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Autore: Anima97    05/04/2012    3 recensioni
Il dolore della morte del proprio figlio non sono capace di descriverlo, perché non ne ho mai avuto la possibilità. La mia vita è stata anestetizzata e uccisa sotto i ferri d’ospedale, quando ero ancora troppo giovane.
Quando un bambino nasce, il suo pianto è come una bottiglia che viene rotta sulla carena di una nave: inaugura l’inizio della morte, per questo non mi stupisco. Ma gli eventi che sono seguiti dopo, che riporto qui tra questi fogli, hanno causato spavento e curiosità.
La storia che sto per raccontarvi è la storia della vita di persone speciali, dopo la mia morte, perché io possa documentare ogni avvenimento che me medesima ha creato con maestria.
Adesso devo tacere, ma un avviso devo lasciarlo:
Nulla avviene per caso.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Metempsychosis anima 


Erano passati quattro mesi dal triste evento, però Carmen continuava ad essere felice, perché da quando era cambiata in quel modo così improvviso, aveva trovato una “ragione di vita”: la cultura. Per lei era tutto quello che rendeva un essere umano tale, l’affascinante differenza che lo nobilitava, a differenza delle bestie.
Le piaceva molto apprendere, pur non avendo molto tempo a disposizione, per colpa della nuova scuola.
La scuola. L’inutilità di quell’obbligo così importante nella società in cui viveva, la sorprendeva. La reputava inutile, perché per lei la vera sapienza era saper dare infinite risposte ad una domanda, ma solo dopo aver pensato, ragionato!
Invece, la scuola che lei conosceva, dava un’unica risposta a volte senza neanche insegnare la ragione per cui essa era stata formulata.
Come si può pretendere da una mente impegnata e curiosa come la sua, di essere ostacolata dalla morte di una persona che neanche conosceva?
Si, non era a conoscenza di tutto quello che era successo quattro mesi addietro, non conosceva l’esistenza di quelle persone che ancora soffrivano. A differenza loro, lei era soddisfatta della sua vita e la passava col sorriso in viso:
Aveva una famiglia che le voleva bene, nuovi interessi che occupavano le sue giornate e anche nuovi amici, i compagni della nuova scuola, con cui condivideva i momenti più spassosi!
Ma della sua non curanza a tutto quello che era successo non dobbiamo farne una colpa: lei non ne sapeva niente!
Si risvegliò dalla trance e si accorse di aver appena perso il bus. Indecisa sul da farsi, chiamò la madre da una cabina telefonica li vicino.
Nell'attesa che rispondesse si chiese se avesse fatto bene, sua madre detestava essere disturbata:
«Pronto?»
«Mamma sono io»
«Carmen, muoviti che ho da fare! Che è successo?»
«Ehm… Ho perso il bus..»
Sentì il grugnito della madre spazientita e immaginò il suo viso nella sua solita espressione di rabbia.
Un magone alla gola cresceva piano, temeva che la punisse.
«Non posso venirti a prendere»
«Papà?»
«A lavoro»
«Nonno?»
«Con tuo padre! Senti Carmen, vedi di cavartela da sola!»
La paura di ritrovarsi per l’ennesima volta sola, in un treno, le attanagliò la gola e non riuscì più a parlare.
«Ci sei!?»                     
«Va bene, mà, me la caverò da sola!»
«Brava la mia bambina, stai crescendo bene… vedi che oggi arriverà una persona a casa e tu»
La chiamata s’interruppe, i soldi erano finiti e lei non aveva più spiccioli, se non quelli per il biglietto del treno. Posò la cornetta e si mise lo zaino in spalle.
Non si chiese a lungo cosa la madre le voleva dire, l'avrebbe saputo una volta tornata a casa.
Si incamminò, coprendosi la fronte con la visiera del suo cappello, nonostante il sole fosse coperto da nuvole di pioggia.
 
Quando ritornò a lavoro, in Settembre, viveva (si fa per dire) in un inquietante silenzio sorridente, così da non far intuire a nessuno il suo disagio. Non si sfogava mai, sapeva che molte altre persone avevano vissuto peggio di lui, così taceva: un po’ per timore di sembrare egoista, un po’ per quell’orgoglio che ogni uomo possiede.
Il suo collega Antonio, un ragazzo di appena ventisei anni, aveva appena cominciato quel lavoro e lo accompagnava in ogni prelievo. Stava seduto sul sedile posteriore, ogni tanto interrompendo il silenzio con una domanda.

«Il padre è il solito uomo che si ubriaca tutti i sabato sera e picchia la moglie, è un camionista, se non sbaglio... la madre, invece…»
«Prostituta?» disse il collega con la sua voce nasale.
Almeno tre casi su cinque comprendevano madri che si prostituivano, per loro stava diventando un fenomeno quasi comune.
L’uomo annuì «Però l’unica figlia non ne sa nulla, vive nel mondo delle fate, non va bene a scuola. La solita famiglia disastrata.» sospirò.
Lo scambio di informazioni finì li, non serviva altro per fare il loro lavoro in quel momento.
Avrebbero scoperto di più sulla ragazza col passare del tempo, nella casa-famiglia dove da quel giorno in poi avrebbe vissuto.
Per quell’uomo ogni caso non era una gatta da pelare in più, ogni caso rappresentava una vita di un giovane cittadino che ha bisogno di aiuto per non essere portato alla deriva.
Ogni ragazzo che aiutava, pur sembrando un angelo, aveva sempre qualche scheletro nell’armadio da esorcizzare. Per questo, ogni volta che ne doveva aiutare uno in più, temeva di fallire, come spesso era accaduto.
Non riusciva neanche a rivolgere la parola a quei giovani adulti che lo salutavano per strada, in un evidente stato di decadenza, perchè in loro lui vedeva quei piccoli bambini che aveva cresciuto ed educato, come figli. In loro vedeva se stesso, un lui parallelo, perchè nel suo lavoro non ci metteva solo quel che aveva studiato per anni, ma anche parte del suo amore.
Spinse meno sull’acceleratore e cambiò marcia, fino a fermarsi completamente. Si tolsero le cinture di sicurezza e uscirono entrambi dall’auto.
L’angoscia cresceva sempre di più, insieme al solito senso di nausea. Per l’ennesima volta avrebbe visto le lacrime di una madre e il dolore di un padre. Lui quel sentimento lo conosceva bene e quando doveva strappare un figlio dalle braccia del genitore, gli veniva voglia di lasciar perdere tutto, far vivere quel bambino con la sua famiglia e uccidersi! Non ne poteva più di dividere famiglie, non ne poteva più di rivivere, ogni volta che teneva un ragazzino implorante tra le braccia, la stessa scena che ha vissuto in quella stanza d’ospedale, con il corpo inanime della figlia sul petto e il profumo dei suoi lunghi capelli neri sul volto.
Il collega lo risvegliò dalla trance e gli chiese «Vuoi che vada solo io?»
Sempre lei, la figlia, lo portava via da quel suo mondo costruito con mattoni urlanti di disperazione, per soffocarlo nei ricordi del passato.
Lo guardò implorante, voleva dire si ma non poteva «E’ un compito che devo fare io, tu dovresti rimanere qui per eventuali problemi che..» ma venne interrotto.
«Conosco le procedure, non perdiamo altro tempo»
Fecero qualche passo verso il portone del grande palazzo.
In quel lasso di tempo, si accorsero della gente intorno che li guardava con astio e che si nascondeva dietro le porte o le tapparelle grigie delle abitazioni. Un vecchio, poggiato sul muro sporco del palazzo, vicino al portone scassinato, guardò quei due uomini ben curati da sotto il suo borsalino e appena sentì il loro odore, sputò schifato dall’altra parte, andandosene.
Il collega si fermò all’inizio delle strette scale, mentre lui salì. I muri erano puliti, ma il corridoio era così stretto ed umido che faceva sembrare quel posto il più sporco della città. Aveva paura, come sempre. Desiderava scappare, come sempre. Ma no, doveva dimostrare di essere serio ed anche coraggioso, a se stesso, al collega... e alla figlia. 
Non doveva più pensare, trattenne il respiro e bussò: una donna mezza svestita, grossa e sfatta, coi capelli neri appiccicati alla fronte e due grosse occhiaie sotto gli occhi pieni di trucco si affacciò.
«Chi siete?» aveva un forte cadenza dialettale tipica del sud Italia.
«Sono un assistente sociale, sono venuto a prendere sua figlia come concordato.»
«Lasciateci in pace, ci avete dato fastidio già abbastanza!»
«In tribunale era presente anche lei, lo sa che non dipende da me, signora. Mi affidi sua figlia, è meglio per tutti.»
Vide il viso della donna riempirsi di rughe, ghignò, richiuse la porta e urlò «Carmè! Corri! Và via!»
Preso da un senso di giustizia, si decise a reagire all'inutile insistenza della madre.
Sapeva che soffriva, ma non poteva fare niente. Non era colpa sua, non dipendeva da lui!
Batté i pugni sul legno marcio della porta, così forte che la donna fu costretta a riaprire «Opporre resistenza sarà inutile, signora! Mi dia sua figlia e finiamola qua!»
Ma la donna continuava ad urlare parole incomprensibili, in un dialetto che lui non conosceva, mentre una ragazzina dal viso candido e ancora infantile, con i capelli lunghi e neri, terrorizzata, apparve dalle sue spalle.
Non seppe mai perchè, in quel momento, tremò sotto lo sguardo di quella bambina.



Smikra
Isaby94
Fujiko

Grazie.

  
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