Capitolo XXVI
Se qualcosa può andar male, lo farà.
[Primo Assioma della Legge di Murphy]
Mi faceva piacere che la relazione di
Alessandra con il suo
Riccardo stesse procedendo a gonfie vele. In uno dei pochi momenti
liberi che
avevamo entrambe, e che eravamo riuscite a far coincidere, la mia amica
mi
aveva raccontato con una buona dose di imbarazzo, felicità
ed esultanza di aver
risolto già da qualche settimana il
“problema-prima-volta”, ma d’altronde lei
il suo ragazzo lo amava, quindi io continuavo a non riuscire ad
applicare
quella soluzione alle mie attuali circostanze.
Per cui adesso rimanevo solo io quella
con un’attività sessuale
pari allo zero virgola zero. Non che per me fosse un grande problema;
anzi, a
dir la verità non occupava neppure uno dei primi dieci punti
nella lista delle
mie priorità – credo piuttosto che si trovasse tra
il terzultimo e il
penultimo. Adesso, trovavo più urgente il dovermi
preoccupare dell’imminente
rientro a scuola e dell’imminente esame di teoria della
patente.
Nel riprendere in mano i miei libri,
avevo avuto una strana
sensazione di estraneità che in un primo momento mi aveva
lasciata piuttosto
disorientata; pensare di dover studiare normalmente come una qualsiasi
diciottenne che si appresta a frequentare il suo ultimo anno del liceo
stonava
terribilmente con tutto quello che avevo affrontato fino a quel
momento, e
cioè, rispettivamente: un rapimento, un ostinato
“corteggiatore” che per hobby
spacciava, minacciava e – per quel poco che ne sapevo io
– possedeva una
pistola, la morte di mio nonno… Tutte le mie disavventure
estive mi avevano destabilizzato non poco, dunque non
si poteva certo pretendere che avessi la mente abbastanza libera e
serena per
poterla dedicare a un banalissimo studio.
Ad ogni modo, questo fu invece
esattamente ciò che accadde.
Mia madre sembrò aver
compreso alla perfezione il mio furioso
dibattito interiore, forse perché negli ormai pochi momenti
che trascorrevo a
casa nell’illusione di non avere problemi, mi ritrovavo a
gironzolare su e giù
come un’anima in pena, senza, come diceva lei, “trovare un posto dove fare l’uovo”,
dato che il mio nervosismo
crescente mi impediva di rimanere ferma per più di cinque
minuti nello stesso
punto. Una mattina mi prese quindi da una parte e mi fece uno di quei
discorsetti che si suppone le madri facciano alle loro figlie fidanzate
ma con
ancora l’impegno dello studio.
Non ripeterò parola per
parola tutto quello che mi disse, perché
quando mia madre iniziava una delle sue arringhe potevano trascorrere
delle
ore. Il succo dell’intero discorso, comunque, riguardava il
fatto che lei non
voleva in nessun modo che il mio “fidanzatino”
– Dio, sì, furono proprio queste
le sue parole – mi distraesse da cose più
importanti come la scuola; insomma,
era stata giovane anche lei, capiva che cosa succedeva quando la mente
e gli
occhi vedevano cuori dappertutto – sinceramente non avevo
saputo come ribattere
al riguardo, anche perché più che cuori io
iniziavo a vedere dei teschi con le
tibie incrociate sotto – e non mi rimproverava per questo.
Tuttavia, non dovevo
dimenticare che quest’anno avrei avuto l’esame di
maturità, e per questo non
potevo permettermi in alcun modo di distrarmi e dimenticare le mie
priorità –
giusto per tornare a quanto detto poco sopra; continuò
asserendo che le sarebbe
dispiaciuto se anche io avessi fatto il suo stesso errore, vale a dire
perdere
un anno di scuola e venire bocciata perché era stata troppo
presa da mio padre.
Concluse il tutto dicendo che non
metteva in dubbio la mia
intelligenza, e che sapeva benissimo che io ero una ragazza con la
testa sulle
spalle – ciò nonostante, non poté
trattenersi dal minacciarmi velatamente di
impedirmi di vedere Enrico qualora i miei rendimenti scolastici
iniziassero a
scarseggiare. Ammetto che vidi in questo avvertimento un modo per
fuggire
impunemente dal mio Problema Numero Uno, ma così facendo
avrei dovuto andare
male a scuola eccetera pregiudicandomi gli esiti finali del Problema
Numero
Due.
Odiavo dover essere obbligata a
scegliere tra i due mali minori.
Comunque il discorso con mia madre mi
aveva aperto gli occhi e
riportata con i piedi ben saldi per terra; avrei dovuto essere capace
– o
perlomeno avrei dovuto provarci – di far coesistere entrambi
i Problemi nella
mia vita senza che l’uno compromettesse l’altro.
Detta così poteva anche
sembrare fattibile, ma restava da vedere se la pratica fosse davvero
semplice
quanto la teoria lasciava intendere.
Avevo preso, dunque,
l’importante decisione di mettermi con il
sedere sulla sedia e riprendere a studiare, quando naturalmente dovette
accadere qualcos’altro che mi facesse passare la voglia di
farlo.
Di solito, o perlomeno da quando il
nostro rapporto si era stretto
ulteriormente, io e Enrico ci sentivamo parecchio; se non ci
scambiavamo
messaggi ventiquattrore su ventiquattro ci andavamo comunque molto
vicini, e
almeno un sms ogni sessanta minuti avvisava l’altro che tutto
andava bene. In
effetti messa così suonava un po’ paranoica e,
beh, lo era, ma se non gli
rispondevo correvo il rischio che lui andasse di matto – a
meno che,
ovviamente, non gli dicessi che avevo roba da fare – cose da studiare, ad esempio –
e allora mi lasciava tranquilla.
Salvo poi farsi risentire più tardi.
Ecco, il giorno non si fece proprio
sentire. Era una domenica
mattina come tante altre, per cui, anche se non mi aveva mandato il
“messaggio
del buongiorno”, non ci feci molto caso – magari
stava ancora dormendo, la
notte precedente era uscito con i suoi amici e per quanto ne potevo
sapere io
aveva fatto le ore piccole insieme a loro. Tuttavia, non si
svegliò neppure a
mezzogiorno, né nel primo pomeriggio, e neppure la sera;
arrivata all’ora di
cena, devo ammettere di essere stata parecchio preoccupata e anche in
leggera
agitazione. E non perché volessi tenerlo sotto controllo,
santo Cielo, non mi
chiamavo Enrico, ma molto semplicemente perché un simile
silenzio, considerando
che non ci vedevamo da due giorni – da venerdì
– non era da lui.
Così, invece di studiare
come mi ero proposta di fare, trascorsi
l’intera giornata di lunedì a pensare e ripensare
a cosa potesse essergli
successo, tormentandomi all’idea che c’entrasse la
sua seconda vita, senza tuttavia
avere il coraggio di mandargli un
messaggio per prima. Chiedere consiglio ad Alessandra era fuori
discussione; mi
sembrava già di vedere la sua espressione scioccata mentre
mi chiedeva,
gentilmente, se fossi per caso impazzita. Da quando mi preoccupavo per
il mio
stalker personale? Da quando eravamo diventati ancora più
intimi, all’incirca
una settimana prima, quando aveva abbassato tutte le sue difese per
parlarmi
della madre. Non so se era dovuto all’istinto da infermiera
che possiedono
quasi tutte le donne, e che consiste nel sentirsi stringere il cuore
per gli
uomini che hanno bisogno di noi; quale che fosse la ragione, ero
preoccupata e
il mio orgoglio poteva benissimo andare a farsi benedire.
Non fu facile giungere a quella
conclusione, lo ammetto, ma visto
che neppure nella giornata di lunedì Enrico si era fatto
sentire decisi di
farmi accompagnare a casa sua per vedere di persona come stava o,
eventualmente, chiedere ai suoi genitori. Una cosa da fidanzati,
insomma. Oh,
Dio!
Personalmente non avevo idea di dove
abitasse, ma mio padre per
fortuna sì. L’avevo visto aggrottare appena le
sopracciglia quando aveva capito
che volessi essere accompagnata a casa degli Occhi Belli –
ormai si era
informato sulle prime tre generazioni dei D’Angelo, conosceva
perfettamente la
loro reputazione, tanto per essere chiari, ma era dell’idea
che i figli non
dovessero essere pregiudicati dalle azioni dei parenti che li avevano
preceduti; era chiaro che non fosse a conoscenza degli
“hobby” di Enrico, ed
io, da parte mia, non avevo nessuna intenzione di illuminarlo al
riguardo.
Per chissà quale grazia
della buona sorte, almeno lui si astenne
dal farmi la paternale durante il breve viaggio in macchina; e solo
quando
parcheggiò sotto quella che, come mi disse, era casa Occhi
Belli, mi fece
notare che mi stavo presentando a casa del mio ragazzo
– non feci nulla per smentirlo – a mani vuote. A
dir la
verità non mi era neppure passato per la mente che potessi
come minimo portare
dei pasticcini per la sua matrigna o suo padre, dato che il mio unico
pensiero
era quello di accertarmi che Enrico stesse abbastanza bene da poter
sopportare
la mia strigliata.
“Ero troppo preoccupata per
pensare ai cioccolatini, pà”, fu
quello che gli dissi, riuscendo per una volta a sfruttare quella
situazione e
volgerla a mio vantaggio. “Magari glieli porto
domani.”
Tamburellando sul volante al ritmo
della musica proveniente dalla radio,
mio padre annuì. “Okay. Chiama quando vuoi andare
via, non farti invitare a
cena già il primo giorno che vai a casa sua”,
ritenne necessario precisare. Di
certo era il mio ultimo pensiero quello di sedermi a tavola con i suoi
genitori
come se fossimo stati un’allegra famiglia felice…
Mi venivano i brividi
semplicemente nell’immaginarla, una simile visione alla
Mulino Bianco.
“Tranquillo, ti chiamo fra
un paio d’ore. Ciao”, lo salutai,
sporgendomi verso di lui e lasciandogli un bacio schioccante sulla
guancia.
Scivolai giù dall’auto e richiusi lo sportello
alle mie spalle, attraversando
la strada e raggiungendo il portico di casa D’Angelo. Presi
un profondo respiro
e premetti il dito sul citofono, continuando tuttavia a sentire il
rombo del
motore dell’auto di mio padre dietro di me. Se lo conoscevo
bene, avrebbe
aspettato che qualcuno mi aprisse la porta per potersene andare, dunque
non
potevo neanche cambiare idea all’ultimo minuto e fuggire
via… E fu mentre ero
preda di queste considerazioni che la porta si aprì, facendo
apparire
sull’uscio proprio Betta, la matrigna di Enrico.
“Giulia! Cara, che bella
sorpresa”, esclamò sinceramente –
sinceramente sorpresa, intendo. “Quello è tuo
padre? Salve!” Esclamò poi,
sollevando una mano e agitandola in direzione di mio padre. Mi voltai
anch’io
per salutarlo e fargli silenziosamente cenno di andar via,
così dopo aver
salutato entrambe con uno strombettio del clacson lo vidi sparire
dietro
l’angolo. E adesso avevo perso anche il mio unico alleato!
“Su, su, non restiamo qui
fuori. Vieni, accomodati”, continuò
gentile, facendomi cenno di entrare per poi chiudere la porta e farmi
apprezzare la frescura che si respirava dentro casa.
“Mi scusi per il disturbo,
Betta, avrei dovuto telefonare ma non
conoscevo il vostro numero…” Mi giustificai,
stringendo i manici della mia
borsa per mantenere le mani occupate.
“Ma figurati, non dirlo
neanche per scherzo! Vieni in cucina, ti
offro qualcosa. Cosa preferisci, un tè, un caffè,
qualcosa di più forte?”
Aggiunse con un sorrisetto malizioso, facendomi strada. Il corridoio
era molto
ordinato ed elegante, c’erano quadri che rappresentavano
paesaggi o signore di
epoche passate, foto in bianco e nero, mobili con specchi e vasi di
fiori,
soprammobili e ninnoli d’argento come si potevano trovare
dovunque; insomma,
una casa normalissima, con mobili normalissimi… Che cosa mi
aspettavo di
trovare? Un’esposizione di armi da fuoco e teste di cervi
appese alle pareti?
Dandomi silenziosamente della stupida,
seguii Betta fino alla
cucina che era senza dubbio molto bella, elegante ma moderna allo
stesso tempo.
Mi fece cenno di accomodarmi su uno degli sgabelli della penisola che
divideva
l’angolo cottura dalla zona pranzo, e senza quasi aspettare
una mia risposta
prese ad armeggiare con caffettiere, zucchero e bicchieri.
“Allora, cosa
gradisci?” Mi chiese nuovamente, voltandosi con un
gran sorriso come se avesse appena realizzato che non le avevo ancora
risposto.
“Il caffè
andrà benissimo, grazie.” Replicai, ricambiando il
sorriso un tantino intimidita.
“Perfetto, lo prendo anche
io. Ti va bene se non è decaffeinato? Perché
non credo che ci sia quello, in dispensa…” Fece
poi, aggrottando la fronte
preoccupata.
“Oh, certo, certo, non lo
prendo mai decaffeinato”, mi affrettai a
rispondere, sorridendo con un po’ meno di agitazione. Ecco,
stava andando bene,
no? Fra pochi minuti avrei potuto prendere l’argomento che mi
premeva di più.
Forse, se avessi trovato il coraggio…
“Perfetto.”
Ripeté con l’ennesimo sorriso, dandomi le spalle e
preparando la caffettiera. Fece il tutto canticchiando a mezza voce,
così io
ebbi tutto il tempo per studiare l’ambiente e osservare
meglio la donna che
aveva sposato il padre di Enrico. Lui ne parlava sempre come una
seconda mamma
amorevole e gentile, e non mettevo in dubbio che questo fosse vero
– si vedeva
che era una persona splendida – ma sinceramente io non sapevo
se sarei stata
capace di accettare così ciecamente che qualcuno prendesse
il posto di mia
madre… Forse parlavo così perché non
sapevo cosa si provava, o perché avevo una
mentalità già più adulta e con le idee
più chiare di quelle che poteva avere un
bambino di otto anni.
“Allora!” La sua
voce mi fece tornare con i piedi per terra,
obbligandomi a prestarle attenzione. “Visto che a lui certe
cose non posso
chiederle, mi permetto di indagare con te… Si sta
comportando bene Enrico?
Guarda, mi basta una tua parola e te lo rimetto in riga!”
Rimasi leggermente sconcertata per
quell’improvviso salto al
nocciolo della questione, ma poi non potei fare a meno di ridacchiare
nell’afferrare il senso delle sue parole. “No no,
ci mancherebbe altro… Va
tutto bene”, fu l’unica cosa che potei rispondere.
Di certo non potevo parlare
con sua madre di tutte le mie fisime mentali!
“Mi fa piacere”,
sorrise di nuovo lei, improvvisamente addolcita. “Non
dirgli che te l’ho detto, per carità, ma ho capito
che lo stai facendo penare e
fai bene! Una ragazza deve farsi desiderare, e l’uomo deve
capire chi è che ha
il comando del gioco”, proseguì, abbassando la
voce con fare cospiratorio.
Era appurato: Betta mi piaceva.
Arrossii un po’ imbarazzata
e sollevai le spalle, senza ben sapere
cosa dire. Per fortuna, il rumore del caffè che saliva e
della caffettiera che
sbuffava mi levò dall’impiccio di rispondere.
Betta preparò le tazzine, le mise
su un vassoietto di legno insieme alla zuccheriera e ai cucchiaini e
portò il
tutto davanti a me, prima di prendere posto sullo sgabello frontale al
mio.
Dopo i convenevoli di rito –
quanto zucchero, eccetera – e aver
assaggiato due sorsi di caffè, posai la mia tazza sul
piattino e presi un
profondo respiro. “A proposito di
Enrico…” Esordii con cautela, senza sollevare
lo sguardo per non incrociare quello della donna. “Sono
venuta per sapere come
sta. Non si è fatto sentire da un po’, e non
è da lui, e ho pensato che potesse
essere… ecco, non so, malato?” Conclusi
miseramente, sentendomi sempre più
imbarazzata ad ogni parola che mi usciva di bocca.
Betta si era fatta stranamente
silenziosa e il rumore del suo
cucchiaino che ruotava nella tazzina per sciogliere lo zucchero
rallentò
notevolmente, graffiando il fondo. “Pensavo che te
l’avesse già raccontato lui,
e che fossi venuta apposta per vederlo”, replicò
lei dopo un po’, usando se
possibile più prudenza di quanta ne avessi usata io.
Allora sollevai gli occhi su di lei,
improvvisamente allarmata.
“Perché? Cosa…
Cos’è successo?”
La vidi chiaramente mordicchiarsi il
labbro inferiore, palesemente
in lotta contro sé stessa, dopodiché
abbandonò caffè e cucchiaino e si alzò
in
piedi, accennando un sorriso che era solo l’ombra di quelli
che l’avevano
preceduto. “Vado a controllare se si è svegliato,
così lo vedrai di persona e
smetterai di preoccuparti”, cercò di rincuorarmi,
benché il tentativo fosse, lo
ammetto, inutile. “Finisci il caffè, cara, faccio
in un attimo.”
Inutile dire che la voglia di bere
caffè mi era improvvisamente
passata.
Mi alzai dallo sgabello,
perché stare seduta non avrebbe giovato
al mio attuale stato d’animo; iniziai a gironzolare avanti e
indietro per la
cucina, mordicchiandomi le unghie e cercando di capire per quale motivo
Betta
avesse fatto quella faccia quando le avevo chiesto di Enrico. Che cosa
diavolo
gli era successo? Se avesse avuto un semplice incidente me
l’avrebbe detto, no?
Ma, visto che non l’aveva fatto, non potevo che prendere in
considerazione
l’idea che c’entrassero davvero i suoi loschi
traffici… Accidenti a me, perché
mi ero fatta trascinare in tutta quella storia? Che avevo fatto di male
nella
mia vita precedente?
Con un sospiro mi avvicinai alla
porta-finestra, affacciandomi
verso l’esterno e scoprendo un cortile interno sul quale si
affacciavano altre
abitazioni – stranamente, tutte con serrande abbassate e
finestre chiuse, come
se non ci abitasse nessuno: magari i proprietari erano tutti in
vacanza,
d’altra parte eravamo appena ai primi di settembre. Ero
perfettamente
consapevole di fare quelle considerazioni per tenere la mente occupata
e non
pensare ad Enrico, ma mentre osservavo il porticato che percorreva il
perimetro
del cortile, come gli antichi chiostri dei monasteri, mi
colpì il pensiero che
forse, molto semplicemente, Enrico non voleva più vedermi,
si era già stancato
di me! Ma certo, come avevo fatto a non pensarci subito? E io, che
idiota, mi
ero anche preoccupata e avevo subito pensato al peggio…
Adesso Betta sarebbe
tornata in cucina e mi avrebbe detto che lui stava ancora dormendo e
che
sarebbe stato meglio, per me, tornare un’altra
volta… ma in realtà io avrei
saputo benissimo che Enrico le aveva detto di non volermi vedere e di
inventarsi una scusa per mandarmi via! Sì, sì,
doveva essere per forza così!
Finalmente era tutto finito, e io
sarei potuta tornare alla mia
vita di sempre, ai miei amici, anche al mio studio, senza avere
ulteriori
problemi da gestire. Ah, da quanto tempo stavo aspettando quel momento?
Avrei
voluto sospirare di sollievo, ma stranamente non ci riuscii: il sospiro
venne
naturale, certo, ma non ero sicura che si trattasse di un sospiro di
liberazione, dato che invece di alleggerirmi da quel peso che avevo sul
petto
sembrò accentuarlo. Che strano… Davvero molto,
molto strano. Aggrottai le
sopracciglia, sempre fissando un punto indefinito del cortile, cercando
di
capire perché quella scoperta non sembrava rilassarmi come
invece avevo
immaginato che facesse, ma prima di potermi inoltrare anche in quei
ragionamenti sentii i passi di qualcuno scendere le scale e dirigersi
verso la
cucina, e poi la voce di Betta far breccia nel mio silenzio.
“Vieni, Giulia, Enrico si
è svegliato! Scusa se ti ho fatto
aspettare”, aggiunse con un mezzo sorriso, palesemente
più tranquilla e serena
di com’era stata poco prima.
Beh, non mi aspettavo neppure quello
– perché non mi aveva fatto
mandare via? Accennando un sorriso per non far preoccupare Betta,
annuii e la
seguii docilmente attraverso un altro piccolo corridoio e poi fino alle
scale,
che tuttavia mi lasciò percorrere da sola.
“Ultima porta a sinistra del
corridoio, accanto allo specchio a
muro”, mi spiegò, sorridendo e facendo anche un
occhiolino malizioso.
“Grazie…”
Risposi, cercando di non arrossire. Iniziai a fare le
scale e a contare silenziosamente i gradini, una cosa che facevo
sempre, sin da
quando avevo memoria, in tutte le scale che mi ritrovavo a percorrere,
e dopo
aver appurato che ci vollero venticinque gradini per arrivare al primo
piano,
mi guardai intorno e poi girai a sinistra.
Anche qui, il corridoio non aveva
nulla di preoccupante; c’erano
appendiabiti con giacche e giubbotti maschili, mobili in legno con
altre foto
ma in minore quantità rispetto al piano di sotto, una
piccola vetrinetta con
oggettini d’argento, cristallo e cose varie, e quadri con
foto color seppia di
spiagge, scogliere e panorami che io riconobbi come scorci del nostro
paese.
Chissà chi le aveva scattate? Non credevo che Enrico avesse
anche l’hobby della
fotografia. Comunque non avevo tempo di inventarmi altri sciocchi
argomenti, ne
avevo già abbastanza nel mio ordine del giorno di roba di
cui parlare. Giunta
davanti alla porta di Enrico sollevai una mano ma rimasi per cinque
minuti
buoni in quella posizione, immobile, senza osar palesare la mia
presenza. Mi
rendevo conto che mi ero messa da sola in quella situazione? Che ero
finita di
mia volontà nella tana dei serpenti? Certo, non ero stupida,
me ne accorgevo
perfettamente. Però tra il riconoscere una cosa e trovare il
coraggio di
portarla fino in fondo ce ne passava di mare, in mezzo…
Non avevo problemi ad ammettere di
essere una codarda, insomma,
che male c’era? Per cui abbassai la mano e indietreggiai di
un passo, già
pronta ad inventarmi una scusa e andare via… Ma
così sarebbe stato troppo
facile, vero?
“Entra, Giulia, lo so che
sei lì fuori…” Fece la voce profonda di
Enrico, attraversando il legno della porta e pietrificandomi in mezzo
al
corridoio. Merda!
A quel punto non potevo più
posticipare il momento critico, quindi
abbassai la maniglia ed entrai quasi in un unico movimento, con lo
stesso gesto
secco e deciso che fanno i dentisti per togliervi un dente.
“Però, che
udito”, ironizzai non appena misi piede nella sua
stanza, rimanendo tuttavia a distanza di sicurezza contro la porta.
“Beh, ti ho sentita salire
le scale e fare tutto il corridoio,
dubitavo che ti fossi volatilizzata proprio davanti alla mia
stanza”, ribatté
con un sorrisetto.
Mentre mi rispondeva, registrai che la
sua camera da letto era
almeno il doppio, per non dire il triplo, della mia. Un armadio, di
quelli con
le ante a scrigno, occupava tutta una parete, e possedeva uno specchio
alto e
stretto che divideva a metà il mobile; la scrivania era
sulla parete opposta, e
sopra c’era solo un computer con lo schermo ultrapiatto che
le dava un aspetto
ordinato ed elegante, mentre nelle mensole al di sopra di essa
c’erano DVD a profusione, libri e una macchina
fotografica professionale – il
che quindi mi confermava l’altro hobby, quello umano,
di Enrico. Due porte si trovavano ai lati della scrivania,
che supposi essere una quella del bagno e l’altra quella di
una cabina armadio
o semplicemente di un ripostiglio. Infine, il letto matrimoniale era
posto
proprio al centro della stanza, con la testiera contro il muro e sotto
una
finestra larga e bassa, e sopra il letto, ovviamente, c’era
lui, seduto in
mezzo ai cuscini. Ah, e di fronte al letto c’era
un’altra parete-libreria con
al centro un’enorme televisore al plasma. Già,
perché privarsene?
Tornando ad Enrico, vidi chiaramente
che non era in ottima forma.
A parte il pallore del viso e le occhiaie scure, che comunque non gli
avevo mai
visto, sembrava avere il braccio sinistro un po’ troppo
rigido, come se gli
facesse male o fosse bendato strettamente; purtroppo, dato che
indossava una
maglietta a maniche corte, non potevo vedere se la spalla era fasciata
o cose
del genere.
“Stavo sperando che ti fossi
riaddormentato”, inventai per
rispondere alla sua provocazione, anche se la cosa aveva un fondo di
verità.
Mi aspettavo che ridacchiasse o che
replicasse con qualche altra
battuta maliziosa, e invece si limitò a sorridere e a farmi
cenno di
raggiungerlo, battendo la mano destra sul materasso per incitarmi a
sedermi lì.
Beh, se stava male non poteva di certo approfittarne, no?
Presi posto sul bordo del letto,
mantenendo comunque una certa
distanza di sicurezza, e intrecciai le mani in grembo, studiando Enrico
da
vicino e ignorando il sorrisetto con il quale stava ricambiando il mio
studio
silenzioso. “Allora, cosa ti è
successo?” Sbottai, forse un po’ più
duramente
di quanto volessi. “Tua madre… Betta…
Mi ha fatto capire che credeva che tu mi
avessi già raccontato ogni cosa e che fosse per questo che
sono venuta, ma tu
non mi hai detto niente, e non credi che sia il caso di
farlo?”
Enrico sembrò piuttosto
sorpreso per la mia mezza sgridata.
“Accidenti… Eri preoccupata per me?
Davvero?” Fu la cosa più intelligente che
riuscì a dire, riprendendo l’espressione a
metà tra l’arroganza e la
provocazione.
“Perché questo
tono sorpreso?” Lo aggredii quasi, alzandomi per
evitare di scrollarlo come le mie mani mi stavano implorando di fare.
“Dici che
vuoi frequentarmi, che ti piacerebbe se fossimo una coppia normale, e
poi
quando succedono i casini non mi dici niente e pretendi anche che io
non mi
preoccupi? Cazzo, Enrico, stare insieme non è solo andare a
cena fuori e
baciarsi! Se è così che hai intenzione di farla
continuare, questa cosa, allora
è meglio se la finiamo qui!”
Il mio sfogo mi aveva preso talmente
alla sprovvista che non mi accorsi
subito di ciò che mi era uscito di bocca, né
tantomeno del significato che
avevano quelle parole. Mio Dio, gli avevo davvero fatto capire che io
ci
consideravo una coppia? A giudicare dall’espressione
sbalordita – e anche un
po’ compiaciuta, dannazione a lui! – di Enrico, sì, era esattamente quello che
avevo appena fatto. Anche se non
sapevo cosa fosse peggio, tra quello e la scenata da fidanzatina
apprensiva.
Mi passai nervosamente una mano tra i
capelli e mi allontanai dal
letto, avvicinandomi alla scrivania e continuando a dare le spalle a
Enrico per
evitare di ritrovarmi a fissarlo. Adesso mi avrebbe torturato
all’infinito
ricordandomi quella scenata, ne ero certa! Se anche era esistita una
via di
scampo a quella storia malsana che stava uscendo fuori tra me e lui,
non
c’erano dubbi che l’avessi appena persa. Non era
stata una grande idea quella
di andare a trovarlo, dopotutto.
Fu lui il primo a riprendere la parola
dopo quello sfogo. “Mi
dispiace, Giulia. Avrei dovuto avvisarti”, disse con un tono
sorprendentemente
gentile, che non mi aspettavo. “Ma ho perso il cellulare e
non sapevo come
rintracciarti, inoltre… Pensavo ti avrebbe fatto piacere
passare qualche giorno
in tranquillità, senza avermi tra i piedi.”
Il modo quasi prudente con cui
pronunciò quell’ultima frase mi
strappò un mezzo sorriso sarcastico che, grazie al Cielo,
lui non poté vedere. “Come
faccio a stare tranquilla se so che ogni volta che tu e i tuoi amici vi
incontrate non è per guardare insieme una
partita?” Ribattei in un sussurro,
aggrappandomi al bordo di legno della scrivania e abbassando
leggermente le
spalle.
Il suo silenzio confermò i
miei timori, e a quella consapevolezza
fece eco un brivido che mi corse lungo la spina dorsale. Sarebbe
stato ogni volta così, se quello strambo rapporto si
fosse…
evoluto? Avrei dovuto vivere per sempre nel terrore di non
vederlo
ritornare a casa, un giorno, dopo una di quelle
serate?
“Per favore, vieni qui.
Giulia… Torna a sederti, mi fa troppo male
la gamba per alzarmi”, disse dopo un po’ con
incredibile dolcezza, spingendomi
mio malgrado a voltarmi e a raggiungerlo seppur con non poca
incertezza.
Qualcosa nella mia espressione dovette colpirlo, perché per
quanto possibile
cercò di raddrizzarsi spingendo la schiena contro i cuscini
e si avvicinò di
più al bordo del letto, dove io mi ero appena riseduta.
“Ascolta, non è
successo niente, va bene? Guarda, sono tutto
intero, un po’ dolorante forse, ma niente di
grave”, proseguì ostinato,
passandomi un braccio intorno alla vita ma senza riuscire a farmi
sollevare gli
occhi su di lui. Stavo cercando di non sfogare lo stress e lo shock di
quelle
nuove scoperte e di non scoppiare a piangere, ecco qual era la
verità, non
volevo di certo che lui mi vedesse in quelle condizioni!
“Giulia, guardami
almeno. Cosa ti costa?” Insisté.
Sospirai seccata ma gli obbedii, anche
se così facendo mi accorsi
che eravamo troppo vicini per poter instaurare una vera e propria
discussione.
“Insomma, si può sapere cosa cavolo è
successo? Pensi di dirmelo entro oggi?”
Lo incalzai a mia volta, scoprendo che il mio livello di pazienza
doveva
essersi abbassato notevolmente, negli ultimi tempi.
“E tu sei sicura di volerlo
sapere?” Replicò, pronto.
“Perché un
conto è venirle a sapere dagli altri, certe cose, e un altro
è conoscerle nude
e crude dal diretto interessato; e io non voglio in nessun modo che
quello che
faccio ostacoli o pregiudichi la nostra relazione.”
Oddio, aveva letto le parole magiche
– aveva detto nostra e relazione tutte attaccate e nella stessa
frase, per di più, e io
non ero neppure nella presenza di spirito di dirgli qualcosa per
contraddirlo!
Comunque decisi per il momento di lasciar perdere quella faccenda e di
dedicarmi all’altra, assai più urgente. Mi
districai dal suo abbraccio e
scivolai a sedermi più giù, all’altezza
delle sue ginocchia, tanto per
intenderci, a una distanza sufficientemente sicura da permettermi di
guardarlo
in faccia e contemporaneamente di scampare alle sue mani polipose. Non
era una
cosa carina da pensare, me ne rendo conto, ma al momento desideravo
ridurre al
minimo sindacale i contatti fisici. Non si può litigare con
qualcuno che ti sta
abbracciando!
“La nostra relazione, come
la chiami tu, è stata pregiudicata da
questo sin da quando è iniziata”, esordii,
riuscendo persino a suonare piuttosto
decisa. “Se tu non fossi stato… così…
Non mi avresti mai rapita e costretta a frequentarti, tanto per dirne
una,
quindi ritengo che i tuoi rimorsi arrivino un po’ in ritardo.
Ora, se vuoi
parlare benissimo, ti ascolto! Ma se non mi vuoi spiegare per quale
motivo sei
in queste condizioni, come se ti fossero passati sopra con
un’auto, allora non
vedo perché dovrei restare a fingere che vada tutto bene. Non va tutto bene, Enrico, mettitelo in
testa.”
Sembrava proprio che il mio breve
discorsetto avesse fatto breccia
nel suo muro di cemento, e non potei che sentirmi intimamente
orgogliosa al
riguardo. Il suo viso si era fatto una maschera di cera, pareva essersi
immunizzato da qualunque espressione, ma mi sembrava quasi di poter
scorgere
nei suoi profondi occhi verdi una qualche lotta interiore che stava
assorbendo
i rimasugli delle sue forze. Bene, era ora che mettesse un minimo in
discussione le sue azioni!
“A quanto pare sono
indifendibile”, ammise alla fine, senza alcuna
traccia di sarcasmo o presa in giro nel tono di voce. Mi
fissò dritto negli
occhi e da quello compresi che aveva intenzione di svuotare il sacco,
per cui
mi feci tutta orecchi. “Va bene, ti racconterò
tutto: tanto non c’è molto da
dire. Sabato sera io e i ragazzi siamo usciti per i nostri
affari…
Probabilmente Riccardo ti ha già spiegato ogni cosa,
comunque voglio
rinfrescarti la memoria: vendiamo droga. La vendiamo perché
quello degli
stupefacenti è un mercato che diventa più
redditizio ogni anno che passa, se si
è abbastanza abili da non abbassarsi ai livelli di chi li
compra. Nessuno dei
miei ne ha mai assaggiato un solo grammo, credimi, da quel punto di
vista siamo
perfettamente puliti. Dunque, tornando a sabato… Siamo
andati al solito posto e
ci siamo divisi: io ero con Stefano e Alberto, gli altri erano sparsi
per il
locale. All’inizio la serata sembrava tranquilla, per quanto
possa esserlo un
posto dove si spaccia e dove i bagni sono il punto di ritrovo di quella
gente…
Ma poi, dal nulla, sono sbucati fuori
un paio di tizi che non avevo mai visto prima e che ci hanno intimato
di uscire
nel parcheggio, minacciando, in caso contrario, di sputtanarci con i
proprietari del locale. A quel punto dubitavo che sapessero che ero
praticamente io il proprietario, comunque per non mettere in pericolo
le
persone che stava cercando di divertirsi abbiamo preferito uscire e
assecondarli; noi eravamo in tre, loro solo in due, quindi non mi
è sembrato
necessario chiamare anche Lorenzo e gli altri.
“Ovviamente, avrei dovuto
immaginare che dei tipi così non
avrebbero affrontato me e i miei ragazzi a mani vuote e senza prima
essersi
organizzati, ma a mia discolpa posso dire che credevo fossero leali
anche in
una cosa come quella. Invece no. Non appena ci siamo allontanati il
tanto
necessario da essere fuori portata dai buttafuori, siamo stati
raggiunti dai
loro complici, altri cinque poveracci che avevano voglia di passare un
sabato
sera diverso. Abbiamo cercato di essere civili e parlare, ma quelli
hanno
tirato fuori i coltelli e sono passati alle maniere forti. Capisci che
non
potevamo fare altro che contraccambiare…
“Comunque, non è
morto nessuno. Noi non avevamo coltelli e, pur di
non ricorrere ad altro, ci siamo limitati a schivarli e stenderli con
calci e
pugni, ma mi hanno preso di striscio al braccio”, si
toccò leggermente la
spalla sinistra, socchiudendo gli occhi come se il ricordo gli facesse
ancora
male. “Appena hanno visto la mia camicia macchiarsi di sangue
sono fuggiti.
Probabilmente volevano solo menare un po’ le mani e non
volevano uccidere
nessuno, e credo che non torneranno più a darci fastidio.
Hanno voluto fare
un’uscita in grande stile, però, e mentre
scappavano in macchina ci sono venuti
addosso e mi hanno spinto per terra, per questo ho sbattuto la gamba e
non
riesco a muoverla bene, ci sono finito sopra con tutto il peso. Il
cellulare
devo averlo perso quando sono caduto.”
Lo fissai a dir poco inorridita. Non
sapevo che cosa si aspettasse
che dicessi o facessi, ma sicuramente doveva aver messo in conto che mi
sarei
scostata non appena avesse cercato di toccarmi.
“Giulia…”
Mi ammonì a mezza voce, con l’aria di chi stava
pensando: ‘Visto? Sei tu che hai
voluto
sapere, adesso non fare la vittima delle circostanze’.
Sollevai una mano per zittire
qualsiasi cosa volesse aggiungere.
“Per favore. Lasciami cinque minuti per assorbire il
tutto”, borbottai,
alzandomi in piedi e facendo un sospiro così profondo che mi
sentii svuotare i
polmoni per una manciata di secondi. Mi poggiai sul davanzale della
finestra e
mi afferrai la testa tra le mani, chiudendo gli occhi: avevo
l’impressione di
essermi appena destata da un incubo lungo e sanguinoso, ma la
sensazione di
nausea l’aveva provocata la consapevolezza che fosse tutto
vero.
“E hai anche avuto il
coraggio di dirmi di non preoccuparmi?”
Aggiunsi amaramente dopo un lungo intervallo di silenzio, senza
tuttavia
voltarmi verso di lui ma continuando a fissare il nero delle mie
palpebre
chiuse. Non mi accorsi subito di stare tremando come una foglia.
Mi parve di udire un gemito soffocato,
un leggero tonfo e uno
spostamento d’aria quando Enrico mi raggiunse alla finestra,
fermandosi alle
mie spalle; quel letto doveva avere le doghe in legno, visto che non
avevo
sentito lo scricchiolio tipico della rete in metallo quando si era
alzato.
“Giulia.”
Ripeté, stavolta con un’intonazione più
gentile. Ma io
scossi la testa, senza rispondere né tantomeno girarmi,
desiderando solo di
essere miglia e miglia lontana da lui e da tutti i casini in cui,
volente o
nolente, mi stava trascinando. Buon Dio, mi aveva appena raccontato di
quella
specie di regolamento di conti con la stessa nonchalance con cui io gli
avrei
raccontato della scuola! Non era normale, cazzo, non era normale per
niente!
Allora, senza dar segno di aver
compreso i miei desideri, si
avvicinò e premente contro la mia schiena facendola aderire
al suo petto, mi
circondò la vita con il braccio che non gli faceva male e mi
strinse contro di
sé, seppellendo il viso tra i miei capelli. Lo sentii
respirare piano nella
zona delicata tra l’orecchio e la pelle del collo, e le sue
labbra che si
muovevano contro quel punto mi fecero il solletico.
“Va tutto bene, tesoro,
tutto bene”, stava sussurrando, dolce come non
l’avevo mai sentito. “Ti chiedo
scusa per non averti detto niente, ma ora capisci il motivo per cui non
l’ho
fatto?... Non voglio che questo ci separi, Giulia, so anche che non
posso
chiederti di accettarlo, o capirlo, ma solo di prenderla
così com’è, come una
parte di me che non puoi cambiare, come il mio naso o la mia
bocca…” Il flebile
tentativo di scherzare morì ancora prima di poter essere
recepito. “So soltanto
che ti voglio al mio fianco. So che è una cosa egoista, ma
voglio che ti
preoccupi per me come hai fatto oggi, voglio che sia sempre
così… Ormai non
riesco più ad immaginarmi senza di te. Capisci quello che ti
sto dicendo? …non
importa, lo capirai. Giulia, Giulia… Puoi piangere, se vuoi.
Basta che lo fai
contro di me, così… Ecco.”
Solo in quel momento mi accorsi che le
lacrime avevano
effettivamente preso il largo, e allora non riuscii più a
frenarle né a
trattenermi, dato che avevano già atteso abbastanza per
poter uscire. La triste
realtà era che quel pianto era stato causato da Enrico, ma
purtroppo qualcosa
mi diceva che lui era anche l’unico che poteva capirle e
asciugarle. Rimasi a
piangere in quella posizione per non so quanto tempo, senza muovermi
né voltarmi,
continuando a nascondere il viso tra le mani e trattenendo almeno i
singhiozzi
più violenti, con Enrico piegato contro la mia schiena e le
sue braccia,
entrambe, avvolte attorno a me. Come un guscio protettivo.
Enrico… Protettivo?
Stavolta ero davvero in guai seri.
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Angolo Autrice.
Ebbene, non ho scusanti per il terribile ritardo con cui mi presento nuovamente.
Molti di voi si saranno comprensibilmente dimenticati di me, di questa storia, di Enrico e di Giulia, ma a coloro che sono eroicamente sopravvissuti all'attesa dico: questo capitolo è la mia Chiave di Volta, per finire non manca molto, forse quattro o cinque capitoli, e - spero - non li pubblicherò a distanza di otto mesi l'uno dall'altro. Ma, conoscendomi, non si può mai sapere....
Grazie ai gentilissimi che hanno recensito lo scorso capitolo, grazie a chi continua ad aggiungere la mia storia alle Seguite o alle Preferite, il piacere che mi fate anche a distanza di tutto questo tempo è talmente grande che non sono capace di descriverlo!
Con la speranza di risentirci il prima possibile, vi lascio anche stavolta con un bacio e un abbraccio. Sempre vostra,
Niglia.