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Autore: KH4    30/03/2012    2 recensioni
Quando Nami aveva espressamente detto di non combinare alcun guaio, intendeva cose del tipo “Non attirate troppo l’attenzione con le vostre buffonate”, “Non fatevi vedere dalla Marina” o “Evitate di scatenare l’ennesimo pandemonio”. Insomma, i classici avvertimenti che non mancavano mai di essere ripresi e ripassati. Ma tra questi e l’infinita serie di avvertimenti da lei elargiti, nessuno aveva mai parlato di ragazze isteriche trasportanti in spalla, come sacchi di patate, fratelli mezzi dissanguati e seguite a ruota da innocenti bambine con grandi occhi azzurri. Un evento decisamente più normale del solito, umano, per dirla nella giusta maniera, ma, sicuramente, non privo di sorprese, se si teneva conto del fatto che, a portarli sulla nave, era stato proprio Rufy. (estratto del capitolo quattro).
 
Il Nuovo Mondo è pronto ad accogliere Rufy e la sua ciurma, tornati insieme dopo due anni di separazione; lasciatisi alle spalle l'isola degli Uomini Pesce, i pirati approdano su di un'isola, dove incontreranno un piccola amante della pirateria, bisognosa di aiuto. Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità, ragazzi!
Seguito di “Giglio di Picche.”
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Lars Gallower era sempre stato considerato “Un genio dal talento invidiabile”.
Una di quelle persone che si guarda a lungo e che non si riesce a capire, il cui giudizio si limita a uno sguardo silenzioso o indagatore. Una sorta di pecora nera – argentata, nel suo caso – che spicca in mezzo al gregge bianco come un elemento da tenere d’occhio, ma non certo per dei reati commessi in precedenza.

A prescindere dal colore dei suoi capelli, dalle impalcature che reggevano il suo cervello e dalla sua stessa taciturnità, Lars non era mai stato una persona così stramba da cui tenersi a distanza. Seppur non possedesse una personalità caotica e spasmodicamente espansiva come quella della sorella minore, aveva goduto di un'infanzia tranquilla, colma di amicizie e animata da tutta una serie di sfide impensabili a cui la parente lo aveva sottoposto in continuazione. Lei era la sola a non aver realizzato quanto fosse profondo l’abisso che la divideva dal fratello, per questo, con quel suo faccino gonfio e sporco di polvere, lo aveva sempre sfidato a qualsiasi gioco venutole in mente; tuttavia, che si trattasse di una corsa, di una lotta o di una gara di resistenza, lei aveva sempre perso, ritrovandosi con sbucciature, sbuffi, e l’ennesima sconfitta a suo carico.

Non fare il superiore! Tanto riuscirò a batterti! Gli ripeteva ogni volta, prima di ficcare la testa sott’acqua per l’ennesima sfida lanciata.

C’era sempre stata competizione, fra lui e Azu, una competizione infantile e scandita da giochi inesistenti o tirati su al momento. Niente di metodico o di complesso, solo un semplice rituale che riempiva le loro giornate al meglio. Affondare le dita nella sabbia e lasciare che le onde le rinfrescassero, era stata una quotidianità impressasi insieme al sole tropicale e ai ghiaccioli alla menta che avevano consumato durante le sere estive. Le classiche piccolezze che per i bambini al di sotto dei dieci anni, rappresentavano i primi tesori della vita. A Lars erano sempre piaciuti quegli sprazzi, nonostante si comportasse con più ponderatezza dei suoi coetanei: loro lo vedevano come “Il leader che nessuno del gruppo avrebbe mai sconfitto”. Lo pensavano e lo avevano sempre affermato con ingenua sicurezza, perché agli occhi dei bambini, tutto ciò che sfuggiva alla loro acerba intelligenza era sinonimo di forza e stupore.

Ma era sbagliato dire che Lars Gallower fosse forte.
Lui era speciale.

Speciale non perché fosse piuttosto maturo per la sua minuta età, ma perché quando impugnava un bastone, era impossibile capire da che parte attaccasse. Si fondeva con esso e i movimenti fluidi, creanti immagini semi-trasparenti dell’oggetto, riuscivano sempre a confondere chi credeva di poter rompere tale barriera.
Quello era il talento invidiabile di Lars, scorto dagli occhi azzurri della signora Milena e ritenuto meritevole di essere coltivato a dovere.



“San Lorein?”
“Esattamente.”

La prima volta che lui e Azu avevano incontrato la signora Milena, non avevano potuto fare a meno di pensare che fosse bellissima. Erano piccoli, sette anni appena compiuti, con i piedi scalzi e umidi dell’acqua di mare, completamente impreparati a una visita del genere. Quella donna dai lunghi capelli dorati veniva spesso sull’isola, ma non avevano mai pensato di riuscire a vederla da così vicino e che questa si sarebbe addirittura seduta nel salottino della loro piccola e semplice casetta. La mamma, per l’occasione, aveva tirato fuori la sua migliore tovaglia e una teiera di porcellana decorata, con tanto di tazzine combinate; non erano mai stati poveri, ma avevano sempre preferito tenere le cose belle per occasioni speciali, come i compleanni. Però, quel giorno, era doveroso accogliere la signora Milena come fosse una regina, e non soltanto per dimostrare una calorosa ospitalità. Quando lei gli si era rivolta, Lars aveva realizzato di non essere abbastanza presentabile: insieme a capelli spettinati, indossava solo dei pantaloncini azzurri, lunghi fino al ginocchio, e una canottiera. Si era accorto di avere anche le mani impolverate, per questo le aveva chiuse frettolosamente.

“E’ un’isola molto lontana da qui e poco conosciuta per via della sua riservatezza”, aveva ripreso lei, constando di aver attirato la sua attenzione “Purtroppo, questo è tutto quello che so al suo riguardo, ma se tu decidessi di intraprendere la carriera di spadaccino, penso che non esista luogo più adatto a te.”

Era stato difficile credere che un’occasione tanto inaspettata fosse capitata proprio a lui, ma l’incontro con il signor Eliorath, un anziano individuo dalla schiena incurvata e con barba, baffi e ciglia folte, aveva definitivamente sancito quella svolta di vita. Dietro al suo viso di tranquillo bambino dai lineamenti tondi, era cominciato a crescere qualcosa d'incontrollabile: curiosità, stupore….forse una delle due o entrambe, non ne era mai stato sicuro. La sua unica certezza, era che l’offerta postagli, gli avrebbe consentito di rispondere a quel richiamo che sentiva ogni qualvolta brandiva un’impugnatura che assomigliasse a quella di una spada.

La casa e la famiglia non gli sarebbero mancati. I legami che lo univano a questi non si sarebbero spezzati facilmente, ma come il buon signor Eliorath gli aveva raccomandato, prima di prendere il largo, nulla di quanto lo aspettava, sarebbe stato facile.

E tutto perché lui era un “Esterno”.



Un lieve tepore solleticò le caviglie nude di Lars, non appena i suoi piedi affondarono nella sabbia sbiadita che riempiva la spiaggia di San Lorein. Così asciutta, chiara, e priva di colori aggiuntivi, non si avvinava per nulla a quella che si era lasciato alle spalle. Non c’erano alghe trasportate dalle onde, conchiglie o frammenti d’esse con cui iniziare una collezione: c’era solo sabbia.

“Eccoci arrivati, Lars. Questa è San Lorein, casa mia.”

Senza chiedergli se fosse pronto o gli occorresse una qualche spiegazione, il signor Eliorath gli aveva preso la mano e lo aveva condotto davanti all’entrata della cittadella. Con i suoi semplici vestiti da bambino e un viso stante sul calmo, il piccolo albino guardò quelle alte mura bianche coprire la città e chiuderla dentro un grande cerchio apparentemente impenetrabile. Nessuna bocca spalancata, nessun arto frenetico…Lars osservò quel che aveva davanti a sé con una solennità silenziosa, rispecchiante la sua maturità precocemente sviluppata. L’accentuare la presa sulla mano ossuta e parzialmente rugosa dell’anziano signore, al momento dell’apertura, fu un riflesso automatico, così come il piccolo respiro trattenuto in gola: negare le proprie emozioni era qualcosa che neppure da grande avrebbe potuto apprendere pienamente.
Come il cigolio dei cardini cessò di stridere, Lars mosse il suo primo passo all’interno di San Lorein, incurante della luce che lo travolse. I suoi occhi chiarissimi cercarono di guardare gradualmente quella elegante e linda cittadella, di coglierne le particolarità più evidenti, ma la sola ampiezza della strada stava vanificando il suo intento. Vide bianco, tanto bianco, forse troppo, ma adeguatamente bilanciato dalla presenza di piccoli sprazzi colorati quali i fiori posti sui balconi delle piccole botteghe, la merce che la gente disponeva suoi banconi con precisa accuratezza, gli eleganti lampioni scuri posti ai lati della strada, per non parlare poi degli stendargli scarlatti e dorati che spiccavano sugli alti e sontuosi torrioni. Avrebbe studiato quest’ultimi con più curiosità, se il suo stomaco, sollecitato da un invitante profumo di panini dolci appena sfornati, non lo avesse riportato alla realtà.

“Eh eh! Si direbbe che tu abbia fame”, ridacchiò l’anziano, guardando Lars posare una delle sue mani sulla pancia “E’ normale, dopo un viaggio lungo come il nostro. Tranquillo, fra poco potrai mangiare: dobbiamo solo aspettare l’arrivo di mio figlio…oh, eccolo!”

Dall’alto del suo essere un bambino attento a tutto ciò che lo circondava, Lars aveva notato subito con quanta riverenza gli addetti del portone si fossero rivolti al signor Eliorath, nel momento in cui era entrato insieme a lui. Gli uomini si erano inchinati, lo avevano chiamato con uno strano nome che, probabilmente, doveva indicare una carica importante, senza importunarlo con stupide domande o quesiti dalla risposta scontata, ma guardando lui con sconcertamento. Che la sua presenza non fosse stata calcolata? Probabile, perché seppur avesse interrotto il contatto visivo quasi subito, riusciva ancora a sentire i loro occhi puntati sulla sua schiena. Non facevano male, erano solo pesanti. Fastidiosamente pesanti.
Guardò velocemente i propri abiti – pantaloncini neri e una maglietta azzurra a maniche corte -, ipotizzando che il problema potesse essere lì, in quei panni privi della beltà che, invece, trasudava dalle tuniche decorate degli abitanti del posto, ma scartò subito tale idea, giacché la riteneva troppo banale. La ragione poteva stare nei suoi capelli, in quelle ciocche argentate che condivideva con sua sorella, partita anche lei, ma per una destinazione diversa. Loro erano albini, come la mamma: non avevano tratti fisici scuri o grossolani, ma occhi chiarissimi e pelli pallidamente rosee, enfatizzate dalle loro guance paffute. Non erano come gli altri bambini - esteticamente parlando -, e fu nell’arrivarci, che Lars rammentò di non trovarsi più a casa sua, ma su di un suolo alquanto ostico alle presenze estranee.

“Bentornato, padre.”

Elijah Van Incardine salutò il parente con voce profonda, stringendo la mano con fermezza controllata e decisa. Gli occhi chiari di Lars videro un uomo alto, un gigante per lui, con indosso un lungo cappotto scarlatto, da cui faceva capolino l’impugnatura argentata di una spada che catturò immediatamente la sua attenzione. Non aveva mai visto qualcosa di così bello ed elaborato, pieno di arricciature raffinate e che risplendesse così tanto al contatto con la luce del sole. Niente a che vedere con la spada di legno costruita con la pazienza e il coltello da cucina di sua madre.
Provò a sfiorarne la punta con il dito, ma come questa si allontanò, alzò immediatamente lo sguardo verso l’alto, sapendo di essere stato colto in flagrante. Si ritrovò a fare i conti con due occhi blu cobalto molto severi, incorniciati da scuri capelli nocciolati e spessi zigomi, coperti da una corta barba. Non lo conosceva, non lo aveva mai visto, ma Lars colse immediatamente quella pungente nota di freddezza che l’uomo gli lanciò all’istante, carica di una diffidenza tale da non lasciare spazio a possibili ripensamenti. Non aveva ancora emesso fiato, ma seppe di non aver fatto una buona impressione, perché, nonostante egli lo avesse squadrato per pochi secondi, pareva essersi già fatto una chiara idea sul suo riguardo.

“Dunque, questo…..”, cominciò l’uomo più giovane, rivolgendosi al padre “E’ l’allievo che ti sei portato dall’esterno.”
“Esatto, Elijah”, asserì l’anziano.

Un lungo sospiro seguì quella tranquilla affermazione, detta senza titubanze o domande aggiuntive. Elijah Van Incardine chiuse gli occhi per qualche secondo, prima di tornare a guardare in faccia il padre, molto più sereno di lui. Nonostante le repliche e i dissensi mostrati per quel viaggio insulso, il figlio non aveva potuto fare nulla per opporsi alla decisione dell’anziano: visitare qualche isola non era contro le regole della città, ma il Master aveva sempre ritenuto simili proposte alquanto compromettenti per la sicurezza del popolo. Non che suo padre fosse tanto sconsiderato da mettere in pericolo l’intera città; in fondo, era stato il suo predecessore. Solo non aveva gradito scoprire la ragione di quella decisione, ora davanti a lui in tutta la sua concretezza.

“Non può seguire l’addestramento con gli altri”, disse immediatamente, senza curarsi della possibile reazione del bambino “In verità, non dovrebbe neppure trovarsi qui. Sai che il regolamento non prevede l’inserimento di nuovi allievi.”
“E tu sapevi bene che sarei tornato con qualcuno da allenare. Sono vecchio, ma non rincitrullito, Elijah. Non tentare di ingannarmi”, replicò il signor Eliorath, senza scomporsi.
“Non ti voglio ingannare: conoscevo fin dall’inizio le tue intenzioni, ma sai bene quanto me che i saggi non approveranno la tua scelta e il suo inserimento.”
“Può darsi, ma se non ricordo male, sono anch’io un saggio e sono anche il tuo diretto superiore, in quanto capo del consiglio. Il piccolo rimane e seguirà l’addestramento come tutti”, decretò sotto gli occhi della gente, riunitasi per la curiosità.
“E’ uno straniero. Non lo accetteranno mai ”, sibilò l’uomo, assottigliando le pupille.

La noncuranza mostrata dall’attuale Master di San Lorein avrebbe fatto piangere qualunque bambino, ma non Lars. Il signor Eliorath lo aveva avvertito che la sua posizione, all’interno della città, sarebbe stata molto diversa da quella degli abitanti. Lo aveva informato ancor prima di partire, prima di chiedergli se fosse sicuro di volerlo seguire, ma lui non ci aveva ripensato: non gli erano occorsi minuti supplementari o una camera silenziosa per riflettere doverosamente. Aveva semplicemente detto di “Si” per la seconda e ultima volta. Per quanto il suo acerbo torace gli dolesse, a causa delle parole e degli sguardi del signor Elijah – per non parlare di quelli degli spettatori -, non sarebbe andato a raggomitolarsi in un angolo e a sperare che una nave venuta dal cielo lo riportasse a casa. Se Azu fosse stata presente, chissà quante gliene avrebbe urlate dietro…

D’altro canto, neppure il signor Eliorath era intenzionato a gettare la spugna, sebbene il tono del figlio fosse riluttante a ogni replica.

“E’ un bambino come tutti”, continuò il saggio, guardando il piccolo albino con un sorriso “Si chiama Lars e ha più talento di quanto tu possa immaginare.”
“Questo lo stabilirò soltanto io”, ribatté il Master, incrociando le braccia.

Il prendere in mano quella situazione era stata l’unica scelta che si fosse presentata a Elijah Van Incardine, Master di San Lorein e responsabile dell’addestramento degli allievi scelti per l’anno accademico.
Lui era il coordinatore, supervisionava tutto ciò che rientrava nelle tabelle predisposte insieme agli altri istruttori, ma rispondeva al volere dei saggi che formavano il consiglio di San Lorein, un’autorità di supporto che basavano le proprie decisioni sull’antica e protetta storia della città. Il signor Eliorath, in quanto capo di tale gruppo, era riuscito a ottenere il consenso per far entrare Lars nella loro accademia, seppur con non pochi dissapori al riguardo; a detta dei suoi colleghi, si trattava di uno strappo alla regola troppo pericoloso, un azzardo nei confronti della tradizione, ma il buon uomo aveva fatto loro notare che si trattava di un bambino e che, una volta finito l’addestramento, sarebbe ritornato alla sua patria, con la promessa di non venir meno agli insegnamenti che gli sarebbero stati impartiti. Un altro punto su cui si era discusso e che aveva visto la fine solo dopo diverse ore.

Nel mezzo di quei corridoi sontuosi, colmi di oggetti mai visti e di soffitti alti e stretti, Lars era stato osservato e sballottato come un orsacchiotto di pezza. Non ricordava quanto tempo fosse stato in piedi, nel mentre il signor Eliorath discuteva del suo soggiorno a San Lorein; si era perso a guardare i raggi solari che filtravano dalle ampie vetrate delle finestre colorate, negli echi delle persone che udiva in lontananza, per non parlare poi dei giardini, abbelliti da fontane aventi incastonati cherubini, arpe e fiori. Non aveva mai colto la presenza di colori scuri o ombre troppo dense negli angoli: c’era sempre una finestra o un’apertura che lasciava passare la luce del sole, spezzettata in riflessi colorati dai vari cristalli attaccati ai lampadari.

Tutto lì era luminoso, tranne i suoi dieci anni futuri, duri quanto il polso di Elijah Van Incardine.

Non gli era mai andato a genio, lo aveva capito fin da subito, così come aveva ben capito che qualsiasi sua azione sarebbe stata misurata con metro ancor più rigido, data la sua provenienza. Non per questo, però, si era lasciato spaventare: riluttanza a parte, Elijah Van Incardine gli aveva concesso una possibilità per dimostrare la veridicità delle parole del padre, una possibilità mal digerita, considerata la sua posizione all’interno di quella piccola e ristretta elite di giovani scelti.



Essere stranieri era un male. Nella lunga e onorata storia di San Lorein, gli “Esterni” non avevano mai ricevuto il permesso di toccare il sacro suolo della terra delle spade. Se sì, probabilmente gli antichi saggi avevano provveduto a cancellarne le tracce. Lars se lo era ripetuto un milione di volte da quando aveva iniziato l’addestramento e si premurava di ricordarselo ogni qualvolta veniva guardato con la coda nell’occhio o tenuto lontano dagli altri suoi compagni. I bambini del posto provenivano da famiglie benestanti, fedeli a San Lorein e istruite sulle sue leggi, ma anche dalle modeste periferie, dove si svolgevano i lavori artigianali. Essere scelti era un onore, perché l’addestramento rappresentava una sfida di sopravivenza a lungo termine, dove il traguardo rappresentava la gloria più alta di tutte, ma a questa, Lars, non sarebbe mai potuto arrivarci, seppur le sue abilità fossero notevolmente considerevoli.

Lui era uno straniero, un “Esterno”, e questo implicava l’entrata in gioco di tutta una serie di motivazioni per cui lui doveva essere grato al signor Eliorath per averlo accettato, bla bla bla……

“Ehi, tu.”

Aveva appena infilato un enorme cucchiaio colmo di zuppa in bocca, quand’ecco che un trio di ragazzini si avvicinò al suo tavolo. Si trovava a mensa e come tutti i giorni, pranzava nel tavolo in fondo, lontano dagli altri allievi. Alzò lo sguardo con normalità, senza stupirsi del perché quei tre fossero venuti a trovarlo: dubitava che avessero deciso di andare contro la volontà della loro città e dei loro genitori, quelli volevano solo testare la sua pazienza, e nell’unico momento di ristoro della giornata.

“Che cosa c’è?” domandò lui, dopo aver ingoiato il boccone e posato il cucchiaio nella ciotola.

Si augurò che non stessero per chiedergli chissà quale stupidata, ma quelle che per lui erano domande inutili e superflue, per gli altri suoi coetanei erano informazioni di vitale importanza.

“Dalle tue parti hanno tutti i capelli bianchi?” gli domandò il primo, col sopraciglio inarcato.

Per l’appunto…

“Solo mia madre e mia sorella, che io sappia”, rispose lui “E poi, i miei capelli sono argentati, non bianchi”, sottolineò.

Avrebbe dovuto aspettarsi quella domanda. Da com'era stato guardato, gli era parso un po’ strano che qualcuno non si fosse fatto ancora avanti per chiedergli come mai i suoi capelli avessero quel colore tanto inusuale. I tre si scambiarono delle occhiate poco convinte, borbottando a bassa voce e mettendolo in disparte, per poi riagguantarlo come fosse un pallone.

“Bianchi o no, mio padre dice che quelli come te devono essere tenuti lontani dalla nostra terra”, affermò un secondo, guardandolo come fosse colpevole di un omicidio.
“Già! Tu non puoi stare qui”, arrivò il terzo “Quindi, non darti tante arie. Sei qui solo perché l’ha voluto il saggio Eliorath!”

Un’altra cosa detta e ritrita. Da quando aveva iniziato ad addestrarsi, era stato attaccato da ogni genere di accusa, compreso quanto fosse ingiusta e disgustosa la sua presenza. Ogni scusa era buona per rammentarglielo, ogni momento era propizio per ricordargli che se avesse agito, Master Elijah lo avrebbe punito severamente. La possibilità concessagli c’era, ma era debole, fragile, vulnerabile a tutto e solo le sue scelte lo potevano proteggere. I suoi capelli erano bislacchi, diversi da quelli degli altri, con riflessi metallici abbastanza lucenti da fare invidia a quelli lunari. Sua madre li portava lunghi e ondulati, senza niente che li rendesse ancor più femminili. I suoi, invece, erano più corti: gli incorniciavano perfettamente il viso, abbinandosi ai suoi occhi color ghiaccio, che guardavano il mondo a testa alta, senza lasciarsi trarre in inganno da chi lo voleva vedere ringhiare con la fronte attaccata alla terra. Era solo un bambino a cui piaceva giocare e mangiare i suoi piatti preferiti fino ad avere la pancia piena, ma tutto ciò aveva dovuto lasciarlo indietro, a casa. Nella sua silenziosa maturità, permise che quei commenti scivolassero via, trasportati dalla ragionevole coscienza sempre sveglia e che mai lo avrebbe abbandonato.
Lo volevano provocare, si vedeva fin troppo bene quanto desiderassero buttarlo nell’angolo e dargli addosso, ma l’albino non era così stupido da cedere a provocazioni tanto banali e ripetitive.

“Io non mi sto dando delle arie”, dichiarò tranquillamente, guardandoli con le palpebre socchiuse a metà.
“Menti”, replicò il primo.
“Come fai a dirlo?”
“Perché gli stranieri sono tutti bugiardi. Tu sei uno straniero, dunque sei un bugiardo”, rispose il secondo, con fare saccente.
“Sì, un bugiardo che si crede più bravo di noi solo perché ha battuto qualche nostro compagno a duello”, arrivò il terzo.

Era impossibile che la questione non vertesse su quell’argomento; le facce contratte e gli atteggiamenti di chi non ammetteva repliche lasciarono intuire il resto della conversazione, scritta con largo anticiponel grande libro del destino. La foga di voler schiacciare Lars stava nell’invidia che quei tre covavano nei confronti del suo talento, venuto fuori giusto in tempo perché la fiducia del signor Eliorath fosse pienamente ricompensata. Lars era bravo, molto bravo, e si era distinto negli esercizi e nei duelli che Master Elijah organizzava almeno due volte alla settimana. Un momento di verità dove i muscoli e la mente si fondevano con la lama.

Ancora adesso, le mani dell’albino erano piene di fiacche, con tanto di ginocchia doloranti e occhi appesantiti dal sonno poco sereno, ma, oramai, quasi non ci faceva più caso: un mese era un lasso di tempo più che sufficiente per adattarsi e capire come muoversi. Purtroppo, c’era sempre qualche recidivo che voleva, anzi, che doveva parlargli male. E per quanto la cosa non fosse nuova, difendersi adeguatamente gli sarebbe costato caro….

“Io dico che hai barato”, buttò lì il primo.
“Non l’ho fatto”, replicò loquacemente l’albino.
“Tanto non ti crediamo. Tu sei un bugiardo”, ribatterono gli altri due, supportati dal silenzio a cui gli altri bambini stavano dando appoggio.
“E i bugiardi non mangiano con noi”, riprese il primo, afferrando la scodella con dentro il cibo ormai freddo di Lars “Vai via! Noi non ti vogliamo qui…”
“Che succede?”

La mano del bambino, quella che reggeva saldamente la ciotola di Lars, rischiò di allentare la presa e lasciare cadere a terra l’oggetto. La voce intromessasi non apparteneva a un adulto, ma fece si che quei tre bambini la smettessero di importunare l’albino, molto più sorpreso di quanto i suoi occhi dessero a vedere: dal centro della sala, vide avanzare un bambino della sua età, un bambino che conosceva solo di nome e fama, con cui non aveva mai parlato. Arrivò alle spalle degli altri suoi tre coetanei con la stessa silenziosità di un’ombra, sollecitando un sussurrato vociare mai sentito.

“Eliah, sei tu!” esclamò il primo, girandosi in fretta e furia.
“Non si riesce a mangiare con tutto questo rumore. Che state facendo?” domandò il nuovo arrivato, per poi porre gli occhi bluastri su Lars.

Come avvertì su di sé lo sguardo di quell’altro bambino, l’albino si raddrizzò per vederlo meglio. Aveva una zazzera scompigliata in testa, di un color nocciola piuttosto chiaro, occhi bluastri, le mani appoggiate ai fianchi e il viso leggermente inclinato a destra. Il rumore del loro bisticcio lo aveva attirato con lo stesso effetto che il miele sortiva su di una vogliosa ape, e come ripose il suo sguardo sugli altri tre, questi sussultarono appena, come se davanti a loro ci fosse stato Elijah Van Incardine in persona.

“Insomma, mi dite che sta succedendo?” domandò ancora, spazientito per l’attesa prolungata.
“E’ colpa sua! Ha iniziato lui e noi lo stavamo rimproverando”, mentì spudoratamente il primo, puntando il dito contro un tranquillo Lars, appena trasformato in un’ideale vittima sacrificale.
“Vero!” si aggiunsero all’unisono gli altri due.

Che novellini….
Fossero stati almeno credibili.

L’albino non sprecò fiato al riguardo e si astenne dal sospirare con esasperazione. Poteva difendersi benissimo, replicare che lui non aveva fatto altro che starsene buono buonino a mangiare il suo pranzo e che quelli avevano deciso, di punto in bianco, di tirargli la scodella in faccia, ma non lo fece: il cervello non gli mancava, però non voleva ridicolizzare quei tre solo perché erano negati a mentire. Inoltre, non era il tipo che perdeva le staffe e saltava addosso agli altri con tutta l’intenzione di fargli rimangiare ogni singola parola sputata. Azu lo avrebbe fatto, ma lui era Lars, e fintanto che non disonorava pubblicamente la sacralità di San Lorein, alla sua permanenza non si sarebbe aggiunto nient’altro che non fossero sguardi freddi, bisbigli taglienti e via dicendo. Anche con cento testimoni a suo favore e prove schiaccianti che ne dimostrassero l’innocenza, la sua posizione non sarebbe cambiata, per questo quei tre volevano a tutti i costi che venisse punito.
Lui era bravo con le spade, ma era uno straniero, perciò, se avesse commesso qualcosa, Master Elijah non ci avrebbe impiegato molto a punirlo e a ricordargli quanto fossero sgradite le persone provenienti al di fuori del loro muro.

-Se almeno evitassero di dire certe stupidate...-, pensò lui.

I suoi accusatori si stavano sbracciando come degli ossessi, nemmeno se nella mensa fosse appena scoppiata una rivoluzione. Eppure, quel Eliah…..non sembrava particolarmente preso dal racconto, anzi: doveva aver intuito che i suoi compagni non glie la stavano raccontando giusta.

“E dovrei credervi?” domandò per l’appunto, dopo l’interminabile spiegazione dei coetanei “Ho visto benissimo che siete stati voi a cominciare.”
“Ma, Eliah, lui….”
“Niente “Ma”. Non è così che ci si comporta. Se avete tante energia da spendere, andate ad allenarvi, piuttosto.”

Non occorse altro perché quelli abbassassero la testa e ubbidissero senza fare troppe storie. Perfino gli altri bambini chiusero le loro bocche e cercarono di zittirsi più del dovuto. Preferirono rimandare il chiacchiericcio a dopo, quando le acque fossero state più calme. Difatti, successe: per le restanti ore della giornata, Lars venne circondato da mormorii ripetitivi e scoordinati fra di loro, tutti domandanti il perché Eliah avesse preso le sue difese. Fra il correre, lo schivare, e il compiere tutta una serie di esercizi che vide i suoi polmoni completamente svuotati, l’albino arrivò al tramonto con i muscoli sfibrati e tremolanti, tanto che dovette attaccarsi alla fontanella per non cadere. Ingoiare acqua era la sola maniera che avesse per alleviare la fatica di quella giornata, dimostratasi più dura delle precedenti e anche a costo di congelarsi le labbra, avrebbe riempito la sua pancia fino a quando non sarebbe scoppiato.

Si sciacquò le ginocchia, le braccia e il viso con foga, cercando di togliersi di dosso la calura, la polvere, e anche alcuni rivoli di sangue colanti da qualche taglietto. Prima andava a letto, meglio sarebbe stato, perché l’indomani non sarebbe rimasto a dormire fino a mezzogiorno.

“Ciao.”

Aveva appena finito di strofinarsi le guance, quand’ecco che, per la seconda volta, si ritrovò faccia a faccia con quel ragazzino dai capelli color nocciola.

“Ciao”, fece a sua volta.
“Ti chiami Lars, giusto?”
“A-ah.”

Diretto e senza giramenti di parole. Proprio come aveva intuito.

“Scusa per come si sono comportati gli altri”, riprese lui, alludendo a quanto era accaduto a pranzo “Sono degli stupidi. Fanno tanto i superiori, ma in realtà si vedeva benissimo che erano gelosi di te.”

L’ovvietà con cui pronunciò l’ultima aggiunta diede conferma ai pensieri di Lars, intento a fare mente locale di quanto aveva appena ascoltato e detto. Quel bambino era sincero, non c’era nulla che potesse dimostrare il contrario, nonostante i raggi soffusi del tramonto gli stessero oscurando il viso, conferendo al terreno un inconsueto color arancione. Però…proprio non capire che cosa ci facesse lì.

“Non fa nulla”, disse ancora l’albino, tirandosi fuori dai suoi stessi pensieri.
“Io sono Eliah”, si presentò l’altro, senza indugiare troppo.
“Si, lo so. So chi sei.”

Che il campo d’addestramento fosse particolarmente suggestivo sotto la luce del tramonto o che le punte dei suoi capelli argentati gocciolassero a cadenza regolare, niente di questo e altro avrebbe potuto distoglierlo dal fatto che davanti a sé aveva niente di meno che il figlio di Elijah Van Incardine, il migliore allievo di tutto l’anno accademico. Una coincidenza troppo bislacca per i gusti di Lars: non credeva nelle superstizioni e non si era mai preso la briga di controllare se sotto il suo letto ci fosse l’uomo nero. Che il figlio del Master di San Lorein si trovasse lì, con lui, e che gli stesse rivolgendo la parola, era un dato di fatto, ma ciò non ne spiegava la ragione. Cosa poteva volere il rampollo della famiglia più altolocata di tutta San Lorein da lui?

“Hai bisogno di qualcosa?” domandò poi, cercando di trovare una risposta al suo quesito.
“Sì, voglio battermi con te”, rispose schietto l’altro.
“Come”
“Non hai sentito? Ho detto che voglio battermi con te.”

Un duello? Lì? Con lui? Aveva picchiato la testa o cosa? Era fuori discussione.
Non si poteva fare in alcun modo e se Lars fosse stato costretto a spiegare il perché, avrebbe trovato più di una valida spiegazione al riguardo. Seppur riuscisse a muoversi decentemente, il suo corpo era piuttosto dolorante. Aveva imparato ad allargare la propria soglia di sopportabilità ogni qualvolta si presentasse un esercizio più duro del precedente, ma da bambino in fase di crescita quale era, pretendere di muoversi e agire come un adulto era ancora qualcosa che non gli era concesso. 
E, in tutta franchezza, al momento, non era un duello quello che più desiderava.

“Uh? Cosa c’è?” domandò Eliah, con cipiglio interrogativo, notando l’espressione corrucciata dell’albino.
“E’ meglio se non ti fai vedere con me. A tuo padre non sto tanto simpatico”, rispose atono e infilandosi le mani in tasca “E se qualche compagno ci vede, può fare la spia.”
“E’ il tuo modo di dirmi che hai paura?” lo provocò lui, con un pizzico di spavalderia.
“No, è il mio modo di dire che sono stanco e non voglio passare la notte a fare piegamenti sulle ginocchia.”

Si rese conto troppo tardi di aver lasciato libera la lingua più del dovuto. Il sentirsi tutto tirato e rigido aveva fatto sì che il suo autocontrollo scemasse, anche se di poco. Non era scoppiato come un palloncino per la troppa aria, ma si sarebbe spiaccicato la mano sulla fronte se soltanto avesse potuto, giacché vide il coetaneo spalancare gli occhi e la bocca in un solo colpo.

-Sono finito-, pensò lui.

Poteva già dire addio alla bella dormita e al cuscino che lo attendevano con trepidazione…..

“Capisco….allora, che ne dici di venire a cena da me?” gli propose subito Eliah, per nulla toccato.

Si stava già immaginando di veder volare via il suo comodo giaciglio, quand’ecco che la seconda domanda del bambino dai capelli color nocciola lo fece cascare dalle nuvole. Fu normale fissarlo con fare stralunato e sospetto, perché, sinceramente, non era il genere di risposta che si sarebbe aspettato. Uno spavaldo come lui, che gli chiedeva di battersi senza troppi problemi, avrebbe insistito, mostrando un’indole testarda e sfrontata, magari. Era così che funzionava. Questo invece aveva accolto la sua risposta e aveva sfoderato il……..com’è che lo chiamava sua sorella? Ah, si! Il piano B.
Lei lo usava sempre, pur di non dargliela vinta. Era l’asso nella manica che, irrimediabilmente, si rivelava un colossale buco nell’acqua. Di tutti quei suoi strampalati tentativi per vincere, non ne ricordava uno che avesse funzionato, ma il punto era che Eliah non era Azu: lui sembrava sapere bene come agire, il che spinse Lars a mettere ancor più in pericolo la sua già traballante posizione.

“Tu sei strano”, affermò.
“Perché ti chiedo di batterti con me e poi di venire a cena?”
“Sì.”
“Può darsi, ma io non ci vedo nulla di strano a volerti conoscere.”

Un piccolo stormo di colombi si librò in aria, volando verso le alte torri di San Lorein, mentre il sole si apprestava ad andare a dormire. Numerosi boccioli multicolore cominciarono a chiudersi su sé stessi e le prime luci dei lampioni fecero la loro comparsa nelle strade ancora imbottite di gente. Il campo d’addestramento era vuoto, deserto, libero per Lars ed Eliah, ancora presi a fissarsi. Dopo quella rivelazione, la mente dell’albino parve ricevere una botte così stordente, da fargli perdere il filo del discorso. Si dimenticò del dolore che sortiva sul suo corpo, del calore, delle gocce che gli picchiettavano la pelle, e anche delle lievi pulsazioni provenienti dai palmi delle sue mani.
Voleva soltanto chiedere più di quanto normalmente gli fosse concesso, sfondare la barriera del silenzio. Era perfettamente consapevole di non avere il permesso, che se il padre di Eliah li avesse visti insieme, ne avrebbe pagato le conseguenze, ma, nonostante la terribile prospettiva, Lars non si lasciò scoraggiare. Sì, non era molto convinto delle intenzioni di Eliah e chiedere sarebbe stato già tanto, vista la sua posizione: non erano molte le cose che poteva fare, si era adattato appositamente per restare, ma quel tipo era uno che non demordeva, questo lo aveva capito semplicemente guardandolo.

“Hai un modo buffo per volermi parlare”, disse Lars “Sei ancora più strano.”
“Mai quanto i tuoi capelli”, replicò l’altro, avvicinandosi “Posso toccarli?”
“No.”

Se c’era una cosa che mal sopportava più delle critiche ai suoi capelli, era che glieli si toccassero in continuazione. Mica era un pupazzo.

“Vieni con me, allora”, insistette Eliah.
“E se non volessi?”
“Ti scompiglio i capelli e dico a tutti che sei un fifone”, lo ricattò lui, ghignando e appoggiando le mani ai fianchi.
“E’ una minaccia?” domandò Lars.
“No, ma così ho deciso e tu non hai scelta.”
“E perché dovrei farlo?”
“Perché fra cinque minuti mio padre passerà a controllare che tutti gli allievi siano a mangiare e se non ti trova, farai una brutta fine. Io sono esente, visto il nonno mi ha invitato a cena e lo stesso vale per te, ma se salta fuori che non eri a casa mia o a mensa, chissà cosa ti faranno quei vecchi barbuti.”

Per un attimo, gli era parso di parlare con la sorella: le domande e le risposte erano pressoché identiche, tutto il dialogo era un quadro già affrontato e vissuto. Poi, infastidito dall’indolenzimento del suo corpo, si ricordò che Eliah non era Azu e il sentire la sua risposta, lo ammutolì di colpo. Soltanto guardandosi attorno, Lars comprese che si era fatto più tardi del previsto e che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere la mensa. Sarebbe stato inutile sperare in un ipotetico ritardo di Master Elijah, poiché egli era assai scrupoloso in tutto ciò che faceva e organizzava, quindi, non gli rimaneva altra scelta se non seguire Eliah ed evitare di passare la notte al campo, sulle ginocchia, col vento a picchiettargli contro la schiena e lo stomaco vuoto.

Come i rintocchi delle campane si espansero nell’aria – e prima ancora che potesse dire “Si” o “No” -, Eliah gli afferrò vigorosamente il polso, trascinandolo in una corsa trafelata verso una corta rampa di scale pietrose.

“Sbrighiamoci! Mio padre sarà qui a breve!”
  
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