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Autore: Latis Lensherr    11/05/2012    6 recensioni
Quella che vi presento è una raccolta di One-Shot e Spin-off che sono stati omessi dalla narrazione ufficiale della mia long "DOVE CI SEI TU, ECCO, QUELLA E' CASA MIA" e che fa parte della serie "ALL THAT'S DONE IS FORGIVEN", che tratta della vita e della storia d'amore fra TOM ORVOLOSON RIDDLE e la sua amica d'infanzia, PHOEBE HOOL.
Piccoli frammenti di vita vissuta e perduta, che contribuiranno a costruire un piccolo amore senza lieto fine, ma che durerà per sempre.
Spero di avervi incuriosito. Buona lettura!
Latis.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"All that's done is forgiven"'
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La lingua segreta dei Serpenti.
 
Tom Riddle aprì la porta del Dormitorio deserto con un gesto deciso, prima di dirigersi senza alcuna esitazione verso quel baldacchino.
Si avvicinò al comodino, non riuscendo a trattenere una smorfia.
Il piccolo mobile di legno sembrava la cornice di un campo di battaglia: era nel caos più totale. Abbandonate alla rinfusa sul ripiano c’erano pergamene di appunti strappate ed accartocciate, diverse ampolle di inchiostro vuote e confezioni appallottolate di Cioccorane. Per non parlare di un bicchiere di vetro sporco, di alcune piume spennate e rotte e di pile disordinate di libri.
Dovette rovistare in quel fastidioso disordine per un minuto buono, prima di trovare ciò che cercava: una vecchia e logora edizione di un libro Babbano.
Si portò la copertina davanti agli occhi, per poterne leggere il titolo.
Dracula” di B. Stoker.
Alzò un sopraciglio di fronte a quella bizzarra opera. Phoebe aveva decisamente degli strani gusti letterari.
I Medimaghi erano giunti alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts nel primo pomeriggio, come succedeva ogni terza domenica del mese da un anno a quella parte. Quella volta, però, avevano annunciato che la seduta di cura sarebbe durata più del solito, per poter collaudare un nuovo medicinale appena scoperto e osservare se, grazie a quello, ci sarebbero stati miglioramenti di sorta nello stato di salute della paziente.
La ragazzina avrebbe dovuto stare sdraiata su uno dei letti dell’Infermeria per più di tre ore e, per questo motivo, le avevano consigliato di trovarsi qualcosa da fare, per affrontare quella lunghissima attesa.
Così, voltandosi verso di lui, Phoebe gli aveva chiesto se avesse potuto andare nel suo Dormitorio, a recuperare un libro che aveva appena iniziato a leggere.
Lui era andato a prenderlo e, ora, l’aveva trovato.
Fece scorrere le pagine del libricino, in un gesto meccanico e distratto. E, mentre lo faceva, qualcosa scivolò dai fogli ingialliti, cadendo silenziosamente a terra.
Un segnalibro, fu il primo pensiero che gli passò per la testa, mentre si abbassava a raccogliere l’oggetto sottile.
Non appena l’ebbe afferrato, però, capì che non era assolutamente nulla del genere. Anzi. Appena l’ebbe fra le mani, capì immediatamente di cosa si trattava.
L’immagine era ferma e grigia e condannava i soggetti rappresentati al suo interno ad un’eterna ed immutabile immobilità. Dopotutto, non sarebbe potuto essere diversamente: quella era una semplice fotografia Babbana.
Non aveva avuto bisogno di fare mente locale, per ricordare quel giorno. Per ricordarsi l’immensa villa marittima, abbarbicata su una scogliera frastagliata, che guardava malinconicamente le onde impetuose e fredde del Canale di San Giorgio e che era solita ospitare tutti i bambini dell’Orfanotrofio, per due settimane all’anno.
La foto ritraeva due bambini, un maschio e una femmina, di circa nove anni – lui e Phoebe, naturalmente.
Entrambi indossavano due casacche scure identiche, sul cui petto spiccava la pallida W dell’Orfanotrofio londinese di Wool’s. La divisa, poi, era completata da una gonnellina grigia per le bambine e da un paio di calzoncini, lunghi fino al ginocchio e dello stesso colore, per i bambini.
Gli sfuggì un sorrisetto, mentre osservava il momento immortalato nell’immagine e ricordandoselo solo in quel momento, dopo tanto tempo.
Lui, che in quegli anni superava la bambina di pochi centimetri, era piegato verso di lei ed osservava il suo viso, analizzando con attenzione qualcosa che doveva trovarsi sulla sua guancia ed indicandolo con un indice puntato. Phoebe, invece, ricambiava il suo sguardo con un’espressione mezza curiosa e mezza spaventata, mentre le mani stritolavano ansiose un deteriorato peluche.
Ora ricordava tutto: anche l’antipatia illogica che, da bambino, aveva maturato nei confronti di quello stupido orsetto di pezza!
Con il senno di poi, poteva vedere perfettamente gli occhi spenti e un po’ annebbiati, segnale più che evidente del malessere che, quel giorno, l’aveva logorata per l’intera mattinata e del quale si erano accorti solo nel pomeriggio.
Non aveva mai saputo dell’esistenza di quella fotografia.
Come non aveva mai saputo che Phoebe ne conservasse gelosamente una copia né come la ragazza ne fosse entrata in possesso; forse, era andata a rovistare fra le carte che la signora Cole teneva nel suo ufficio.
Lanciò un’ultima occhiata all’immagine in bianco e nero, prima di rimetterla all’interno del libro.
Mentre usciva dal Dormitorio delle ragazze di Serpeverde, con il volume sotto braccio, si ritrovò a pensare che, dopotutto, non gli sarebbe dispiaciuto avere un duplicato di quella anche per sé.
In fondo, quel giorno era stato importante anche per lui.
 
***
 
< Bene, signore > esordì la signora Cole, portandosi davanti agli occhi la cartelletta con il programma di quella giornata, mentre il suo gruppo di assistenti, formato da otto donne delle più svariate età, restava seduto davanti a lei, ascoltando in silenzio. < Oggi, è il turno dei nati del ‘26: i bambini che citerò, ora, dovranno essere lavati e preparati entro e non oltre le prossime due ore. Sono stata chiara?>
Le donne si limitarono a rispondere con silenziosi cenni del capo.
< Bene. Cominciamo:
< Baker, Dwayne.
< Butler, Michael.
< Campbell, Agatha.
< Fisher, Derek.
< Ellis, Isaac.
< Harrison, Laurah.
< Hool, Phoebe.
< Lloyd, Paul.
< Mason, Dorothy.
< Mills, John.
< Murray, Barrett.
< Phillips, Rachel.
< Richardson, Francine.
< Riddle, Tom.
< Stubbs, Bill.
< Wright, Jillian.>
La direttrice abbassò la cartelletta e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo perentorio e penetrante alle sue dipendenti, portò le mani sui fianchi, in una posizione molto simile a quella di un generale in guerra, di fronte al suo plotone.
E, dopotutto, affrontare il giorno della foto era un po’ come entrare in guerra, almeno una volta all’anno, per la signora Cole.
Esattamente ogni anno, con una precisione calcolata e perfetta che solo il Governo d’Inghilterra poteva avere, a tutti gli istituti che si occupavano di minori venivano richiesti dei resoconti che testimoniassero l’efficacia del loro lavorato e il buono stato di salute dei bambini di cui avevano l’affidamento.
Il resoconto doveva essere formato da elaborati scritti, uno per ciascun bambino, e da prove visive. Fotografie, appunto.
< Due bambini a testa, signore. Bagno. Vestitura. Pettinatura. Due ore, non un minuto di più. Le foto per il Ministro non possono attendere tutto il giorno. La riunione è conclusa. Potete andare e cominciare a mettervi all’opera > concluse la donna, congedando il gruppo con un gesto infastidito della mano.
Mentre la stanza veniva velocemente svuotata, rimase a scorrere per l’ennesima volta la lista dei nomi dei bambini nati nell’anno 1926, per assicurarsi che ci fossero tutti e sedici e che non fosse presente nessun’altro errore di sorta.
Quando i suoi occhi arrivarono a leggere il nome di Tom Riddle, un leggero brivido di avvilimento e preoccupazione le attraversò la schiena.
La Cole non era una donna molto religiosa, eppure, in quel momento, non riuscì a trattenersi dal rivolgere il proprio sguardo verso il soffitto e a proferire una silenziosa ed infantile preghiera a quell’immateriale presenza divina che avrebbe dovuto sovrastarla dal punto più alto del mondo e dell’universo.
Ti prego, pensò la direttrice, mordicchiandosi un labbro. Ti supplico: fa’ che sia buono. Soltanto per oggi!
 
 
Quella mattina, Tom Riddle fu svegliato dal rumore prepotente della porta della camera che veniva sbattuta con malagrazia.
Quando riaprì gli occhi, si ritrovò con il viso completamente affondato nei capelli neri e spettinati di Phoebe Hool che, raggomitolata su se stessa, continuava a dormire placidamente, con la schiena contro la sua pancia e il pollice della mano destra tenuto saldamente in bocca. L’altra mano, invece, stringeva e stritolava con forza, contro il suo piccolo petto, il collo malandato e scucito di un vecchio peluche che, nei suoi primi e gloriosi anni, doveva essere stata la tenera rappresentazione di un orsetto marrone. Mentre ora era solo un ricettacolo per la polvere e gli acari. Aveva anche smesso di contare tutte le volte in cui aveva detto all’amica di sbarazzarsi di quello straccio pieno di rattoppi e al quale era anche saltato un occhio. Ma la bambina non gli aveva mai dato retta: da quando lo aveva trovato, in uno degli scatoloni pieni di giochi usati che venivano regolarmente donati all’Orfanotrofio di Londra, quel piccolo rigonfiamento di ovatta sembrava dissipare le sue infantili paure molto meglio di quanto lui potesse o cercasse di fare.
Detestava quello stupido orso.
Si stropicciò gli occhi, mentre lasciava correre lo sguardo su quella stanza, che non aveva nulla in comune con la squallida cameretta che lui e Phoebe condividevano a Londra, cercando di fare mente locale.
Innanzitutto, la camera doveva essere grande il doppio di quella dell’Orfanotrofio: il pavimento era completamente ricoperto da un lucido parquet; talmente lucido e pulito che ci si poteva rispecchiare, nei riflessi marrone caldo di quelle grosse assi di legno. Le pareti erano perfettamente tinteggiate di bianco, senza la minima traccia di muffa o di umidità ed erano decorate da alcuni quadri che raffiguravano paesaggi diversi. La porta d’ingresso sembrava parecchio spessa e i cardini su cui si sosteneva erano grossi quasi quanto tre pollici.
C’erano poi un enorme armadio, un piccolo ed elegante scrittoio e due letti singoli molto ampi e, allo stesso tempo, anche molto pesanti: infatti, lui e Phoebe avevano perso parecchio tempo nel tentativo di spostarli e, non riuscendoci, alla fine avevano optato per dormire insieme in uno solo dei letti, che erano comunque in grado di ospitarli entrambi.
Il tutto era completato da un’alta finestra, che si affacciava direttamente sul prato verde del giardino e dalla quale si poteva vedere la superficie capricciosa e movimentata del mare e la piccola zona boschiva che apparteneva ancora alla tenuta.
Certo. Ora ricordava.
Gita estiva.
St. Ives.
Solo in quel momento, dopo essersi stropicciato energicamente gli occhi, si accorse della terza persona che si trovava nella stanza – e comprese quale fosse stata la fonte del rumore che l’aveva svegliato.
Una delle assistenti della signora Cole si aggirava indaffarata per la camera, aprendo la finestra per far arieggiare l’ambiente e rovistando nel grosso armadio, alla ricerca di qualcosa. Era una ragazza di circa ventinove anni, alta e slanciata, con occhi grigi e capelli lisci e ramati, tenuti costantemente legati in una treccia morbida. La pelle era olivastra e il suo accento pesante tradiva le sue chiare origini scozzesi.
Si chiamava Evelyn, se non sbagliava.
La ragazza armeggiò ancora per un po’ con qualcosa all’interno del mobile, poi, stringendo con forza alcuni indumenti perfettamente piegati contro il petto, richiuse le ante ed incrociò il suo sguardo con quello del ragazzino.
< Buongiorno, Tom > lo salutò, con un’espressione severa poco convinta. < Per quante volte, ancora, dovremmo ripetere a te e Phoebe che dovette dormire ognuno nei vostri rispettivi letti? Se continuate così, mi costringerete a riferirlo alla signora Cole.>
< Fallo. Non ho paura della signora Cole > ribatté il ragazzino, con quel suo solito tono pacato e cortese ma allo stesso tempo quasi minaccioso.
Evelyn sostenne lo sguardo fisso di Tom solo per pochi secondi. Poi, lasciando cadere la questione con un movimento impacciato della mano e chiedendosi perché quel bambino agghiacciante fosse capitato proprio a lei, disse:
< Su, sveglia Phoebe. Abbiamo parecchie cose da fare oggi.>
Mentre la ragazza gli voltava le spalle, per concedersi un lungo sguardo del panorama al di fuori della finestra, Tom si sciolse in un leggero ghigno, di fronte alla chiara dimostrazione di quanto anche le assistenti della direttrice dell’Orfanotrofio fossero in soggezione davanti a lui.
< Phoebe, svegliati > cominciò a chiamarla, piano, scuotendola leggermente per una spalla. < E’ ora di alzarsi, su!>
L’unica risposta che ricevette dalla bambina fu un mugolio infastidito ed assonnato, poi, strizzando con forza gli occhi chiusi, si accoccolò meglio fra le lenzuola e tornò a sonnecchiare tranquillamente.
Il ragazzino sospirò esasperato.
< Phoebe: ALZATI!> esclamò questa volta, con tono di voce molto più alto. Le afferrò le piccole spalle con entrambe le mani e la sbatacchiò con forza.
La bambina, costretta ad aprire gli occhi, incurvò le labbra in un’espressione imbronciata e, con movimenti stanchi e lenti, si mise a sedere sul materasso emettendo piagnucolii infastiditi. Si lasciò andare in un grosso sbadiglio, mentre con la mano libera si grattava distrattamente una guancia.
Sbattendo i piedi, Tom si liberò delle coperte e si mise in ginocchio sul letto. Prima di scendere, colpì la nuca dell’amica, che ancora si stropicciava gli occhi impastati di sonno, con una lieve pacca, commentando con scherzosa perfidia:
< Sei sempre la solita imbranata…>
Raggiunse il pavimento con un piccolo salto. Ma non fece in tempo a voltarsi, che il rumore di singhiozzi attutiti lo spinse a riportare il suo sguardo verso la bambina, ancora seduta sul materasso. Gli occhi, già grandi di loro, sembravano essere stati ingigantiti dalle copiose lacrime che vi si erano formate dentro, mentre la bocca era contratta in una smorfia addolorata e triste, dalla quale fuoriuscivano gemiti colmi di pianto.
Tom non fece nemmeno in tempo a chiederle che cosa stesse succedendo.
< MI HAI FATTO MALEEE!> strillò Phoebe, con voce acuta. Le lacrime si gettarono in picchiata sulle sue guance, inondandole completamente in pochi secondi.
Quei gridolini di disperazione lasciarono completamente spiazzato il ragazzino, che era rimasto a fissare l’amica con sguardo confuso, come se si fosse trasformata in una creatura sconosciuta e mai scoperta prima, ed attirarono l’attenzione di Evelyn.
L’assistente della signora Cole, vedendo la bambina in lacrime, si affrettò ad appoggiare da qualche parte gli indumenti che aveva in mano e ad accorrere in suo soccorso. Si inginocchiò davanti a lei, che continuava imperterrita a piangere, e poi, voltandosi in direzione dell’altro bambino, esclamò, con tono di rimprovero:
< Tom!>
< Non ho fatto niente, stavolta!> si difese immediatamente lui, con voce alta, per sovrastare i pianti di Phoebe.
< Su, piccola, adesso basta: non è successo niente > tentò di consolarla la ragazza, con tono gentile, asciugandole le lacrime con le dita. Poi, la prese tra le braccia, con la stessa facilità con la quale avrebbe potuto sollevare una bambola e, cullandola un po’, aggiunse: < Basta piangere; Tom non l’ha fatto apposta. Ascoltami: ora andiamo in mensa e facciamo una bella colazione. Vedrai che dopo passa tutto. Ssh. Tranquilla, tesoro, tranquilla…>
Evelyn continuò a rincuorarla in quella maniera, anche mentre raggiungeva l’ingresso della stanza e si accingeva per uscire nel corridoio. Si fermò davanti alla porta e, tornando a guardare verso il ragazzino, allungò un braccio in direzione dell’uscita e disse, mantenendo il tono duro ed arrabbiato di prima:
< Anche tu, Tom. Fila di corsa in mensa a far colazione. Subito!>
Tom boccheggiò per qualche secondo, incredulo. Poi, sbuffando sonoramente per l’irritazione, uscì dalla camera con uno sguardo furente.
Imbranata, pensò, con un’altra sbuffata.
 
 
 
Evelyn gli fece cadere addosso un’altra secchiata d’acqua, prima di annunciargli che aveva finito di lavarlo. Il ragazzino accolse la notizia con un’esultanza mentale.
Detestava fare il bagno. Beh, non era proprio corretto: detestava che qualcuno gli facesse il bagno.
Era un bambino; non un idiota!
Avendo vissuto per tutta la sua intera esistenza all’Orfanatrofio, aveva dovuto imparare a lavarsi da solo molto presto e la cosa non lo aveva disturbato più di tanto. Preferiva arrangiarsi e fare da solo tutte le cose che lo riguardavano. Essere lavato, insaponato e risciacquato da mani estranee lo faceva sentire come se fosse stato ancora un bambino piccolo, che non era in grado di badare a se stesso.
E la cosa era decisamente denigrante.
Lui sapeva badare a se stesso.
Era un bambino; non un idiota!
L’assistente della signora Cole gli avvolse intorno al corpo un enorme asciugamano bianco e ruvido come la carta vetrata, poi gli frizionò con forza i capelli per qualche minuto, così che si asciugassero più in fretta, e lo fece uscire dall’enorme tinozza di rame, nella quale era rimasta ancora un po’ di acqua insaponata.
Lo fece sedere su una sedia ancora tutto infagottato e, dopo aver fatto defluire l’acqua usata ed averla sostituita con della nuova, si dedicò a svestire Phoebe, che la guardava con uno sguardo assente.
Tom lanciò un’occhiataccia all’amica, mentre Evelyn le toglieva la camicia da notte bianca dalla testa e le sfilava anche gli indumenti intimi ed infantili, ancora avvelenato per il tiro mancino che la bambina gli aveva tirato, un’ora prima.
Quel giorno, Phoebe Hool era proprio antipatica!
Era rimasta imbronciata e piagnucolante per l’intera mattina. In mensa, durante la colazione, era di nuovo scoppiata a piangere, dopo che la signora Cole le aveva dovuto – quasi letteralmente – strappare di mano il suo orsacchiotto di pezza, rimproverandola per il fatto che, durante i pasti, non si potevano portare i giochi a tavola.
Aveva continuato a singhiozzare rumorosamente fino a quando la mensa non si era svuotata, con la faccia nascosta fra le braccia incrociate. E la cosa lo aveva irritato alquanto: detestava i bambini che piangevano!
< Adesso stai ferma e chiudi gli occhi, Phoebe > le disse Evelyn con calma, mentre versava una piccola dose di sapone sui capelli scuri della bambina, che se ne stava seduta nella tinozza in silenzio, per poi cominciare a sfregarglieli con forza. Una delle manine della piccola era sollevata e grattava con insistenza il mento che, a furia di essere maltrattato, si era spaventosamente arrossato.
< Evelyn > la chiamò la bambina, con il tono lamentoso che aveva continuato ad usare per tutta la mattina. Quella voce lagnosa pizzicò fastidiosamente sui nervi tesi di Tom. < Mi prude il mento…>
La ragazza stava riempiendo il secchio di acqua per sciacquare via la nuvoletta di sapone che si era formata, quando le rispose, distrattamente:
< Non toccarlo; lascialo stare, Phoebe. Se continui a grattarti, è peggio.>
< Ma a me prude!> si lamentò ancora lei, incurvando le labbra in un broncio. < Mi prude tanto…>
< Avrai le pulci > sibilò Tom, rivolgendo all’amica uno sguardo malefico e mostrandole uno dei suoi ghigni più cattivi.
Phoebe si voltò verso di lui, ricambiando il suo sguardo con un’espressione schifata e terrorizzata, e sollevò di scatto la testa in direzione dell’assistente della direttrice, facendole schizzare addosso diverse gocce di acqua e di sapone. La sua voce angosciata si era alzata di diverse ottave:
< Io non ho le pulci! Vero? Vero, Evelyn?! Diglielo. Diglielo che non ho le pulci. Diglielo. Diglielo, Evelyn! IO NON HO LE PULCIII...>
La bambina riprese nuovamente a piangere, singhiozzando senza sosta ed urlando come una sirena. Evelyn alzò gli occhi al cielo esasperata e, mentre si piegava vicino a lei, lanciò un’occhiataccia in direzione del ragazzino che, ancora imbacuccato nell’asciugamano, gongolava internamente.
< Adesso basta, Tom. Finiscila > lo sgridò la ragazza, mentre faceva scorrere la mano sulla schiena nuda e bagnata di Phoebe, nel tentativo di calmarla. Poi, con lo stesso tono duro, si rivolse a lei, dicendo: < E anche tu, Phoebe: basta piangere! Si può sapere cos’hai, oggi, per essere così noiosa?>
< Io non sono noiosa…> piagnucolò ancora la bimba, con sguardo basso e il labbro inferiore proteso all’infuori.
< No, infatti: sei peggio!>
< Tom!>
Il ragazzino ridacchiò di nuovo a labbra strette, mentre Phoebe emetteva un nuovo ed acuto versetto di protesta.
Evelyn si lasciò sfuggire un sonoro sospiro e, afferrato il secchio colmo d’acqua, risciacquò la testa della bambina.
 
 
 
La signora Cole aveva richiamato i bambini della classe del ‘26 già un paio di volte. La sua voce gracchiante e sgradevole, resa ancora più molesta dalla vena isterica che la colorava, riecheggiava nei corridoi della villa in modo agghiacciante, come avrebbe potuto fare il grido di battaglia di un’amazzone.
< Tom, aspettami…> lo chiamò Phoebe, dal pianerottolo, con voce stanca.
Il ragazzino, che si trovava già in fondo alla rampa di scale, alzò lo sguardo in direzione della compagna di stanza ed incrociò le braccia sul petto avvolto nella divisa dell’Orfanotrofio di Londra.
< No > rispose lapidario, lanciandole un’occhiataccia. < Non ne ho voglia.>
La bambina cominciò a scendere i gradini con passo malfermo, tenendo il suo sguardo velato in direzione delle sue scarpe e reggendosi con una mano al corrimano. La sua voce era un mormorio implorante, quando disse semplicemente:
< Per favore…>
< No. Oggi non ti sopporto. Oggi mi stai antipatica.>
< Sei cattivo…> ribatté la piccola indignata, riacquistando per un secondo un po’ di lucidità nello sguardo e stringendo le mani in piccoli pugni. I due codini, che Evelyn le aveva fatto ai lati della testa e che le aveva legato con due nastri di stoffa blu scuro, ondeggiarono pericolosamente, mentre aggiungeva: < Sei cattivo, Tom. Allora, anche tu mi stai antipatico…oggi!>
Phoebe terminò gli ultimi scalini che le mancavano sbattendo rumorosamente i piedi su ognuno e, quando si ritrovò faccia a faccia con l’amico, gli indirizzò una linguaccia. Il ragazzino, con le braccia ancora conserte e sguardo imperturbabile, disse:
< Sei fastidiosa, quando piangi.>
< Anche tu sei fastidi…>
< La smetterai di frignare per qualsiasi cosa, da adesso in poi?> la interruppe lui, tappandole la bocca con le dita di una mano.
La bambina, con occhi arrossati e spalancati per lo stupore, rimase a fissarlo in silenzio per qualche secondo, prima di scuotere la testolina scura in un segno affermativo.
A quel punto, Tom le rivolse un piccolo sorrisetto e allontanò la mano dalla sue labbra, per poi riprendere a camminare lungo il corridoio, in direzione del giardino. Dietro di lui, Phoebe dovette fare una piccola corsetta, per rimettersi al suo fianco, e, una volta raggiunto, fece scivolare le proprie dita fra quelle del compagno di stanza.
Lui, senza dire nulla né voltarsi, ricambiò la stretta.
Così, mano per mano, raggiunsero il cortile della villa, dove molti dei loro compagni si erano già riuniti da qualche minuto.
< Tom?> lo chiamò ancora la bambina, dopo qualche passo.
< Dimmi.>
< Io non ho le pulci…vero?!>
 
 
 
Ci vollero ben tre tentativi, prima che il fotografo riuscisse, finalmente, a fare una foto decente.
La prima volta fu colpa di Isaac Ellis che, poco prima dello scatto, aveva slegato i nastri per i capelli di Rachel Phillips, rovinandole completamente l’acconciatura ed attirandosi le ire di una signora Cole particolarmente agitata.
La seconda volta fu colpa di Dwayne Baker, Barrett Murray e Billy Stubbs che avevano cominciato a tirarsi dei poderosi spintoni, finendo inevitabilmente addosso alla fila davanti delle bambine e facendole cadere rovinosamente a terra.
La terza volta fu colpa di Phoebe Hool che, non riuscendo più a scorgere con lo sguardo il suo compagno di stanza, si era voltata, facendosi così immortalare con le spalle rivolte verso la fotocamera.
La signora Cole sospirò profondamente, con una mano ferma sul petto, quando, finalmente, riuscirono a fare quella benedetta foto. Una volta terminato, ai bambini nati nel 1926 venne concesso di giocare nel cortile, mentre il fotografo scattava ancora qualche foto qua e là.
Quando Tom raggiunse Phoebe, la trovò in piedi in mezzo al prato. I codini erano leggermente disfatti, lo sguardo distrattamente imbronciato e la testa inclinata di lato sembrava appoggiarsi su una delle mani, che continuavano a sfregare e strofinare la morbida porzione di pelle.
< Cos’hai, adesso?> le domandò sospettoso il ragazzino, piegandosi un poco verso di lei ed inclinando anche lui la testa, per poter incontrare il suo sguardo.
La bambina non rispose subito. Continuava a graffiare la guancia con insistenza, come se fosse stato un compito di vitale importanza e nel quale dovesse mettere la massima concentrazione. Buona parte dello zigomo era già diventato di un bel rosa acceso. Poi, con tono stanco e scoraggiato, disse, piagnucolando un po’:
< Mi prude la guancia…>
L’altro alzò gli occhi al cielo, emettendo un verso di esasperazione.
< Smettila di grattarti > le ordinò, afferrandole il piccolo il polso ed allontanandoglielo con un gesto deciso dal viso. < Fammi vedere.>
La bambina rimase immobile, ubbidiente, mentre l’amico faceva scorrere gli occhi scuri sul suo viso, alla ricerca di qualcosa che potesse essere la causa di quel fastidio che la tormentava oramai da tutto il giorno. Ad una prima occhiata, non sembrava esserci nulla di anomalo. La pelle non presentava alcun tipo di graffio: era perfettamente normale, eccezion fatta per il rossore intenso.
Era stato sul punto di raddrizzarsi con la schiena, comunicandole che non aveva assolutamente niente, quando il suo sguardo venne attirato da un piccolo e quasi invisibile dettaglio. La prima volta non l’aveva notato, perché si era mimetizzato con l’arrossamento della guancia, ma, ora che ci guardava meglio, qualcosa c’era.
Lo indicò con un indice proteso, mentre continuava ad osservarlo, per cercare di capire cosa fosse. Era così concentrato su quel punto, che nemmeno si accorse del rumore del flash della macchina fotografica, molto simile a quello di un fiammifero quando viene acceso.
< Phoebe > la chiamò, con tono di voce assorto. < Hai una macchiolina rossa sulla guancia.>
 
 
 
La diagnosi fu unica ed inequivocabile: morbillo.
Non appena la signora Cole e le sue assistenti avevano visto quella minuscola chiazza rossa, avevano immediatamente capito di cosa si trattava.
Phoebe Hool aveva preso il morbillo.
Come se avessero avuto fra le mani una bomba a mano, la direttrice e le sue aiutanti avevano cominciato ad agitarsi e avevano trascinato la bambina lontano dal resto dei suoi compagni, terrorizzate all’idea che potesse infettarli tutti in un colpo solo.
Una volta arrivate in camera, poi, l’avevano spogliata velocemente, scoprendo la presenza di una decina di altre macchiette, cosparse fra l’addome, la schiena e le gambe: una volta comparso il primo puntino, l’infezione era dilagata come un fiume in piena e si era moltiplicata con una velocità impressionante. Le avevano misurato anche la temperatura: la bambina aveva tre lineette di febbre; nulla di grave o preoccupante, ma erano comunque bastate ad intontire Phoebe, rendendola intrattabile per tutta la giornata.
A quel punto, la signora Cole stabilì che la piccola Hool dovesse rimanere a letto per tutto il resto della giornata, per riposare. E, soprattutto, doveva essere tenuta lontana dagli altri bambini dell’Orfanotrofio, nella quarantena più totale.
Ora Tom Riddle riusciva a dare un senso allo strano ed inspiegabile comportamento dell’amica.
< La tua faccia sembra un disegno fatto male > le disse, senza il minimo tatto, sogghignando, mentre cercava di fare una conta mentale dei punti rossi sul suo viso. Ne aveva contati almeno sette: due sulla guancia; uno enorme appena sotto il mento; tre sulla fronte e uno proprio in mezzo fra il naso e il labbro superiore della bocca.
Phoebe, che lo stava fissando aggrappata al poggiolo della finestra della loro camera, con la testa appoggiata sulle braccia incrociate, gli lanciò un’occhiataccia indispettita ed imbronciata, prima di rivolgergli l’ennesima linguaccia.
Lui, in piedi nel giardino della villa, ridacchiò in risposta, mentre l’altra, mormorava, tristemente:
< Non è giusto. Anch’io voglio stare fuori a giocare!>
< Assolutamente no: non voglio prendere anch’io il morbillo > la rimproverò Tom, con sguardo severo. < Ora, tu ti infili sotto le coperte e riposi. Guarirai più in fretta, te lo garantisco. Anzi, ti do la mia parola.>
< Non ci credo > ribatté la bambina, con il volto seppellito fra le braccia, ricoperte dalle maniche della camicia da notte bianca.
Il ragazzino sospirò in silenzio, mentre si avvicinava alla finestra di qualche passo ed aggiungeva:
< Su, basta con i capricci. Piuttosto, passami il libro che ho lasciato in camera. Voglio andare a leggere un po’.>
< No.>
< Cosa?! Perché?>
< Perché tu devi rimanere qui a farmi compagnia.>
< Non ci penso nemmeno!>
< Ma io non voglio stare qui da sola. Non è giusto!> protestò Phoebe, rialzando il viso imbronciato e triste verso l’amico.
< Basta!> sentenziò Tom con tono irremovibile, sferzando l’aria con un braccio e mettendo fine a quell’infantile discussione. < Ora portami il libro. Su, vai, cosino pruriginoso.>
La bambina emise un piagnucolio sommesso, con il labbro inferiore proteso in una smorfia imbronciata, e si allontanò dalla finestra, scomparendo dalla visuale dell’amico per una manciata di secondi. Quando finalmente ritornò, allungò un braccino fuori, in direzione del ragazzino, e lo ritrasse solo quando quest’ultimo le sfilò il libro dalla mano. Poi, senza più dire una parola, riportò il visino stanco nell’incavo sicuro delle braccia conserte, accoccolandosi contro il corpicino morbido del suo orsetto di peluche, che era andata a recuperare insieme al libro.
Tom le voltò le spalle, intenzionato a non assecondare le sue lamentele per nulla al mondo: lasciarla sola sarebbe stata la più giusta punizione, per il suo inqualificabile comportamento di quella mattina. Non importava se si era comportata in quel modo a causa della febbre: lui non giustificava nessuno, tantomeno lei.
Aveva già fatto un paio di passi in direzione del giardino, quando qualcosa di assolutamente indefinibile lo fece bloccare, per poi tornare a voltarsi verso la sua compagna di stanza.
Però, dopotutto, era stata colpa della febbre…
Rimase indeciso sul da farsi per un minuto buono: era una sensazione strana e un po’ sgradevole. Era come se due corde fossero state legate strette intorno al suo corpo, una sulla parte superiore e l’altra su quella inferiore, e avessero cominciato a tirare in due versi opposti, rischiando seriamente di tranciarlo a metà.
Alla fine, appoggiando il libro sull’erba verde del prato, ritornò vicino alla finestra. Si issò con le braccia sul poggiolo e si puntellò contro il muro con i piedi, per aiutarsi a mantenere l’equilibrio. Una volta arrivato alla stessa altezza di Phoebe, le accarezzò gentilmente i capelli per un paio di volte, prima di lasciarle un bacio leggero sul capo.
< Ora cerca di riposare un po’. D’accordo?> le mormorò piano, quando la bambina alzò lentamente il viso verso di lui.
Lei si limitò a fargli un cenno di sì con la testa.
Così, Tom recuperò il suo libro e si allontanò più tranquillo, mentre Phoebe gli faceva “ciao ciao” con la manina dalla finestra.
 
 
 
Dopo aver girovagato senza meta per diversi minuti, Tom decise di sedersi sotto l’ombra fresca di un’enorme quercia, accoccolandosi in mezzo alle radici tozze e nodose, che solcavano e spaccavano il terreno tutt’intorno. La grossa pianta era cresciuta proprio al limitare della piccola zona boschiva, che si era formata a poca distanza dalla villa.
La brezza marittima gli schiaffeggiò con dolcezza i capelli, mentre faceva scorrere lo sguardo sull’orizzonte davanti a sé. Alla sua sinistra, le onde del Canale di San Giorgio si scaraventavano ruggendo contro gli scogli ed avevano assunto un invitante colore azzurro, grazie al fatto che, finalmente, il sole era riuscito a districarsi dalla fitta rete di nuvole che l’aveva tenuto prigioniero per tutta la mattina.
Alla sua destra, invece, i suoi compagni dell’Orfanotrofio gridavano e ridevano e correvano, mentre trascorrevano il pomeriggio giocando nel giardino, tenuti strettamente sott’occhio dalla signora Cole e dalle sue assistenti che, parlottando in circolo fra loro, ogni tanto si voltavano, per controllare che i bambini non rischiassero di spaccarsi l’osso del collo, con qualche gioco un po’ troppo pericoloso.
Allungò il collo un’ultima volta, per riuscire a vedere meglio il muro laterale della villa, constatando, però, che dal punto in cui si trovava non riusciva ad intravedere né Phoebe né la finestra della loro camera. A quel punto, finalmente, rilassò le spalle e lasciò che la schiena incontrasse la superficie frastagliata della corteccia e del tronco, mentre appoggiava il proprio libro sulle gambe incrociate.
Fece scorrere le pagine per qualche secondo, voltandole con gentilezza e prestando attenzione a non spiegazzarle né strapparle, fino al punto in cui la volta precedente aveva interrotto la lettura. E, inspirando profondamente, si immerse nella lettura, udendo solo distrattamente il sottofondo della boscaglia intorno a lui. Percependo a malapena il rumore spezzato di rami che si rompevano o si piegavano, sotto il peso eccessivo di qualche volatile che vi si posava sopra, e lo sfrusciare ninnante dell’aria in mezzo ai fili d’erba. E le proteste acute dei gabbiani per la mancanza di cibo, che giungevano dal mare e si disperdevano fra gli alberi, in tante eco.
Aveva perso completamente la percezione del tempo, quando si riscosse dalla lettura e ritornò alla realtà. Potevano essere passati solo cinque minuti; ma potevano essere benissimo passate anche due o tre ore.
Non avrebbe saputo dirlo con certezza.
Inizialmente, non aveva fatto caso al suono attutito di un rametto di legno che si piegava, fino a spaccarsi, a poco più di cinque passi di distanza da dove si trovava lui. La sua testa fece uno scatto secco, che gli procurò una dolorosa fitta, quando quella voce bassa e cadenzata gli raggiunse le orecchie.
< Fame…ho fame! Devo trovare qualcosssa con il quale posssa nutrirmi…> mormorò.
Lo sguardo di Tom saettò da destra a sinistra, scrutando attentamente nella vegetazione circostante, alla ricerca della fonte o del proprietario di quella strana voce.
Qualcuno aveva parlato, non poco lontano da dove si trovava lui. L’aveva sentita perfettamente ed aveva anche capito ciò che aveva detto. Doveva esserci qualcuno nei paraggi; qualcuno che aveva parlato senza accorgersi della sua presenza. Eppure…
Eppure non c’era nessuno, lì.
Strizzò leggermente gli occhi, ma nulla: non un’ombra né una chiazza di colore che potesse tradire una persona che aveva cercato nascondiglio in mezzo alla vegetazione alta e verde. Non c’era nessuno, lì.
Eppure lui era sicuro di aver sentito distintamente una voce…o no?!
Forse si era…sbagliato.
Sì, probabilmente era stato solo un pessimo scherzo della sua immaginazione, ancora troppo legata ai passaggi e alla trama della storia che stava leggendo. Sì, doveva per forza trattarsi di uno errore: dopotutto, nessuno sarebbe potuto arrivargli così vicino, senza che lui lo vedesse avvinarsi o senza che si accorgesse del suo avanzare.
Stava per riportare il viso in direzione delle pagine del libro, quando un nuovo sibilo gli provocò un lungo e violento brivido per tutta la schiena, spingendo le sue gambe a scattare, per potersi alzare da terra e riguardarsi in giro, con una lieve ansia.
< Magari una lucertola…o un topo!> disse ancora la voce, fastidiosa come il rumore di un gesso che graffia una lavagna. <Ssì. Un topo sssarebbe perfetto. E…c’è qualcosa!>
Nulla.
Nemmeno un piccolo e misero movimento fra gli alberi, a parte il soffio leggero del vento che, invisibile, accarezzava le punte arrotondate delle foglie e dei cespugli. Il sangue gli pompava come un ossesso dentro le orecchie e quella prova tangibile della sua agitazione contribuì solo a farlo infuriare; le dita della mano che si incurvavano in pugni, mentre gli occhi cercavano con disperazione qualche prova.
Qualche prova del passaggio di qualcuno. Qualche prova che gli dicesse che non era diventato pazzo!
< Chi c’è?! Fatti vedere!> urlò, sporgendosi anche oltre il tronco contro il quale si era seduto, per assicurarsi che non ci fosse proprio nessuno. < Se è uno dei tuoi scherzi idioti, Stubbs, ti avverto: non è divertente e mi sto arrabbiando!>
Non sapeva perché aveva pensato proprio a Stubbs.
Forse perché solitamente era lui quello che si divertiva a rendergli la vita impossibile. Forse perché dare la colpa a lui era la spiegazione più facile da accettare – anche se la parte ragionevole della sua mente, in quel momento segregata e costretta in un angolo, continuava a gridargli a gran voce che Billy Stubbs aveva attraversato il cortile in corsa, nella direzione opposta alla sua, non più di cinque minuti prima.
La voce parlò di nuovo, facendolo arretrare istintivamente di un passo:
< Dovrei attaccare? E’ più grossso di me e potrebbe ssschiacciarmi con facilità. Ma…non mi ssta guardando. Forse non mi ha vissto…>
La sentiva bene; troppo bene.
Non poteva essere lontano. Doveva essere lì, vicino a lui.
< Continua a non vedermi…>
Fra gli alberi? No.
Sulla stradina sabbiosa che portava alla spiaggia, più in basso? No.
Fra i cespugli? No.
Non c’era. Non c’era!
<…non mi vede. Forse potrei…>
La mano ebbe un fugace sussultò e il libro gli sfuggì di mano, picchiando contro il terreno polveroso e, con un saltello, finendo poco più avanti di lui. Il suo sguardo impietrito lo seguì, senza pensare, fissandosi su quel punto, mezzo nascosto tra i fili d’erba alta ed incolta.
Quel punto, mezzo nascosto tra i fili d’erba alta ed incolta.
La copertina marrone e sbiadita del libro che risaltava come un pugno, in mezzo al verde.
E…
E due tonde chiazze gialle, che ricambiavano il suo sguardo!
< Mi ha visssto!>
Capì che aveva preso la decisione di attaccarlo nel momento esatto in cui la vegetazione, che aveva nascosto quei due occhi gialli e verticali, venne mossa e piegata con irruenza, come se qualcosa si affannasse per potersi spostare il più velocemente possibile.
Una vipera, affermò una voce dentro la testa, l’unica cosa che continuasse a ragionare, nonostante tutto.
Quando la testa piatta e triangolare della vipera uscì allo scoperto, continuando ad avanzare minacciosamente verso di lui, Tom fece l’unica cosa che l’istinto, oramai in pieno controllo della sua mente, gli suggerì: urlò.
Urlò, senza pensare a cosa stava dicendo; senza pensare a come lo stava dicendo:
< Ssstai indietro! Non ti avvicinare!>
E il rettile si fermò.
All’improvviso, interrompendo il suo movimento a metà, la biscia si bloccò, con la parte superiore del corpo sottile sollevata da terra, e rimase a fissarlo intensamente, come se quell’ordino fosse avesse sentito quell’ordine disperato…come se lo avesse capito!
La vipera continuava a fissarlo, con gli occhi giallo limone che non si chiudevano mai, saggiando l’aria con la lingua biforcuta. Se non fosse stato più che improbabile, il ragazzino avrebbe potuto giurare che l’animale aveva assunto una bizzarra espressione confusa. Continuò a ricambiare il suo sguardo, anche mentre quella portava lentamente il resto del suo corpo fuori dall’erba alta, e l’arrotolava sotto di sé.
< Come desssideri.>
Tom dovette mordersi la lingua a sangue, per trattenere lo strillo che aveva minacciato di scappargli dalla bocca quando, finalmente, comprese che la voce, che aveva sentito fino a quel momento, proveniva da quell’animaletto squamoso e strisciante.
Non è possibile! Non è possibile! NON E’ POSSIBILE!, continuava ad urlare la sua mente, in una folle cantilena. Gli occhi rischiavano di saltargli fuori dalle orbite, tanto erano spalancati.
Era scientificamente impossibile.
Era contro natura.
Non era possibile.
Semplicemente non era possibile!
Nessun animale al mondo possedeva il dono della parola – eccezion fatta magari per i pappagalli, ma dei quali non si poteva parlare proprio di capacità linguistiche e comunicative.
Nessuno.
Quindi i serpenti non parlavano. Nessuno di loro poteva parlare!
Non importava a quale specie appartenessero: non importava che fossero cobra, serpenti a sonagli o pitoni; non importava che fossero bisce, anaconde o una vipera come quella che aveva di fronte.
I serpenti non parlavano!
Eppure…quella gli aveva appena rivolto la parola…
No! No! E NO!
Stava veramente impazzendo.
Si sentiva come se suo il cervello si fosse intorpidito, incapace di riprendere i suoi movimenti e di riportarlo alla ragione. I pensieri faticavano a legarsi l’uno all’altro e finivano per disperdersi ed annodarsi disordinatamente fra loro, distruggendo qualsiasi tipi di linea logica.
C’era una vipera davanti a lui.
La vipera si era fermata, sotto suo ordine.
La vipera gli aveva parlato.
La sua mente era ancora un caotico subbuglio, quando la sua bocca parlò ancora, senza sapere esattamente cosa stava dicendo:
< Tutto questo è asssurdo…tu non puoi parlare!>
< Perché non possso?!> aveva risposto il rettile, facendo ondeggiare la testa piccola.
< Come fai a parlare la mia lingua?>
< Non sssono io a parlare la tua lingua.>
< Che cosa vorresssti dire?!>
< Voglio dire che sssei tua parlare la mia lingua.>
Tom non poté impedirsi dall’aprire la bocca, per la sorpresa che quella frase aveva suscitato dentro di lui. Fece una smorfia, come a voler far capire all’animale che non gli credeva, che sapeva perfettamente che stava mentendo.
Lui era speciale; diverso dagli altri.
Lo aveva sempre saputo e, in quegli anni, ne aveva avuto la conferma – sia in lui che in Phoebe. Quindi, sebbene a prima vista potesse sembrare assolutamente impossibile, potevano esistere animali speciali che parlavano.
Anche lui lo era, perciò potevano esserci anche degli animali.
Ma…
< Che cosa vuoi dire con la tua lingua? Io non sssto parlando un’altra lingua > mormorò il ragazzino, con gli occhi socchiusi dall’incertezza.
Lo sguardo che la vipera gli restituì era pieno di sospetto, quando, avvicinandosi fino a sfiorare le sue scarpe lucidate di fresco, ribatté:
< Non te ne sssei accorto? Non lo sssenti?>
< Cosssa? Cosssa dovrei sssentire?>
< Parla; parla di nuovo. Ma, quesssta volta: assscolta!>
< Cosssa dovrei…> cominciò Tom, spazientito. Poi, come se fosse riuscito a sentire un suono basso e quasi impercettibile, che fino a quel momento gli era sfuggito, il suo sguardo pensieroso si fissò su un punto imprecisato del prato. <…sssentire…cosssa…>
Un sibilo.
Un sibilo basso e quasi impercettibile.
Un sibilo che strisciava lieve, come il corpo dei serpenti.
Un sibilo che fremeva prima all’interno della gola, per poi scivolare sinuoso e sensuale sulla lingua, fino alla punta.
Un sibilo che tremava sulle labbra, facendole rabbrividire, e che accarezzava le orecchie, quasi con dolcezza.
Un sibilo.
Sì, ora lo sentiva. Ora era riuscito ad ascoltarlo.
E lo capiva. Era una lingua di cui riusciva a capire ed intuire ogni singolo suono, ogni singola intonazione delle parole ed ogni singola strutturazione delle frasi. Era una lingua che riusciva a capire.
Era una lingua che conosceva.
Ecco perché non se n’era accorto prima: la conosceva a tal punto di non accorgersi che non stava più parlando inglese.
Non si era accorto che, ormai da parecchi minuti, la sua bocca e la sua lingua stavano emettendo dei sibili e dei soffi.
< Che lingua è?> domandò, con eccitata meraviglia, inginocchiandosi vicino alla vipera ed allungandole il palmo della mano, che lei accettò senza timore, attorcigliandosi con gentilezza intorno al suo polso.
Il rettile fece vibrare un paio di volte la lingua rosa, prima di spiegare:
< Noi la chiamiamo “Ssserpentessse”: la lingua sssegreta dei ssserpenti.>
< E possso usarlo per parlare con i ssserpenti? > chiese ancora, mentre sentiva l’entusiasmo gonfiargli il petto e pizzicarlo piacevolmente. < Con tutti i ssserpenti?>
< Penssso proprio di sssì.>
Un sorriso ricolmo d’orgoglio increspò le belle labbra del ragazzino, mentre faceva scorrere delicatamente le dita sul corpicino fragile della vipera, ammirandone le colorazioni verdi e marroni, che sembravano essersi intrecciate fra loro con innaturale maestria, formando così sulle squame lucide una sorta di disegno astratto.
Poteva parlare con i serpenti!
Ecco l’ennesima prova.
Ecco l’ennesima dimostrazione!
La dimostrazione della sua diversità e della sua superiorità, rispetto a tutti gli altri bambini e persone con il quale era costretto a vivere e a stare in contatto.
La dimostrazione che lui era davvero speciale.
Ecco l’ennesima dimostrazione: forse, addirittura la più importante.
Non che non ne avesse già avute in passato di dimostrazioni, ma sentiva quella scoperta come un tassello essenziale ed irrinunciabile. Il pezzo finale e deciso del suo puzzle; il puzzle che sarebbe stato la testimonianza reale e tangibile delle sue straordinarie capacità e del suo strabiliante potere.
Quella scoperta lo faceva sentire speciale.
Quella scoperta lo faceva sentire…importante.
Già pregustava il momento in cui si sarebbe fatto tornare utile quella sua incredibile dote.
Già pregustava il momento in cui l’avrebbe detto a Phoebe: si sarebbe strozzata dall’invidia!
Continuò a coccolare distrattamente l’animale, perso nei suoi pensieri, quando quest’ultimo, sibilando ancora una volta, domandò, interrompendo le sue riflessioni:
< Qual è il tuo nome?>
< Tom > rispose il ragazzino, senza riuscire a trattenere la lieve nota di sospetto che incrinò leggermente il suo tono di voce. < Perché?>
< Perché hai un punto rossso, proprio sssul dorssso della mano, Tom.>
Lui, sollevando un sopraciglio incerto, si portò lentamente la mano libera davanti agli occhi. Con un certo orrore, non poté fare a meno di constatare che, sì: sul dorso della sua mano, nella zona di pelle pallida tra il pollice e l’indice, era spuntata una macchia rosso acceso, delle dimensioni della capocchia di un fiammifero.
Ad una seconda occhiata, aveva potuto individuarne all’istante una seconda che era cresciuta nella falange inferiore del mignolo.
Purtroppo, capì all’istante di cosa si tratta.
Uno spontaneo versetto di esasperazione ed irritazione gli uscì dalle labbra, mentre esclamava, non più in Serpentese:
< Maledizione a te, Phoebe Hool!>
 
 
 
Angolo dell’autore.
Eh già.
Sfortunatamente per voi, SONO TORNATA!!
Ahauauhauhauahuahaahuahauahuuahauhauah…coff…coff…
Manco le risate sataniche riesco a fare che mi strangolo da sola: sono messa molto male u.u
 
Insomma, eccoci di nuovo qui con un’altra one-shot (che poi, con la lunghezza smisurata che hanno, tutte le volte, potrò ancora definirle one-shot?!).
Ho trascurato per moltissimo tempo i miei adorati bambini; i miei adorati Tom e Phoebe!
 
TOM RIDDLE: Ma stai pure tranquilla che noi stavamo benissimo, senza di te!
PHOEBE HOOL: Tom! Non è una cosa carina da dire!
TOM RIDDLE: Ma è vero!
 
Va beh, insomma…avevo voglia di scrivere di questi due ingrati e disgraziati! Però la stesura del ventiseiesimo capitolo va decisamente a rilento…e mi sono ritrovata piacevolmente sorpresa, nel vedere che l’ispirazione per questo lavoretto invece c’era…eccome se c’era!
Insomma…che ne pensate? Vi è piaciuto?
Mi piacerebbe ricevere qualche opinione, sia da chi legge la long che ho dedicato a questi due personaggi, sia a chi la legge in modo indipendente.
Fatemi sapere…la mia autostima ve ne sarebbe molto grata xD
 
Alcune precisazioni.
 
PHOEBE. Mia mamma è solita dirmi una cosa: “Quando i bambini cominciano a piangere e a lamentarsi senza motivo, solitamente o sono stanchi o si sono beccati qualcosa!”
Su questa teoria semi-geniale, ho deciso di costruire Phoebe.
In effetti è stata un po’ rompiballe, in questa one-shot, ma spero che non sia arrivata ad essere antipatica ^^ è pur sempre una bimba, poverella lei :)
Ma quanto ci vogliamo bene alla nostra piccola Phoebe Hool?!
 
TOM. Due parole per lui ci sono sempre.
Prima cosa. Spero di non averlo reso troppo sdolcinato e zuccherevole. Ammetto che, specialmente quando parlo della sua infanzia, mi lascia andare un po’ troppo con le carinerie e le dolcezze, da parte sua…
Se non posso permettermelo adesso, quando posso?! Che da grande mi diventa scorbutico ed isterico?!
Seconda cosa. Spero anche che la sua confusione iniziale, quando scopre che è la vipera che parla, non risulti troppo OOC. Per quella parte volevo ispirarmi al fatto che nemmeno Harry, credo – sperando di non dire blasfemi imperdonabili – nel libro della Camera dei Segreti, inizialmente si era accorto di parlare un’altra lingua, quando comunicava con i serpenti.
Insomma…abbiate pietà!!
 
TOM&PHOEBE. Con questo capitolo ho risposto ad una delle domande esistenziali che mi hanno sempre tormentato e che riguardano la vita di Tom Riddle: ma il perfetto Tom Riddle, avrà mai avuto un raffreddore?! Un maledettissimo singhiozzo? Un qualche straccio di linea di febbre?!
E il morbillo e la varicella??!
La mia risposta è stata: SIIIIIIIIIII!!
Ma quanto sono tenerelli Tom e Phoebe che si passano il morbillo *_______*
 
Ok. Sono schizzata. Capitemi, è anche l’una e mezza di notte.
 
RINGRAZIAMENTI.
Volevo fare un caloroso ringraziamento a chi ha commentato il capitolo precedente di questa (ndTom: insulsa e squallidissima) raccolta.
GRAZIE A ERODIADE (ringraziamenti doppi, perché è stata costretta a commentarlo ben DUE volte), PHOEBE_RIDDLE, MARY_JANE, USAGITSUKINO010, FRANCESCABULLA e KURIOONE.
Grazie infinite, a tutte voi ^^
 
GRAZIE ANCHE A CHI HA AGGIUNTO LA RACCOLTA ALLE PREFERITE, SEGUITE e RICORDATE.
Mi rendete davvero felice ^^
 
Ancora grazie di tutto.
Un bacio. Latis.
   
 
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