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Autore: KH4    04/05/2012    3 recensioni
Quando Nami aveva espressamente detto di non combinare alcun guaio, intendeva cose del tipo “Non attirate troppo l’attenzione con le vostre buffonate”, “Non fatevi vedere dalla Marina” o “Evitate di scatenare l’ennesimo pandemonio”. Insomma, i classici avvertimenti che non mancavano mai di essere ripresi e ripassati. Ma tra questi e l’infinita serie di avvertimenti da lei elargiti, nessuno aveva mai parlato di ragazze isteriche trasportanti in spalla, come sacchi di patate, fratelli mezzi dissanguati e seguite a ruota da innocenti bambine con grandi occhi azzurri. Un evento decisamente più normale del solito, umano, per dirla nella giusta maniera, ma, sicuramente, non privo di sorprese, se si teneva conto del fatto che, a portarli sulla nave, era stato proprio Rufy. (estratto del capitolo quattro).
 
Il Nuovo Mondo è pronto ad accogliere Rufy e la sua ciurma, tornati insieme dopo due anni di separazione; lasciatisi alle spalle l'isola degli Uomini Pesce, i pirati approdano su di un'isola, dove incontreranno un piccola amante della pirateria, bisognosa di aiuto. Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità, ragazzi!
Seguito di “Giglio di Picche.”
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Fra tutte le persone presenti a San Lorein, Eliah Van Incardine era, senz’ombra di dubbio, l’ultima con cui Lars avrebbe pensato di stringere amicizia.
Era il migliore della classe, colui che si era guadagnato un così autorevole rispetto da parte dei suoi compagni, da essere considerato un piccolo leader capace di porre ordine quando si veniva a creare scompiglio. Un bambino abilissimo con la spada, veloce, disciplinato, ma insolitamente privo di preconcetti nei suoi confronti. Unico fattore – oltre all’aspetto giovanile e all’assenza di barba – a differenziarlo dal padre, Elijah Van Incardine.

Il venire “Salvato” e poi invitato a cena dalla punta di diamante dell’accademia era stato strano, specie perché Eliah lo aveva trascinato per mezza città come fosse un pupazzo malandato, senza neppure attendere una sua risposta. Ricatto a parte, quello era stato l’inizio di tutto. Da quella sera in avanti, si era susseguita una catena di eventi a cui Lars non si era preparato, ma che fece sua prestissimo, tanto il richiamo era forte. L’essere stato avvicinato da una persona desiderosa di conoscerlo meglio, di essergli amico, gli aveva permesso di afferrare quella mano invisibile che lui aveva cancellato dalla sua mente fin dal primo giorno d’addestramento. Per un attimo, aveva quasi scordato quanto fosse piacevole parlare con qualcuno, ridere o stare in compagnia, ma il riappropriarsi di quella sensazione perduta glielo aveva riportato alla mente, insieme a tutto il resto.
Abitare a San Lorein era difficile. Il suo aspetto richiamava moltissimo quello di un castello dai riflessi cristallini e lucenti, scintillanti sotto ogni aspetto: un posto da favola, ideale per i sogni di bambine ancora credenti al principe azzurro, ma duro e freddo quanto i diamanti che rilucevano sotto il sole. Esigeva la fedeltà e la perfezione, due elementi che Lars non poteva dimostrare pienamente. La prima, perché egli non era nativo di quella terra. La seconda, perché non esisteva, non nella maniera in cui gli abitanti la intendevano. Secondo il Master, i saggi e il resto della popolazione, lui non poteva comprendere l’importanza di essere un cittadino di San Lorein, e, in tutta franchezza, all’albino non era mai interessato capirlo. Non aveva accettato la generosa offerta del signor Eliorath con il preciso scopo di diventare un fedele suddito di quel piccolo e isolato pezzo di terra: lo aveva fatto per divenire lo spadaccino che desiderava essere fin dalla tenera età.

L’affinità che legava lui e la lama era ancora allo stato grezzo, aveva bisogno di allenamenti massacranti e valori sacri quanto la vita stessa, per questo, ogni giorno, s'impegnava per compiere anche il più piccolo dei passi. Non lo faceva per dimostrare qualcosa o per una persona in particolare, ma unicamente per se stesso. Maneggiare una spada….no, sentirla vibrare sotto i polpastrelli, riuscire a catturarne l’indole e far sì che questa la accettasse….ecco qual’ era il suo sogno.

Eppure…stava sbagliando.
Nel voler dare vita a quel desiderio, aveva dovuto tener conto che non era ben accetto a San Lorein, e questo lo aveva spinto a ignorare certi comportamenti che avrebbero visto sua sorella brandire una scopa e pestare tutti all’istante. La sua presenza non era gradita, per tale motivo aveva cancellato l’ipotetica possibilità di farsi un’amicizia, arrivando quasi a dimenticarsi quanto quella singola parola fosse importante per un bambino. Eliah gli era piombato addosso come un fulmine a ciel sereno, esibendo un approccio che gli aveva fatto storcere il sopracciglio e le labbra, poiché il ricatto non si poteva considerare una valida alternativa al “Ciao, vuoi fare amicizia con me?”.
Era deciso, sicuro di sé, a volte un po’ un capetto, ma anche sincero e molto attaccato alla sua terra natale. Un tipetto che non si lasciava mettere i piedi in testa da niente e da nessuno.



“Ok, non c’è nessuno.”

Due scalini dividevano Lars ed Eliah dal Saidan, il preziosissimo chiostro del palazzo di San Lorein, costruito in onore del fondatore della città: Rahel. 
Appiccicati a una delle ampie colonne cesellate che ornavano i lati delle scale e della stanza, i due bambini si guardarono nuovamente attorno, giusto per essere sicuri di non aver lasciato tracce. Era un bene che Eliah avesse deciso di venire lì di notte, perché il blu scuro delle colonne si enfatizzava con quello del cielo, rendendo le ombre ancor più grandi e scure. Il pavimento sopra cui posarono i loro quatti passi - dopo essersi nuovamente accertati che non ci fossero guardie nei paraggi -, era di un bianco lucidissimo, contornato da chiazze di luce lunare che ne mostravano la superficie liscia e completamente pulita. Volendo, ci si sarebbe potuti specchiare. Posto all’apice del palazzo, con tutta San Lorein al proprio cospetto, decorata con stendargli aventi sopra il simbolo per eccellenza della città – un’ala argentata -, un soffitto ad arco pieno di bellissimi e raffinati mosaici, il chiostro racchiudeva il fulcro della storia e della tradizione dell’intera isola. Era il cuore del palazzo, la stanza dove veniva custodito il prezioso dei tesori.

Seguendo la figura attenta di Eliah, Lars avanzò lungo il corridoio semibuio, guardandosi attorno e faticando a non rimanere rapito dalla bellezza d’esso; era illuminato sufficientemente, abbastanza perché si facesse un’idea sul posto, ma l’amico non lo aveva portato lì per fargli ammirare i mosaici, il paesaggio o che altro. Non avrebbe rischiato tanto, se dietro non ci fosse stata una valida ragione. 

“Lars, vieni! Dai!” lo incitò quest’ultimo, già arrivato alla meta.

L’albino sussultò, riprendendo la concentrazione momentaneamente perduta. Solo in quel momento, si accorse che il fondo del Saidan era avvolto da una tenue luce arancione. I suoi occhi chiari scorsero delle piccole e guizzanti fiammelle consumare quello che, con molte probabilità, doveva essere il legno di alcune torce appese alle colonne di fondo. Eliah non continuava a far altro che agitare il braccio, esortandolo ad avvicinarsi, e quando gli fu nuovamente a fianco, spalancò gli occhi: il chiostro terminava in una forma ampia e circolare, completamente occupata da una fontana poco profonda, dove l’acqua cristallina ondeggiava pigramente, accompagnata da piccoli e chiari petali rosati.

Stette per dischiudere la bocca e chiedergli perché ci avesse tenuto tanto a portarlo lì, quand’ecco che guardò nel mezzo e rimase stupito per quel vide.

“Questo è…..?”
“Quello che volevo mostrarti”, concluse l’amico, notando quanto fosse rimasto sorpreso “Sei con noi già da un bel po’, mi sembrava giusto che tu sapessi.”

Anche dopo aver superato i dieci anni, Lars era ancora tenuto all’oscuro di molte cose. Futili o no, quel poco in suo possesso gli bastava, ma Eliah era d’opinione contraria: anche se non era nato a San Lorein, l’albino meritava comunque di conoscere quel che a lui e a tutti gli altri allievi era stato insegnato fin dal principio.

Al centro della fontana stava un grosso piedistallo marmoreo, avente sopra di sé cinque giovani ancelle, tutte scolpite in posizioni diverse. Tre erano in piedi - una al centro, con le altre due poste a destra e a sinistra -, mentre le restanti due erano sedute: una aveva le gambe immerse nell’acqua, l’altra stava in ginocchio. Tutte avevano espressioni differenti, ma ad accomunarle, era il fatto che tenessero delle armi fra le braccia.
Lars le osservò attentamente una a una. 

La prima al centro era l’unica a essere vuota: una delle braccia era tesa in avanti, con la mano aperta e lo sguardo fiero e sicuro. 
La seconda a destra, con gli occhi chiusi e la bocca piegata in un sorriso, porgeva quello che era un grosso arco bianco, con flettenti spessi e punte arricciate. La corda – un insieme fine di stoppini e fili attorcigliati fra di loro -, luccicava debolmente, insieme alle piccole e curate intarsiature azzurrine.  
Proseguendo verso il basso, vi era la terza ancella, le cui mani e la guancia sinistra erano delicatamente appoggiate sui bordi di uno scudo massiccio. Il grigiore pallido del metallo si mescolava ai risvolti smeraldini che spiccavano per la loro consistenza. Al centro, in una piccola rientranza circolare, era incastonata una pietra lucente, di un verde scuro molto ammaliante.
Passando sulla sinistra, Lars si concentrò sulla quarta fanciulla, colei che se ne stava in ginocchio e col capo leggermente piegato verso il pavimento. Si appoggiava a fatica allo spesso manico bianco di una grossa alabarda, la cui base e le rifiniture erano dorate. L’apice terminava con una lama avente la forma dipartita in tre punte affilatissime: le due laterali erano piccole, mentre quella centrale era più grossa e lunga. Un’arma che, forse, sarebbe stato saggio porre nelle mani della prima ancella, anziché in quella seduta.

Fu lì, che Lars osservò l’ultima statua rimasta, la terza che stava in piedi.

Guardandola, ebbe quasi l’impressione che fosse girata di schiena, tanto appariva distante dal compatto gruppetto: era la sola ad avere gli occhi chiusi e un viso inspiegabilmente assopito. Sorreggeva con le magre braccia la sola arma rimasta, una spada dall’irreale lama azzurra, con l’impugnatura intarsiata e avvolta da una collana di perle violacee.

“Mio padre mi ci ha portato poco prima che iniziassi l’addestramento”, raccontò Eliah, messosi seduto e attirando l’attenzione dell’albino “Qui la gente non può venirci, è vietato. Solo i saggi possono, oltre al Master e al neoeletto, ovviamente.”
“Neoeletto?” domandò Lars, distogliendo momentaneamente lo sguardo dalla statua.
“Il nuovo Master. La persona a cui vengono riconosciuti i diritti per entrare in questa stanza”, specificò l’altro. 
“Intendi l’allievo che viene proclamato vincitore al torneo conclusivo?”
“Proprio quello.”

Da quel poco che era riuscito a cogliere durante le lezioni, Lars aveva scoperto l’esistenza di un test finale a cui tutti gli allievi dovevano sottoporsi, una volta compiuti i diciassette anni: si trattava del Grande Torneo, la prova più ardua e complicata dell’addestramento, dove tutto, virtù comprese, veniva osservato e giudicato dagli occhi imparziali dei saggi di San Lorein e dal Master stesso. L’evento si svolgeva nell’arena principale, un enorme stadio circolare, secondo solo al palazzo della città. Di tutta la faccenda, Lars aveva compreso soltanto questo, ma non era così ignorante da non arrivare a intuire che dietro a tanta scrupolosità da parte dei maestri, c’era qualcosa di molto più simbolico. Eliah lo aveva portato lì perché apprendesse il loro sapere, lo stesso di cui lui cominciava a intravvedere i contorni, seppur molto sfumati. Posando nuovamente gli occhi sul piedistallo, si concentrò sulla statua in mezzo, la sola che fosse sprovvista di un’arma. Subito gli venne in mente Elijah Van Incardine: sebbene l’avesse incontrato poche volte, l’albino era certo che la spada che l’uomo teneva legata al fianco, con quella lunga lama color rubino, provenisse proprio dal chiostro. Era troppo particolare perché fosse frutto del lavoro di un comune fabbro, chiunque lo avrebbe notato.

Però, per quanto si stesse sforzando, non riusciva a cogliere la connessione fra essa, il torneo e quella stanza; succedeva qualcosa di unico, fino a lì ci era arrivato, ma che cosa, nello specifico, proprio non lo immaginava………


“Senti, Eliah….”, cominciò a un certo punto “E’ qui che tuo padre ha preso la sua spada?”
“Si, il giorno stesso che ha vinto il torneo. Il nonno lo ha portato qui insieme agli altri saggi ed è stato in quel momento che Magdala lo ha scelto, ma mia madre non fa che ripetermi che non poteva andare diversamente”, gli rispose il coetaneo.
“In che senso?”
“Beh, la Domatrice Scarlatta ha sempre scelto mio nonno e altri membri della mia famiglia, quindi era scontato che facesse lo stesso con mio padre”, riprese lui, tutto sorridente “Noi Van Incardine abbiamo una reputazione da difendere, per non parlare del titolo: si può dire che la nostra storia sia intrecciata a quella di San Lorein, visto che la maggior parte dei suoi Master provengono dalla mia famiglia, ma non è certo un segreto: noi….”

S'interruppe bruscamente, come se lo avesse appena punto uno scorpione.
Lo aveva fatto ancora. Per la trentesima volta, Eliah aveva ceduto al suo orgoglio, lasciando andare la sua lingua e colpendo il povero Lars, vittima frequente di quel suo difettuccio. Accorgersene prima che l’albino decidesse di mollarlo lì fu provvidenziale: d’accordo, adorava la sua famiglia, lo aveva capito, ma raccontarne ogni singolo gesto, in piena notte, e con il rischio di essere puniti……
Almeno il mal di testa se lo voleva risparmiare.

“Ho… parlato troppo, vero?” domandò poi Eliah, accorgendosi dell’espressione lunga e mogia dell’albino, nel mentre la nuca gli si riempiva di numerosi goccioloni.
“Mi stavo giusto chiedendo se ficcarti la testa sott’acqua o mettermi a dormire, visto che sembravi intenzionato a raccontare l’intera storia della tua famiglia”, rivelò Lars.
“Umpf! La tua è tutta invidia”, fu la pronta replica di Eliah, che alzò la testa con fare strafottente “Noi Van Incardine siamo i migliori spadaccini di tutto il mondo.”
“Lo so, l’hai detto tante volte. Ora, però, mi dici qualcosa che non so?” chiese lui, alludendo molto chiaramente all’argomento attorno a cui continuava a girare, ma senza avvicinarsi.
“Eh eh! Ok, è giusto!” ridacchiò l’amico.

Il venire di nascosto nel chiostro lo aveva sempre eccitato moltissimo, tanto che a stento tratteneva le proprie gambe dal saltare come delle molle impazzite. Eliah era bravo e diligente, ma anche curioso e pieno di fantasia: lo stare lì, ai piedi della fontana del Saidan, era un rischio trasudante di emozione e adrenalina inesauribile, vivo e forte come il suo sogno. Amava addentrarsi nella cucina di casa sua per prendere di nascosto qualche biscotto, starsene sdraiato sulle tegole di una delle torri più alte per vedere le stelle o correre lungo le mura che proteggevano la sua città, erano delle piccole libertà dentro cui coinvolgeva anche Lars, le cui repliche avevano cessato di esistere nell’istante in cui l’indole dell’amico vi si era posta pesantemente sopra. Ovunque andasse, lo portava con lui, gli faceva vedere di tutto e di più, riservando il meglio per ultimo. Il chiostro non era che un’altra chicca di quella città che lui non avrebbe mai potuto visitare completamente, se Eliah non avesse deciso di buttarlo già dal letto all’una del mattino. 

“Di preciso, nessuno sa quando la nostra città è stata costruita: la storia che mi ha raccontato mio padre e mio nonno, e che è scritta nei manoscritti che i saggi custodiscono nella loro biblioteca, risale a un periodo buio, il più grande e orribile che la nostra isola abbia mai subito”, cominciò a raccontare il bambino dai capelli nocciolati.

I manoscritti di San Lorein erano tanto preziosi quanto delicati: dei rotoli impolverati con lettere nere e svolazzanti, scritte su carte dai bordi dorati, giusto per rendere la consistenza più luminosa. Disegni dai colori densi si alternavano a passi intrisi di disperazione e confusione, deboli e prossimi al tracollo. Ripetitivi, per certi aspetti: quei versi poetici tentavano di interrompere la circolarità di quella spirale mortale dentro cui la città era finita, ma senza successo.

“Il cielo era sempre nero, il mare in tempesta, con onde altissime e capaci di spazzare vie un’isola….la nostra casa era circondata e non c’era niente che si potesse fare. La disperazione che dilagava nelle vie risucchiava ogni speranza: i Senza Volto si sono accaniti sulla mia gente senza un motivo, portando il caos ovunque.”
“Senza Volto?” ripeté Lars. Non ne aveva mai sentito parlare.
“Demoni provenienti dagli abissi marini”, spiegò l’amico, volgendogli lo sguardo “Ombre che hanno perso la propria anima quand’erano in vita. Sono condannate a trascorrere l’eternità negli angoli più profondi e remoti dell’oceano.”

Sebbene Eliah non avesse provato quell’esperienza sulla propria pelle, parlava e trattava la faccenda con solennità adulta e rispettosa, quasi fosse una ferita fresca. Aveva letto i contenuti dei manoscritti fino a memorizzarne le parole, soffermandosi sui disegni e cercando di creare mentalmente un’immagine che rispecchiasse quelle frasi sbiadite e conservate con la massima premura. I suoi occhi non risentivano più del bruciore per la troppa fatica, così come la sua mente, impregnata di tutto ciò che riguardava la sua terra natia. Fra le molte informazioni che riguardavano San Lorein, la storia della sua nascita era la parte che più lo prendeva, che lo spingeva assiduamente a intrufolarsi di nascosto nel Saidan. Non c’era nulla che avesse tralasciato, aveva imparato a memoria tutto lo scibile possibile, quasi sperando di trovarvi qualcosa che lo spronasse ad andare avanti, a continuare quella ricerca.

“Come siano arrivati in superficie è sempre rimasto un mistero” riprese subito, tornando a guardare il piedistallo e le statue “Mio nonno dice che sono stati attratti dalla luce del sole e dalla vitalità della nostra isola, per questo ci hanno attaccato con tanta violenza.”
“Capisco. E poi che cos’è successo?” domandò l’albino, abbracciandosi le ginocchia. La storia cominciava a interessargli non poco.

Eliah esitò qualche secondo, abbassando lo sguardo di poco, ma rialzandolo quasi immediatamente.

“Anche se i Senza Volto vigilavano in continuazione, un giorno, un fabbricante d’armi di nome Rahel riuscì a ingannarli e a fuggire dall’isola. Scappò lontano, in posti sconosciuti e mai visitati, finché non raggiunse le terre proibite: i Picchi del Mondo. Si dice che siano inaccessibili a qualunque essere umano, ma Rahel riuscì a scalarli e a catturare le anime degli elementi naturali.”
“Le anime degli elementi?” quasi subito, Lars colse il collegamento che c’era fra il santuario e la storia che l’amico gli stava raccontando “Aspetta. Quindi, queste armi sono…"
“Hai capito bene. Cioè, non è che sono proprio gli elementi in carne ed ossa...”, tento di spiegare il bambino, con la fronte aggrottata “Il manoscritto è piuttosto vago, ma da quello che ho capito, su ogni Picco risiedeva un elemento naturale di questo mondo: fuoco, ghiaccio, fulmine, terra e vento. Rahel è riuscito a prenderne un pezzettino, a plasmarlo, ecco come ha creato le armi.”

Aveva letto centinaia di miglia di volte quel passaggio, ma Eliah si ritrovò ugualmente costretto a gonfiare le guance e ad alzare la testa, in cerca di una qualche illuminazione che lo aiutasse a spiegare il concetto. Anche lui ci aveva piegato un po’ a comprendere come si fossero svolti i fatti, il che gli era costato più di un’intrufolata notturna. Distogliendo lo sguardo dall’amico, Lars si concentrò sul piedistallo, facendo scorrere il suo occhio chiarissimo su ciascuna delle armi che le ancelle reggevano: sia per i colori, che per la forma, non potevano essere considerate dei meri strumenti. Brillavano di una luce propria, i fuochi nelle torce ne enfatizzavano gli scintilli come tante piccole stelle.

Eppure….c’era qualcosa che stonava.
Un vuoto rappresentato dall’ancella di sinistra, quella stante in piedi, la cui postura dava l’impressione che non volesse farsi vedere in faccia. L’albino ne era stato subito rapito o meglio, era stato rapito dall’arma che quest’ultima abbracciava delicatamente con volto sereno e distaccato. Era la spada azzurra, quella con l’impugnatura avvolta dalla collana di perline; per uno strano motivo…era spenta. La pelle della fanciulla era insolitamente più scura delle altre e la spada pareva profondamente addormentata, tanto la lama era celata dietro un leggerissimo velo d’ombra che neppure la fiocca luce riflettente delle torce riusciva a dissipare. Le altre erano appariscenti, lei no, ma a Lars piacque più dell’arco, dello scudo, della lancia e della spada che Elijah Van Incardine brandiva.

Era bella, e si ritrovò a contemplarla più del tempo dovuto, permettendo a Eliah di accorgersi che non lo stava minimamente seguendo.

“Lars? Ehi, Lars! Lars!!”
“Eh?”
“Ma ti sei incantato?! Guarda che io non ho ancora finito!” sbottò lui.
“Scusa, non volevo. Che stavi dicendo?”

Il bambino dai capelli nocciolati sbuffò sonoramente, rilassando le guance come due palloncini gonfiati inutilmente.

“Che quando Rahel ha fatto ritorno qua, ha utilizzato le armi da lui forgiate per sconfiggere i Senza Volto. Una volta battuti, li ha incatenati e relegati sul fondo marino, costringendoli a sostenere il peso dell’intera isola come punizione per averla fatta quasi inabissare. Grazie al suo aiuto, la nostra città è tornata a vivere e fu ribattezzata dai saggi di allora San Lorein, dopo che Rahel venne eletto come Primo Master.”
“Il Primo Master? Dunque, è stato lui a dare il via alla tradizione”, mormorò l’albino.
“Si. “Master” è il titolo che viene dato al guerriero più forte di tutta San Lorein, colui che è stato riconosciuto e accettato da una delle sacre armi di Rahel. Lui è stato il solo a usarle tutte cinque insieme, ma non avendo avuto eredi, i saggi hanno dovuto trovare un modo per far si che la tradizione continuasse senza che gli insegnamenti di Rahel venissero dimenticati.”
“L’accademia e il Grande Torneo, giusto?” arrivò Lars, cominciando a vedere con più nitidezza l’intero quadro.
“Già. Col tempo, le prove si sono fatte più impegnative, per verificare se i candidati fossero accettabili non solo nella forza, ma anche nello spirito. I Master che sono succeduti a Rahel, hanno sempre impugnato una sola delle cinque armi, ma è sempre stato sufficiente per tenere a bada i Senza Volto. Sai, loro riescono a sentirci e se avvertono che una delle armi che li ha messi in ginocchio è sveglia, rimangono al loro posto, senza provare a fuggire. E’ importantissimo che San Lorein abbia sempre un Master e che i tesori del nostro fondatore rimangano al sicuro nel Saidan. I Senza Volto temono il santuario e il Master, ma se una sola delle armi dovesse venire portata al di fuori delle mura della nostra città, loro potrebbero approfittarne.”
“Capisco….”, mormorò Lars, con sguardo vacuo e socchiuso.

L’interesse suscitato da quella storia sembrava essere stato strappato via dal suo corpo con un colpo silenzioso e invisibile. L’eccitazione di Eliah si scontrò pesantemente contro quel muro appena emerso, ma non cercò di demolirlo con stupore o rimproveri; gli apparve fin troppo chiaro il perché il suo amico fosse appassito così all’improvviso e questo gli fece abbassare quel larghissimo sorriso stampato sopra la faccia.
Non aveva mai parlato di quell’argomento, ma centrava troppo perché non saltasse fuori. Gli stranieri a San Lorein non erano i benvenuti, in quanto non appartenevano a quella terra e non potevano abbracciare l’eredità lasciata dal grande Rahel, ma oltre a ciò……non c’era nient’altro per cui dovessero essere trattati come dei vermi. Lars lo aveva capito, ma la sua voce, fra quelle mura immacolate, non aveva e mai avrebbe avuto un qualche valore: non era una mentalità cattiva, quella degli abitanti, ma troppo radicata in un singolo pezzetto di storia attorno a cui erano stati costruiti fatti e avvenimenti tutti ripetitivi fra di loro. Per ogni singola persona residente a San Lorein, tutto questo era sacro, giusto, un tesoro da proteggere e che lui non poteva considerare con egual metro. Sebbene fosse trascorso non poco tempo dal suo arrivo e fosse cresciuto non soltanto fisicamente, la mente del giovane Gallower non era ancora in grado di elaborare una riflessione di quella portata, ma nonostante ciò, riuscì a intuirne l’intensità.

La gente aveva a cuore la propria città. Lui, in quanto estraneo, era visto come una persona diversa e dunque incapace di comprendere il perché della loro eccessiva preoccupazione. Un ragionamento semplice e conciso, ma le cui spigolosità non potevano urtarlo: ormai si era irrobustito a dovere, senza contare che poi, adesso, aveva Eliah come amico…

“Lars?” era assente da un po’ troppo perché l’amico continuasse a non farci caso “Ehi, Lars, tutto….?”
“Senti, Eliah”, parlo lui, ma continuando a guardare davanti a sé.
“Si?”
“Perché quella spada è così diversa dalle altre?", e indicò l’arma che tanto gli interessava. 
“Eh? Che dici?” Eliah batté le palpebre confusamente.
“Guardala bene”, insistette “Non vedi che è spenta?”

Soltanto volgendo lo sguardo confuso sulla statua indicata dall’amico, il bambino dai capelli nocciolati comprese che cosa significassero le sue parole. Era vero: la spada azzurra - insieme all’ancella - era spenta, avvolta in una penombra soprannaturale, ma egli non se ne stupì affatto. D’altro canto, conosceva tutta la storia di San Lorein, con dettagli e retroscena compresi.

“E’ normale, tranquillo”, lo rassicurò “Da che io sappia, Saphira ha sempre avuto quell’aspetto.”
“E’ il suo nome?”
“Sì. Saphira, la Regina dei Ghiacci. Ogni arma è stata battezzata con un nome e un titolo: Magdala, la spada di mio padre, è la Domatrice Scarlatta. Erath è lo Scudo della Terra, Baranshi, l’Alabarda Tonante, e infine Aritles, l’Arco del Vento. Tutte quante loro sono state brandite dai precedenti Master, tranne Saphira. Per una ragione sconosciuta, lei non ha mai riconosciuto nessuno che potesse essere degno di impugnarla, per questo è spenta.”
“Nessuno?” Lars ne fu piuttosto sorpreso “Dici sul serio?”
“Già, è sempre stato così. Magdala, Erath, Baranshi e Aritles hanno sempre dato un forte segno di vitalità, ma Saphira....è un autentico mistero”, rivelò lui “I saggi pensano che durante lo scontro con i Senza Volto, Rahel abbia finito per consumarne tutto il suo potere e che lo spirito che l’animava, sia tornato al proprio Picco. Comunque sia, i nostri antenati hanno voluto rendere omaggio anche a lei, per questo si trova qui.”
“Quindi, l’ultimo che l’ha impugnata….. è stato il Primo Master.”
“Esatto.”

Lars era senza parole. Se Eliah gli avesse chiesto di esprimere un’opinione al riguardo, avrebbe risposto con un lungo e interminabile silenzio. Indossava la solita maschera di vetro, riflettente la sua pacata serenità interiore, ma questa si era persa in una contemplazione mai fatta e provata, totalmente rivolta a quella particolare spada.

Saphira….
Anche il nome gli piacque moltissimo.
Lo ispirò, senza un “Come” e un “Perchè”, spingendolo a osservarla e a coglierne le diversità lampanti e nascoste. Non brillava come le altre, non era stata impugnata quanto le compagne, ma ai suoi occhi apparve diversamente, più bella di qualunque spada avesse mai visto. Lo pensò istintivamente, senza vergognarsene o correggersi, perché mai aveva sperato di vedere qualcosa di così enigmatico, ma anche di angosciosamente triste. Era strano da dirsi, figurarsi il solo pensarlo, ma Saphira sembrava tristemente rabbuiata, chiusa in se stessa. Che fosse quell’alone scuro a conferirle quell’aria funebre?

“Un giorno, diventerò anch’io un Master”, asserì decisissimo Eliah, stroncando il riflettere di Lars “Sarò il migliore di tutti e proteggerò San Lorein da ogni male.”
“Sei ripetitivo. Hai detto questa cosa almeno un centinaio di volte. Pensi che sia sordo?” borbottò l’albino, guardandolo torvo.
“No, ma ci tengo a ricordartelo, in qualità di mio braccio destro!”
“Ancora con questa storia? Te l'ho già detto: anche che se siamo amici, non ti farò da spalla”, replicò lui, sbuffando “Vuoi forse che i saggi si buttino dalla torre più alta della città?”

Come scordare le loro facce rugose davanti al fatto che, a malapena, riuscivano a sopportare la sua presenza…

“Tsk! Quelli sono solo dei vecchi barbosi!” brontolò Eliah, storcendo il naso” Il capo è il Master e quando lo sarò diventato, nessuno ti dirà più niente!”
“Sempre che non lo diventi io”, scherzò Lars. Gli scappò una risata nell’immaginarsi la scena: tutti gli abitanti di San Lorein sarebbero finiti con le gambe all’aria.
“Impossibile: sono molto più forte di te. Lo dimostrano le vittorie a mio carico”, replicò tranquillissimo l’altro, alzando il mento.
“Sarà, ma oggi ho vinto io nel corpo a corpo”, fece notare l’albino, guardando l’altro sottecchi "E anche ieri e l'altro ieri."
“Pura fortuna."

Sarebbe andato avanti fino a quando il sole non fosse sorto, tanto ci teneva a sottolineare che, un giorno, avrebbe realizzato il suo sogno. L’eccessiva fiducia nelle sue capacità non conosceva limiti e nell’ascoltarlo, Lars fu nuovamente accarezzato dalla tentazione di prendergli la testa e spingerla sott’acqua, ma si limitò a sospirare sconsolatamente: nonostante Eliah parlasse e non si fermasse neppure davanti a tutti i muri del mondo, l’albino non poteva mentire a se stesso, non su quell’indefinibile sensazione che gli rilassava i muscoli e cacciava via i brutti pensieri.

“E’ meglio andare, adesso. Il cambio di guardia è fra poco”, affermò l’altro, rendendosi conto dell’ora tarda.
“Ok.”

Alzatisi in piedi, scivolarono lungo le scale in punta di piedi, guardandosi in giro minuziosamente e assicurandosi che il passaggio fosse libero.

“Ehi, Lars”, lo chiamò l’amico, poco prima di scattare.
“Che c’è?” l’albino vide l’amico girarsi, con un grosso sorriso stampato in faccia.
“Io e te saremo amici per sempre, qualunque cosa succeda!”



Eliah teneva veramente a Lars. Era suo amico, il suo più caro e sincero amico.
Non vi era nulla dietro la loro amicizia e questo spingeva entrambi a comportarsi senza rigidità o titubanze. A dire la verità, nessuno dei due trovava difficoltà nel spiegarsi reciprocamente il perché di questo o quello. Eliah li ignorava e Lars faceva altrettanto, esibendo il suo talento e i suoi occhi di ghiaccio come aveva fatto sin dal primo giorno. Nonostante si fosse preparato a quei duri anni che lo attendevano, non avrebbe mai pensato che qualcosa potesse cambiare. Ma si era sbagliato: la sua permanenza era arrivata a metà del tempo concesso, e via via che si consumava, ogni risveglio si faceva più faticoso e difficile da digerire. Le basi da apprendere erano state assimilate, le spade di legno riposte nei bauli: i combattimenti si erano inaspriti, il fiato accorciato e il cappio stretto al suo collo, ispessitosi. Gli anni restanti erano pochi e tanti a seconda da come li si vedeva e Lars Gallower immaginava il suo traguardo come il momento più importante di tutti. Non sarebbe rimasto a San Lorein, non era il suo posto; al di fuori di quelle mura, lo attendeva sua sorella e una vita differente da quella che gli abitanti del posto conducevano. Eliah poteva dire e fare quel che voleva, ma, in fondo al suo cuore, sapeva che l’albino se ne sarebbe andato.

Era orgoglioso di essere un Van Incardine, non mancava mai di dispensare la propria altezzosità al riguardo: il peso del suo stesso cognome lo spronava a eccellere in continuazione, quasi mosso da un’adrenalina inesauribile e bollente come la lava di un vulcano in piena eruzione. Nelle sue parole c’era sempre una nota sfrontata, un pizzico di strafottenza che spesso lo rendeva detestabile, ma Lars sapeva bene che Eliah non era cattivo o, peggio ancora, la copia sputata del padre.
Conoscerlo di persona e fare parte del suo mondo, gli aveva ricordato quanto un amico potesse fare bene all’anima e quanto potesse essere facile superare le difficoltà della giornata. Non era come gli altri bambini della sua isola natale, Eliah era fatto di uno stampo tutto suo: testardo, arrogante, sicuro di sé e fedelissimo alla sua patria. Un vero Van Incardine.

E forse…il problema era sempre stato solo quello.
  
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