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Autore: Gengiva    29/05/2012    0 recensioni
Un sospiro rassegnato. Pigramente, sventolo una bandiera rosa-shocking in favore di una deforme ribellione contro il canone. Letterario, culinario, politico o quello che vi pare. Nessuno schema, tradirei altrimenti la categoria.
A.A.A. PRO perditempo. Astenersi idealisti e teste vecchie.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Let’s begin. As it comes.
 
Non quel tipo di flusso di (in)coscienza mirato a cacciare dalla testa l’ordine dissoluto dei pensieri; per esigenze temporali, preferisco deviare dalla frenetica e semplicistica stampa in bianco e nero del cosiddetto filo logico. Anche perché, da brava fatalista, non posso.
Un conto è sentirla, la mente. Frenetica, una scheggia vorticante in destabilizzazione, un sistema iconoclastico, il residuo d’una ribellione contro la parola ed il tempo.
Un altro è passarci attraverso. Arrancare tra una sinapsi e l’altra nell’avventura della registrazione a caratteri mobili. Non c’è legame diretto tra mano e cervella: quanto fiorisce dal pigiare spasmodico dell’indice sulle nostre QWERTY è la genetica spuria di concetti ibridati, traditi dai mille tranelli neurali.
La semplificazione è una puttana bugiarda e piacente, figlia dell’artificio; gli smaliziati, gli ambiziosi, le sparute ed indistinguibili ciurmaglie di intenditori preferiscono altro. Nella baraonda sillabica mezza scomposta s’annida il timido io della bocca parlante, laddove prega di non esser compresa e spogliata, eppure danza per non sentirsi ignorata. Questo è   di n a    m   i  c      o.
 
Scegliete. Liberi di immaginarmi entro un congruo ventaglio di luoghi comuni. Senza fretta o timidezza: nessuno vi guarda. Forza, come all’inizio dei vostri MMORPG o di più classici GdR, tra razza, diametro e villosità della froge, sbilanciati attributi e noiosi background.
Imposta l’azione e il contesto, il reagente fermenta da sé.
 
"Duki Naskis"
"Seytan Mavi"
"Valente Rognosa"
"Briesmonis Skrimsli"
"Effe Zetacappa"
 
Rinnegateli. Incrociate di nuovo. Create. Dimenticate. Ricreate. Non che non abbia importanza, ma… sul serio, non m’interessa. PERÒ.

Però il sesso lo scelgo io, brutte aspiranti pseudoninfomani che altro non siete. Meglio una lesbica alle calcagna che l’allupata morta di minchia/collezionista di prepuzi in cerca del vampiro di turno. Così, per chiarire.
 
Terzo giorno di ciclo mestruale. 10 e mezza, domenica.
Settimo giorno. Una bestemmia. L’immondo retaggio di un’insofferenza assoluta, l’irrisolta piaga dell’umanità celata dietro un tabù di chissà quale relax dopo chissà quale fatica. M’alzo. Una decina di passi scomposti, e nel fango sotto il tacco dello stivale buttato per terra ci vedo il microcosmo di un labirinto. L’opera congegnata da un germe ubriaco. Flash, viaggi istantanei, caleidoscopiche irrisolte ricerche di significati. Dura un secondo, appena prima di piegarmi adagio davanti alla tazza e restituire in un garbato conato giallastro il liquame semidigerito di una cena senz’alcool. E la destra che s’alza in un riflesso scattante, in extremis, a salvare le ciocche dalla carezza appestata del vomito. Poi il tremolio.
Questa condanna non ce la siamo cercata. Ci piace imputarla alla sambuca di troppo, quando le reni scoppiettano e l’ovaio mancino ci dedica l’improvvisato assolo mensile, perché così saltiamo una tappa della via crucis: la spiegazione. Inutile, molesta condivisione di uno spasimo programmato, che non s’ammansirà negli anni a seguire per improvvisa pietà verso i nostri racconti. Tanto vale tirare a campare distribuendo cliché a destra e a manca. Nessuno dovrebbe offendersi, la frottola quotidiana è la più moderna tra le monete nelle tasche dei cosiddetti benefattori.
Evito lo specchio come la lebbra. Piegata ancora, in una concavità con meno fetori, a risciacquare con acqua e sapone i residui agli angoli della bocca. Già pronta all’idea d’incurvarmi una volta per tutte a pulire lo scempio restante sulla tavoletta, olio di gomito e chiodi di garofano. Comincio a capire come mai il sabato sera tutte portano i tacchi.

« Fatti fare un controllo. Dice che sono i muscoli tesi, io sto meglio adesso. »
« Quanto? »
« Ottantacinque. »
« Dove li prendo? »
« Chiedili ai tuoi. Solo un controllo, mica l’abbonamento! »
« Lascia stare. Devo pagare la terza rata. »
« Senti, te ne presto 40. Fallo per me. »
« Lascia stare. »
« 50, cazzo! »
« No. »
 
Angela crede che mi vergogni. Non lo dice apertamente, ma pensa che io abbia una qualche remora a togliermi le calze davanti a un chiropratico. Viviamo insieme da un anno, ci vediamo solo di mattina o nell’uggia stucchevole della stramaledetta domenica, di tanto in tanto con gli ospiti. Non mi conoscerà neanche tra mille secoli di queste chiacchiere.
Forse voglio esserlo. Infelice, dico. Con i denti smozzicati e il culo sui banchi di marmo, dieci ore al giorno. L’imprevedibile, fantasmagorica, stratosferica… quotidianità. Cambiare è difficile, lo so perché c’ho provato tre o quattro volte. Una scarica d’adrenalina quasi letale, estrema al punto da farti apprezzare la scoreggiante monotonia dei nostri percorsi. Collaudati, a misura d’uomo, di qualche donna, di tante calotte svuotate col cucchiaino. Ci si prepara a morire, lavorando per comprare divertissement d’ogni genere. E la merce più cara è l’ignoranza, la totale mancanza di consapevolezza del nonsense alla base di tutto. Quella si che sarebbe una tortura, altro che crampi uterini.
 
Prendo una pasticca, e nel mezzo buio dell’ombra imperfetta della persiana, chiudo la porta e torno nelle coperte. Pagherei per avere sonno. 
  
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