CAPITOLO SEDICI
Per
sempre
La
sala più grande del Castello era decorata con grandi candelabri scintillanti,
vasi pieni di fiori lilla e bianchi, tavoli con lunghe tovaglie che cadevano a
terra, coprendo le gambe nella più solida tradizione vittoriana. C’erano
orologi dorati e antichi di ogni dimensione, servizi da tè e porcellana dai
colori tenui o con ricami a fiorellini, nastri messi a guarnizione in ogni
angolo. L’aperitivo era stato organizzato con dei bigliettini “drink me”,
scritti con calligrafia elegante, attaccati ai bicchieri, la musica era il brillante
risultato del dj di coniugare, mixando a dovere o intervallandole, melodie di
archi con la disco. L’atmosfera era estremamente elegante, ma nei colori e nei
dettagli erano stati dati anche un tocco bizzarro e un tocco gotico. I ragazzi,
man mano che arrivavano, non potevano che non rimanere stupefatti.
Sul
volto di Giada, invece, c’era un’espressione completamente diversa: non era
sorpresa, ma era soddisfatta e, guardandosi intorno, per lei era come vedere un
figlio educato nel modo più opportuno e premuroso fare una bella figura davanti
agli altri. Compiaciuta che tutto fosse al suo posto e soddisfatta di averne il
merito, restava comunque all’erta, per paura che neanche a uno stuzzicadenti
infilzato in un’oliva fosse permesso di rovinare l’estetica della festa. Non
riusciva a stare ferma un attimo, andava avanti e indietro per la sala dall’alto
dei suo tacchi dodici, rincorrendo sospetti che, fortunatamente, si rivelavano ogni
volta infondati. Senza che se ne rendesse conto, gli altri si stavano godendo
la festa molto più di lei. In pista c’era tantissima gente, anche Fabio, che
alla fine aveva smesso di rincorrerla per chiederle un ballo e si era lanciato
da solo nella mischia. Rita flirtava con il dj, Ludovica era esattamente al
centro della pista con Lena, Olivia e Andrea erano insieme che ballavano senza
preoccuparsi troppo degli altri. Quando arrivò Alessio (a piedi, perché era
uscito di casa di nascosto), aguzzò la vista in cerca di qualcuno che
conoscesse. In realtà cercava Aurora, ma l’importante era riuscire a nuotare in
quel mare di gente. Fece un paio di giri, costretto a sgomitare un po’ per
farsi largo, finché non andò a finire contro una persona.
«Deficiente!»
esclamò Giada, a cui nell’uro era volato dalle mani il drink. Per fortuna era
finito sul pavimento e non sul vestito, pensò Alessio, altrimenti avrebbe
firmato da solo la sua condanna a morte.
«Scusa!»
si affrettò a rispondere, con un’aria mortificata.
«Ah,
lascia stare» esclamò stizzita Giada, accompagnandosi con un gesto della mano,
come se volesse liberarsi di una mosca.
«M-mi
dispiace» disse Alessio. «Per tutto» aggiunse in un soffio.
Giada
lo guardò a lungo senza aprire bocca, soppesando quelle parole prima di
pronunciare un giudizio. Erano sei anni che non lo guardava in faccia.
«Lascia
stare» disse alla fine, in un tono paziente. «Aurora era vicino quelle
poltroncine in fondo a destra due minuti fa» gli indicò poi.
«Grazie»
le sorrise, allontanandosi di qualche passo. «Da qualche parte c’è anche chi
stai cercando tu, vai e goditi la tua festa» le suggerì.
«Senti,
non credere che adesso siamo tornati in confidenza e domani saremo a giocare a
nascondino nel parco» lo riprese Giada, ma era ironica. Aveva deposto l’ascia
di guerra e Alessio si sentì vagamente cretino, perché era bastato
semplicemente chiedere scusa e in sei anni lo aveva capito solo allora.
«Certo»
la tranquillizzò, con un mezzo sorriso divertito. «E comunque hai vinto tu: il
Castello non l’hai attraversato, me te lo sei letteralmente preso» le rammentò,
allargando le braccia per indicare quelle che un tempo erano delle rovine e ora
era il locale che apparteneva alla sua famiglia.
«Ho
avuto paura» confessò improvvisamente. «Sapevo che non c’era nessuna strega, ma
poi ho visto – sarà stata la suggestione – due terribili occhi gialli, sono
scappata correndo a più non posso, terrorizzata, e mi sono storta una
caviglia».
«Sono
stato proprio un…» cominciò Alessio.
«Deficiente,
sì» concluse Giada con leggerezza, senza alcuna traccia di rimprovero o di
risentimento nella voce, e si allontanò.
Alessio
stava per raggiungere Aurora, quando un lampo improvviso che balenò nella sua
mente lo arrestò sul posto. La strega! Gli occhi gialli che Giada, ora, credeva
di aver soltanto immaginato anni prima erano quelli di Carabosse,
che teneva d’occhio la principessa Aurora. Immediatamente pensò allo sguardo
terribile del passeggero sul treno seduto di fronte a loro il giorno precedente
e a tutte le altre volte che avrebbe potuto osservarla di nascosto, assumendo
aspetti sempre diversi e insospettabili, per registrare ogni suo movimento.
Erano stati degli sciocchi a pensare di poter spezzare la maledizione senza
vedersela con la fata che l’aveva scagliata. Persino nel cartone animato della
Disney non si ha nessun lieto fine prima che Malefica venga uccisa.
Carabosse,
Alessio ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, quella sera si trovava di certo in
quella sala. Insomma, nella fiaba toccava al principe risolversela con lei e
quella volta il principe, in un certo
senso, doveva essere lui. Per prima cosa, doveva trovare un paio di inquietanti
occhi gialli, poi, cosa di certo non meno importante, aveva bisogno di un
piano. Come ci si sbarazza di una fata? Ripensando a quello che aveva imparato
dalla fata Mietta, deve essere una sua scelta, di diventare mortale e vivere e
morire come una mortale. Gran bel guaio: non l’avrebbe di sicuro persuasa con
un discorsetto cortese e garbato a tu per tu, sui vantaggi di essere una persona. I pensieri di Alessio
viaggiavano a tutta velocità e il ragazzo si arrovellava per trovare una
soluzione, quando pensò cartone animato. Meglio non sottovalutarlo, lo aveva
appena appreso. Il principe Filippo trafiggeva una Malefica trasformata in drago,
cioè una creatura mortale! Non c’era tempo da perdere, doveva agire.
*
Aurora
guardò uno dei tanti orologi che si trovavano come decorazione nella sala.
Erano le dodici meno venti. Emise un sospiro: l’unica vera ragione per cui era
a quella festa, lottando titanicamente contro il sonno per restare sveglia, era
Alessio. E lui ancora non si era visto per tutta la serata. Si sedette su una
di quelle poltroncine imbottite, sfinita soprattutto dai tacchi, e appoggiò la
testa allo schienale. Strinse in mano il medaglione che portava al collo, in
cui aveva deposto tutte le porzioni di magia che aveva ricevuto da ognuna delle
fate, con una stretta al cuore. Era la scelta più importante della sua vita e
aveva paura, ma ormai non si sarebbe tirata indietro.
*
«Quando
tornerà indietro il principe la salverà» disse Alessio a una ragazza dai
capelli corvini, abbigliata, come tutte le ragazze della festa, con un vestito
di nastri e pizzi. Solo i suoi occhi, ipnotizzanti e famelici, tradivano una
natura del tutto diversa a quella che il suo aspetto giovane e fresco voleva
mostrare. La ragazza sussultò, evidentemente impreparata ad essere scoperta e
sorpresa dall’audacia di colui che la stava affrontando. Sorrise crudele.
«Oh,
io credo invece che il suo principe troverà qualche piccolo contrattempo»
rispose con estrema sicurezza.
«Potrai
anche trasformarti in un drago per combatterlo, ma vincerà lui» continuò
Alessio, senza lasciarsi intimorire. Il bene vince. Sempre.
La
ragazza rise, sprezzante. «Un drago, eh?» fu compiaciuta dall’idea. «Non male
come idea, nel ventunesimo secolo ne sapete pensare di scene epiche. Ma questo
non è un film di Hollywood e non finirà con un per sempre felici e contenti».
Alessio
rimase immobile mentre la ragazza si volatilizzò sotto i suoi occhi: aveva
ottenuto lo scopo di metterle la pulce nell’orecchio e, se i suoi piani si
fossero dimostrati esatti, Carabosse era appena
tornata nell’undicesimo secolo per trasformarsi in un mostro alato.
Aveva
fatto il massimo che potesse, sperava solo che nel frattempo Aurora non fosse
già andata via e che avesse il tempo di salutarla, per l’ultima volta.
Fece
un giro per la sala e la trovò accomodata su una poltroncina in un angolo.
Quando si avvicinò, vedendola un peso gravissimo gli piombò sul cuore.
«Rory!» la chiamò, in prenda all’ansia. Lei non aprì gli
occhi. Il suo corpo addormentato ancora lì poteva voler dire soltanto una cosa:
aveva aspettato troppo prima tornare indietro e alla fine non ce l’aveva fatta,
si era addormentata prima. E ora era tutto perduto per altri cento anni.
La
prese ingenuamente per le spalle e la scosse, come se in questo modo potesse
risvegliarla da quel sonno maledetto.
«Che
c’è?» biascicò Aurora, sbadigliando mentre apriva gli occhi.
Alessio
la guardò sbalordito. «Tu… non…» non riusciva ad articolare una frase. Ma
Aurora non gli diede la possibilità di chiederle spiegazioni, né si apprestò a
fornirgliene, si buttò addosso a lui e lo baciò quasi con violenza. Alessio
ricambiò e la strinse, affondando una mano nei suoi capelli; fu come se niente
al mondo importasse davvero in quel momento.
«Lo
sapevo» sentenziò Aurora, sussurrandogli sulle labbra appena si separarono.
«Che
cosa?» si incuriosì Alessio, con le orecchie che gli ronzavano. E non era per
la musica altissima che impazzava nella sala.
«C’erano
due clausole per rompere l’incantesimo: era necessario il bacio di un principe
e al tempo stesso il bacio del vero amore. E ieri sono successe due cose.
Primo, mi sono scordata persino il colore degli occhi di Filippo. Secondo, mi
sono ricordata dove ho già visto questo disegno» spiegò, indicando lo stemma
araldico sul medaglione. «È il simbolo dei Beynac, i
principi del feudo contro cui abbiamo condotto una guerra nel 985. Ho fatto una
ricerca e ho seguito la loro linea dinastica fino al 1904, quando nacque
l’ultimo discendente, Luigi Monteluce di Beynac. Non si sposò né ebbe figli legittimi, ma alcuni
particolari mi hanno fatto pensare che ebbe una storia clandestina con una
giovane domestica, che partorì un bambino nel 1929. Ho dato credito a questa ipotesi
e mi sono convinta che quel bambino fosse una bambina. A cui la madre affidò,
poco prima di morire, l’unico dono prezioso che possedesse da parte di un padre
che non poteva riconoscerla: questo medaglione» raccontò Aurora.
«Fammi
capire, io sarei discendente da parte di mia nonna di questi principi?» domandò
Alessio, facendo due più due.
«Sì»
rispose sorridendo. «E credo che tu abbia spezzato la maledizione».
Se
questo non era un finale alla Hollywood in cui tutti vivono per sempre felici e
contenti!
«In
tal caso, credo che Filippo si farà una bella lotta all’ultimo sangue con un
drago senza trovare alcuna ricompensa» ironizzò il ragazzo. «E anche noi, ci
siamo dati da fare per conquistare un potere che adesso non ci serve a niente»
«Oh,
io un’idea l’avrei su come usarlo» disse invece Aurora. «Vorrei salvare un’altra
Bella Addormentata».
Va
bene, Aurora era pronta a vivere nel ventunesimo secolo: ecco che anche lei
progettava qualche scena epica degna di un kolossal.
«Rory, credo che tu abbia visto un po’ troppi film americani:
d’ora in poi solo del sano cinema polacco» sentenziò Alessio.
«Ma
la prossima volta tocca a me decidere, è il contratto della nostra amicizia
rispettare i turni!» controbatté la ragazza.
«Hmm… in realtà credevo che dopo tutto questo casino la
nostra amicizia sarebbe diventato qualcos’altro».
Aurora
sorrise e, prendendogli la mano, lo condusse al centro pista, per concedersi
finalmente un ballo insieme. Più tardi avrebbero discusso della delineazione di
un nuovo contratto. E, naturalmente, di come salvare la fiaba e il perfetto
lieto fine.
*
Alla
fine della festa, Giada era contenta si essere riuscita ad avere il suo ballo
con Fabio e poi anche di aver raccolto per la causa della Casa del Castagno i
soldi necessari per metterla in regola e salvarla.
In
seguito, Aurora e Alessio videro un solo film polacco e poi furono d’accordo
nell’abbandonare il genere. Aurora dovette abituarsi all’idea di vivere per
sempre – o almeno fino alla fine del liceo – in un mondo in cui esiste la
trigonometria e dovette studiare come una matta per recuperare il compito che
aveva perso. Col tempo, si abituò a tutte le cose strane del ventunesimo secolo
e, anche se non completò mai tutta la lista dei libri che avrebbe voluto
leggere e i film che avrebbe voluto vedere, fece anche tante altre cose che non
aveva mai progettato di fare.
Giada
continuò a definire Alessio un “deficiente”, ma almeno lo insultava con molta
più simpatia di prima. Anche se non lo ammise, erano tornati amici, con un
tacito accordo.
Sara
si svegliò dal coma. I medici dell’ospedale non sapevano come spiegare l’evento
e diedero il merito a un miracolo. Solo Aurora e Alessio sapevano quale fosse
la verità. Avevano deciso di impiegare la polvere di fata per dare una
possibilità a quella moderna Bella Addormentata, a cui il destino non si era
curato di dare un contro incantesimo.
Per
quanto riguarda Filippo, fu contento di non dover sposare nessuno, almeno per
il momento, poiché non era pronto. Un matrimonio a palazzo comunque ci fu: alla
fine la dama di compagnia Maria e Marc convolarono a nozze.
Marta
presto imparò a contare fino a novantanove e c’erano ottime possibilità che
avrebbe compreso quanto prima che si poteva andare avanti fino all’infinito.
L’estate
successiva Aurora e Alessio fecero una gita in montagna e videro volare una
pernice bianca: a loro piacque pensare che fosse il loro Dixan, anche se era
quasi improbabile la coincidenza che lo fosse davvero.
È
vero, ci furono giornate no, delusioni, strappi muscolari, brutti voti,
figuracce, punizioni, fraintendimenti e lacrime. Ma, tutto sommato, possiamo
dire che alla fine vissero tutti per sempre felici e contenti.
Grazie:
grazie a chi ha seguito fino alla fine e anche a chi ha sopportato solo fino a
metà, grazie a tutti per avermi accompagnata in quest’avventura di cui sono
super contenta di essere riuscita (anche se ho corso contro il tempo questo
pomeriggio per scrivere) a mostrarvi la fine. Ebbene, è proprio la fine. Spero
che non vi deluda, non vi confonda, non vi risulti affrettata; in ogni caso,
fatemi sapere. Sarò sempre dietro questo computer a scrivere, per cui, se
vorrete, a presto!