglio scendere!» Mahinete puntò i piedi per terra, rischiando di cadere in acqua.
«Puoi scendere solo se ti tuffi.»
«Ma io... io...» piagnucolò lei.
«Tu niente. Ci tuffiamo insieme, okay?» chiese e la piccola gli tese la mano incerta.
«Okay.» Pochi secondi dopo e, soprattutto, poche urla dopo, i due fratelli erano in acqua a schizzarsi l'un l'altra.
«Hito... ehm...»
«Che c'è ancora?» sbuffò il ragazzo, leggermente preoccupato.
«Vorrei farlo di nuovo.»
Hito ne era sicuro: quella bambina stava cercando di ammazzarlo, in un modo o nell'altro.
 
 
«Raika?» chiese l'albina, non nascondendo il velo di preoccupazione che aveva la sua voce. Indietreggiò, mentre osservava i movimenti del suo alleato. Il Tributo del nove si era avvicinato barcollante, come facevano alcuni uomini di ritorno dalla locanda dove avevano certamente bevuto, e aveva allungato la mano verso di lei, nel suo sguardo si annidava qualcosa di strano.
«Cos'hai?» Tutt'un tratto la paura si impossessò dell'albina, facendole tremare le gambe: una vocina interna, subdola, le suggerì di scappare a gambe levate, ma Neth si sentiva ancorata per terra.
«Ha detto che devo ucciderti
«Chi?» Questa volta l'albina strinse il coltello che portava appeso alla cintura.
«Ha detto che devo ucciderti» ripeté lui, in trance. I suoi occhi azzurri vagavano alla ricerca di un modo per intrappolarla, e la sua bocca si piegò in un sorriso maligno quando vide la lama. Sembrava schernirla con lo sguardo, come per dire: “che ci vuoi fare con quella? Uccidermi?”
Raika continuava ad avanzare mentre i pensieri vagavano sconnessi nella testa della ragazza. Colpirlo, era quella la cosa giusta da fare? O forse doveva attendere che si sbilanciasse per catturarla? Mahinete non lo sapeva: ogni teoria formulata fino ad allora, sembrava essere sparita dalla sua mente. Non riusciva neppure a pensare per bene.
«Raika... Sono Neth, ricordi?» chiese in un ultimo, vano tentativo di dissuaderlo dal suo compito. Intanto la nebbia s'innalzava. «La pecorella» tentò nuovamente.
Il ragazzo parve rallentare, per poi riprendere più veloce di prima. Ormai i tentativi non bastavano più.
Il coltello s’inficcò sulla parete di ghiaccio, a pochi centimetri dalla sua testa, lasciandogli un taglio che in breve tempo assunse una sfumatura purpurea. Ma Raika non si fermò. «E' solo un trucco degli Strateghi» disse lei, impugnando un altro coltello con la mano tremante. «Ti supplico.» Quella volta fu lui a colpirla, a prenderle la maglietta con un gesto fulmineo e rivoltala come una preda tra le braccia. Solo allora Mahinete si accorse che alla sua maglietta mancava una striscia di stoffa, la stessa che le era caduta ai piedi il primo giorno nell'Arena. Tentò un'ultima volta, con voce flebile.
«Ti prego
 
 


Angolino dell'Autrice:

Comincio col dire che mi dispiace terribilmente di non aver aggiornato fino ad ora, ma avevo calcolato che in Toscana (dove sono stata in vacanza dal 7) ci fosse internet, e invece non c'era. Poi... beh... Mi sono dimenticata di passarmi questo capitolo sul portatile .-. Avrei dovuto aggiornare prima, lo so, eppure non riuscivo a finire il capitolo e questo periodo di stacco mi è servito sia per scrivere questa long che la mia prima originale. Forse aggiornerò e pubblicherò con più frequenza, forse no. Però ho parlato con la creatrice di Maple e quella di Sigma – le mie due cugine – che mi hanno dato qualche dritta sul loro passato e sui personaggi che sono legati a loro. La piccola ha persino cercato di farmi creare un fidanzatino per Mape, mentre la più grande ha letto varie OS senza il mio permesso – e facendomi incazzare, aggiungerei.
Ora però vi lascio, che devo fare i compiti (sì, li faccio a quest'ora) e recensire per uno stato di recensioni del gruppo “The Capitol.” Ah, fate attenzione all'acqua che cade dal soffitto, che è importante.
Ciao a tutti e grazie per aver letto :D Un ringraziamento speciale va a Bolide Everdeen, che – l'ho scoperto adesso – ha messo la mia storia tra le sue consigliate per questo fandom. Sei gentilissima <3 Grazie <3

PRESTAVOLTI (perché ne ho cambiata la maggior parte)
- Maple Bark
- Mahinete Frost
- Hito Frost
- Raika Swift

 
Talking Cricket ®
 
 PS: I due stupidi che si sono buttati dalla roccia nel flashback, Dix e Conn, sono OC di Alaska__ e compaiono nella storia “Semplici pedine dei loro giochi”, poi il primo fa varie comparse in altre storie sempre sue. Tra l'altro, è persino il Mentore di Mahinete – insieme a Finnick. E' un losco, dolcioso tipo dai capelli rossi <3
 

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Capitolo 14
*** XIII Di domande indiscrete, messaggi in codice e ricordi tornati a galla. ***




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 (XII)
Di domande indiscrete, messaggi in codice e ricordi tornati a galla.
 
 



«Chi sei? Fatti vedere.»
L'albina aveva parlato con calma, lasciando che la sua voce tradisse solo un po' d'incertezza. Era una ragazzina fragile, con i capelli legati in una morbida treccia bianca che le arrivava al busto: faceva quasi ridere mentre cercava di fare la faccia feroce, esibendosi in una ridicola angolazione della mascella. Però Nat non rise: in quel momento doveva solo capire se l'alleanza era plausibile. Eppure aveva tentato di stabilire un contatto con i due prima di esserne certo. Si diede dell'idiota, tirando tra pollice e indice un lembo della sua felpa per il nervosismo. Lo faceva spesso, quando non voleva distruggersi la pelle screpolata delle mani.
«Allora? Esci o no?»
Questa volta l'albina si era avvicinata al muro ghiacciato e, toccandolo con le dita sottili, aveva fatto per guardargli dietro. Il suo alleato l'aveva fermata con un gesto spiccio della mano. Ecco, era lui il motivo dell'indecisione di Nat: il suo sguardo non lo convinceva perché non era mai riuscito a scambiarsi un'occhiata con lui senza che Raika chiudesse gli occhi o guardasse da un'altra parte. “Quelli come lui hanno sempre qualcosa da nascondere: in bene o in male. Più in male, però” si disse. Il ghiaccio sotto i suoi piedi minacciava di rompersi per il caldo che andava via via aumentando.
«Esco, esco» mormorò infine, uscendo dal suo nascondiglio con le mani alzate in segno di resa. Mahinete fece un sorriso. «E' quello del dieci» esclamò nell'orecchio del suo alleato che grugnì perché lui «si ricordava tutto alla perfezione.»
«Distretto dieci. Nat Carter. Sedici anni.» Raika aveva parlato con voce stanca, limitandosi a dire quelle poche nozioni che giudicava importanti. Aveva però evitato di soffermarsi sulla sua bravura con l'arco e i lividi che aveva notato durante l'allenamento. “Meglio non parlarne” aveva convenuto tra sé e sé. Tanto l'arco era nelle mani dei Favoriti e, riguardo alla seconda cosa che aveva notato, preferiva non impicciarsi in affari che non lo riguardavano.
«Di' un po'... Sai anche che taglia di mutande porto?» chiese Nat con un sorriso, e Mahinete ridacchiò dello sguardo che gli lanciò il Tributo del nove.
«In realtà non saprei... Mica posso controllare?» sghignazzò Raika, sorridendo mesto. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo d'intesa, mentre l'albina sbuffava esasperata. «Se non altro questo è un modo nuovo per iniziare un'alleanza.»
«Già, Mahinete. Giusto?» chiese. L'albina scosse la testa, dicendo: «chiamami pure
Neth
A quella risposta, il ragazzo del nove sbuffò. «Pensavo che ti facessi chiamare
Neth solo da quelli di cui ti fidavi alla cieca.»
«Difatti. Ma ieri, grazie ad un certo idiota che ha cercato di uccidermi - indicò Raika con un gesto spiccio della mano - non sono più tanto sicura delle mie scelte.»
Il moro preso in questione si rabbuiò in un attimo. «Non è colpa mia se gli Strateghi hanno capito qual è il mio punto debole.» Abbozzò un sorriso che risultò piuttosto tirato, almeno agli occhi di Nat.
«Cos'è successo ieri?» chiese quest'ultimo, alludendo alla risposta di Raika.
«Ha visto il fantasma di una sua amica, ma si rifiuta di parlarne.»
«Perché dovrei farlo?»
«Perché te lo dico io, okay?» Era divertente vedere come battibeccavano, come l'albina rispondeva pronta alle affermazioni del suo amico.
«Le somigli troppo. Avete lo stesso modo di rompere le palle» sbottò lui e fece per andarsene, ma Mahinete lo tenne fermo per un braccio.
«Chi?»
«Tu e 'Bekah, solo che lei
era un po' più manesca.» Raika sorrise nuovamente, ricordando tutte le volte che le sue discussioni con Volpe finivano con una sberla sulla sua guancia e l'andare via di lei.
«
Era?» Nat colse l'incertezza nella voce di Neth, evitando di interromperla per chiedergli di spiegare un po' la situazione.
«Morta. Nei sessantasettesimi Hunger Games. Quando ha vinto quella del dieci. Un'alluvione.»
“Colpita e affondata” pensò il Tributo del dieci, guardando l'altro allontanarsi e lasciare così la ragazza a pensare a quello che aveva detto.
 

 
Mahinete dormiva con un braccio sotto la testa, incorniciata dai morbidi capelli bianchi che le ricadevano scomposti sugli occhi. Era fragile, fragile come l'aveva vista per la prima volta, e Nat non riusciva a togliersi quell'aggettivo dalla testa, sebbene ci avesse provato. Non riusciva a visualizzarla con una caratteristica diversa. “Forse è colpa dei capelli bianchi” si disse, osservando la ragazzina poggiare la testa dall'altro lato con uno sbadiglio. Mahinete si passò una mano sugli occhi, poi li aprì con calma, come se la luce azzurrina che filtrava dal soffitto le desse fastidio.
«'Giorno» lo salutò con uno sbadiglio e tirò i piedi e le gambe fuori dal sacco a pelo scuro. «Raika dov'è?» chiese, sbadigliando di nuovo. «Dovrei scusarmi.»
«Non credo che voglia delle scuse» rifletté Nat, «più che altro vorrebbe mandare via quei ricordi e non ci riesce.»
«E tu come fai a saperlo.» Neth gli si avvicinò e, sedendosi accanto a lui, si mise ad allacciarsi gli scarponcini.
«Forza dell'abitudine.» Evitò di guardare l'albina negli occhi, raccattando con il piede un lembo del sacco a pelo. “Perfetto. Ora mi sono cercato delle domande” pensò stringendo i denti, ma la ragazzina non disse niente. Lo scrutò solo da capo a piedi, con il labbro corrucciato.
«Io non riesco mai ad accorgermene. Diciamo che la mia sensibilità a queste cose è pari alla meno un milione.» Gli sorrise, e il Tributo del dieci pensò che quella ragazzina era simile a Gea nel suo parlare con schiettezza.
Fece per rispondere, ma notò che Neth stava guardando verso la sua spalla, stranita. Si affrettò a rialzare la sua maglietta, che aveva lasciato scoperto un lembo di pelle dove si poteva notare una cicatrice rossastra.
«Per favore. Niente domande.» La sua affermazione suonò come una supplica e Neth capì che non doveva impicciarsi in quella faccenda. Sapeva cosa erano quelle ferite: a volte le vedeva sulla schiena dei giovani più poveri del distretto, quelli con i genitori che bevevano rhum, alla sera, gli stessi che magari si addormentavano sbronzi sulla spiaggia e rimanevano lì fino alla mattinata successiva.
«Alcol?» chiese in un soffio.
«Generalmente no. Mi odiava e basta.»
“Non è possibile” pensò Neth, ma dallo sguardo che le rivolse il suo alleato capì che doveva essere in quel modo. Non era un bugiardo, lui.
La domanda le sorse spontanea: «perché?»
Nat sbuffò e non rispose, stiracchiandosi contro la parete. «Non ne ho idea.» Evitò di guardarla, perché non si accorgesse che stava mentendo. Lui lo sapeva benissimo perché, lo sapeva e avrebbe voluto non conoscere il motivo. Sarebbe stato meglio per tutti se non fosse nato. Niente cinghiate per lui, niente bastardo di cui occuparsi per suo padre - anche se non avrebbe dovuto chiamarlo così.
Mahinete fece per dire qualcosa, ma si fermò all'arrivo di Raika, di ritorno da un giro di perlustrazione.
«Nelle vicinanze non c'è nessuno. Neppure un'uscita» disse spiccio e si lasciò cadere sulla coperta dove erano seduti i suoi alleati. «Non capisco perché gli Strateghi ci abbiano fatti arrivare qui.» Si passò una mano tra i capelli, mentre l'albina cercava un accenno nel suo sguardo sull'averla perdonata o meno.
«Forse hanno deciso di lasciare che ci grattassimo le palle per tutto il resto dell'edizione.»
«Un po' insensato» rifletté Nat, «ci faranno incontrare qualcuno.»
«E quel qualcuno saranno certamente i Favoriti.» L'albina non riuscì ad evitare che le venisse la pelle d'oca a quella conclusione.
«In quel caso li affronteremo, pecorella. E vinceremo.» Il Tributo del nove non ne era tanto convinto, eppure continuava a ripeterselo, pensando che forse farlo sarebbe stato utile. Avevano solo una borsa con dei coltelli, un po' di cibo e la sua balestra: certamente troppo poco.
«Toh... Guarda, un paracadute» esclamò con nonchalance, mentre la ragazzina del quattro, cui sicuramente era destinato, lo seguiva con lo sguardo. Il cesto scendeva lentamente, a giri, e le finì davanti come per dare conferma alla domanda. Si aprì da solo e, emettendo dei bagliori argentati, scoprì una spada dalla lama fina, tagliente e qualche striscia di carne essiccata.
“E' per me?” si chiese incredula Mahinete, guardando in alto con un sorriso per ringraziare i suoi mentori.
«Però... Regalo costoso. Devi essere una delle favorite, pecorella.» L'esclamazione di Raika le diede il coraggio di prenderla in mano per osservarla meglio. Era leggera, adatta a lei, perfettamente bilanciata. La ragazzina menò un paio di fendenti nel vuoto, tagliando l'aria con gesti precisi, quando un bigliettino le cadde ai piedi e Nat si chinò per raccoglierlo. Sopra c'era scritta una moltiplicazione con dei caratteri femminili, non veloci e abbozzati come quelli di Finnick.
Il Tributo del dieci sorrise, mentre Raika grugniva. «Questo viene dalla mia Mentore, solo... ecco... Non pensavo che saper contare mi sarebbe stato utile» esclamò, crucciando lo sguardo e convenendo che quello era un messaggio in codice.
«Ora bisogna solo capire cosa sta a significare “101 X 5”. E credo che non sarà una buona notizia di certo.»
 
 
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«Papà!»
India si slanciò sulla figura che era appena entrata dalla porta di casa con un sorriso, per farsi prendere in braccio. Amava il suo papà, la dolce rozzezza con cui le scompigliava i capelli scurissimi, il suo odore di buono – qualcosa che in seguito la ragazza avrebbe attribuito ai campi dove a volte lavorava. Era il papà migliore del mondo, di questo ne era certa.
«Ciao, scricciolo.» L’uomo le si abbassò davanti, per arrivare alla sua altezza, e lasciò che la bambina gli schioccasse un piccolo, dolce bacio sulla guancia. Poi si avvicinò alla moglie, che li stava guardando con tenerezza mentre allattava la piccola di casa, e le posò un leggero bacio sulle labbra tra le esclamazioni di disgusto della figlia maggiore. «Guarda che dovrai fare così anche tu, quando sarai grande» le disse con un sorriso, prendendo la manina che la piccola gli tendeva gongolando.
«Dov’è?» Si toccò la tasca inferiore della giacca con apprensione, dove evidentemente mancava qualcosa d’importante, mentre India gli sventolava davanti un sacchetto con aria furba.
«Cerchi forse questo, papy?» sghignazzò e corse verso l’altra parte della stanza, veloce come una saetta. Suo padre roteò gli occhi, esasperato. Era ormai da un paio di mesi che quella bambina gli faceva lo stesso identico giochetto, come per fargli capire che era pronta per andare a “lavorare” con lui. Aveva solo sei anni, ma sapeva il fatto suo ed era certamente più silenziosa di lui. Si muoveva con garbo, le gambe sottili attente a non fare il benché minimo rumore, ed era poco sospettabile. Quando stava ferma vicino alle bancarelle, poi, con le braccia congiunte davanti a sé, era impossibile pensare che potesse anche solo rubare qualcosa.
«Sai… potrei venire con te, domani.» Cominciò, saltando in grembo a suo padre, i capelli corvini che solleticavano il naso dell’uomo. Era furba, India, eppure quando aveva in mente di fare qualche scherzo, il suo sguardo perdeva la risolutezza solita e gli occhi le luccicavano. «Ti aiuterei» aggiunse, ridandogli con un gesto cerimonioso il suo sacchetto.
«Sei troppo piccola.» Svuotò le tasche sul tavolo, esibendo la refurtiva di quel giorno, mentre sua figlia gli lanciava uno sguardo irato. «Non sono troppo piccola» esclamò, stizzita da quella spiegazione così ingiusta nei suoi confronti.
«E invece sì.» Suo padre la squadrò dall’alto al basso, con la sola reazione di far assumere ad India un’espressione annoiata. Allora rise, l’uomo, e le scompigliò i capelli scurissimi.
«Domani, forse – lanciò un’occhiata di domanda a sua moglie – potresti venire, ma niente sciocchezze. Ci siamo intesi?» chiese.
«Intesi.» India fece saltare una monetina sul suo palmo, nascondendola poi nella manica della maglietta. Era uno dei giochetti che le aveva insegnato il suo papà e, come tutte le cose che le aveva spiegato, ne era fiera, così come conservava nel cuore ogni raccomandazione che lui le faceva.
«Allora… Te la ricordi la prima regola?»
«Pianificare sempre tutto» canterellò India con voce serena, sbattendo gli occhi con un’aria da santarellina. Tra gli occhi le passò un lampo di malvagità e andò ad avvicinarsi al tavolo, le mani dietro di sé.
«La gente si lascia ingannare dalle apparenze» le ricordò suo padre sorridendo. «E, a fare questo, sei davvero brava» si congratulò con la figlia, mentre lei s’infilava un fazzoletto trovato sulla tavola nella manica. Era liscio al tatto, scorreva tra le dita come se fosse stato d’acqua.
«Beccata.» Suo padre l’afferrò per un braccio, mentre lei si dibatteva. «Vedi: non sei ancora pronta» aggiunse, dandole un leggero schiaffetto dietro alla testa. India sbuffò e si andò a sedere sul primo gradino della scala che portava alla sua camera, uno sgabuzzino che i suoi avevano adibito con un lettino, dei cassetti e perfino una lampada ad olio per quando India voleva leggere un po’ dell’unico libro che possedeva.
«Sei tu ad essere troppo bravo» sbottò, punta nel vivo. Anche quella volta suo padre aveva trovato il modo di non portarla con sé, sostenendo che era troppo inesperta per rubare al mercato.
«Non puoi permetterti uno sbaglio, fuori. I nostri “clienti” non esiterebbero a chiamare i Pacificatori.»
A quell’affermazione, India si sentì accapponare la pelle. Le avevano raccontato che quegli uomini vestiti di bianco erano autorizzati a fare molto male a chiunque fosse beccato a fare qualcosa che non avrebbe dovuto. Suo padre ne parlava spesso con la mamma, a bassa voce, convinto che la bambina non sentisse nulla. Eppure India aveva già sentito tante storie su di loro ed era arrivata alla conclusione che erano dei draghi cattivi e che non avrebbe mai dovuto averci a che fare.
«Va bene, però domani ci riprovo» esclamò risoluta, con il suo risultato di far scoppiare a ridere i genitori.
«Non te lo vieto. Stai diventando brava, scricciolo – le labbra di suo padre s’incresparono in un sorriso divertito - Tra un po’ potresti perfino sostituirmi.»
E India non lo sapeva, ma quel momento sarebbe arrivato molto più presto di quanto si sarebbe mai aspettata.
 
 
La ragazza dell'undici era appoggiata al tronco di un albero, ripensando a quello che le stava per fare Golia. Certo, le era capitato varie volte che qualcuno tentasse di stuprarla, e tutte quelle volte aveva saputo come difendersi. Gliel'aveva spiegato suo padre quando era piccola, come fosse un gioco. Non doveva farsi vedere dai ragazzi né dai Pacificatori, perché avrebbero potuto farle del male. “Non farti vedere. Ti stuprerebbero, e poi ti porterebbero in Piazza.” Distrattamente, India annuiva. In realtà quel poco che riusciva a capire si limitava alla seconda frase, il resto lo ignorava come solo una bambina poteva fare. E così India li temeva, nascosta dietro alle tegole, il corpo esile perfettamente coperto dai muri diroccati del Mercato Nero. Le parole di suo padre le rimbombavano spesso in mente, quasi lui fosse dentro di lei - forse era proprio così -, ricordandole tutto quello che le aveva insegnato.
Con uno sbadiglio stanco, il Tributo dell'undici si passò la mano sugli occhi, stropicciandoseli. I capelli le sfuggivano dalla coda nella quale li aveva legati, ribelli, e le accarezzavano il viso. «Sveglia» mormorò, tirandosi uno schiaffetto. Il freddo minacciava di farla addormentare, sfibrandola lentamente, dall'interno.
“Chiudi gli occhi e sei morta” pensò. C'erano troppe cose che avrebbe potuto fare per finire morta, in una bara che sarebbe tornata a casa sua. Poteva solo camminare, India, e aspettare. Di aspettare, però, non era stufa come di tutto il resto.
Gli alberi innevati le scorrevano davanti agli occhi, identici. Le venne da sorridere pensando a quanto si stessero annoiando i Capitolini. Niente uccisioni, niente sbudellamenti o grida di dolore. Niente di niente. Forse l'ennesima testa del Primo Stratega sarebbe caduta per terra. La risata le morì in gola, trasformandosi in un rantolo strozzato.
La sua ombra, riflessa sul ghiaccio, la osservava malevola, un ghigno stampato sulle labbra semiaperte. D'un tratto le parve che non si sentisse più niente, tranne il gocciolare di una stalattite sul terreno. Il plic-plac parve fondersi con il frusciare delle foglie, mentre India si allontanava dalla grotta. Fin dal primo giorno aveva deciso di non entrarci per nessun motivo al mondo e avrebbe continuato così, anche se una valanga si fosse abbattuta sotto l'albero dove dormiva, anche se le avessero scatenato dietro ibridi assetati del suo sangue.
Pensando a quello, la ragazza fece dietro front. Eppure non riuscì ad evitare di guardare di nuovo verso la parete ghiacciata dove doveva esserci il suo riverbero. Non la rifletteva più, notò India rabbrividendo, i pugni stretti attorno alla sua felpa. «Non è successo niente» si ripeté a bassa voce, per darsi conferma che effettivamente non fosse accaduto nulla. Il vento sembrò risponderle da lontano, urtando contro i tronchi degli alberi. Erano diversi da quelli che aveva visto fino ad allora: più sottili e alti, i rami pronti a spezzarsi alla minima pressione. Sembrava che gli Strateghi si stessero dedicando con tutti se stessi a non farla scappare dagli altri Tributi. Ma non ce l'avrebbero fatta.
«Chi sei? Fatti vedere!» India cercò di far sembrare la sua foce più ferma di quanto non fosse, mentre l'aria rimaneva ferma, in attesa che la ragazza facesse qualche mossa di cui si sarebbe poi pentita amaramente.
«Sono... io.»
Le dita dell'ombra le toccarono i capelli scuri con delicatezza e India si girò di scatto. Gli occhi di suo padre si riflessero nei suoi, castano nel verde. «T-tu?» La ragazza si maledisse per aver lasciato trasparire l'incertezza da quel suo tono strascicato, così fragile. L'uomo le posò le mani sulle spalle e, dolcemente, le accarezzò una ciocca di capelli scuri tra pollice e indice.
«Sono io, scricciolo
La voce serena, felice, le fece drizzare le orecchie.
“Non è reale.” Si ripeté più volte, nella testa, fino ad urlarlo, le mani che le coprivano inutilmente le orecchie. “Morto. Morto. Lui è morto.” Cercò di stringere i padiglioni auricolari con forza, come se facendolo la voce di Liaam sarebbe scomparsa. I passi di suo padre risuonarono lenti, scanditi dal plic-plac di una goccia d'acqua che scendeva da una stalattite.
«Seguimi» sussurrò, mentre le gambe di sua figlia si muovevano da sole, spinte da una forza misteriosa che la ragazza non avrebbe mai creduto di avere. La testa le pulsava: tentare di resistere era stato inutile. “Eppure è così bello.”
Si diede della stupida, per aver pensato ciò. Nei Giochi della Fame bello equivaleva a mortale, e quello era un dato di fatto. Rattralciante, India seguì lo spirito verso le pareti ghiacciate, ma, appena cercò di toccarlo, l'immagine scomparve, riapparendo come riflesso su di un'altra lastra. Le strade sembrarono sdoppiarsi in mille sfumature di azzurro, dal ghiaccio a quello più scuro delle parti ombreggiate; la luce filtrava dal soffitto riempiendo la grotta di un'atmosfera quasi magica.
“Io non dovrei stare qui.”
Tutta la prudenza di India era sparita nel nulla, mentre seguiva Liaam. Camminava e camminava e camminava, senza fermarsi neppure per un attimo per riprendere fiato.
«Perché non ti fermi?» chiese a suo padre, poiché, qualsiasi movimento lei facesse, lui era sempre avanti di almeno un paio di passi. “La distanza sta aumentando” constatò India e, in quel momento, iniziò a sentirsi le gambe stanche, appesantite. E suo padre non si fermava neppure alle sue suppliche: la superava di almeno un paio di metri, poi questi raddoppiarono, la sua figura divenne sempre più piccola.
«Fermati!» urlò il Tributo dell'undici, tentando disperatamente di tenere il passo mentre lo spirito scompariva, dissolto nel nulla. Al suo posto, apparve una ragazza bionda, da dietro ad una lastra di ghiaccio. Aveva un coltello nella mano destra e la stessa espressione smarrita.
«Undici» disse, inchinandosi in modo derisorio.
«Due.» India non aspettò altro: lanciò una lama alla mano della Favorita, facendole cadere la sua per terra. Altri coltelli le passarono tra le mani, volti a colpire l'altra, mentre cercava di schivare quelli che le venivano lanciati contro. Uno le colpì l'anca,  squarciandole la pelle, perché lei si fermasse a controllare la ferita. In seguito, India non avrebbe saputo dire quando avesse deciso di attaccare. L'unica cosa che avrebbe ricordato sarebbe stato il cadavere di "due" per terra, che macchiava il ghiaccio di rosso, e il rimbombo del cannone sulle pareti.
 
 


Angolino dell'Autrice:

BOOM! Mentre il cannone si diverte(?) a fare il suo canto di morte, io prendo in mano carta e penna e cerco di mettermi a disegnare ^^ Questo è uno dei capitoli che mi hanno fatto sorridere di più, perché Nat e Raika come alleati sono favolosiH. Diciamo che la loro alleanza è stata solo un mio capriccio. In realtà, Nat doveva proseguire da solo – senza subire tutte le domande di una principessa dai capelli bianchi  – e gli altri due idem. Ma sarebbe stato tutto molto più noioso, così ho deciso di metterli insieme e godermi tutte le cose che scopriranno grazie al brillante intervento di Nattuzzolo <3 Se volete, potete provare a rispolvere il quesito contenuto nel bigliettino, che è relativamente facile >.< Come si può notare dal regalo di Nethe, molti Capitolini scommettono su di lei e la sua vita. E' una Favorita dopotutto, e con quel bel faccino che si ritrova come potrebbe non essere così?
Passando alla parte di India, anche lei è stata vittima delle fallimentari trappole degli Strateghi, proprio come Raika due capitoli fa. Mi vergogno abbastanza di come non sia riuscita a rendere la morte di Alysha, ma non sapevo davvero che scrivere e già avevo saltato la parte in cui Raika non uccide Neth.
Sarebbe stata troppo simile alla lotta tra Tobias e Tris in Divergent, e non volevo affatto ridurmi a fare una cosa uguale. Così lei non è morta, io non ho scritto quella parte e il rapporto tra i due si è, stranamente, consolidato. Sono troppo tenerosi come alleati *^* E poi Hi è rompi-maroni come Rebekah ^^
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, recensito o sono solo passati a vedere questo capitolo :°D

Talking Cricket
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** XIV Save our souls ***


 

(XIV)
Save our souls.
 
 
 


«S.O.S» rifletté Nat, stringendo il foglietto tra il pollice e l'indice della sua mano. Scosse l'albina, sventolandoglielo davanti. «Ho capito» esclamò, felice, e Raika si alzò con uno sbuffo. 
«Cosa hai capito?» sbadigliò dal suo sacco a pelo, gli occhi rivolti verso la parete ghiacciata che li nascondeva dagli altri Tributi. Mahinete si stropicciò gli occhi, aprendone solo uno per segnalare che era sveglia. Da quel che aveva capito il Tributo del dieci, l'albina non riusciva a svegliarsi con tanta velocità: aveva bisogno di stiracchiarsi, prima, e grugnire parole senza senso in una lingua incomprensibile per lui. “Antico dialetto del quattro. Lo stesso da cui proviene il mio nome, sai? Significa donna bianca favorita dagli spiriti. Ma-hi-neth” aveva scandito le parole con calma, perché parlava sempre troppo velocemente e altrimenti lui non l’avrebbe capita. Al contrario di Raika, Nat era riuscito a farsi un’idea dell’alleata: era una creatura marina, lei, dalla voce spumeggiante come il mare che Nat aveva tanto sognato di vedere. Eppure, con quei capelli bianchi, si mimetizzava perfettamente tra la neve dell'Arena. 
«Centouno per cinque fa cinquecentocinque – si mise a disegnare il numero sul pavimento ghiacciato con l'aiuto di un bastoncino – Se scrivo il cinque velocemente e arrotondando gli spigoli si tramuta senza alcun dubbio in S.O.S, che veniva utilizzato nell'antichità per indicare pericolo.»
«Favoriti nelle vicinanze» concluse Raika per lui. Il ragionamento era corretto, ma metteva in luce un grandissimo problema che sperava di affrontare quanto più tardi fosse possibile: i Favoriti. Erano rimasti in due, certo, eppure erano più forti, distruttivi ed agguerriti di qualsiasi Tributo dei distretti remoti. Delle macchine da guerra, pronte ad uccidere senza il minimo ripensamento. Raika guardò Mahinete, inarcando pensieroso un sopracciglio. Lei non era una Favorita, sebbene si fosse allenata per partecipare ai Giochi dalla tenera età di dieci anni. Era brava con quello spadino, certo, ma avrebbe potuto fare qualcosa contro un maschio grosso il triplo di lei, armato di mazza chiodata? Sì, avrebbe potuto implorare pietà per una morte indolore, e sperare che Golia le desse ascolto. 
L'inno della Capitale risuonò sulle pareti, facendo alzare al cielo gli occhi dei tre alleati.  
«Bene. Andiamo a prenderci l'arco» disse infine Raika, guardando il viso della ragazza del due sfumare sulla lastra ghiacciata del soffitto. Doveva ancora capire come esattamente riuscissero gli Strateghi a proiettare immagini sul ghiaccio, così distinte. Il ragazzo si lasciò cadere con la schiena poggiata contro un albero, notando che Mahinete si era messa proprio accanto al loro alleato del dieci. «Buona idea per farci uccidere» esclamò lei, mentre stringeva un lembo del sacco a pelo, tremando per il freddo. Raika le andò a poggiare una mano sulla spalla, e avrebbe fatto anche di più se lei non si fosse scostata bruscamente al suo tocco. 
«Li uccideremo.» “E poi ci dovremo separare” pensò, senza che le sue riflessioni si trasformassero in parole. 
«O loro uccideranno noi» fece Nat. «Lo vado a prendere io. È a me che serve un'arma.» Indicò con la mano la balestra di Raika e il fioretto di Mahinete, per poi guardare ansioso il soffitto come se, facendolo, gli sarebbe caduto davanti un paracadute argentato. 
«Non ti faccio andare da solo. Siamo una squadra: se va uno, vanno tutti.»
Il Tributo del nove sbuffò. Detestava quella parte del carattere di Mahinete: era troppo buona, troppo candida, troppo incosciente. Lui non ci avrebbe pensato due volte a lasciarlo andare da solo, mentre l'albina sprizzava lealtà da tutti i pori. Sembrava non essersi neppure resa conto che nei Giochi della Fame c'era un solo vincitore. “E sarebbe stata Neth. Di questo ne era certo.”
Lei era una Favorita: aveva tanti sponsor, una vita alle spalle e un'innata simpatia. Lui non aveva nulla di tutto ciò, solo un passato di fuoco e un presente di cadaveri. Forse la morte sarebbe stata una liberazione, perché tanto nessuno lo aspettava al distretto nove.  Doveva vincere Mahinete. Raika non aveva neppure pensato a cosa sarebbe successo in caso contrario. 
«Ha ragione. Veniamo con te» sbottò infine, vista la convinzione con cui aveva parlato l'albina. «Potremmo prenderci anche altra roba, da loro» sogghignò, caricandosi la balestra sulla spalle. «Sempre se non ci facciamo beccare.»
«Andiamo, Neth. Stai parlando con uno che è abituato a fare cose del genere» grugnì Raika, mentre l'albina gli rifilava un sorriso furbetto. «Ma non hai mai detto che le fai senza farti scoprire» ribatté. 
Il ragazzo le sorrise di rimando. «Altrimenti non sarei qui, no?» rispose, alludendo al fatto che lo avrebbero ammazzato, se avessero saputo che lui era uno della banda di ribelli del nove. “Però con 'Bekah non l'hanno fatto.” In realtà non aveva raccontato praticamente nulla a Mahinete della sua vita prima dei giochi: aveva capito da sola che non era uno socievole e che il suo “lavoro” nel distretto era topsecret. Come avesse scoperto che aveva a che fare con la ribellione, però, Raika non ne aveva la più pallida idea.
«Hai vinto.» Mahinete si alzò, ripiegando con rapidità il sacco a pelo e ficcandoselo nello zaino. «E hai anche un gran desiderio di morte» aggiunse, però non disse altro sulla stupidità di quell'idea. Raika gliene fu grato.
«Ci faremo uccidere. Vado solo io.» Nat frenò con un gesto della mano ogni protesta proveniente dall'albina, ma non aveva previsto che sarebbe stato il Tributo del nove a protestare. «Dato che sua maestà, la principessa Mahinete, ha deciso così, non ti è data la possibilità di opporti» disse con tono pomposo, mentre Neth rideva. Anche suo fratello Hito la chiamava così, a volte, e il suo sguardo si rabbuiò, pensando a quanto fosse lontana da casa. Milioni di miglia. Miliardi di leghe distante dal mare che avrebbe tanto voluto rivedere prima di morire.
«Va bene.» Nat guardò per terra, evidentemente seccato che gli altri si preoccupassero per lui.

 

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Nell’Arena le capitava spesso di pensare a Blu, quando non era impegnata pianificare i modi in cui avrebbe ucciso tutti gli altri Tributi. Passava ore con quelle idee in testa, impiegando la sua mente ad immaginare metodi per stanare la Sirenetta, sorrideva quando la Sigma nella sua mente la trapassava con una spada, mentre i suoi occhi diventavano vacui. Sorrideva soltanto. Poi mulinava la falce tra le mani, tagliando i rami circostanti come burro. Si preparava, e quando sarebbe stato il momento non avrebbe avuto alcun ripensamento. Il corpo dell’albina si sarebbe afflosciato tra le sue mani, “perché gli uomini erano solo sacchi di pelle e sangue” – le risuonarono in testa le parole del suo allenatore al distretto uno. Un solo affondo che fosse andato a segno e il contenuto si sarebbe rovesciato per terra, macchiandola di rosso. Poi si sarebbe chinata per ascoltare le sue ultime parole.
Non ci sarebbe stata alcuna possibilità di errore. Le immagini le passavano davanti con il ghiaccio a farle da schermo. Come quando alla TV rivedeva i Giochi passati, commentando sottovoce le mosse dei Tributi. Ricordava la scheletrica brunetta che, mulinando la spada, aveva trafitto un ragazzo molto più grande di lei; Finnick Odair e il suo tridente, di gran lunga il vincitore preferito dai Capitolini; Kyle Wave e la sua testa che volava, staccata dal suo corpo. E ripeteva i loro nomi, scolpiti nella sua memoria, i nomi di degli eroi che avevano combattuto e vinto  con gloria. A volte, quando passavano i servizi sui Giochi in TV – che, tra l'altro, commentavano in classe durante l'intervallo – le capitava di anticipare i nomi, facendo persino sorprendere gli insegnanti che li portavano in gita lì. Ricordava il giorno in cui sua madre si era spaventata, vedendo le sue bambole distrutte e soffici batuffoli di cotone che svolazzavano tutto intorno. “Giocano agli Hunger Games” aveva tentato di spiegare, ma la donna era scappata via senza dire una parola, con le mani sugli occhi stravolti. Non aveva mai capito perché. Suo padre si era persino complimentato con lei, chiedendole chi fosse la vincitrice. Di fronte a quella domanda, Sigma aveva sorriso orgogliosa. “Ha vinto lei” aveva spiegato, indicando una bambola con un braccio di pezza tagliato, che sembrava tutt’altro che felice. 
Era stato quando i suoi occhi erano ancora di colore diverso. Eterocromi, come li chiamava Cecil.
«A che pensi?»
«A come ucciderò la Sirenetta. A quali potrebbero essere le sue ultime parole» rispose al suo alleato, simulando la caduta che avrebbe compiuto il corpo della bambina, quando l’avrebbe trafitta. Golia le rivolse un’occhiata di assenso, affilando la sua spada con gesti attenti. Lo faceva spesso, ma non per il suo stesso obbiettivo. Lui voleva uccidere la puttanella, non l’albina.
«Secondo me dovresti pensare a nove. Lui è più pericoloso.»
«Quando vedrà come ridurrò la sua amichetta, si trasformerà in nient’altro che un bimbetto spaventato.»
Il moro annuì nuovamente e una goccia cadde sui capelli della ragazza, scendendole sugli occhi rivolti al soffitto. Pioveva anche all’interno, e Sigma detestava la pioggia. Era stata una mattina di pioggia quando l’avevano addormentata con il cloroformio, togliendole quello che la distingueva dagli altri. La diversità dei suoi occhi.
«Non ha la faccia di quello che diventa un marmocchio spaventa-to.»
«Nessuno ce l’ha, Golia.»
«Quello del dieci sì.»
«E più forte di quanto tu non creda, per essere scappato dal Minotauro.»
Un’altra goccia le cadde sugli occhi grigi e Sigma sbuffò, tirandosi una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
«Forse hai ragione.»
«Forse? Ragione come te quando la tua amica è morta?»
La giovane inghiottì a vuoto, sforzandosi di non alzare la falce e tranciare la stupida testa di quell’idiota. Luxury era troppo piccola, eppure si era offerta lo stesso, aveva ottenuto lo stesso la stima di tutte quelle del suo corso ed era morta lo stesso. All’inizio. Era stato un brutto colpo, ma le quattordicenni non vincono i Giochi, anche se Favorite. “Ogni cosa a suo tempo“ le avevano ripetuto, ma lei voleva seguire le orme di Finnick Odair, che pur essendo stato estratto aveva vinto a quell’età. Così era morta, da soldato, da glorioso Tributo del distretto uno. Perché per la fama si sfida la sorte, si sanguina. “E si compiono stronzate che tutti considerano intelligenti” concluse Sigma nella sua testa. Quelle parole non vennero mai pronunciate. 
Si era offerta per capriccio, con l’idea di vendicarsi e sentire una folla adorante che urlava il suo nome. Non sarebbe stata dimenticata come Luxury: lei avrebbe vinto, senza se e senza ma. 
«No. Questa volta ho veramente ragione, Lia
Golia la fulminò con lo sguardo. Pensava si fosse dimenticata dell’incontro che avevano avuto uno dei primi giorni nell’Accademia, quando entrambi rivendicavano il loro diritto di allenarsi fuori orario, essendo figli di persone importanti. Quando lei aveva vinto. Il maschio dell’uno strinse i pugni. Quello era stato solo un piccolo, inutile incontro – in cui aveva perso – ma Sigma lo ricordava perfettamente.
L’ennesima goccia le bagnò i capelli, lei sbuffò e Golia le fece cenno di tacere.
«C’è qualcuno» mormorò, impugnando l’elsa della spada.
«Un qualcuno come la marmocchia?» chiese lei, inumidendosi le labbra. Di tutta risposta, si sentì rumore di ghiaccio spezzato, calpestato. Un fendente colpì il ragazzo di striscio, poi si scatenò l’Inferno. 
Mahinete.
Sigma sorrise e si lanciò contro di lei. Da quando in quando erano diventati tre? Si maledisse mentalmente quando il suo primo colpo non andò a segno, poi menò un affondo laterale, in basso. Un urlo di dolore, quello sbagliato. Tutto le rimbombava nella testa, una confusione che neppure durante gli Allenamenti che finivano con una rissa avrebbe potuto superare. Fu allora che l’acqua li sommerse, qua e là macchiata di sangue, e nove scappò in un cunicolo. Con l’albina. L’altro giovane era già sparito, trascinato dai flutti verso il lato opposto.
Sigma rimase sola: c’era solo lei.  E l’acqua.


 
 

Angolino dell’Autrice:
 
Comincio chiedendo scusa a tutti per il tempo che è passato senza che aggiornassi o dessi segno di volerlo fare, anche perché il capitolo era già pronto ma non mi soddisfaceva neppure un po'. Ieri l'ho ripreso in mano, aggiungendo parti e tagliandone altre, e alla fine ho deciso di metterlo. Devo finire questa storia – lo voglio con tutta me stessa – e mi sono forzata per continuarla. Il fatto è che ho in mente tanti SPIN-OFF e non voglio spoilerare il Vincitore. Sarebbe una sconfitta, per me. Quindi mi scuso tanto se non mi sono fatta sentire per più di due mesi. 
Come avrete visto, i miei tre piccoli alleati si sono legati abbastanza l'uno all'altro e Neth ha delle strane manie suicide, considerando che Nat gliel'aveva detto che doveva andarci da solo a prendere l'arco. Raika, dall'altra parte, è un cattivone egoista e invidioso dell'amicizia che si sta formando tra i due con la “N”. In realtà ha solo paura che l'albina si affezioni troppo a dieci, e quindi risulta un po' apatico nei suoi confronti. E sbuffa quando paralno insieme xD
Per il titolo mi ci è voluto fin troppo tempo. Non ha solo significato seguendo il messaggio di Elise, la Mentore di Nat, ma anche pensando a cosa li stanno constringendo a fare. Forse è eccessivo, ma io sono fatta così e il vero significato mi piace troppo <3
Ora mi dileguo, ché devo uscire e non posso far aspettare a mia madre altro tempo. Vi lascio alle vostre conclusioni, cari lettori *saluta con la zampa*

Talking Cricket 

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Capitolo 16
*** XV It's too cold outside for angels to fly. ***


 

Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 

(XV)
It's too cold outside for angels to fly.
 
 
 



Stretta attorno a lui, Mahinete sembrava poco più che una bambina, rannicchiata nel sacco a pelo che avevano preso alla Cornucopia. Era indifesa, pura, bianca: come la Sirena della fiaba che aveva provato a narrargli quando se n’era andato via perché non gli sarebbe servita a nulla. Solo Nat era rimasto ad ascoltarla e alla fine della serata era andato a riferirgliela senza giri di parole. “Il principe non la riconobbe e lei, pur di non vivere senza il suo amore, decise di diventare spuma del mare” aveva finito, osservando l’albina. Erano arrivati alla stessa conclusione, solo che dieci era stato il primo. Sembrava passata un’eternità da quell’istante, quando la tempesta non si era ancora abbattuta su di loro – o forse sarebbe stato meglio dire lo tsunami?
Raika si passò le mani una sull’altra, le bruciature ghiacciate che aveva su tutto il corpo lo stavano distruggendo dall’interno. Non si sarebbe stupito se fossero diventate blu e gli si sarebbero staccate: durante il vero Inverno succedeva questo ed altro. L’acqua gli gocciolava lungo tutto il viso, innocua. Eppure solo poche ore prima lo aveva soffocato, riempito, resuscitato. Ancora non riusciva a capacitarsi di come fosse ancora vivo. Forse era morto e quello era l’Inferno, adatto ad un delinquente come lui. Forse avrebbe rivisto Rebekah e non il suo fantasma, avrebbe trovato un po’ di pace – ma c’erano troppi forse e poche certezze. Le ipotesi potevano essere scartate, in quel momento. Avrebbe dovuto cominciare in un altro modo, elencando quello che poteva esser dato per certo. Mahinete era ancora viva. A quel pensiero fece un leggerissimo sorriso, ma anche i muscoli del suo volto erano indolenziti. Ogni sua singola articolazione gridava “dolore”, mentre si tirava su, appoggiandosi ad una lastra di ghiaccio. Sbatté forte gli occhi e si guardò intorno: alcune gocce gli erano rimaste impigliate tra le ciglia e vedeva a tratti. Passandosi la mano sul viso, continuò ad osservare la ragazzina del quattro. Avrebbe dovuto lasciarla andare prima, vivere lui e mandarla da qualche altra parte. Quello era spirito di auto-conservazione, no? E allora perché non si sentiva in dovere di salvarsi la pelle? Ripensò ai primi insegnamenti che gli aveva dato Rebekah, conditi a occhiatacce che ben presto si erano trasformate in schiaffi.
“Quelli che non temono la morte sono stupidi.”
E lui era terrorizzato. Non era così stupido come l’aveva considerato lei, quando aveva risposto il contrario. Sentiva già il  caldo alito della Mietitrice sul collo e, per un momento, gli fece quasi piacere. Morire al caldo sarebbe stato meglio, si disse, anche se la sua speranza rimaneva farlo da vecchio, in un comodo letto. D’un tratto, il senso di colpa lo avvolse tra le sue spirali. E strinse.
Aveva lasciato Nat a morire. Certo, era stata l’acqua a farlo andare via, ma lui non l’aveva aiutato. Avrebbe dovuto tendergli la mano e trascinarlo con sé. L’albina non gliel’avrebbe mai perdonato, ma dieci doveva morire. Di Vincitore ce ne sarebbe stato solo uno, e Mahinete era destinata a diveltarlo. Era la preferita  del pubblico, degli Sponsor. Di tutti.
“Idioti. Sacrificarsi è da idioti.”
Si stava scavando la fossa da solo, eppure non gli dispiaceva. Strinse un fiocco di neve tra le dita, chiudendole poi a pugno. Sarebbe stato schiacciato dal destino proprio come la neve che gli stava cadendo addosso. Si chiese se ne valeva la pena, quando Mahinete diede segno di essere sveglia.
 «Raika, dov’è Nat?» chiese in poco più di un sussurro.
Il ragazzo le strinse il braccio, prevedendo la sua reazione che sicuramente non sarebbe stata buona. In quelle ore che aveva passato con la testa ciondoloni sul braccio aveva cercato una qualche scusa da raccontarle in quel momento. Ora il momento era arrivato, e quelle poche parole che si era preparato erano scappate via dalla sua testa. Si maledisse mentalmente.
«Dov’è?»
«Non lo so. Io… Non lo so.»
«Dobbiamo andare a cercarlo! – iniziò a dire lei, tirando l’alleato per un braccio, proprio come lui aveva fatto con lei per salvarla – Siamo una squadra.»
«Una squadra che non può vincere tutta insieme, Neth.» Doveva capire, proprio come aveva capito lui la prima volta che dei suoi compagni erano stati beccati dai Pacificatori.
«Cambieremo le regole.» L’albina cercò di liberarsi dalla stretta, inghiottendo un singhiozzo. Non era possibile… Non era vero: Nat non poteva essersene andato così. Si accorse di star tremando, ma si staccò da Raika e corse via dal sacco a pelo.
«Non si possono cambiare.»
«Non è ancora morto.»
«Lo sarà tra poco.»
Immaginò per un attimo il corpo del ragazzo del dieci, buttato per terra mentre un sottile rivolo di sangue gli colava fuori dalla ferita. Chiuse gli occhi, mentre la visione continuava a figurarle nella mente. I colori le rimbombarono in testa. Infine li riaprì, lasciando che una lacrima solitaria le scendesse lungo la guancia, assolutamente non invitata.
«Non è vero! Bugiardo!»
«Non essere stupida. Vince solo uno.»
«Ma non può morire così. È colpa mia» sussurrò, fissando Raika negli occhi e lui capì subito dove voleva andare a parare. «Ed è colpa tua.» Lei gli si avvicinò nuovamente, asciugandosi la guancia con la mano guantata.
Era sempre stata colpa sua: c’era sempre stato un piccolo, insignificante particolare che era riconducibile a lui. Prima Rebekah, poi Nat. Non volle neppure pensare a ciò che sarebbe successo se lui avesse vinto, se Neth fosse morta. Alzò lo sguardo dai suoi piedi, restituendolo alla ragazza.
«E ne sono felice. Ogni cannone è un alleato in meno da ammazzare[1]» concluse, senza neppure pensare. Sentì un bruciore alla guancia, dove Mahinete lo aveva appena colpito, e pensò che se lo meritava. Non aveva fatto nulla di buono, ma forse – l’ennesimo, nei suoi pensieri – lei avrebbe capito che non erano più umani, che i sensi di colpa non avrebbero dovuto urtarli.
Eppure, nel guardarla andar via strisciando i piedi, l’unica cosa che gli venne in mente erano le battute che si era scambiato con Nat, con un suo amico.
 
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Non aveva mai sentito così tanto dolore in vita sua. Al confronto, le cinghiate di suo padre erano carezze. Nat osservò la ferita, digrignando i denti per non far uscire neppure il più piccolo gemito dalle labbra. Il sangue aveva inzuppato tutta la garza che aveva utilizzato per fasciarla e l’odore di infezione cominciava ad arrivargli alle narici. Odore di morte, pensò, con una smorfia. Non riusciva più neppure a sfiorare la pelle e togliere la fasciatura lo fece urlare, forte. Non aveva speranze. Una volta aveva visto una ferita così, durante i Giochi, e solo con una medicina della Capitale avrebbe potuto curarsi. Non sarebbe durato a lungo, solo il tempo per soffrire le pene dell’Inferno e buttarsi a terra, aspettando che la Morte lo venisse a prendere – o i Favoriti. Eppure non avrebbe cambiato il corso delle cose, pur sapendo come sarebbe andata a finire. Era felice per Mahinete, perché lei poteva farcela e Raika l’avrebbe protetta fino alla fine. Magari gli avrebbe perfino salutato Gea.
A quel pensiero una lacrima gli bagnò la guancia, prontamente asciugata dalla sua mano. La sua migliore amica lo stava guardando, stava soffrendo per lui e piangere non sarebbe servito ad altro che a farla sentire peggio. Le aveva promesso di tornare a casa e aveva fallito. Forse, prima o poi, lo avrebbe perdonato anche per questo, come per tutte le volte che aveva stroncato un suo tentativo di soccorrerlo dopo una battuta particolarmente forte.
Il Tributo del dieci si trascinò sotto un albero. Almeno avrebbe potuto vedere il cielo, senza più quel soffitto ghiacciato che lo copriva, impedendogli di vedere le stelle che Gea conosceva tanto bene. Ripensò a Cassiopea, la sua prima alleata, e la immaginò in una di quelle, come gli aveva confidato il terzo giorno nell’Arena. Con lei non ce l’aveva fatta, era rimasto a guardare mentre Golia la trafiggeva al petto, ma aveva protetto Mahinete. Dopotutto, qualcosa di buono lo aveva fatto nella sua vita da bastardo. Quel piccolo particolare sul suo conto non aveva avuto il coraggio di raccontarlo a Gea: troppa vergogna, forse.
I capelli gli ricaddero scomposti sugli occhi – la sua stilista gli aveva proibito di tagliarseli, insistendo che stava meravigliosamente bene così –, fradici di neve. Elise aveva cercato di spiegarle che non sarebbe stato comodo, ma la donna non le aveva dato retta. La sua Mentore non era molto capace a dare ordini: li impartiva a sua figlia, e da un orecchio le entravano e dall’altro le uscivano, ai preparatori e perfino lui le aveva disubbidito, affezionandosi ai suoi alleati come a degli amici. Se la rivide davanti, che gli scompigliava i capelli come una madre, pur avendolo appena conosciuto. Della sua morte ne avrebbe risposto lei, a sua figlia.
Sperò con tutto il cuore che Gea non la facesse soffrire ancora di più, accusandola di averlo lasciato morire senza aiutarlo. Una speranza vana, però, perché sapeva che la ragazzina non avrebbe mai accettato che lui non era adatto per vincere i Giochi. Se solo non avesse avuto quell’infezione… Cosa stava dicendo? Sarebbe morto in un altro modo, più doloroso, magari. Non aveva mai avuto possibilità di vincere i Giochi: sapeva tendere un arco, incoccare una freccia, non uccidere.
Strinse la garza con forza, cercando di impedire al sangue di uscire a fiotti. La pelle era arrossata, infettata, ma non si fece scrupoli a versarci un po’ d’acqua sopra, lottando disperatamente per non piangere. Ormai lo sapeva fare fin troppo bene. Se suo padre lo avesse seguito da casa, forse avrebbe perfino sorriso perché finalmente suo figlio era stato coraggioso. Ma chi voleva prendere in giro? Qualsiasi cosa lui avesse fatto sarebbe stata sbagliata, come tutte quelle volte che si era sforzato di soddisfarlo durante gli anni. Poi era arrivata Gea, e con lei la fine di quei vani tentativi.
Nat si diede uno schiaffetto sulla guancia, per rimanere sveglio. Vedeva perfino sfocato, ora. Le forze lo stavano abbandonando e sapeva che la sua vita in quello stato non sarebbe durata a lungo. Sperò con tutto il cuore che lo zio di Gea l’avesse allontanata dalla TV, mandandola a letto per non vedere in che condizioni fosse il suo migliore amico. Sperò anche di essere in un sogno e che un unguento piovesse dal cielo come era successo per Mahinete, e un piccolo biglietto gli cadde ai piedi. Strabuzzò gli occhi, eppure era un sogno così bello! Alla fine lo aprì, con le mani che tremavano, e cercò di leggere quelle parole sfocate alla sua vista.
 
Mi dispiace, Nat. Mi dispiace tanto.
Non siamo riuscite a salvarti.
– un sassolino qualsiasi

 
Un sassolino qualsiasi. Nat sorrise, pensando che Gea non aveva perso la dolcezza che la contraddistingueva. Lei lo stava guardando, stava tifando per lui, e aveva perso una battaglia. Ma non aveva perso la guerra. Forse, con il tempo, si sarebbe perdonata per non aver potuto far nulla per la sua vittoria. Il suo cane l’avrebbe consolata – lo stesso che avevano trovato insieme – e piano piano avrebbe tornato a sorridere.
A quel pensiero si addormentò, mentre la sua mente vagava tra tutti i ricordi che aveva con Gea. E dimenticò il dolore, la tristezza, la morte. Ma non lei.
 
«Carter? Sei tu?»
Il ragazzo non si girò neppure verso la voce che ormai riconosceva anche da lontano. Continuava a guardarsi i piedi, appoggiato su una delle travi sotto il palco. Una lacrima gli brillava sulla guancia pallida. Gea gli si avvicinò con calma, dimenticando di riempire il silenzio con gesti o parole. Era raro che cambiasse espressione così, da un momento all’altro, ma non impossibile. 
«Cosa ti ha fatto?» la bambina lo fissò con lo sguardo carico di apprensione, poggiandogli una mano sulla spalla. Nat la scostò bruscamente, con un gemito. Non alzava lo sguardo.
«Nat, per favore! Ti ha picchiato, vero?» Il ragazzo non rispose di nuovo, asciugandosi le guance con il palmo della mano. Sembrava molto più giovane, un bambino in confronto al Nat che vedeva ogni giorno. Il Nat calmo e pacato che badava al suo gregge in quel momento era così lontano. Gea gli si avvicinò nuovamente, le labbra serrate, pronta ad essere respinta e gli circondò le spalle con un braccio, stringendolo a sé. 
«Mi dispiace» sussurrò con un leggero tremore nella voce. Un angolo della bocca di Nat si incurvò verso l’alto, mentre il ragazzo le passava una mano tra i capelli rossi. 
«Shh, sassolino.» La ragazzina lo guardò attentamente notando il taglio che spiccava sulla sua fronte, gli occhi lucidi di chi ha pianto per troppo tempo. L’aveva sempre chiamata così, per sottolineare quanto fosse piccola e indifesa rispetto a lui. In quel momento, però, sembrava lui quello da proteggere, da consolare. Gea si sedette vicina a lui, poi gli passo la mano su una delle lacrime. 
«Sai, una volta qualcuno mi ha detto che piangere non è stupido, anzi, quelli che non lo fanno non riescono a provare nulla» Gli si accoccolò vicina, posando la testa sulle sue gambe.
«Sbagliava» ribatté il ragazzo. La vicinanza di Gea gli fece tornare il sorriso – anche se piccolo rispetto a quelli che le rivolgeva di solito – e per un attimo dimenticò il dolore alla schiena.
«A cosa pensi?» Nat le scosse la mano davanti alla faccia. «A nulla.» 
«Non ci credo affatto» Il maggiore prese a farle il solletico, facendola ridacchiare e contorcersi per sfuggire a quella “tortura.” Gea si lasciò cadere per terra, simulando un’arrabbiatura in modo buffo. «Secondo te che c’è oltre le stelle?» esclamò sognante. Passò il dito su tutte le costellazioni che conosceva, accarezzandole leggermente.
«Boh, suppongo altro cielo.»
«E dopo il cielo?» spalancò gli occhi a dismisura, come per scorgere quello che c’era dopo le stelle.
«Una bambina che non dovrebbe fare domande del genere» rispose allora l’altro, scrollandosi la terra di dosso. La piccola non amava avere delle risposte del genere. C’era stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui Nat amava farsi quelle domande, parlando di cose che anche lei stentava a capire; poi però era cresciuto e aveva smesso. Forse non trovare una risposta faceva svanire i sogni, forse anche lei avrebbe dimenticato tutto, forse quello significava diventare “grandi.”
«Non voglio crescere» mormorò infine, seppellendo la testa nella giacca dell’amico.
«Nemmeno io.»
 

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Quando Mahinete infine tornò, con gli occhi arrossati di chi ha pianto a lungo, si lasciò cadere sul sacco a pelo e non disse una parola. Raika ringraziò il buon senso che aveva avuto ad asciugarsi le lacrime, evitando che si ghiacciassero sulla sua pelle. Non cercò neppure di iniziare una conversazione: aveva detto troppo, era stato troppo ingrato, ma non ripiangeva il discorso che le aveva fatto. Strano che non le avessero spiegato come funzionavano i Giochi, pensò, che non sapesse quanto avrebbe dovuto soffrire per arrivare alla tanto ambita vittoria. Si chiese come avrebbe reagito alla sua morte, ma preferì accantonare il pensiero nell’angolo più remoto della sua mente. Aveva ancora paura della morte, il solo pensiero lo terrorizzava, eppure era riuscito quasi ad accettarla.
Fu lei a parlare per prima, armeggiando con la spada che le avevano mandato i suoi Sponsor.
«Tu vuoi sacrificarti per me, non è così?» chiese seria, «beh… Non ne vale la pena.»
Che tutti alla fine degli Hunger Games volessero diventare eroi a Raika non era mai parso tanto normale, così come quelli che decidevano di allearsi con marmocchi di dodici o tredici anni per pura pietà. Lui la pietà non sapeva neppure cosa fosse: ognuno doveva badare a sé stesso. E allora perché continuava quell’assurdo teatrino sul proteggere Mahinete? Si rispose da solo. “Perché mi sono rammollito, ecco perché.” Sarebbe stata la stessa frase che gli avrebbe detto Rebekah, con ogni probabilità, ma lei non era lì per ripeterglielo.
«Non vale neppure la pena che vinca io. Quindi… Devi farlo tu.»
«Tu puoi vincere, io sono solo d’impiccio.»
«Ma mi hai visto? – Raika indicò prima il suo zaino, quasi vuoto, poi sé stesso – Nessuno mi appoggerebbe.»
«Io sì.»
«Appunto: nessuno.» La sua alleata parve sul punto di andarsene per una seconda volta, quando il cannone suonò il suo canto di morte e il silenzio s’impadronì della loro conversazione. E rimase ferma, quasi abbandonata. Raika non ebbe il coraggio di dire che potessero essere morto Golia, Sigma o addirittura gli altri due Tributi che non ricordava neppure chi fossero. Il ricordo della battaglia che avevano fatto con i Favoriti per l’arco continuava a passare nella mente dell’albina. Nat che le si era parato davanti, per incassare il colpo al posto suo. Nat, che le aveva confidato di vedere in lei un po’ della sua migliore amica, che aveva ascoltato i suoi pensieri ad alta voce senza una parola, che aveva risposto alle sue domande, sebbene gli facesse male anche solo pensare a come si fosse procurato quelle cicatrici.
Il mio alleato è morto.
Si ripeté, per essere certa che il suo subconscio avesse accettato la notizia. Ne ebbe la conferma solo quando le lacrime ricominciarono a tracciare due linee sinuose sulla sua pelle. Incurante del freddo, si lasciò cadere nella neve e detestò la Capitale e i suoi abitanti come mai aveva fatto prima. Avrebbe continuato a tirare pugni sulla neve, se Raika non le avesse fermato le mani.

«Lo odio» aggiunse infine. Sapevano entrambi a chi si stesse riferendo e che avrebbe dovuto tacere per vivere. Così inghiottì quel nome come bile, lasciando che la mano di Raika le accarezzasse le guance nuovamente umide . E fu proprio in quel momento, con la ragazzina tremante tra le braccia, che il Tributo del nove decise di posarle un bacio sulle labbra e stringerla ancora di più a sé, per farla smettere di tremare.

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Iris sbuffò, distogliendo lo sguardo dalla televisione, che continuava imperterrita a trasmettere i Giochi. Era una bimbetta di otto anni, che smaniava di scoprire chi sarebbe stato il Vincitore di quell’anno. Il Presidente le mise una mano sulla spalla e le diede un paio di colpetti, invitandola a sedersi accanto a sé. Stava trattenendo il respiro, in attesa di scoppiare in un pianto sconfinato.
«Mi avevi promesso che non si sarebbero fidanzati» sbottò, arrampicandosi sulla gamba del nonno. Snow aggrottò le sopracciglia.
«Ti avevo promesso che non lo sarebbero stati per molto, piccola.» La mano dell’uomo strinse quella della nipote, ancora intenta ad osservare la trasmissione. In realtà non capiva cosa quella bambina trovasse nel Tributo del nove, un giovane delinquente che, a quanto gli avevano comunicato i suoi collaboratori, era stato il prescelto della ragazzina che era morta nei sessantaseiesimi Hunger Games, una delle tante fiammate di speranza che erano state stroncate dall’inizio. Ricordava perfettamente quando aveva dato l’ordine di risparmiarla, così come aveva deciso di sopprimerla. Gli era bastato solo uno schiocco delle dita e l’onda l’aveva travolta – lo stesso trucchetto che aveva provato ad utilizzare anche per i due fidanzatini.
Iris riprese a dondolare le gambe, scuotendo la testa. La telecamera continuava a riprendere l’albina del quattro, stretta tra le braccia del ragazzo.
«Se vince, posso sposarmelo?» chiese infine.
«Questo ed altro per la mia stella.»
«Rosa» lo corresse lei, roteando esasperata gli occhi. Per un attimo parve distratta dalla televisione, e un sorriso soddisfatto si fece posto sulle sua labbra rosee.
«Sì, la mia rosa» convenne suo nonno, sorridendole a sua volta. Prese il bicchiere di vino e ne bevve un sorso, senza smettere di guardare la scena che, nel frattempo, era cambiata. Iris sbuffò nuovamente e Snow capì che avrebbe dovuto uccidere i due Tributi in velocità, perché quelle due scintille erano troppo forti per non essere contenute.
«Allora lo sposerò.»
Le immagini delle scommesse sostituirono le mosse dei Favoriti, contrassegnate da dei puntini rossi su una mappa neutra, quando il Presidente si decise a rispondere.
«Non preferiresti un fidanzatino della tua età?» azzardò.
Iris scosse la testa, ridacchiando. «No… I maschi della mia età sono scemi e puzzano. Tanto.»
Gli occhi dell’uomo tornarono alla televisione, per scrutare il viso  del preferito della nipote. Le scommesse su di lui erano poco più che nulle, ma Rose aveva deciso – anzi, Iris aveva deciso – di mettere una bella sommetta sulla sua vita.
“Stroncarlo subito. Devo stroncarlo subito” pensò, osservando la mappa dell’Arena in bianco e nero, dove spiccavano dei puntini rossi che indicavano i movimenti dei vari ragazzi. Sigma era ancora vicina a loro, mentre Golia avanzava verso la giovane dell’undici e la piccola del sette. D’un tratto diede un leggero colpetto sulla schiena della nipote, comunicandole che la trasmissione era finita.
«Mamma ha detto che oggi andiamo a comprare il vestito per l’intervista del Vincitore. Devo farmi bella per lui.» Rivolse uno sguardo complice al nonno, prima di saltellare fuori dalla stanza.
“Stupide speranze bambinesche” pensò l’uomo, riflettendo su quanto si sarebbe adirata la piccola nel vedere il suo protetto morire. Se avesse potuto, lo avrebbe risparmiato, si disse, ma ormai non poteva più farlo. Quel ragazzo era un pericolo, uno dei tanti Tributi che avevano le capacità per vincere e dovevano essere stroncati prima che la loro scintilla diventasse troppo alta.
Sorseggiò nuovamente il vino. Il problema era quando neutralizzarlo, come e in che modo. La televisione fece rivedere il bacio tra quei due ragazzi, accompagnato dagli “ow” meravigliati del pubblico. Lo amavano, e amavano anche la ragazzina.
«Dalle un pupazzo di Finnick Odair, sarà molto più contenta. Raika è già andato» aveva spiegato a Rose, poco prima che la nipote entrasse. Sua figlia aveva capito all’istante la situazione, facendo uno dei tanti sorrisetti melliflui che sfoggiava in pubblico. «O magari Finnick Odair.» Non aveva capito quanto fosse importante quel Vincitore per lo svago della Capitale.
Snow tossì, portandosi il tovagliolo alla bocca, e una macchia di sangue lo macchiò al centro.
Magnus aveva di nuovo sbagliato diagnosi: lo avrebbe fatto uccidere.


[1] La frase è volutamente molto simile a quella che dice Finnick nel secondo film.

 
Angolino dell’Autrice:
 
La mia voglia di pubblicare sta scemando sempre di più – e continuo a scusarmi per questo – ma mi sto un po’ avvilendo perché quasi nessuno segue più la long e, anche se so di dover scrivere per me, tutto ciò mi demotiva. Poi boh, credo dovrei farmi un iniezione di voglia di badare all’html per bene, che ci metto due ore solo per impostare il carattere *picchia il PC*
Passando al capitolo, il titolo è una citazione di “The A-Team”, che associo molto a ciò che pensa Raika di Mahinete. Outside è l’Arena e non sapevo in che altro modo chiamare il capitolo, quindi shh ^^
E ricompare Rebekah, perché non posso fare a meno di nominarla quando sono sul suo PoV. A proposito di lei, vi invito molto a dare una sbirciatina alla mia mini-long su di lei (Invece sto ridendo di te e non mi vedi). Come credo si sia notato, il mio piccolo nove è spesso iper-protettivo e geloso con la sua alleata, ma non insensibile. Il problema è che capisce di tenere a una persone sempre in ritardo *lo patta*
Non sapete quanto è stato difficile per me scrivere la seconda parte del capitolo, sul serio. Iniziai ad abbozzarla quest’estate, e mia cugina stava per strozzarmi – tanto per la cronaca, è innamorata di Nat. Mi ha rincorsa per tutta la casa, e io non potevo difendermi perché un po’ me lo meritavo ed è pure più piccola. Sono fortunata ad essere ancora viva, insomma <.< E niente… Faccio le mie condoglianze a coloro che, come me, adoravano questo piccolo pecoraio(?) Diciamo che un bacio vale una morte, forse *sorride e inizia a correre* Riguardo invece ad Iris, ho supposto che Snow, avendo già una settantina/ottantina di anni, potrebbe avere anche una nipote sugli otto durante i 69simi Hunger Games. E sì, si è innamorata pazza di Raika e vuole annientare Mahinete – si nota che è parente del dittatore, eh? Quindi bau, i nostri eroi se la potrebbero vedere molto male, ma si proteggeranno a vicenda U-U
Ringrazio tutti quelli che sono arrivati alla fine di questo infausto capitolo,

Talking Cricket
PS: Si ringrazia SpiritocoliLumos14 per il sostegno morale. Ne avevo proprio bisogno <3
 
 

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Capitolo 17
*** XVI.» You're so hypnotizing. Could you be the devil? Could you be an angel? ***


 

Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 

(XVI)
You're so hypnotizing.
Could you be the devil?
Could you be an angel?
 
 
 



Mahinete piangeva ancora, quando il suo alleato decise di lasciarla andare. Era un pianto sommesso, fatto solo di lacrime e sguardi lanciati di tanto in tanto al ragazzo. Tremava – difficile capire se per la tristezza o il freddo – e i suoi capelli venivano smossi dal vento. Raika osservò le ciocche incrociarsi, annodarsi, e ne prese una in mano.
«Le telecamere» sussurrò nell’orecchio dell’albina, aspettando che gli desse un segno di aver capito. E lo diede, restituendogli il bacio di poco prima.
«Che fai?»
«Ora siamo pari» sorrise Neth, con le guance arrossate – come gli occhi, pensò il bruno. Le telecamere li seguivano a ritmo frenetico, cercando di cogliere ogni loro singolo movimento da più angolazioni. Un bacio tra i ghiacci non si era mai visto e i capitolini ne sarebbero stati contenti. Era un bacio da far commentare a Caesar Flickermann, e per far vivere loro. Per un attimo, Raika si sentì spregevole: un nodo gli attorcigliò lo stomaco.
“Se avessimo avuto più tempo, sarebbe successo lo stesso” si disse, per rassicurarsi. Ma lo sapeva anche lui che era solo una bugia, come la maggior parte delle cosa che aveva detto fino ad allora. Per coprire il suo lavoro al distretto, per vivere, per tenere al sicuro Mahinete da quello che la aspettava.
«Lo vedo e vorrei passare in vantaggio.»
Fece scorrere la sua guancia su quella dell’alleata, ancora umida di lacrime, e ci posò un delicato bacio. Gli sembrò di sentire gli “oh” delusi dei Capitolini che stavano guardando la TV. «Hai vinto. Ora però fammi vedere la ferita» gli ordinò Neth, indicando tre tagli paralleli, fatti dallo stesso pezzo di ghiaccio cui si erano aggrappati per sfuggire all’acqua. Il sangue che ne usciva si era unito, raggrumato, e la garza era scivolata in giù.
«Avanti» aggiunse, poiché Raika non si muoveva di un millimetro. Aveva sopportato ferite più dolorose di quelle: bruciature, graffi fatti con vecchi chiodi arrugginiti che sporgevano dalle travi di casa.
«Non mi serve il tuo aiuto. Un’altra fasciatura mi rallenterebbe.»
«E altro sangue perso farebbe lo stesso» rispose prontamente e il ragazzo capì che avrebbero potuto continuare all’infinito, se non si fosse lasciato medicare. Guardò Mahinete e per un secondo la vide come Rebekah, la prima volta che si era scottato con la fiammella.
«Va bene» borbottò a mezza voce, roteando gli occhi. Non ebbe neppure il tempo di dire altro che l’albina gli buttò del disinfettante sulla ferita, facendolo gridare.
«Forse dovresti fare più piano.» Mascherò un gemito con un colpo di tosse, scostando bruscamente la mano dell’altra.
«Forse non sei tanto forte come dici» lo rimbeccò, continuando imperterrita a medicarlo. Non era mai stata brava con le tecniche di sopravvivenza: dopotutto, non aveva mai neppure accennato all’idea di offrirsi. Gli Hunger Games per lei erano solo stati così lontani da non essere neppure presi in considerazione. Solo Hito, una volta, aveva avanzato l’ipotesi di offrirsi per i soldi. Era stato subito dopo una tempesta che aveva spazzato via le barche a largo, mentre osservava l’orizzonte alla ricerca di un segno di vita. Mahinete gli aveva fato cambiare idea all’istante.
«Ti prego. Fa’ piano» la supplicò Raika. Il bruciore si era fatto insopportabile e le sue difese stavano crollando una dopo l’altra. Sebbene tentasse di non risultare dolorante, le sue reazioni non facevano altro che tradirlo.
«Okay, okay. Faccio piano, capo.» Neth si fermò, lo osservò per un attimo con occhio critico, come per accertarsi che stesse soffrendo per davvero, e  posò il disinfettante per terra.
«Fa male?»
«No, guarda, fa bene, solo che io ho voglia di lamentarmi» fece lui, laconico. Il silenzio che calò lo fece pentire della battuta appena fatta.
«Sai cosa non mi piace di te?»
«Tutto?» azzardò il ragazzo, con una risata che risultò forzata persino per lui.
«No, che stai diventando acido come un limone. Perché avrei potuto lasciarti in qualsiasi momento e non l’ho fatto, ma continui a borbottare parole che non pensi davvero per farmi incazzare. O per farti abbandonare, che è ancora peggio.»
“Bell’inquadramento, complimenti” pensò Raika, un sorriso sulle labbra. Non avrebbe mai pensato che la pecorella avesse potuto fare una riflessione del genere, considerato che nessuno gli aveva rinfacciato le sue risposte derisorie. Ma la cosa ancora più assurda era che aveva capito perché si stesse comportando così. O farti abbandonare. Era quello che stava tentando di fare da già troppo tempo, perché Mahinete non avrebbe mai trovato il coraggio di ucciderlo e lasciarla così sarebbe stato meglio per entrambi. Quando infine si decise a rispondere, lei aveva già iniziato a stufarsi di aspettare.
«Come fai a sapere che non lo penso davvero?»
«Perché menti con le parole, non con il corpo» rispose con una scrollata di spalle. «Perché ti guardo e vedo solo un’idiota che vuole fare l’eroe del cazzo, senza pensare che, trattandomi così, non migliorerà le cose.» Lo sguardo dell’albina si soffermò nel suo, orgoglioso, e lei riprese in mano la garza.
«Ora, se mi vuoi scusare, ho una ferita da mettere apposto.» Un’altra pausa di silenzio, più lunga di quella precedente, che diede il tempo a Raika di riflettere su quelle parole. Aveva solo deciso di salvarla, che c’era di male in questo? Rebekah lo avrebbe trattato così, ma forse quell’atteggiamento non si addiceva a lui. Era strano aver indossato una maschera per così tanto tempo e doversela togliere, perché finalmente una stupida pecorella se n’era accorta.
Intanto, dal cielo, i volti dei caduti di quel giorno li osservarono, come a renderli colpevoli di quello che gli era successo. Forse era proprio così.
“Scusa, Nat” pensò il Tributo del nove, e i suoi occhi si abbassarono verso terra.


 
«Che ti sei fatto?» Rebekah lo guardò dall’alto, indicando con le dita sporche di cenere il suo braccio. Aveva lo zaino sulle spalle, quello vecchio, che i ragazzi della banda consideravano ridicolo. Quello però non gliel’avrebbe mai detto, pensò Raika. Sapeva perfettamente quale sarebbe stata la reazione della ragazza e non voleva certo passare il resto della giornata a massaggiarsi la guancia.
«Nulla» rispose infine il ragazzo, nascondendo con la manica il punto che aveva indicato prima. Volpe inarcò le sopracciglia.
«Qui si suppone che io sappia i piani dei Pacificatori, ma non ho neppure la più pallida idea di dove tu abbia trovato quei fiammiferi» esclamò, sorridendo, ma smise di farlo quando notò che Josh fuggiva il suo sguardo.
«Bene. Il mio fornitore dà un accendino a un marmocchio… Me ne ricorderò.» Il suo sguardo tornò a posarsi sul braccio di Raika, poi scostò il tessuto per osservare meglio la scottatura.
«Primo grado. Sei fortunato» commentò, tirandogli uno schiaffetto sulla parte offesa. «Ah… Josh. Se prendi una decisione da coglione, mi potresti fare il piacere di dirmelo?» aggiunse, in un tono carezzevole che non prometteva nulla di buono.
«Gliel’ho chiesto io.» Dal modo in cui lo guardò, Raika pensò che si fosse dimenticata della sua presenza.
«Ma guarda un po’! Pensavo che te l’avesse messo in mano per caso!» Forse il marmocchio non era capace di cogliere l’ironia, perché la guardò con un’espressione interrogativa dipinta sul volto. Avrebbe dovuto spiegargliela dopo, ma per il momento era meglio ficcargli nella zucca di non toccare fiammiferi.
Lo spinse dietro la casa abbandonata, facendolo fermare proprio davanti a sé.
«Cosa credevi di fare?» gli chiese, scuotendolo. Raika le rispose con una scrollata di spalle. «Se non sai usarlo, ti bruci.»
«Ma allora come cazzo posso imparare?» le chiese, calcando la voce sulla parolaccia. Sapeva di averla spuntata e questo non andava bene.
«Attento alle parole che usi, o non sarò responsabile di quello che potrei farti, marmocchio.»
«Non sono un marmocch-»
«Non sei un marmocchio intelligente, sì» lo fermò con un ghigno divertito. Raika stava imparando in fretta, ma continuava ad essere incerto su come trattarla – se dimostrare ancora di più il suo coraggio o smettere di sfidarla. Alla fine, la posizione superiore della ragazza gli fece rivalutare ciò che aveva appena fatto.
«Rilassati, stiamo parlando normalmente. Anzi… Mi stai rispondendo meglio di tutti gli altri idioti messi insieme.»
«Non è tanto difficile» constatò lui, con un sorrisino. Il braccio gli faceva ancora male, ma era sopportabile e con lo sguardo della ragazza puntato su di sé non sarebbe stato furbo lamentarsi.
«Dovresti passarci su un po’ d’acqua.»
«Già. Peccato che non ce l’abbiamo.»
«E chi ti ha detto che dobbiamo usare la nostra?» chiese il suo capo, retorica. Teneva il cappello calcato in testa, e in quel momento avrebbe facilmente potuto essere scambiata per maschio, se non per i modi così… femminili. Camminava in punta di piedi, le braccia un po’ allargate e il passo sostenuto. Sembrava che tutti i suoi movimenti avessero delle finalità precise: nulla era dato al caso, per lei.
«E quale, allora?»
«Non fare l’innocente. Lo sai meglio di me.» Il guizzo nel suoi occhi non gli passò inosservato e Raika capì che quella ragazza era capace di leggergli dentro meglio di tutte le persone che aveva incontrato fino ad allora. Vedendola non si sarebbe detto, pensò. Sebbene tutto nel suo modo di vestire fosse rozzo, Rebekah conosceva miriadi di parole. Con loro le sfoggiava di rado, come con i commercianti cui chiedeva i fiammiferi, perché parlare così le avrebbe fatto perdere la fama che si era guadagnata. Al massimo sputava parolacce, come uno scaricatore di porto. L’aveva vista persino fare a botte, per calmare qualche discussione finita in malora. Ma non era un maschio lo stesso.
“Smettila di guardarmi come un pesce lesso. Sono una donna, e allora?” aveva esclamato, quando lui si era accorto del suo sbaglio. Già: allora cosa? Raika non lo sapeva e quelle parole non avevano fatto altro che fargli crescere la curiosità sul suo conto.
«Come hai fatto a diventare capo?»
«Quando è morto il mio, lo sono diventata automaticamente. E le mie abilità col fuoco mi hanno dato una mano» sogghignò. Il ragazzino non si era neppure accorto che avevano iniziato a camminare verso i granai, mentre i marmocchi che giocavano dopo il lavoro li guardavano sbalorditi. Una bambina si accostò a Rebekah, le tirò un lembo della giacca e aspettò che si abbassasse per dirle qualcosa nell’orecchio. Era stata l’unica ad avvicinarsi: gli altri li guardavano, senza proferire parola.
«Questa è Arya – indicò la biondina a Raika – una buonissima informatrice.» La presentò così e la piccola fece una specie di riverenza. I capelli lunghi le cascarono davanti agli occhi, evidenziando quanto già non fosse piccola.
«E voi cosa avete da guardare?» chiese agli altri bambini, che indietreggiarono, nascondendosi nel fogliame. «Grazie dell’aiuto, Arya» aggiunse, congedando la bimbetta. A Raika non sfuggì l’occhiata che le lanciò, piena di ammirazione, e il sorriso sincero che comparve sulle labbra della Volpe quando se ne fu andata con gli altri.
«Perché una così piccola?»
«Le cose devono cambiare, e per farlo ci serve tutto l’aiuto possibile» rispose. Il bruno sbuffò infastidito, ticchettando le dita sul tronco di un albero.
«Non hai risposto.» Si sarebbe aspettato che la mano di Rebekah scattasse per tirargli una sberla, ma non accadde.
«Hai ragione – ammise lei – Lei è un topo, come tutti quelli che si lasciano sovrastare dalla capitale, ma non vuole rimanerlo. È  come noi.»
Ricordava, un volta, di aver visto il signor Schiller mettere le trappole per i roditori che infestavano il vecchio granaio, ricordava gli animali morti, le loro carcasse buttate via e persino quelli che erano riusciti ad eluderle, ma erano stati uccisi comunque. Per un attimo, li paragonò al gruppo dei ribelli di cui faceva parte. Loro erano gli ultimi, quelli furbi, eppure anche loro non ce l’avrebbero fatta. Forse ci sarebbero riusciti con l’aiuto della popolazione, o forse sarebbero morti tutti tentandoci.
«Andiamo a prendere questa benedetta acqua per la tua cazzo di bruciatura?»
E Raika si limitò ad annuire, senza dare voce ai suoi pensieri.

 

«Fa meno male?»
Raika strinse i denti, annuendo. Non avrebbe mai pensato che disinfettare soli tre graffi sarebbe stato così doloroso, ma non voleva dare la soddisfazione a Mahinete di scoprirlo senza parole.
«Sì, anche se come medico fai davvero cagare» la informò con una scrollata di spalle. Lei gli rispose con una linguaccia e, sventolandogli davanti la boccetta, aggiunse che avrebbe potuto farselo da solo. Poi si mise a giocherellare con la borraccia: ticchettava le dita sulla plastica, poi la faceva girare. Ricordava di averlo visto fare anche a ‘Bekah, quando aspettava notizie da una qualche spedizione che aveva mandato in avanscoperta. Non si mangiava le unghie né torturava le pellicine, ma aveva la brutta abitudine di giocherellare con le cose che le capitavano a tiro. E a Raika dava fastidio, proprio come vedere il suo vecchio alleato con le mani in bocca. Naturalmente, se gliel’avesse detto, Volpe gli avrebbe rifilato due ceffoni in un amen, conditi da un’occhiataccia. Quel pensiero lo fece sorridere e allontanare dal ricordo di Nat, che già cominciava a farlo sentire in colpa.
“Sopravvivere: devo fare questo.”
Si ripeté come un mantra, gli occhi volti verso il ghiaccio. Era l’alba, l’ottava in quella cazzo di Arena. Una come tante altre, con il sole che sorgeva e la sua luce che colorava di un pallido rosa le lastre davanti a sé. Al nove era più bella, si disse: nonostante l’acqua rilucesse alla luce, al suo distretto era migliore. Forse le spighe la rendevano meglio, con tutte le sfumature che assumevano muovendosi al vento. O forse era l’alba di casa perché, anche se non l’avrebbe mai ammesso – pena darsi del rammollito – il vecchio granaio gli mancava. Gli mancavano i suoi giri per le strade da solo, i commenti della gente e le sue risposte sibilate tra i denti. E Axel, e Nicola.
«Neth… A volte pensi al quattro?» le chiese, come se le parole gli fossero scappate dal cuore perché la sua bocca non voleva pronunciarla. Mahinete fece una faccia strana e per un momento il ragazzo pensò che gli avrebbe chiesto di ripetere la sua domanda.
«Sempre. Scommetto che anche il tizio-acido-come-un-limone ci pensa spesso.»
«No.»
«Menti. Penserai a Rebekah, immagino, a una possibile fidanzata.»
«Le ragazze mi fuggono, genio» ribatté Raika.
«Quindi staresti insinuando che non sono una ragazza?» gli chiese lei, puntandogli scherzosamente l’indice al petto. Il bruno la tirò a sé, facendole poggiare la testa sulla sua spalla. E dovette persino abbassarsi, data la bassezza della sua alleata.

«No.» Mahinete gli tirò uno schiaffo sulla gamba. «Sei una pecorella.» Poi sospirò, roteando gli occhi con un gesto teatrale. Le piaceva quella vicinanza, le piaceva sapere che, se avesse voluto, avrebbe potuto abbattere la distanza tra le loro labbra. Le piaceva sfiorare la pelle di Raika con il suo naso e sentire quanto fosse calda, ma anche fredda.
«Mio fratello dice che sono una principessa» mormorò infine.
«Non ha tutti i torti.»
Raika le scostò i capelli dalla faccia, accostando le ciocche bianche a quelle argentate, scolorite e quasi ghiacciate. E ripensò a quando l’aveva vista all’Intervista, a come Caesar le avesse detto che era stupenda nel suo completo bianco come la spuma del mare – che il Tributo del nove detestava, anche se quel paragone gli era sembrato adatto. Neth era un essere marino e gli esseri marini erano spuma, o almeno così gli era sembrato di ricordare.
Anche in quel momento, con le guance arrossate per il freddo e la treccia sfatta, il Tributo del nove pensò che era una principessa di quelle rinchiuse in un castello. Ma lui non era il principe.
Lui era il drago, quello che la sorvegliava e costringeva a rimanere nel suo castello fino a che il vero amore non sarebbe giunto. Quello che la guardava da lontano, ammirando la sua bellezza, ma sarebbe morto per mano di un fatuo bellimbusto dai capelli biondi. Sì, perché i principi azzurri erano biondi con gli occhi blu. Come il mare.
«Potrei essere il tuo principe» le sussurrò tra i capelli, per convincersi che andava bene così e il resto non contava.
«Lo sei già» rispose lei, sorridendo. Le sembrò quasi comico vedere quanto fosse arrossito e come avesse abbandonato quell’aria da duro che aveva sempre. Per la prima volta, aveva vinto lei nel loro gioco di sguardi. Era uno a zero… o forse era un pareggio, chi avrebbe potuto dirlo?
Però lo aveva battuto, ed era quello tutto ciò che contava.

 

Al suo risveglio, Raika scoprì che era stato un errore addormentarsi, che lo zaino di Mahinete era scomparso e lei con esso. Che avrebbe dovuto badare a lei meglio di come avesse fatto.
Glielo ricordò un colpo di cannone e il ragazzo capì che non era nemmeno capace di fare il drago.

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