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Autore: Niglia    04/05/2012    14 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo XXVI

 











 

 

 

 

 

Se qualcosa può andar male, lo farà.

[Primo Assioma della Legge di Murphy]

 

Mi faceva piacere che la relazione di Alessandra con il suo Riccardo stesse procedendo a gonfie vele. In uno dei pochi momenti liberi che avevamo entrambe, e che eravamo riuscite a far coincidere, la mia amica mi aveva raccontato con una buona dose di imbarazzo, felicità ed esultanza di aver risolto già da qualche settimana il “problema-prima-volta”, ma d’altronde lei il suo ragazzo lo amava, quindi io continuavo a non riuscire ad applicare quella soluzione alle mie attuali circostanze.

Per cui adesso rimanevo solo io quella con un’attività sessuale pari allo zero virgola zero. Non che per me fosse un grande problema; anzi, a dir la verità non occupava neppure uno dei primi dieci punti nella lista delle mie priorità – credo piuttosto che si trovasse tra il terzultimo e il penultimo. Adesso, trovavo più urgente il dovermi preoccupare dell’imminente rientro a scuola e dell’imminente esame di teoria della patente.

Nel riprendere in mano i miei libri, avevo avuto una strana sensazione di estraneità che in un primo momento mi aveva lasciata piuttosto disorientata; pensare di dover studiare normalmente come una qualsiasi diciottenne che si appresta a frequentare il suo ultimo anno del liceo stonava terribilmente con tutto quello che avevo affrontato fino a quel momento, e cioè, rispettivamente: un rapimento, un ostinato “corteggiatore” che per hobby spacciava, minacciava e – per quel poco che ne sapevo io – possedeva una pistola, la morte di mio nonno… Tutte le mie disavventure estive mi avevano destabilizzato non poco, dunque non si poteva certo pretendere che avessi la mente abbastanza libera e serena per poterla dedicare a un banalissimo studio.

Ad ogni modo, questo fu invece esattamente ciò che accadde.

Mia madre sembrò aver compreso alla perfezione il mio furioso dibattito interiore, forse perché negli ormai pochi momenti che trascorrevo a casa nell’illusione di non avere problemi, mi ritrovavo a gironzolare su e giù come un’anima in pena, senza, come diceva lei, “trovare un posto dove fare l’uovo”, dato che il mio nervosismo crescente mi impediva di rimanere ferma per più di cinque minuti nello stesso punto. Una mattina mi prese quindi da una parte e mi fece uno di quei discorsetti che si suppone le madri facciano alle loro figlie fidanzate ma con ancora l’impegno dello studio.

Non ripeterò parola per parola tutto quello che mi disse, perché quando mia madre iniziava una delle sue arringhe potevano trascorrere delle ore. Il succo dell’intero discorso, comunque, riguardava il fatto che lei non voleva in nessun modo che il mio “fidanzatino” – Dio, sì, furono proprio queste le sue parole – mi distraesse da cose più importanti come la scuola; insomma, era stata giovane anche lei, capiva che cosa succedeva quando la mente e gli occhi vedevano cuori dappertutto – sinceramente non avevo saputo come ribattere al riguardo, anche perché più che cuori io iniziavo a vedere dei teschi con le tibie incrociate sotto – e non mi rimproverava per questo. Tuttavia, non dovevo dimenticare che quest’anno avrei avuto l’esame di maturità, e per questo non potevo permettermi in alcun modo di distrarmi e dimenticare le mie priorità – giusto per tornare a quanto detto poco sopra; continuò asserendo che le sarebbe dispiaciuto se anche io avessi fatto il suo stesso errore, vale a dire perdere un anno di scuola e venire bocciata perché era stata troppo presa da mio padre.

Concluse il tutto dicendo che non metteva in dubbio la mia intelligenza, e che sapeva benissimo che io ero una ragazza con la testa sulle spalle – ciò nonostante, non poté trattenersi dal minacciarmi velatamente di impedirmi di vedere Enrico qualora i miei rendimenti scolastici iniziassero a scarseggiare. Ammetto che vidi in questo avvertimento un modo per fuggire impunemente dal mio Problema Numero Uno, ma così facendo avrei dovuto andare male a scuola eccetera pregiudicandomi gli esiti finali del Problema Numero Due.

Odiavo dover essere obbligata a scegliere tra i due mali minori.

Comunque il discorso con mia madre mi aveva aperto gli occhi e riportata con i piedi ben saldi per terra; avrei dovuto essere capace – o perlomeno avrei dovuto provarci – di far coesistere entrambi i Problemi nella mia vita senza che l’uno compromettesse l’altro. Detta così poteva anche sembrare fattibile, ma restava da vedere se la pratica fosse davvero semplice quanto la teoria lasciava intendere.

Avevo preso, dunque, l’importante decisione di mettermi con il sedere sulla sedia e riprendere a studiare, quando naturalmente dovette accadere qualcos’altro che mi facesse passare la voglia di farlo.

Di solito, o perlomeno da quando il nostro rapporto si era stretto ulteriormente, io e Enrico ci sentivamo parecchio; se non ci scambiavamo messaggi ventiquattrore su ventiquattro ci andavamo comunque molto vicini, e almeno un sms ogni sessanta minuti avvisava l’altro che tutto andava bene. In effetti messa così suonava un po’ paranoica e, beh, lo era, ma se non gli rispondevo correvo il rischio che lui andasse di matto – a meno che, ovviamente, non gli dicessi che avevo roba da fare – cose da studiare, ad esempio – e allora mi lasciava tranquilla. Salvo poi farsi risentire più tardi.

Ecco, il giorno non si fece proprio sentire. Era una domenica mattina come tante altre, per cui, anche se non mi aveva mandato il “messaggio del buongiorno”, non ci feci molto caso – magari stava ancora dormendo, la notte precedente era uscito con i suoi amici e per quanto ne potevo sapere io aveva fatto le ore piccole insieme a loro. Tuttavia, non si svegliò neppure a mezzogiorno, né nel primo pomeriggio, e neppure la sera; arrivata all’ora di cena, devo ammettere di essere stata parecchio preoccupata e anche in leggera agitazione. E non perché volessi tenerlo sotto controllo, santo Cielo, non mi chiamavo Enrico, ma molto semplicemente perché un simile silenzio, considerando che non ci vedevamo da due giorni – da venerdì – non era da lui.

Così, invece di studiare come mi ero proposta di fare, trascorsi l’intera giornata di lunedì a pensare e ripensare a cosa potesse essergli successo, tormentandomi all’idea che c’entrasse la sua seconda vita, senza tuttavia avere il coraggio di mandargli un messaggio per prima. Chiedere consiglio ad Alessandra era fuori discussione; mi sembrava già di vedere la sua espressione scioccata mentre mi chiedeva, gentilmente, se fossi per caso impazzita. Da quando mi preoccupavo per il mio stalker personale? Da quando eravamo diventati ancora più intimi, all’incirca una settimana prima, quando aveva abbassato tutte le sue difese per parlarmi della madre. Non so se era dovuto all’istinto da infermiera che possiedono quasi tutte le donne, e che consiste nel sentirsi stringere il cuore per gli uomini che hanno bisogno di noi; quale che fosse la ragione, ero preoccupata e il mio orgoglio poteva benissimo andare a farsi benedire.

Non fu facile giungere a quella conclusione, lo ammetto, ma visto che neppure nella giornata di lunedì Enrico si era fatto sentire decisi di farmi accompagnare a casa sua per vedere di persona come stava o, eventualmente, chiedere ai suoi genitori. Una cosa da fidanzati, insomma. Oh, Dio!

Personalmente non avevo idea di dove abitasse, ma mio padre per fortuna sì. L’avevo visto aggrottare appena le sopracciglia quando aveva capito che volessi essere accompagnata a casa degli Occhi Belli – ormai si era informato sulle prime tre generazioni dei D’Angelo, conosceva perfettamente la loro reputazione, tanto per essere chiari, ma era dell’idea che i figli non dovessero essere pregiudicati dalle azioni dei parenti che li avevano preceduti; era chiaro che non fosse a conoscenza degli “hobby” di Enrico, ed io, da parte mia, non avevo nessuna intenzione di illuminarlo al riguardo.

Per chissà quale grazia della buona sorte, almeno lui si astenne dal farmi la paternale durante il breve viaggio in macchina; e solo quando parcheggiò sotto quella che, come mi disse, era casa Occhi Belli, mi fece notare che mi stavo presentando a casa del mio ragazzo – non feci nulla per smentirlo – a mani vuote. A dir la verità non mi era neppure passato per la mente che potessi come minimo portare dei pasticcini per la sua matrigna o suo padre, dato che il mio unico pensiero era quello di accertarmi che Enrico stesse abbastanza bene da poter sopportare la mia strigliata.

“Ero troppo preoccupata per pensare ai cioccolatini, pà”, fu quello che gli dissi, riuscendo per una volta a sfruttare quella situazione e volgerla a mio vantaggio. “Magari glieli porto domani.”

Tamburellando sul volante al ritmo della musica proveniente dalla radio, mio padre annuì. “Okay. Chiama quando vuoi andare via, non farti invitare a cena già il primo giorno che vai a casa sua”, ritenne necessario precisare. Di certo era il mio ultimo pensiero quello di sedermi a tavola con i suoi genitori come se fossimo stati un’allegra famiglia felice… Mi venivano i brividi semplicemente nell’immaginarla, una simile visione alla Mulino Bianco.

“Tranquillo, ti chiamo fra un paio d’ore. Ciao”, lo salutai, sporgendomi verso di lui e lasciandogli un bacio schioccante sulla guancia. Scivolai giù dall’auto e richiusi lo sportello alle mie spalle, attraversando la strada e raggiungendo il portico di casa D’Angelo. Presi un profondo respiro e premetti il dito sul citofono, continuando tuttavia a sentire il rombo del motore dell’auto di mio padre dietro di me. Se lo conoscevo bene, avrebbe aspettato che qualcuno mi aprisse la porta per potersene andare, dunque non potevo neanche cambiare idea all’ultimo minuto e fuggire via… E fu mentre ero preda di queste considerazioni che la porta si aprì, facendo apparire sull’uscio proprio Betta, la matrigna di Enrico.

“Giulia! Cara, che bella sorpresa”, esclamò sinceramente – sinceramente sorpresa, intendo. “Quello è tuo padre? Salve!” Esclamò poi, sollevando una mano e agitandola in direzione di mio padre. Mi voltai anch’io per salutarlo e fargli silenziosamente cenno di andar via, così dopo aver salutato entrambe con uno strombettio del clacson lo vidi sparire dietro l’angolo. E adesso avevo perso anche il mio unico alleato!

“Su, su, non restiamo qui fuori. Vieni, accomodati”, continuò gentile, facendomi cenno di entrare per poi chiudere la porta e farmi apprezzare la frescura che si respirava dentro casa.

“Mi scusi per il disturbo, Betta, avrei dovuto telefonare ma non conoscevo il vostro numero…” Mi giustificai, stringendo i manici della mia borsa per mantenere le mani occupate.

“Ma figurati, non dirlo neanche per scherzo! Vieni in cucina, ti offro qualcosa. Cosa preferisci, un tè, un caffè, qualcosa di più forte?” Aggiunse con un sorrisetto malizioso, facendomi strada. Il corridoio era molto ordinato ed elegante, c’erano quadri che rappresentavano paesaggi o signore di epoche passate, foto in bianco e nero, mobili con specchi e vasi di fiori, soprammobili e ninnoli d’argento come si potevano trovare dovunque; insomma, una casa normalissima, con mobili normalissimi… Che cosa mi aspettavo di trovare? Un’esposizione di armi da fuoco e teste di cervi appese alle pareti?

Dandomi silenziosamente della stupida, seguii Betta fino alla cucina che era senza dubbio molto bella, elegante ma moderna allo stesso tempo. Mi fece cenno di accomodarmi su uno degli sgabelli della penisola che divideva l’angolo cottura dalla zona pranzo, e senza quasi aspettare una mia risposta prese ad armeggiare con caffettiere, zucchero e bicchieri.

“Allora, cosa gradisci?” Mi chiese nuovamente, voltandosi con un gran sorriso come se avesse appena realizzato che non le avevo ancora risposto.

“Il caffè andrà benissimo, grazie.” Replicai, ricambiando il sorriso un tantino intimidita.

“Perfetto, lo prendo anche io. Ti va bene se non è decaffeinato? Perché non credo che ci sia quello, in dispensa…” Fece poi, aggrottando la fronte preoccupata.

“Oh, certo, certo, non lo prendo mai decaffeinato”, mi affrettai a rispondere, sorridendo con un po’ meno di agitazione. Ecco, stava andando bene, no? Fra pochi minuti avrei potuto prendere l’argomento che mi premeva di più. Forse, se avessi trovato il coraggio…

“Perfetto.” Ripeté con l’ennesimo sorriso, dandomi le spalle e preparando la caffettiera. Fece il tutto canticchiando a mezza voce, così io ebbi tutto il tempo per studiare l’ambiente e osservare meglio la donna che aveva sposato il padre di Enrico. Lui ne parlava sempre come una seconda mamma amorevole e gentile, e non mettevo in dubbio che questo fosse vero – si vedeva che era una persona splendida – ma sinceramente io non sapevo se sarei stata capace di accettare così ciecamente che qualcuno prendesse il posto di mia madre… Forse parlavo così perché non sapevo cosa si provava, o perché avevo una mentalità già più adulta e con le idee più chiare di quelle che poteva avere un bambino di otto anni.

“Allora!” La sua voce mi fece tornare con i piedi per terra, obbligandomi a prestarle attenzione. “Visto che a lui certe cose non posso chiederle, mi permetto di indagare con te… Si sta comportando bene Enrico? Guarda, mi basta una tua parola e te lo rimetto in riga!”

Rimasi leggermente sconcertata per quell’improvviso salto al nocciolo della questione, ma poi non potei fare a meno di ridacchiare nell’afferrare il senso delle sue parole. “No no, ci mancherebbe altro… Va tutto bene”, fu l’unica cosa che potei rispondere. Di certo non potevo parlare con sua madre di tutte le mie fisime mentali!

“Mi fa piacere”, sorrise di nuovo lei, improvvisamente addolcita. “Non dirgli che te l’ho detto, per carità, ma ho capito che lo stai facendo penare e fai bene! Una ragazza deve farsi desiderare, e l’uomo deve capire chi è che ha il comando del gioco”, proseguì, abbassando la voce con fare cospiratorio.

Era appurato: Betta mi piaceva.

Arrossii un po’ imbarazzata e sollevai le spalle, senza ben sapere cosa dire. Per fortuna, il rumore del caffè che saliva e della caffettiera che sbuffava mi levò dall’impiccio di rispondere. Betta preparò le tazzine, le mise su un vassoietto di legno insieme alla zuccheriera e ai cucchiaini e portò il tutto davanti a me, prima di prendere posto sullo sgabello frontale al mio.

Dopo i convenevoli di rito – quanto zucchero, eccetera – e aver assaggiato due sorsi di caffè, posai la mia tazza sul piattino e presi un profondo respiro. “A proposito di Enrico…” Esordii con cautela, senza sollevare lo sguardo per non incrociare quello della donna. “Sono venuta per sapere come sta. Non si è fatto sentire da un po’, e non è da lui, e ho pensato che potesse essere… ecco, non so, malato?” Conclusi miseramente, sentendomi sempre più imbarazzata ad ogni parola che mi usciva di bocca.

Betta si era fatta stranamente silenziosa e il rumore del suo cucchiaino che ruotava nella tazzina per sciogliere lo zucchero rallentò notevolmente, graffiando il fondo. “Pensavo che te l’avesse già raccontato lui, e che fossi venuta apposta per vederlo”, replicò lei dopo un po’, usando se possibile più prudenza di quanta ne avessi usata io.

Allora sollevai gli occhi su di lei, improvvisamente allarmata. “Perché? Cosa… Cos’è successo?”

La vidi chiaramente mordicchiarsi il labbro inferiore, palesemente in lotta contro sé stessa, dopodiché abbandonò caffè e cucchiaino e si alzò in piedi, accennando un sorriso che era solo l’ombra di quelli che l’avevano preceduto. “Vado a controllare se si è svegliato, così lo vedrai di persona e smetterai di preoccuparti”, cercò di rincuorarmi, benché il tentativo fosse, lo ammetto, inutile. “Finisci il caffè, cara, faccio in un attimo.”

Inutile dire che la voglia di bere caffè mi era improvvisamente passata.

Mi alzai dallo sgabello, perché stare seduta non avrebbe giovato al mio attuale stato d’animo; iniziai a gironzolare avanti e indietro per la cucina, mordicchiandomi le unghie e cercando di capire per quale motivo Betta avesse fatto quella faccia quando le avevo chiesto di Enrico. Che cosa diavolo gli era successo? Se avesse avuto un semplice incidente me l’avrebbe detto, no? Ma, visto che non l’aveva fatto, non potevo che prendere in considerazione l’idea che c’entrassero davvero i suoi loschi traffici… Accidenti a me, perché mi ero fatta trascinare in tutta quella storia? Che avevo fatto di male nella mia vita precedente?

Con un sospiro mi avvicinai alla porta-finestra, affacciandomi verso l’esterno e scoprendo un cortile interno sul quale si affacciavano altre abitazioni – stranamente, tutte con serrande abbassate e finestre chiuse, come se non ci abitasse nessuno: magari i proprietari erano tutti in vacanza, d’altra parte eravamo appena ai primi di settembre. Ero perfettamente consapevole di fare quelle considerazioni per tenere la mente occupata e non pensare ad Enrico, ma mentre osservavo il porticato che percorreva il perimetro del cortile, come gli antichi chiostri dei monasteri, mi colpì il pensiero che forse, molto semplicemente, Enrico non voleva più vedermi, si era già stancato di me! Ma certo, come avevo fatto a non pensarci subito? E io, che idiota, mi ero anche preoccupata e avevo subito pensato al peggio… Adesso Betta sarebbe tornata in cucina e mi avrebbe detto che lui stava ancora dormendo e che sarebbe stato meglio, per me, tornare un’altra volta… ma in realtà io avrei saputo benissimo che Enrico le aveva detto di non volermi vedere e di inventarsi una scusa per mandarmi via! Sì, sì, doveva essere per forza così!

Finalmente era tutto finito, e io sarei potuta tornare alla mia vita di sempre, ai miei amici, anche al mio studio, senza avere ulteriori problemi da gestire. Ah, da quanto tempo stavo aspettando quel momento? Avrei voluto sospirare di sollievo, ma stranamente non ci riuscii: il sospiro venne naturale, certo, ma non ero sicura che si trattasse di un sospiro di liberazione, dato che invece di alleggerirmi da quel peso che avevo sul petto sembrò accentuarlo. Che strano… Davvero molto, molto strano. Aggrottai le sopracciglia, sempre fissando un punto indefinito del cortile, cercando di capire perché quella scoperta non sembrava rilassarmi come invece avevo immaginato che facesse, ma prima di potermi inoltrare anche in quei ragionamenti sentii i passi di qualcuno scendere le scale e dirigersi verso la cucina, e poi la voce di Betta far breccia nel mio silenzio.

“Vieni, Giulia, Enrico si è svegliato! Scusa se ti ho fatto aspettare”, aggiunse con un mezzo sorriso, palesemente più tranquilla e serena di com’era stata poco prima.

Beh, non mi aspettavo neppure quello – perché non mi aveva fatto mandare via? Accennando un sorriso per non far preoccupare Betta, annuii e la seguii docilmente attraverso un altro piccolo corridoio e poi fino alle scale, che tuttavia mi lasciò percorrere da sola.

“Ultima porta a sinistra del corridoio, accanto allo specchio a muro”, mi spiegò, sorridendo e facendo anche un occhiolino malizioso.

“Grazie…” Risposi, cercando di non arrossire. Iniziai a fare le scale e a contare silenziosamente i gradini, una cosa che facevo sempre, sin da quando avevo memoria, in tutte le scale che mi ritrovavo a percorrere, e dopo aver appurato che ci vollero venticinque gradini per arrivare al primo piano, mi guardai intorno e poi girai a sinistra.

Anche qui, il corridoio non aveva nulla di preoccupante; c’erano appendiabiti con giacche e giubbotti maschili, mobili in legno con altre foto ma in minore quantità rispetto al piano di sotto, una piccola vetrinetta con oggettini d’argento, cristallo e cose varie, e quadri con foto color seppia di spiagge, scogliere e panorami che io riconobbi come scorci del nostro paese. Chissà chi le aveva scattate? Non credevo che Enrico avesse anche l’hobby della fotografia. Comunque non avevo tempo di inventarmi altri sciocchi argomenti, ne avevo già abbastanza nel mio ordine del giorno di roba di cui parlare. Giunta davanti alla porta di Enrico sollevai una mano ma rimasi per cinque minuti buoni in quella posizione, immobile, senza osar palesare la mia presenza. Mi rendevo conto che mi ero messa da sola in quella situazione? Che ero finita di mia volontà nella tana dei serpenti? Certo, non ero stupida, me ne accorgevo perfettamente. Però tra il riconoscere una cosa e trovare il coraggio di portarla fino in fondo ce ne passava di mare, in mezzo…

Non avevo problemi ad ammettere di essere una codarda, insomma, che male c’era? Per cui abbassai la mano e indietreggiai di un passo, già pronta ad inventarmi una scusa e andare via… Ma così sarebbe stato troppo facile, vero?

“Entra, Giulia, lo so che sei lì fuori…” Fece la voce profonda di Enrico, attraversando il legno della porta e pietrificandomi in mezzo al corridoio. Merda!

A quel punto non potevo più posticipare il momento critico, quindi abbassai la maniglia ed entrai quasi in un unico movimento, con lo stesso gesto secco e deciso che fanno i dentisti per togliervi un dente.

“Però, che udito”, ironizzai non appena misi piede nella sua stanza, rimanendo tuttavia a distanza di sicurezza contro la porta.

“Beh, ti ho sentita salire le scale e fare tutto il corridoio, dubitavo che ti fossi volatilizzata proprio davanti alla mia stanza”, ribatté con un sorrisetto.

Mentre mi rispondeva, registrai che la sua camera da letto era almeno il doppio, per non dire il triplo, della mia. Un armadio, di quelli con le ante a scrigno, occupava tutta una parete, e possedeva uno specchio alto e stretto che divideva a metà il mobile; la scrivania era sulla parete opposta, e sopra c’era solo un computer con lo schermo ultrapiatto che le dava un aspetto ordinato ed elegante, mentre nelle mensole al di sopra di essa c’erano DVD a profusione, libri e una macchina fotografica professionale – il che quindi mi confermava l’altro hobby, quello umano, di Enrico. Due porte si trovavano ai lati della scrivania, che supposi essere una quella del bagno e l’altra quella di una cabina armadio o semplicemente di un ripostiglio. Infine, il letto matrimoniale era posto proprio al centro della stanza, con la testiera contro il muro e sotto una finestra larga e bassa, e sopra il letto, ovviamente, c’era lui, seduto in mezzo ai cuscini. Ah, e di fronte al letto c’era un’altra parete-libreria con al centro un’enorme televisore al plasma. Già, perché privarsene?

Tornando ad Enrico, vidi chiaramente che non era in ottima forma. A parte il pallore del viso e le occhiaie scure, che comunque non gli avevo mai visto, sembrava avere il braccio sinistro un po’ troppo rigido, come se gli facesse male o fosse bendato strettamente; purtroppo, dato che indossava una maglietta a maniche corte, non potevo vedere se la spalla era fasciata o cose del genere.

“Stavo sperando che ti fossi riaddormentato”, inventai per rispondere alla sua provocazione, anche se la cosa aveva un fondo di verità.

Mi aspettavo che ridacchiasse o che replicasse con qualche altra battuta maliziosa, e invece si limitò a sorridere e a farmi cenno di raggiungerlo, battendo la mano destra sul materasso per incitarmi a sedermi lì. Beh, se stava male non poteva di certo approfittarne, no?

Presi posto sul bordo del letto, mantenendo comunque una certa distanza di sicurezza, e intrecciai le mani in grembo, studiando Enrico da vicino e ignorando il sorrisetto con il quale stava ricambiando il mio studio silenzioso. “Allora, cosa ti è successo?” Sbottai, forse un po’ più duramente di quanto volessi. “Tua madre… Betta… Mi ha fatto capire che credeva che tu mi avessi già raccontato ogni cosa e che fosse per questo che sono venuta, ma tu non mi hai detto niente, e non credi che sia il caso di farlo?”

Enrico sembrò piuttosto sorpreso per la mia mezza sgridata. “Accidenti… Eri preoccupata per me? Davvero?” Fu la cosa più intelligente che riuscì a dire, riprendendo l’espressione a metà tra l’arroganza e la provocazione.

“Perché questo tono sorpreso?” Lo aggredii quasi, alzandomi per evitare di scrollarlo come le mie mani mi stavano implorando di fare. “Dici che vuoi frequentarmi, che ti piacerebbe se fossimo una coppia normale, e poi quando succedono i casini non mi dici niente e pretendi anche che io non mi preoccupi? Cazzo, Enrico, stare insieme non è solo andare a cena fuori e baciarsi! Se è così che hai intenzione di farla continuare, questa cosa, allora è meglio se la finiamo qui!”

Il mio sfogo mi aveva preso talmente alla sprovvista che non mi accorsi subito di ciò che mi era uscito di bocca, né tantomeno del significato che avevano quelle parole. Mio Dio, gli avevo davvero fatto capire che io ci consideravo una coppia? A giudicare dall’espressione sbalordita – e anche un po’ compiaciuta, dannazione a lui! – di Enrico, , era esattamente quello che avevo appena fatto. Anche se non sapevo cosa fosse peggio, tra quello e la scenata da fidanzatina apprensiva.

Mi passai nervosamente una mano tra i capelli e mi allontanai dal letto, avvicinandomi alla scrivania e continuando a dare le spalle a Enrico per evitare di ritrovarmi a fissarlo. Adesso mi avrebbe torturato all’infinito ricordandomi quella scenata, ne ero certa! Se anche era esistita una via di scampo a quella storia malsana che stava uscendo fuori tra me e lui, non c’erano dubbi che l’avessi appena persa. Non era stata una grande idea quella di andare a trovarlo, dopotutto.

Fu lui il primo a riprendere la parola dopo quello sfogo. “Mi dispiace, Giulia. Avrei dovuto avvisarti”, disse con un tono sorprendentemente gentile, che non mi aspettavo. “Ma ho perso il cellulare e non sapevo come rintracciarti, inoltre… Pensavo ti avrebbe fatto piacere passare qualche giorno in tranquillità, senza avermi tra i piedi.”

Il modo quasi prudente con cui pronunciò quell’ultima frase mi strappò un mezzo sorriso sarcastico che, grazie al Cielo, lui non poté vedere. “Come faccio a stare tranquilla se so che ogni volta che tu e i tuoi amici vi incontrate non è per guardare insieme una partita?” Ribattei in un sussurro, aggrappandomi al bordo di legno della scrivania e abbassando leggermente le spalle.

Il suo silenzio confermò i miei timori, e a quella consapevolezza fece eco un brivido che mi corse lungo la spina dorsale. Sarebbe stato ogni volta così, se quello strambo rapporto si fosse… evoluto? Avrei dovuto vivere per sempre nel terrore di non vederlo ritornare a casa, un giorno, dopo una di quelle serate?

“Per favore, vieni qui. Giulia… Torna a sederti, mi fa troppo male la gamba per alzarmi”, disse dopo un po’ con incredibile dolcezza, spingendomi mio malgrado a voltarmi e a raggiungerlo seppur con non poca incertezza. Qualcosa nella mia espressione dovette colpirlo, perché per quanto possibile cercò di raddrizzarsi spingendo la schiena contro i cuscini e si avvicinò di più al bordo del letto, dove io mi ero appena riseduta.

“Ascolta, non è successo niente, va bene? Guarda, sono tutto intero, un po’ dolorante forse, ma niente di grave”, proseguì ostinato, passandomi un braccio intorno alla vita ma senza riuscire a farmi sollevare gli occhi su di lui. Stavo cercando di non sfogare lo stress e lo shock di quelle nuove scoperte e di non scoppiare a piangere, ecco qual era la verità, non volevo di certo che lui mi vedesse in quelle condizioni! “Giulia, guardami almeno. Cosa ti costa?” Insisté.

Sospirai seccata ma gli obbedii, anche se così facendo mi accorsi che eravamo troppo vicini per poter instaurare una vera e propria discussione. “Insomma, si può sapere cosa cavolo è successo? Pensi di dirmelo entro oggi?” Lo incalzai a mia volta, scoprendo che il mio livello di pazienza doveva essersi abbassato notevolmente, negli ultimi tempi.

“E tu sei sicura di volerlo sapere?” Replicò, pronto. “Perché un conto è venirle a sapere dagli altri, certe cose, e un altro è conoscerle nude e crude dal diretto interessato; e io non voglio in nessun modo che quello che faccio ostacoli o pregiudichi la nostra relazione.”

Oddio, aveva letto le parole magiche – aveva detto nostra e relazione tutte attaccate e nella stessa frase, per di più, e io non ero neppure nella presenza di spirito di dirgli qualcosa per contraddirlo! Comunque decisi per il momento di lasciar perdere quella faccenda e di dedicarmi all’altra, assai più urgente. Mi districai dal suo abbraccio e scivolai a sedermi più giù, all’altezza delle sue ginocchia, tanto per intenderci, a una distanza sufficientemente sicura da permettermi di guardarlo in faccia e contemporaneamente di scampare alle sue mani polipose. Non era una cosa carina da pensare, me ne rendo conto, ma al momento desideravo ridurre al minimo sindacale i contatti fisici. Non si può litigare con qualcuno che ti sta abbracciando!

“La nostra relazione, come la chiami tu, è stata pregiudicata da questo sin da quando è iniziata”, esordii, riuscendo persino a suonare piuttosto decisa. “Se tu non fossi stato… così… Non mi avresti mai rapita e costretta a frequentarti, tanto per dirne una, quindi ritengo che i tuoi rimorsi arrivino un po’ in ritardo. Ora, se vuoi parlare benissimo, ti ascolto! Ma se non mi vuoi spiegare per quale motivo sei in queste condizioni, come se ti fossero passati sopra con un’auto, allora non vedo perché dovrei restare a fingere che vada tutto bene. Non va tutto bene, Enrico, mettitelo in testa.”

Sembrava proprio che il mio breve discorsetto avesse fatto breccia nel suo muro di cemento, e non potei che sentirmi intimamente orgogliosa al riguardo. Il suo viso si era fatto una maschera di cera, pareva essersi immunizzato da qualunque espressione, ma mi sembrava quasi di poter scorgere nei suoi profondi occhi verdi una qualche lotta interiore che stava assorbendo i rimasugli delle sue forze. Bene, era ora che mettesse un minimo in discussione le sue azioni!

“A quanto pare sono indifendibile”, ammise alla fine, senza alcuna traccia di sarcasmo o presa in giro nel tono di voce. Mi fissò dritto negli occhi e da quello compresi che aveva intenzione di svuotare il sacco, per cui mi feci tutta orecchi. “Va bene, ti racconterò tutto: tanto non c’è molto da dire. Sabato sera io e i ragazzi siamo usciti per i nostri affari… Probabilmente Riccardo ti ha già spiegato ogni cosa, comunque voglio rinfrescarti la memoria: vendiamo droga. La vendiamo perché quello degli stupefacenti è un mercato che diventa più redditizio ogni anno che passa, se si è abbastanza abili da non abbassarsi ai livelli di chi li compra. Nessuno dei miei ne ha mai assaggiato un solo grammo, credimi, da quel punto di vista siamo perfettamente puliti. Dunque, tornando a sabato… Siamo andati al solito posto e ci siamo divisi: io ero con Stefano e Alberto, gli altri erano sparsi per il locale. All’inizio la serata sembrava tranquilla, per quanto possa esserlo un posto dove si spaccia e dove i bagni sono il punto di ritrovo di quella gente…           Ma poi, dal nulla, sono sbucati fuori un paio di tizi che non avevo mai visto prima e che ci hanno intimato di uscire nel parcheggio, minacciando, in caso contrario, di sputtanarci con i proprietari del locale. A quel punto dubitavo che sapessero che ero praticamente io il proprietario, comunque per non mettere in pericolo le persone che stava cercando di divertirsi abbiamo preferito uscire e assecondarli; noi eravamo in tre, loro solo in due, quindi non mi è sembrato necessario chiamare anche Lorenzo e gli altri.

“Ovviamente, avrei dovuto immaginare che dei tipi così non avrebbero affrontato me e i miei ragazzi a mani vuote e senza prima essersi organizzati, ma a mia discolpa posso dire che credevo fossero leali anche in una cosa come quella. Invece no. Non appena ci siamo allontanati il tanto necessario da essere fuori portata dai buttafuori, siamo stati raggiunti dai loro complici, altri cinque poveracci che avevano voglia di passare un sabato sera diverso. Abbiamo cercato di essere civili e parlare, ma quelli hanno tirato fuori i coltelli e sono passati alle maniere forti. Capisci che non potevamo fare altro che contraccambiare…

“Comunque, non è morto nessuno. Noi non avevamo coltelli e, pur di non ricorrere ad altro, ci siamo limitati a schivarli e stenderli con calci e pugni, ma mi hanno preso di striscio al braccio”, si toccò leggermente la spalla sinistra, socchiudendo gli occhi come se il ricordo gli facesse ancora male. “Appena hanno visto la mia camicia macchiarsi di sangue sono fuggiti. Probabilmente volevano solo menare un po’ le mani e non volevano uccidere nessuno, e credo che non torneranno più a darci fastidio. Hanno voluto fare un’uscita in grande stile, però, e mentre scappavano in macchina ci sono venuti addosso e mi hanno spinto per terra, per questo ho sbattuto la gamba e non riesco a muoverla bene, ci sono finito sopra con tutto il peso. Il cellulare devo averlo perso quando sono caduto.”

Lo fissai a dir poco inorridita. Non sapevo che cosa si aspettasse che dicessi o facessi, ma sicuramente doveva aver messo in conto che mi sarei scostata non appena avesse cercato di toccarmi.

“Giulia…” Mi ammonì a mezza voce, con l’aria di chi stava pensando: ‘Visto? Sei tu che hai voluto sapere, adesso non fare la vittima delle circostanze’.

Sollevai una mano per zittire qualsiasi cosa volesse aggiungere. “Per favore. Lasciami cinque minuti per assorbire il tutto”, borbottai, alzandomi in piedi e facendo un sospiro così profondo che mi sentii svuotare i polmoni per una manciata di secondi. Mi poggiai sul davanzale della finestra e mi afferrai la testa tra le mani, chiudendo gli occhi: avevo l’impressione di essermi appena destata da un incubo lungo e sanguinoso, ma la sensazione di nausea l’aveva provocata la consapevolezza che fosse tutto vero.

“E hai anche avuto il coraggio di dirmi di non preoccuparmi?” Aggiunsi amaramente dopo un lungo intervallo di silenzio, senza tuttavia voltarmi verso di lui ma continuando a fissare il nero delle mie palpebre chiuse. Non mi accorsi subito di stare tremando come una foglia.

Mi parve di udire un gemito soffocato, un leggero tonfo e uno spostamento d’aria quando Enrico mi raggiunse alla finestra, fermandosi alle mie spalle; quel letto doveva avere le doghe in legno, visto che non avevo sentito lo scricchiolio tipico della rete in metallo quando si era alzato.

“Giulia.” Ripeté, stavolta con un’intonazione più gentile. Ma io scossi la testa, senza rispondere né tantomeno girarmi, desiderando solo di essere miglia e miglia lontana da lui e da tutti i casini in cui, volente o nolente, mi stava trascinando. Buon Dio, mi aveva appena raccontato di quella specie di regolamento di conti con la stessa nonchalance con cui io gli avrei raccontato della scuola! Non era normale, cazzo, non era normale per niente!

Allora, senza dar segno di aver compreso i miei desideri, si avvicinò e premente contro la mia schiena facendola aderire al suo petto, mi circondò la vita con il braccio che non gli faceva male e mi strinse contro di sé, seppellendo il viso tra i miei capelli. Lo sentii respirare piano nella zona delicata tra l’orecchio e la pelle del collo, e le sue labbra che si muovevano contro quel punto mi fecero il solletico.

“Va tutto bene, tesoro, tutto bene”, stava sussurrando, dolce come non l’avevo mai sentito. “Ti chiedo scusa per non averti detto niente, ma ora capisci il motivo per cui non l’ho fatto?... Non voglio che questo ci separi, Giulia, so anche che non posso chiederti di accettarlo, o capirlo, ma solo di prenderla così com’è, come una parte di me che non puoi cambiare, come il mio naso o la mia bocca…” Il flebile tentativo di scherzare morì ancora prima di poter essere recepito. “So soltanto che ti voglio al mio fianco. So che è una cosa egoista, ma voglio che ti preoccupi per me come hai fatto oggi, voglio che sia sempre così… Ormai non riesco più ad immaginarmi senza di te. Capisci quello che ti sto dicendo? …non importa, lo capirai. Giulia, Giulia… Puoi piangere, se vuoi. Basta che lo fai contro di me, così… Ecco.”

Solo in quel momento mi accorsi che le lacrime avevano effettivamente preso il largo, e allora non riuscii più a frenarle né a trattenermi, dato che avevano già atteso abbastanza per poter uscire. La triste realtà era che quel pianto era stato causato da Enrico, ma purtroppo qualcosa mi diceva che lui era anche l’unico che poteva capirle e asciugarle. Rimasi a piangere in quella posizione per non so quanto tempo, senza muovermi né voltarmi, continuando a nascondere il viso tra le mani e trattenendo almeno i singhiozzi più violenti, con Enrico piegato contro la mia schiena e le sue braccia, entrambe, avvolte attorno a me. Come un guscio protettivo.

Enrico… Protettivo?

Stavolta ero davvero in guai seri.

 























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Angolo Autrice.
Ebbene, non ho scusanti per il terribile ritardo con cui mi presento nuovamente.
Molti di voi si saranno comprensibilmente dimenticati di me, di questa storia, di Enrico e di Giulia, ma a coloro che sono eroicamente sopravvissuti all'attesa dico: questo capitolo è la mia Chiave di Volta, per finire non manca molto, forse quattro o cinque capitoli, e - spero - non li pubblicherò a distanza di otto mesi l'uno dall'altro. Ma, conoscendomi, non si può mai sapere....
Grazie ai gentilissimi che hanno recensito lo scorso capitolo, grazie a chi continua ad aggiungere la mia storia alle Seguite o alle Preferite, il piacere che mi fate anche a distanza di tutto questo tempo è talmente grande che non sono capace di descriverlo!
Con la speranza di risentirci il prima possibile, vi lascio anche stavolta con un bacio e un abbraccio. Sempre vostra,
Niglia.

   
 
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