Film > Pirati dei caraibi
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Autore: Laura Sparrow    19/05/2012    2 recensioni
Quarto capitolo della saga di Caribbean Tales. - Tortuga. La roccaforte dei pirati, il porto preferito di ogni bucaniere sta radicalmente cambiando, trasformata nel rifugio ideale per gli intrighi di un uomo infido e spietato: Robert Silehard. E, quando anche l'ultimo porto franco non è più sicuro per un pirata, nessuno può più sfuggire alla mano di Silehard. Nemmeno capitan Jack Sparrow e la sua ciurma.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 19
Oltre il limite, e ancora più in là.


Valerie camminava a passo svelto, con la sacca che le rimbalzava contro la schiena al ritmo dei suoi passi. I vestiti appallottolati attutivano il tintinnio delle monete chiuse nelle loro borse: con la paga che le era stata data, aveva abbastanza denaro per fare qualunque cosa avesse desiderato. Solo che al momento non si sentiva molto sicura di ciò che desiderava.
Aveva lasciato la Perla Nera, e quella era già una liberazione, anche se dolorosa. Andarsene era triste, e in fondo al cuore era sicura che la ciurma le sarebbe mancata... ma non aveva intenzione di ragionarci sopra e di rendere patetica tutta quella situazione. Si era semplicemente sganciata: era libera, e ora andava per conto suo. Solo, non sapeva ancora dove.
La nebbiolina del mattino invadeva i viottoli stretti del porto, rendendoli ancora più umidi. Valerie si trovò a rabbrividire, stringendosi addosso la giacca: innanzitutto, avrebbe trovato una locanda.
Qualcuno si mosse nella nebbia a poca distanza da lei, facendole fare un balzo per la sorpresa.
- Ebbene? La figlioletta disobbediente scappa di casa e non torna mai più? Che sorpresa. Devo dire che questo proprio non me lo aspettavo. -
Valerie girò su sé stessa e rimase a bocca aperta, incapace di credere a ciò che vedeva. Nell'ombra del vicolo davanti a lei, con la schiena appoggiata al muro umido e scrostato, c'era un uomo robusto avvolto in una lunga giacca, col tricorno calato sugli occhi. Le sorrideva, coi denti che scintillavano leggermente tra la barba rossiccia.
- ...Connor!- dovette fare alcuni tentativi prima che le uscisse abbastanza fiato per pronunciare quel nome.
- Valerie. - la salutò in risposta lui, dandosi un colpetto con le dita alla punta del tricorno.
Era lì, in carne e ossa. E, apparentemente, in perfetta salute: quindi era uscito tutto intero dallo scontro con lo Squalo Bianco. Ma come poteva essere lì?
- Cosa ci fai qui?- sibilò la giovane, scrutandolo con sospetto. - Come hai fatto? Ti avevamo lasciato in mare, con tutti gli altri!-
L'irlandese annuì, con aria meditabonda. - Sì, me lo ricordo. Tuttavia, non per disorientarti ancora di più, temo di doverti informare che sono arrivato qui giusto ieri, qualche ora prima di voi, in effetti. Ti sorprende? Ma non è stato così difficile: sono riuscito a salire su una delle scialuppe con quelli che sono scappati quando la battaglia si è messa al peggio. Sono stato io a convincerli che non era proprio il caso di ritornare a Tortuga... credo che da oggi non tiri una bella aria per chi faceva parte della gilda, non trovi?-
Valerie annuì senza parlare.
- Quebrada Costillas era la scelta più logica: abbiamo solo dovuto remare per ore, e ore, e ore... - fece una faccia addolorata e sibilò tra i denti, come ad enfatizzare il fatto che fosse stata una faticaccia. Credeva forse di impietosirla? - E ora siamo qui. Giusto ieri sera ho visto arrivare la vostra bella nave nel porto. Che coincidenza ritrovarci qui, vero? Ma suppongo che anche voi aveste fretta di attraccare in un porto diverso da Tortuga. -
- Chi sarebbe “noi”?- lo interruppe la ragazza, senza smettere di scrutare lui e allo stesso tempo di osservare i dintorni per accertarsi di essere soli.
Connor piegò la testa di lato, grattandosi la barba. - Noi? Be', non siamo tanti, perché di certo non siamo rimasti insieme, noi sopravvissuti, una volta toccata terra. Due si sono presi a sciabolate per avere la scialuppa, figurati... per me possono tenersela. Comunque, “noi” siamo il sottoscritto, il piccolo galoppino lentigginoso Tobias, che non sapeva dove altro andare, e uno degli ex energumeni di Silehard, non ho capito se si chiama John, o Joshua, o qualcosa del genere. Non mi è piaciuto come mi ha trattato quando sono andato a implorare perdono a Silehard, però confido che le sue maniere forti ci saranno utili adesso. -
Valerie quasi si mise a ridere nel sentirlo parlare così. - Per che cosa ti “saranno utili”? Cosa credi, di essere il nuovo Silehard che farà risorgere la gilda dalle ceneri?-
- Oh, no no!- Connor alzò le mani e scosse il capo come se l'idea non lo avesse neanche sfiorato. - Assolutamente no: niente gilde. Abbiamo visto come finiscono queste cose. Però siamo in tre, siamo in un piccolo porto, e abbiamo una gran voglia di metterci in affari. Lo sai, posti come questi sono una miniera per chi sa dove mettere le mani... -
- Tanti auguri, allora. -
- Aspetta... - Connor la fermò, spostandosi dal muro e mettendosi davanti a lei: Valerie lo squadrò, per niente intimidita. L'uomo le mise una mano sulla spalla, con gentilezza. - Ammetto che vi stavo tenendo d'occhio perché ero curioso di vedere che cosa combinavano gli Sparrow. Non mi aspettavo di rivederti. Perché stai lasciando la nave?-
Di nuovo le stesse domande?
- Non mi interessava più stare a bordo, tutto qui. Perché dovrebbe interessarti?-
- Non sarai stata bandita?-
- No. - il tono di Valerie si fece acido. - Tu non c'entri niente. -
- Tu però mi hai aiutato. Mi hai fatto una soffiata più che mai opportuna: non dico che mi hai salvato il collo perché dubito che la nostra Laura Sparrow mi avrebbe fatto appendere, però di certo mi hai evitato di finire chiuso in una cella sottocoperta. - sorrise. - Mi dispiacerebbe saperti sperduta e senza risorse. -
- Come di certo avrai potuto intuire dalla razzia che abbiamo fatto a Tortuga, non sono senza risorse. -
Il sorriso di Connor si allargò. - Lo so. - disse, in tono flautato. - Proprio per questo ti sto offrendo amichevolmente di unirti alla mia piccola ciurma, invece di limitarmi a strapparti la tua sacca piena di denaro e lasciarti nel vicolo. Diciamo che ti do questa opzione. È abbastanza chiaro?-
Per alcuni attimi, Valerie non seppe se ridere della spietata chiarezza nelle parole dell'irlandese, o se averne veramente paura: aveva detto tutto con la solita espressione gioviale, senza smettere di sorriderle neppure per un istante. Lo stesso sorriso che aveva avuto quando erano scivolati insieme nella sua cuccetta, di nascosto, per qualche rapido momento clandestino. E, sebbene avvertisse la verità nella sua minaccia, quell'uomo non riusciva a farle paura o a metterla veramente in allarme. Aveva la sensazione che non ci sarebbe mai riuscito.
- Sfidami e vieni a prenderti l'oro, allora, se è quello che vuoi. - lo invitò, posando la mano sull'elsa della spada: lui non era nemmeno armato, anche se avrebbe scommesso che aveva un coltello o forse una pistola nascosti sotto la giacca. - Perché disturbarti a chiedermi di venire con te?-
- Perché, mia cara, adesso ho più che mai bisogno di gente, non importa se uomini o donne. Mi serve una ciurma. Solo con quella potremo impadronirci di una nave, non credi?-
Valerie tentennò, considerando la proposta.
- Perché io?-
- Perché sei qui. - Connor ridacchiò tra sé, mentre le sfiorava il mento con le dita. - Nessun trattamento di favore. Se sei nella banda, vali per quello che fai. -
- Bene: non voglio nessun trattamento di favore. -
- Questo non vuol dire che non puoi dormire con me, se ti va. - aggiunse lui, ammiccando.
Valerie considerò anche quella proposta.
Dopo qualche altra breve contrattazione, i due se ne andarono in silenzio, camminando fianco a fianco, per poi scomparire nei vicoli.

*

All'ora della partenza, la nave era in fermento: per tutta la mattina il ponte era stato raschiato con le pietre sante fino a farlo tornare liscio e pulito, e ora una fila interminabile di pirati si susseguiva dal molo alla passerella trasportando barili di acqua e rum, casse e sacchi di cibo, enormi rotoli di stoffa per le vele e di cordame; tutto quello che ci poteva servire per affrontare una lunga traversata.
Come avevamo previsto, la ciurma era stata quasi dimezzata: molti dei nostri uomini però si trattennero sul molo per assistere alla partenza e salutare per l'ultima volta i vecchi compagni di viaggio, perciò l'atmosfera era piuttosto allegra.
Dovetti rimangiarmi quel pensiero, però, quando tra gli uomini che lasciavano in fretta la nave riconobbi Jonathan.
Quando lo vidi ero ancora impegnata a sorvegliare i pirati che si occupavano degli approvvigionamenti: decisi che quelli potevano cavarsela da soli per qualche minuto, e mi mossi verso di lui, chiamandolo.
- Jonathan!-
Non si voltò subito, così dovetti continuare a chiamarlo finché non si accorse di me. Si fermò e si voltò a guardarmi: credo che in quel momento lo osservai come non l'avevo mai osservato, scrutandolo da capo a piedi e cercando di imprimermi nella mente ogni dettaglio della sua strana espressione. Aveva la stessa faccia di Valerie quando, quella mattina, mi aveva compatita dicendo che ero “insopportabilmente buona”. Ma forse era soltanto una mia impressione, perché quella faccia e quelle parole mi erano rimaste dentro.
Guardai il giovane Jonathan Wood. E mi resi conto di non conoscerlo affatto.
Quello che stava un passo davanti a me, nel bel mezzo del pontile affollato di pirati vocianti, era un giovanotto alto, allampanato, dai capelli scuri e ricci, il viso lungo, cupo, le guance ruvide di corta barba mal fatta. Mi resi conto che avrei voluto dire qualcosa a quel ragazzo, forse per confortarlo, ma che non ci riuscivo. Ai miei occhi era quasi un estraneo, solo un altro visto tra quelli dei pirati della ciurma. Chi era lui? Il nostro giovane carpentiere di bordo. Non era mai stato un mio amico: l'unico legame che avessi mai potuto avere con lui era svanito con Valerie. Non ricordavo nemmeno l'ultima volta che gli avevo rivolto la parola. Era così facile lasciare che alcune persone sparissero così, tra le pieghe della nostra vita?
Tuttavia, poiché ero pur sempre un capitano, gli dissi: - Mi dispiace che tu te ne vada. Sei stato di grande aiuto. -
Jonathan sorrise tra sé, come si sorride ad una frase di circostanza, e mi fece un cenno con il capo mentre si spostava di lato, in modo che la nostra conversazione non intralciasse il passaggio degli altri pirati.
- Grazie, capitano: è stato un piacere lavorare per voi. - rispose, concedendosi un barlume di entusiasmo che illuminò appena un po' la sua espressione cupa.
Mi dispiaceva per lui, e allo stesso tempo mi sentivo in colpa perché non mi dispiaceva abbastanza. “Sei davvero insopportabilmente buona, Laura.” Ma era così? Quel ragazzo dopotutto faceva parte della mia ciurma: avrebbe dovuto starmi un po' più a cuore. Invece mi rattristava di più la perdita di Valerie, nonostante le parole acide che ci eravamo rivolte.
- Mi dispiace per Valerie, Jonathan. -
Il suo sorriso tremò e sparì lentamente.
- Non ha più importanza, ormai. - replicò, mogio. - Lei se ne è andata stamattina, non è vero? Me lo hanno detto. E non c'è bisogno che mi guardi così: so cosa si diceva, so che si è scopata l'irlandese, e tutti mormorano anche che quella notte lui sia riuscito a scappare grazie ad una soffiata che gli ha fatto lei. Non so se lo sapevi. -
Non dissi nulla.
- Insomma, non importa. Che vada dove vuole. Solo, io ancora non capisco perché: perché fare il gioco di quel testarossa, perché ha lasciato che la sua presenza provocasse tutti questi danni? Perché rovinare tutto e lasciare la ciurma così, di nascosto?-
“Perché non voleva le critiche né la pietà di nessuno, perché si era stancata di noi, perché si è cacciata in un bel pasticcio con il testarossa e aspetta un figlio da lui...” pensai tutte quelle cose e non ne pronunciai nessuna ad alta voce, limitandomi ad alzare le spalle e battere la mano sul braccio di Jonathan con fare comprensivo.
- Temo che nessuno di noi l'abbia mai capita fino in fondo, Wood. Forse nemmeno tu. Mi dispiace davvero per come è andata, e spero che tu possa avere maggior fortuna. -
Di nuovo il fantasma di un sorriso. - Grazie, capitano. -
E furono le ultime parole che ci rivolgemmo io e il giovane Wood.

*

Il racconto di quelle vicende potrebbe concludersi qui.
Però non mi sembra appropriato chiamarla conclusione: quello fu invece l'inizio di quello che potrei definire il nostro periodo d'oro, un periodo di viaggi, scoperte e meraviglie come non ne avevo mai viste prima di allora, e che durò il tempo di un sogno che sembrava infinito; lunghi mesi di beatitudine.
Andammo in Europa? La Spagna, l'Inghilterra, la Francia, come Jack mi aveva promesso? Ebbene sì: andammo in Europa.
Prima sulle coste del Portogallo, dove la parlata dei mercanti del porto che offrivano le loro merci con urla entusiaste -delle quali non capivo una parola- mi lasciò talmente frastornata che, dovunque andassimo, Jack doveva trascinarmi con sé praticamente di peso mentre lui si barcamenava senza la minima esitazione tra una contrattazione e l'altra: la sua borsa piena d'oro lo rendeva sempre il beniamino di tutti, non importava se per un giro di rum alla taverna, o seduto al tavolo di un mercante per trattare il prezzo di una partita di tabacco.
Costeggiammo tutto il nord della Spagna, ubriacandoci di vino e della calda parlata spagnola fin quando potevamo. Tuttavia, dato che non era molto saggio farci trovare per troppo tempo nello stesso posto, pieni di soldi o no, attraversammo quasi subito lo stretto per dirigerci in Inghilterra.
Se il nostro soggiorno iberico fu una toccata e fuga, quello in Inghilterra fu un balzo in un nuovo mondo. La lingua era di nuovo il nostro familiare inglese, i signorotti e la gente comune assomigliava in tutto e per tutto ai numerosi britannici trapiantati nei Caraibi che avevo conosciuto fin da bambina, ma era come guardare un quadro dentro una cornice del tutto diversa.
Faceva freddo, più freddo di quanto non avesse mai fatto nei Caraibi col loro clima sempre umido e caldo: giorno dopo giorno ancora mi stupivo di vederci veleggiare su un mare grigio, sotto un cielo ancora più grigio. Grigio era anche il porto di Brighton, dove approdammo: sembrava che non esistessero altri colori, in Inghilterra.
Ma dovetti ricredermi quando arrivammo a Londra. Vero, c'era la nebbia, fitta come e più di quella che aleggiava sul porto di Quebrada Costillas la mattina in cui la nostra ciurma si era sciolta, ma al di là di essa c'erano le stra di Londra, i vicoli di Londra, la gente di Londra.
Non avevo mai visto una città tanto grande: io e Jack passavamo tutto il giorno a correre da un capo della città all'altro, affittando carrozze che sfrecciavano sulle strade rimbalzando forsennatamente sui ciottoli, mentre all'interno si ballava come se fossimo stati sul ponte nel bel mezzo di una tempesta, ma era fantastico. La sera ci fermavamo ai bordi delle strade a parlare con gli ubriaconi, con le puttane che si davano appuntamento attorno ad una fontana, e poi mezz'ora più tardi potevamo entrare nei migliori caffè dove ricchi borghesi bevevano vino e discutevano di politica, purché ci pulissimo gli stivali prima di entrare.
A volte Will ed Elizabeth venivano con noi: spesso portavo Faith con me, ed Ettore veniva più raramente, trascinato da lei; non che non si divertisse a passare le giornate accompagnandoci nelle nostre indiavolate peregrinazioni, solo, quella grande città lo intimidiva e ce lo aveva confessato senza alcun imbarazzo. Si sentiva più a suo agio nel porto, dove la Perla e la Sputafuoco rimanevano pazientemente ad attenderci per giorni, mentre gli uomini della ciurma si godevano tutto quello che potevano, almeno fino alla nostra prossima partenza.
Barbossa quasi non lo vedevamo. Se ne stava tutto il giorno chiuso nella sua cabina a studiare libri e mappe con attenzione maniacale: Will ci raccontava che lui stesso non lo vedeva molto, e quando il vecchio capitano usciva, lo faceva per conto suo. Meno lui e Jack avevano occasione di vedersi, meglio era, a quanto sembrava: Barbossa era sprofondato comodamente nella poltrona che ora occupava, e per il momento non sembrava assolutamente intenzionato a dare fuoco alle polveri.
Ma Londra era grande, e tutta da gustare.
Vi trascorremmo alcune settimane, durante le quali Jack mi portava da un posto all'altro, parlando senza sosta, raccontandomi di avventure passate che aveva avuto in quello o quell'altro posto, di luoghi e persone di Londra che conosceva e voleva rivedere. Sembrava che fossimo precipitati entrambi in uno stato di beata frenesia, e non avevamo alcuna intenzione di smettere. Jack raccontava, e io mi bevevo ogni parola con lo stesso stupore col quale fissavo la città attorno a me: più volte al giorno capitava che restassi bloccata in mezzo alla strada, col naso per aria e la bocca aperta, persa a fissare ora un palazzo, una statua, un monumento, un ponte in costruzione.
A ripensarci, in verità non c'era nulla di poi così meraviglioso o realmente eclatante, ma la verità è che in quei giorni tutto quello che vedevo mi sembrava splendido. Per il semplice fatto di potermi trovare lì, guardarmi intorno, vedere coi miei occhi quei posti e quelle persone. Eravamo a vele spiegate nel bel mezzo del mondo.
Jack sembrava vivere in uno stato di beatitudine costante, come mai lo avevo visto prima. Era bello dividere con lui quei giorni frenetici, correre da una strada all'altra, da una taverna all'altra, gettarci in indiavolate discussioni ai tavoli delle osterie fino a tarda notte. Andavamo nelle migliori locande, e qualche volta ci facevamo riservare le camere più sontuose nei migliori bordelli. So che detta così suona un po' scabroso, ma in realtà -a modo nostro- era piuttosto romantico.
Tuttavia, avevo il sospetto che Jack si sentisse in qualche modo minacciato: era come se avesse una gran fretta di godere di tutti i piaceri che l'Europa ci poteva offrire, prima che fosse troppo tardi. Più di una volta ne parlammo: gli chiesi se credeva che avessimo qualcosa da temere, o peggio, se stessimo scappando da qualcuno.
- Scappando? No, non credo. - mi rispose, col viso corrucciato come se ci stesse riflettendo molto seriamente, anche se al momento si trovava sdraiato di traverso su un gran letto a baldacchino -un po' roso dai tarli, ma confortevole- con una bottiglia in mano, al piano più alto di una nota casa di piaceri londinese.
- Scappando per un po' dai Caraibi, forse questo sì. Mi ha preoccupato, quello che ho visto accadere con Silehard... il fatto che un solo uomo fosse riuscito a mettere in ginocchio Tortuga non è certo un buon segno, comprendi? Le acque si stavano scaldando un po' troppo, ecco tutto. -
Prese un sorso dalla bottiglia quasi vuota, poi si spostò sul materasso per ricadere accanto a me, passandomi un braccio attorno alle spalle: ce ne stavamo distesi nella lussuosa camera riscaldata dal camino crepitante, e accidenti se era una bella sensazione.
- Prima o poi ci torneremo, però. - dissi, e la mia non era una domanda: volevo tornare nei miei Caraibi, ai miei mari azzurri, l'ombra delle palme, i riflessi colorati del sole al tramonto sull'acqua, i mercanti dalla pelle scura. Era casa mia, e non avrei sopportato il pensiero di non rivederla mai più. Anche se, al momento, il mondo era decisamente più invitante.
Jack sorrise e premette la fronte contro la mia. - Certo che ci torneremo!- esclamò, ridendo, come se fosse ovvio. - Sono un pesce tropicale: presto o tardi sentirò nostalgia dei miei mari natii, comprendi? Ma non ora. - si protese a darmi un bacio delicato. - Ora sono piuttosto propenso a risalire la corrente fino a quando essa non mi risputerà indietro a forza. -
Una delle cose più divertenti che facemmo in quel periodo, fu intrufolarci tra la “gente perbene”.
C'erano in continuazione balli, feste e banchetti che si svolgevano in questa o in quella villa appartenente al tal duca, la tal contessa, lord tal dei tali: non si sa come, Jack riusciva a trovare il modo di farci imbucare. Quando succedeva, partiva sempre una gran mascherata: sospetto che lo facesse così spesso perché si divertiva troppo a vedere me, Faith ed Elizabeth travestite da gran dame.
Adesso nei forzieri non mancavano mai abiti eleganti e tessuti pregiati, che erano allo stesso tempo ottima merce da vendere e perfetti travestimenti quando se ne presentava l'occasione: di tanto in tanto io, Faith ed Elizabeth accettavamo di abbandonare i nostri comodi vestiti da pirata e ci addobbavamo in seta e velluto, tirate a lucido come non mai, coi corpetti che mettevano in mostra tutto quello che c'era da mostrare, tanto che di solito Jack non mi si staccava più per il resto della serata.
Per accompagnarci, lui e William si mettevano in pompa magna quanto noi, con lunghe giacche eleganti: secondo me quell'abbigliamento gli donava, nonostante tutto, ma la prima volta che erano usciti così combinati e si erano guardati in faccia l'un l'altro, c'erano voluti dieci minuti buoni perché smettessero entrambi di ridere.
A quelle feste sfarzose ci presentavamo con qualche nome assurdo e degli inviti che Jack rimediava chissà dove, e di solito finivamo per passare tutta la notte a bere e parlare con tutti gli eleganti invitati, che spesso si rivelavano vere e proprie miniere di informazioni da ogni angolo del mondo. Dalle loro bocche sentivamo le novità dai Caraibi, mentre nelle taverne malfamate ci facevamo dare le ultime notizie dalla nostra amata Tortuga, che sembrava finalmente essere tornata alla normalità.
Qualche volta Elizabeth si portava dietro David, abbigliato come un piccolo lord: in quel caso ci ritrovavamo circondati da tutte le signore presenti, che si contendevano il piccino dalla faccia d'angelo... e che di solito finivano per tornare a casa con qualche anello mancante, o con qualche collana di perle misteriosamente sparita.
Poi, con la stessa mascherata che imbastivamo per infiltrarci alle feste, Jack cominciò a portarci a teatro. Se per me i banchetti dei damerini imparruccati non erano stati che uno scherzo, un passatempo, il teatro fu un innamoramento a prima vista.
Non avevo mai visto un teatro. Non sapevo che cosa volesse dire sedersi nel buio di uno dei palchi sopraelevati, vedere quel tendone rosso sollevarsi come per magia, e vedere animarsi sotto i miei occhi quella moltitudine di attori pronti a stregarti con le parole.
Rimasi sconvolta. In tutta la mia vita, al massimo avevo visto delle compagnie di attorucoli che giravano per le piazze, imbastivano spettacoli per bambini con marionette che parlavano, cantavano, litigavano, o piccole compagnie che si azzuffavano su un palco di legno improvvisato, contendendosi l'attenzione di uno sparuto pubblico vociante.
Quello era tutto diverso. Credo che lasciai sconcertato Jack e tutti i miei amici, perché durante qualsiasi rappresentazione scoppiavo ora a ridere, ora a piangere, senza ritegno e in modo del tutto incontrollato. La volta in cui Jack mi vide sciogliermi in lacrime durante un pezzo cantato, fece tanto d'occhi e mi disse che non mi ci avrebbe portato più, se dovevo stare male in quel modo.
- Non ti azzardare!- sibilai, con gli occhi lucidi fissi su ciò che accadeva sul palco sotto di noi.
Poi fu la volta di salutare Londra, e di riattraversare lo stretto per dirigerci, stavolta, verso Parigi.
Inutile dire che fu l'ennesimo fulmine a ciel sereno: come mi ero persa a Londra, mi persi ancora di più a Parigi, un posto che mi era adesso completamente estraneo, sia per lingua, che per posti, usanze e bellezza.
Sguazzammo dentro Parigi esattamente come avevamo sguazzato senza ritegno dentro Londra. Qualche volta tornava ad assalirmi il sospetto che lo stessimo facendo per dimenticare qualcosa, per sfuggire ad una paura senza nome che ogni tanto riusciva ad allungare i suoi artigli su di noi fin dai lontani mari dei Caraibi. Ma la strega era morta. Silehard non mi faceva paura. Non c'era nessun nemico a cui potessi dare una faccia e un nome: forse anch'io temevo quello che aveva preoccupato Jack; quella strana aria di cambiamenti indesiderati che aveva aleggiato sui moli della nostra Tortuga.
Ma non era un nostro problema. Eravamo a Parigi.
E Parigi era bella e cupa, come la bella cattedrale affacciata sulla brutta Place de Grève, dove si svolgevano le esecuzioni. Una volta, per la strada eravamo stati inseguiti da una zingara che voleva a tutti i costi venderci erbe e pozioni: quando aveva capito che non parlavamo francese, si era messa a parlarci in un inglese stentato con un fortissimo accento, cercando di venderci strani amuleti e -a detta sua- pozioni per la fertilità.
- Dio ce ne scampi e liberi, signora!- l'aveva apostrofata Jack, facendo un cenno di diniego.
Allora quella, nel totale disinteresse ma con una semplicità disarmante, gli aveva perfino messo la mano sul pacco, per poi dichiarare con aria grave: - Ah, monsieur, tanto da qui non verrà mai nessun bambino, ve lo dico. Ci avete il malocchio addosso. Se arriverà, sarà solo dopo una dura battaglia, e ancora di più dovrete combattere per tenervelo, monsieur!-
Per tutta la strada fino alla locanda in cui alloggiavamo, Jack non riuscì a smettere di ridere per la faccia che avevo fatto quando quella zingara aveva allungato le mani. Le era andata bene che avesse girato sui tacchi e se ne fosse andata mentre eravamo entrambi troppo basiti per risponderle, altrimenti avrei potuto mettere in atto rappresaglie sanguinose. Quando andammo in camera avevo ancora la faccia scura, e Jack, che se ne stava inginocchiato sul letto, si voltò verso di me. - Non te la sarai presa?!-
- Solo un pochino. - concessi, di malavoglia. - Comunque, che cosa avrà voluto dire? Secondo te stava solo straparlando?-
Lui si limitò a ridere di nuovo.
- Leggimi la “mano”, zingara. - mi provocò, dimenando le anche.
A Parigi parlavamo con mercanti e contrabbandieri, che ci raccontavano quali fossero le rotte più sicure e le strade più pericolose per dei “gentiluomini di fortuna” come noi.
Poi, quando avevamo finito coi nostri commerci, ero io adesso a trascinare Jack in tutti i teatri che trovavo, perché volevo tornare a vedere gli attori che cantavano, ballavano, morivano, litigavano e si innamoravano sul palco.
Una sera ci trovavamo in un piccolo teatro, io e Jack soli. Eravamo in uno dei piccoli palchetti sopraelevati: sotto di noi la platea era gremita, faceva caldo e si sentiva tutto il pubblico ridere, gridare e sbuffare, ma anche quello era bellissimo; faceva parte dello spettacolo. Io e Jack ce ne stavamo stravaccati molto poco signorilmente sulle nostre sedie, io ancora una volta in abiti femminili, lui in giacca elegante e coi capelli nascosti sotto una ridicola parrucca bianca e ricciuta, lunga, così improbabile che ogni volta che la indossava mi mettevo a chiamarlo “Governatore” o “Re Giorgio”.
Sul palco si stava svolgendo una qualche commedia dell'orrore probabilmente di bassa qualità, ma molto divertente. Manichini abbigliati come gli attori venivano decapitati, e subito una nuvola di straccetti rossi eruttava dal collo mozzato per riversarsi sul pubblico, in un'assurda parodia del sangue. Ogni volta che accadeva, cominciavo a ridere fino alle lacrime, e la mia crisi di risate non faceva che peggiorare ad ogni nuovo, comico massacro.
Guardavo i manichini decapitati e gli attori che strillavano fin troppo per essere convincenti, e rivedevo il ponte intriso di sangue dello Squalo Bianco. Avevo guardato negli occhi degli uomini morenti, avevo tagliato la loro carne con la mia spada, li avevo colpiti fino a quando non si erano mossi più.
E tuttavia, ridevo di gioia davanti a quella sciocca parodia del sangue, proprio perché non aveva niente a che fare con la morte, quella vera. Ridevo perché quei torrenti rossi non avevano niente in comune col vero sangue che avevo visto scorrere a fiotti. In quel piccolo teatro, per qualche momento e per qualche fantasiosa associazione di pensieri, mi sentii al sicuro come non mai.
“Sei davvero insopportabilmente buona, Laura.”
Le parole di Valerie erano sempre lì, chiuse in un piccolo forziere in un angolo della mia testa, e di tanto in tanto tornavano a risuonare chiare e forti come se le sentissi per la prima volta. Che cosa aveva voluto dirmi? Che, malgrado tutto, sarei comunque rimasta per sempre un'ingenua, una che si fidava, una che confidava sempre che il mondo fosse meno brutto di quanto apparisse? Una sciocca ragazzina che in nome di una fragile amicizia poteva perdonare qualsiasi cosa? O una vigliacca, che piuttosto di affrontare il mondo a muso duro si sarebbe bendata gli occhi e tappata le orecchie?
Per quanto mi riguardava, ero partita proprio per cominciare a capirlo un po' di più, il mondo. E, anche se la sensazione di pericolo non se ne andava, anche se mi sentivo nelle ossa che altri nemici sarebbero usciti dall'ombra per darci la caccia, e avrei rivisto presto arti mozzati e ponti insanguinati... ero felice perché potevo sedere in quel teatro buio, stringendo la mano di Jack, e ridere davanti a degli attori truccati da mostri.
Anche quella che avevamo recitato alla corte di Silehard era stata una finzione, dopotutto. Una recita così perfettamente riuscita da gelarmi il sangue: una recita alla quale avevo creduto per pochi orribili giorni.
Ma noi ora eravamo lì, eravamo vivi, eravamo liberi, mentre Silehard era caduto dentro la sua stessa trappola.
Sentii le dita di Jack stringere piano le mie, e mi voltai verso di lui; mi rivolse un sorrisetto dai denti d'oro dietro quella sua ridicola parrucca.
- Tutto bene?-
- Sì. - annuii, ricambiando la stretta e appoggiandomi contro la sua spalla, mentre tornavo a guardare il palco. - Va tutto bene. Andrà sempre tutto bene finché ci sarà qualcosa di bello da guardare. Finché potremo avere qualcosa per cui ridere e applaudire. Sì. Sì, Jack, ora come ora, eccome se va tutto bene!-





Note dell'autrice:
Fine?
Ebbene, no. Non ancora. C'è anche un minuscolo epilogo, che caricherò a breve... giusto per divertirmi crudelmente a stuzzicare la vostra curiosità ancora per un pochino.
Ma intanto: questo è un capitolo insolito. L'ho scritto volontariamente in uno stile che si distacca dal mio solito modo di scrivere, proprio perché era l'unico modo in cui avrei voluto raccontare del viaggio dei nostri in Europa: stavolta nessun lungo e dettagliato resoconto, ma una visuale d'insieme. E l'ho voluto così: questo capitolo è una linea di demarcazione; tra questo momento e il prossimo episodio ci sarà uno stacco temporale di quasi un anno. Per questo ho voluto chiudere "in dissolvenza", dando un'idea di dove saranno i nostri pirati in questo periodo, ma senza raccontarlo con precisione. Anch'io, per un po', li lascerò al loro viaggio oltre oceano.
Wind in your sails, mateys.

PS: Le richieste di una possibile prole di piccoli Sparrow da parte dei lettori continuano a colpirmi a tradimento e a fare sghignazzare sadicamente la mia editor di fiducia... chissà se ho seminato abbastanza dubbi con questo capitolo? ^^
Ah, e dato che dalla mia matita ogni tanto esce anche qualcosa di un po' più serio del solito, un piccolo ritratto della famiglia Barbossa!

  
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